l’Unità 25.5.12
Matteo Orfini: «Il Pd non può delegare il rinnovamento ad altri»
di Simone Collini
«Guai ad allearsi con una lista civica per non toccare gli equilibri di corrente Una lista-Repubblica sarebbe solo un altro partito-azienda. Ma non è sostituendo Zagrebelsky a Iva Zanicchi che si risolvono i problemi»
ROMA Una lista civica nazionale con cui allearsi alle politiche? «Sarebbe un errore», dice il responsabile Cultura e informazione del Pd Matteo Orfini. Ammetterà che c’è un problema di innovazione con cui fare i conti, o no? «Certamente, ma risolverlo all’esterno del partito, solo per poter mantenere nel Pd gli attuali equilibri di corrente, sarebbe un’ammissione di fallimento». Fallimento?
«Il Pd è nato per riuscire a rappresentare anche le istanze civiche. Se accettiamo che la voglia di partecipazione, di fare politica da parte di lavoratori o intellettuali non trovi casa nel Pd, rinunciamo a una delle ragioni fondative». Dalle amministrative, tra astensione e exploit di Grillo, sono però arrivati precisi segnali, anche al Pd.
«Vedo il problema: è chiaro che oggi il Pd non riesce a essere fino in fondo attrattivo. Il punto è come affrontarlo. La questione dell’innovazione non può essere risolta promuovendola fuori dal partito. Dobbiamo sovvertire l’equilibrio esistente, rimuovere le incrostazioni politiche, rinnovare categorie, idee, gruppo dirigente. E se Saviano o Zagrebelsky vogliono impegnarsi devono poter trovare nel Pd la loro casa». Magari, a prescindere da quel che farà il Pd, c’è chi reputa necessario dar vita a una lista civica “apparentata” con voi, come ha scritto Scalfari su Repubblica. «Una lista di Repubblica, un nuovo partito-azienda non sarebbe ciò che oggi serve al Paese. Abbiamo già visto quali danni può provocare un simile modello, un simile modo di fare politica. E non è sostituendo Zagrebelsky a Iva Zanicchi che si risolvono i problemi. La soluzione sta in partiti contendibili, non imbalsamati, con regole democratiche e che siano la casa di tutti». Quale caratteristica vi manca?
«Intanto diciamo che siamo di fronte a una crisi di sistema e che il Pd, che ha vinto le elezioni, è l’unico partito rimasto dopo questo tsunami. Dopodiché è chiaro che per essere più attrattivi dobbiamo smetterla di trasmettere la sensazione di avere un piede nella Seconda Repubblica e un piede nella Terza». Il piede nella Seconda sarebbe? «Essere subalterni a un pensiero che sostiene un modello di sviluppo che si è dimostrato fallimentare, votare il pareggio di bilancio in Costituzione, dividersi in correnti, sbagliare candidatu-
re a sindaco perché non si può dire di no a questo o quel capocorrente, avere la stessa classe dirigente da una vita». Sostenere Monti?
«È necessario, ma finora le riforme hanno gravato sulla parte più debole della società e adesso dobbiamo chiedere al governo un riequilibrio, più attenzione a chi è stato penalizzato e meno pudori verso chi è stato tenuto al riparo. Una patrimoniale per alleggerire l’Imu è un fatto di giustizia sociale».
È un errore cercare l’alleanza con una lista civica nazionale: e con l’Udc? «Dopo queste elezioni c’è solo il Pd, non è questione di inseguire o no Casini. Anche perché non sapremmo dove andarlo a cercare, ha sciolto due partiti in una settimana via twitter. Il Pd ha un progetto per l’Italia. Sta agli altri dire se sono d’accordo con noi».
l’Unità 25.5.12
La sfida del Pd riguarda i giovani
di Alfredo Reichlin
Sbaglia chi sottovaluta l’importanza della nostra vittoria elettorale. Capisco tutti i «se» e tutti i «ma» ma certi fatti sono impressionanti. Per esempio il fatto che tutte (o quasi) le città del Nord, il famoso Nord delle partite Iva e del triangolo industriale nel quale si diceva che la sinistra (questa sinistra così stupida, così antipatica, così inesistente) non poteva più mettere piede, sono governate dal Pd
Cambia qualcosa del volto dell’Italia. Vedo anche che questo Pd, così stupido, così antipatico, così inesistente, si colloca ormai al centro della situazione politica in quanto è il solo in grado di aggregare le forze democratiche e può portarle nella nuova corrente riformista che finalmente si sta formando in Europa e che ricomincia a vincere. Per cui cambiare diventa possibile.
Vedo tutto questo. Ma il risultato elettorale suscita in me anche altri pensieri. Il principale è se noi siamo all’altezza della situazione. In altre parole, se siamo in grado di rispondere all’interrogativo cruciale, davvero drammatico che si è riaperto a questo punto della nostra storia repubblicana. Dove va l’Italia? Il mio sia chiaro non è il dubbio di uno scettico. Io credo nel Pd. La mia domanda nasce dalla consapevolezza che la sfida del governo non si giocherà solo sul terreno delle tradizionali dispute politiche. La partita che la grande crisi ha aperto è quella della ridefinizione del destino della nazione. Si tratta quindi del futuro delle nuove generazioni.
A me sembra questo il problema centrale. Dove sta andando l’Italia? Fino a che punto la sua compagine statale e il tessuto dei valori civili che fino ad ora hanno garantito il nostro comune cammino sono in grado di reggere? Profondamente scossi come sono da qualcosa che è molto più grande della pochezza dei partiti (anche). È il fatto di cui le tv non parlano. È la grande questione della sopravvivenza della democrazia moderna e della civiltà del lavoro, del diritto delle persone e dei popoli di potersi realizzarsi e di decidere del proprio destino, che è minacciato dal potere inaudito e senza controllo di una oligarchia finanziaria che muove a suo piacere le ricchezze del mondo. Vogliamo chiederci chi sta muovendo la guerre alla costruzione europea, in quanto solo altro potere possibile?
Così io guardo all’Italia. C’è Grillo, c’è il qualunquismo, ci sono proteste distruttive. Ma non c’è solo questo. Dietro l’inquietudine profonda dei giovani e il loro distacco dalla politica, dietro il loro disprezzo per i vecchi partiti c’è il fatto come notava Ilvo Diamanti che si stanno facendo strada domande di segno nuovo. Le quali esprimono istanze critiche verso i valori del neo-liberismo imposti dai «mercati» finanziari globale. Io credo che noi sottovalutiamo questa grande novità non soltanto economica. L’avvento della finanziarizzazione ha creato un diverso e più stretto rapporto tra la nuda vita e l’economia. Si parla (giustamente) della pochezza e delle malefatte dei partiti.
Ma è evidente che la riduzione dello spazio della politica ha portato a un lento degrado morale e culturale, al declino delle protezioni sociali e alla crisi dei sistemi scolastici e formativi. Con l’indebolimento delle istituzioni e dello spazio pubblico, la cittadinanza è stata degradata al potere d’acquisto e la crescita degli esseri umani ridotta alla stimolazione degli istinti peggiori. In fondo, si riscopre una semplice verità. È vero che l’uguaglianza senza libertà dà luogo al dispotismo, ma la libertà senza uguaglianza crea sfruttamento, ingiustizia e regressione sociale, minacciando di spezzare la parabola della democrazia contemporanea.
Se questi sono i problemi come pensiamo di parlare ai giovani che protestano se non diamo un significato alla loro vita e al loro bisogno di libertà? È evidente che la nostra proposta politica deve tradursi chiaramente nell’appello anche di Napolitano perché siano i giovani stessi a prendere in mano il governo del Paese. Ha ragione D’Alema quando dice che la vittoria di forze come quelle di Grillo ci butterebbero fuori dall’Europa e condannerebbero l’Italia alla miseria e al fallimento. Ma tanto più allora spetta a noi, nel momento in cui diciamo alla povera gente che è giusto affrontare seri sacrifici, senza indicare uno scopo. Un grande scopo. Qui sta il punto. Il riformismo non è solo la concretezza ma è la combinazione di questa con l’utopia. Abbiamo tanto citato Max Weber e la sua etica della responsabilità ma forse ci siamo un po’ dimenticati dell’altro suo monito secondo cui nulla sarebbe possibile se non tentassimo l’impossibile. Senza cioè una visione nuova del mondo.
La sfida che il Pd lancia a tutti gli altri soggetti politici (Grillo compreso) non è la foto di Vasto o quella con Casini: è la ricostruzione su nuove basi del Paese. Ma ciò che io voglio sottolineare è che questa sfida, per funzionare, deve essere anche concepita come una sfida che riguarda la ricostruzione di noi stessi in quanto partito.
I partiti non possono più essere quelli di prima. È il loro rapporto con la società che è cambiata, nel senso che essi non sono più auto sufficienti ma devono misurarsi con il nuovo bisogno di protagonismo della società e quindi con le culture e i movimenti che la innervano. Il problema è come assolvere a questa funzione a fronte del cinismo della destra e del suo miserabile cotè giornalistico e intellettuale. Nella mia lunga vita (tranne l’8 settembre) non avevo mai visto un così grande sfascio, fino alla polverizzazione, di ciò che era stato per vent’anni ben più che l’alleanza tra 2 partiti (Lega Nord e Berlusconi).
Era stato l’asse del Nord. Quasi un blocco storico, sorretto da una idea sia pure meschina dell’Italia. Dopotutto Bossi e Berlusconi fornivano le truppe ma le idee erano quelle della vecchia classe dirigente: una casta volta a volta craxiana, leghista, ciellina con dietro la grande banca milanese e il salotto buono del Corriere della Sera. Un’idea meschina ed economicistica incapace di una visione nazionale: il Mezzogiorno, popolo di ladri e di sfaticati, visto come un peso insostenibile per il Nord che lavora.
Questa idea ha fatto fallimento e si è creato un vuoto. Io non so chi a destra occuperà questo vuoto. So che noi ci candidiamo a guidare il Paese in nome di un disegno di ricostruzione. Una unità d’Italia posta su nuove basi. Certo non potrà essere «un Paese per vecchi», né per soli uomini. Qui sta il mio assillo.
Un «partito della nazione» è tale solo se interpreta ed esprime gli interessi delle nuove generazioni. Io sono vecchio. I miei nipoti parlano perfino un’altra lingua: quella del web. Mi si consenta però una analogia. Io ricordo come parlò il Pci a noi giovani di allora. Ci chiamò a dare una risposta al grande interrogativo di allora, che però era simile a quello di oggi. Dove va l’Italia?
Repubblica 25.5.12
Bersani: il rinnovamento del Pd è già iniziato
"Guardate i nostri amministratori locali". E sulla crisi: "Liquidità o ci avvitiamo"
Nella direzione di martedì il nodo delle alleanze Civati: dieci cose da fare subito
di Giovanna Casadio
ROMA - Bersani, com´è ovvio, non ci sta. Finire sotto processo avendo vinto nella stragrande maggioranza dei comuni al voto, irrita il segretario dei Democratici. E se gli si chiede: «Allora, il Pd ha paura del rinnovamento?». La risposta è secca: «Il nuovo noi l´abbiamo già, basta scoprirli i giovani sindaci, i nuovi amministratori, anche i parlamentari di ultima leva. Non sono affatto messi di lato, forse sono meno visibili perché non vanno nei talk show... ma sono pienamente in campo». Esempi? Il neo sindaco di Alessandria, Rita Rossa. E quello di Asti, Fabrizio Brignolo...
Detto questo, Bersani sa bene che la sfida è complicata e che il Pd ha vinto ma non convinto, se l´astensionismo è stato da record, se non è riuscito a drenare voti al centrodestra ormai nel caos, se c´è stato il boom di Grillo. Il tribuno cinquestelle attacca di nuovo il leader del Pd, che evita questa volta di rispondergli: «Dica pure... «, lo liquida. Però i grillini non possono essere sottovalutati né ignorati. Di tutto questo, ma soprattutto delle preoccupazioni per il Paese, il segretario parlerà nella direzione convocata per martedì. Sulle accuse di mancato rinnovamento dirà: «Vedrete, le novità saranno nelle candidature e nella squadra di governo. Non solo rinnovamento dal punto di vista anagrafico ma anche necessità di competenze». Per quanto riguarda l´Italia e la crisi. «Che sia necessario un cambio di passo lo sappiamo prima noi degli altri, l´abbiamo sempre ribadito». Martedì sera a cena da Monti a Palazzo Chigi, Bersani ha lanciato un vero e proprio allarme: «Ci vogliono segnali concreti, un allentamento del patto di stabilità per i Comuni, per fare ripartire le imprese, fare girare lavoro e liquidità. E questi segnali ci vogliono subito». Ha anche insistito per una soluzione sugli esodati, e ci torna ieri: «Il presidente del Consiglio ci ha detto che questo problema sarebbe stato risolto, non è stato ancora così. Noi stiamo facendo una nostra proposta di legge, perché il problema va risolto».
Su alleanze ampie, dalla sinistra ai moderati, e sulla nuova legge elettorale (il doppio turno) tira dritto. «Siamo solidi», è il leit motiv. Però in direzione si annuncia battaglia. Si è già accesa sul web del resto, a colpi di post nei vari blog, da quello di Pippo Civati a Sandro Gozi a Paola Concia. Presenteranno un documento per chiedere rinnovamento? L´ipotesi è sul tappeto. Di certo annunciano interventi. Gozi anticipa il suo: «Credo che il dato dell´ultima tornata elettorale dimostri che abbiamo tenuto davanti al crollo del sistema ma non siamo capaci di raccogliere un voto che sia uno. In pratica abbiamo resistito, ma non interpretato il bisogno di cambiamento che gli italiani stanno non dicendo ma urlando con il voto a Grillo e con l´astensionismo». Già nei giorni scorsi aveva aperto un dibattito online: «Vinciamo sul vecchio. Non rappresentiamo il cambiamento e Grillo in Emilia Romagna è un problema ormai grosso come un elefante». Civati insiste sulla necessità di comprendere i grillini e di interpretare il M5S prima che diventi una forza alternativa. Sul suo e-book, che esce oggi lancia un appello sulle dieci cose da fare. Più che una battaglia generazionale, sono i temi dell´ambiente e dell´innovazione che vanno fatti propri. In direzione tornerà su due punti: scegliere dal basso i parlamentari e rendere categorica la regola che chi ha fatto tre mandati non si candidi. Come chiede Renzi, il rottamatore. «L´usura del tempo - ragiona Civati - si fa sentire rispetto a questa classe politica ed è uno dei motivi per cui Grillo ha tanti argomenti. Attenti a non dare altra strada alle derive demagogiche». Renzi infine è il più duro contro la mancanza di rinnovamento e chiede, come anche Civati e Gozi, primarie in autunno, in cui scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Subito dopo la direzione, in programma ci sono altri faccia a faccia con Vendola e Di Pietro.
Repubblica 25.5.12
Il Pd dopo lo tsunami
di Miguel Gotor
Il partito democratico ha vinto queste elezioni amministrative, ma... Ma da questo dato bisogna cominciare a ragionare, evitando di sopravvalutare le dimensioni del successo e soffermandosi sul contesto in cui esso è maturato e sulla fluidità del suo valore politico.
Il Pd è sopravvissuto a uno tsunami e ora si trova nella poco invidiabile situazione di aggirarsi in un panorama di desolanti macerie, da solo contro tutti. Anzitutto è necessario concentrarsi sugli errori da non commettere.
Il primo è quello di sottovalutare il dato impressionante dell´astensionismo che rivela l´esistenza di una maggioranza di italiani ancora in attesa di decidere. Inutile nascondersi dietro a un dito: se il centrosinistra vuole vincere le elezioni politiche del 2013 dovrà porsi l´obiettivo di conquistare la fiducia di questo elettorato rimasto alla finestra. Alcuni dati invitano a relativizzare anche le vittorie a prima vista migliori. Prendiamo il caso di Genova: in una città con 500 mila elettori, Doria ha vinto le primarie con 11 mila voti, è diventato sindaco conquistando la fiducia di 114 mila cittadini e, tra il primo e il secondo turno, ha perso per strada oltre 13 mila voti. In una città con un´elevata tradizione di partecipazione civica e politica al ballottaggio ha votato soltanto il 39 per cento degli aventi diritto.
Queste semplici verità numeriche interrogano la qualità politica del risultato e invitano a ricordare che, già rispetto a un anno fa, ai tempi della bella vittoria milanese di Pisapia, il quadro è profondamente mutato. Quel 60 per cento di votanti che mancano all´appello a Genova, come a Como o a Monza, per citare altre importanti vittorie, tornerà in buona parte a esprimersi in occasione delle elezioni politiche, ma non è composto da elettori di centrosinistra e sarà bene averlo a mente. Ancora una volta, dunque, la questione riguarda quel voto inespresso e, per vincere nel 2013, il Pd dovrà guardare anche a quel mondo invisibile, ma presente, percorso da un processo di radicalizzazione, di smarrimento, di disaffezione e di polarizzazione forse senza precedenti, agli occhi del quale dovrà costituire un elemento di fiducia e di garanzia.
In secondo luogo non bisogna sottostimare le capacità di reazione della destra. Sarebbe da ingenui pensare che tra un anno lo scenario rimarrà questo. La destra in Italia, ce lo ha insegnato Aldo Moro, è stata sempre più forte della sua espressione parlamentare, e avrà tempo e modo per riorganizzarsi. Lo stesso forzato sostegno al governo Monti da parte del Pdl, così come la grande spinta mediatica che sta ricevendo il Movimento 5 Stelle da settori dell´opinione pubblica che si vorrebbero moderati e liberali hanno oggi l´evidente e preziosa funzione politica di lasciare il tempo alla destra di riprendere fiato e di definire una risposta in grado di rimobilitare il proprio elettorato. Non conosciamo ancora le forme e i volti di questa riorganizzazione, ma essa ci sarà e accentuerà la radicalizzazione dello scontro in un quadro di crisi economica sempre più soffocante. Mai come questa volta la sfida del 2013 sarà tra due concezioni dell´Italia, della democrazia e dell´Europa. Berlusconi non è più il pifferaio magico di un tempo, ma, come un caimano, si è nascosto sotto il pelo dell´acqua a guardare cosa accade senza il suo protagonismo: osserva compiaciuto la vittoria a Parma, grazie ai voti del suo elettorato, di un candidato di Grillo, scruta lo sgonfiamento del Terzo Polo che non riesce a essere l´ago della bilancia come Casini avrebbe sperato, studia l´emergere di nuovi aspiranti competitori che ambirebbero a sottrargli l´elettorato facendo però a meno di lui. Ma Berlusconi c´è, con i propri voti e il suo potere: e "Striscia la notizia", ogni sera, come avviene da 24 anni, continuerà a fare lo stesso mestiere, ossia il suo gioco, davanti a milioni di telespettatori.
In terzo luogo il Pd non deve trascurare la domanda di partecipazione e di rinnovamento della politica che sale prepotente dall´opinione pubblica e che il Movimento 5 Stelle interpreta, ma certo non esaurisce. Chi si ferma è perduto, si vince nel dinamismo. Con un doppio movimento, che riguarda l´iniziativa parlamentare e quella politica. Proprio ieri, grazie soprattutto all´impegno del Pd, si è arrivati a una riforma della legge sul finanziamento dei partiti che riduce del 50 per cento la quota dei rimborsi; bisogna ora intervenire sul numero dei parlamentari e, anche nel caso in cui la legge elettorale non cambiasse in modo strutturale per il gioco dei veti incrociati, è necessario attivare lo stesso un meccanismo che, già nelle elezioni del 2013, restituisca agli elettori il diritto di scegliere i deputati perché solo così si potrà in parte recuperare la frattura tra Parlamento e cittadinanza che quella "porcata", votata dalla Lega, Forza Italia, An e Udc, ha concorso a provocare.
Ma è soprattutto sul terreno dell´iniziativa politica che bisogna intervenire con una proposta di alleanza civica per la ricostruzione di questo Paese che veda il Pd aprirsi e non chiudersi, impegnandosi in modo generoso per una ricucitura dei rapporti tra partiti e cittadinanza. Bisogna avere senso del limite e al tempo stesso osare, perché solo chi osa sarà in grado di cambiare se stesso e gli altri. Chi punta a riproporre una contrapposizione pregiudiziale tra movimenti e partiti, società civile e "palazzo" sta nuovamente, come nel 1993-1994, lavorando per il re di Prussia. Soltanto nella buona volontà e nell´aiuto reciproco sarà possibile formare un fronte comune per riprendere in mano il filo di un Paese smarrito. Tessendo, quindi, non lacerando definitivamente la tela.
Negli anni Settanta Enrico Berlinguer disse: «Entrate e cambiateci», ma oggi quei tempi non ci sono più per tutti. Resta però l´idea e la necessità di un´alleanza per il cambiamento, ché altrimenti, nell´autoreferenzialità e nella rivendicazione di sterili orgogli (dei partiti, ma anche della società civile), si creeranno le condizioni ideali per favorire l´emergere di un rinnovato asse tra destra e moderati e così le premesse per una nuova storica sconfitta.
l’Unità 25.5.12
Berlinguer ti vogliamo ancora bene
di Bruno Gravagnuolo
QUEL CHE CONTA È LA PAROLA, IL RESTO È CHIACCHIERA». Il celebre motto di Jonesco si attaglia a meraviglia all’opuscolo su Berlinguer che l’Unità offre oggi ai lettori: Parole di Enrico. Enrico Berlinguer. 25 Maggio 1925 11 giugno 1984. E vi si attaglia perché le parole di Berlinguer erano concetti e visioni. Parole serie e ponderate: ogni volta un concentrato di azione politica, che invitava a riflettere e con-dividere. Non a sbraitare o a fare propaganda.
Era così Enrico Berlinguer, comparso come figura «media» e di transizione. Ma via via, proprio col suo carisma schivo e non carismatico, destinato a svolgere un ruolo decisivo sulla scena del secondo dopoguerra, dalla stagione di fine anni 60, alla metà degli anni 80. Anni di rottura generazionale e sociale di argini. E anche di contraccolpi reazionari e neoconservatori. In mezzo c’era il suo Pci, quello venuto dopo la transizione di Longo, e che portava con sé un’immensa responsabilità. Dare uno sbocco di governo in prima persona al movimento operaio, nella porta stretta dei blocchi geopolitici e battendo al contempo i riflessi d’ordine e autoritari che quella prospettiva poteva alimentare. Eccola la grandezza di Berlinguer e delle sue «parole» di allora: il tentativo di attraversare la «porta stretta» di quel mondo in movimento. Senza ripetere errori passati: massimalismo, subalternità corporativa, dottrinarismo. E il tutto spingendo l’identità comunista all’estremo limite, pur senza mai la forza di varcarla. Sì, ma le «parole»? Eccone alcune nell’opuscolo: austerità, questione morale, compromesso storico, democrazia come valore universale, terza via. Su di esse si è molto discusso e anche ironizzato. Ma in certo senso restano «parole-concetti» ancora penetranti, che indicano alleanze tra ceti sociali, oppure «chiavi» strategiche ed etico-politiche per nulla desuete. Come nel caso di «austerità». Una leva economica che il movimento operaio doveva far propria per «instaurare giustizia, efficienza, ordine e una moralità nuova». Era il 1979. Cambiereste una virgola oggi?
il Fatto 25.5.12
Il binario morto del Parlamento
di Furio Colombo
Venti ore di tenace lavoro per non rischiare di lasciare i partiti senza soldi. Tutto avviene con uno strano silenziatore perché bisogna passare in fretta da un comma all'altro, dal mio emendamento al tuo, tanto vogliono tutti la stessa cosa. Soldi (un po' meno di prima) per ciascun partito, e l'onorabilità perduta. “Perché non siamo tutti Belsito e Lusi”. Anzi, dobbiamo ascoltare un vigoroso discorso in difesa dei tesorieri. Non stanno pensando altro, fuori, in Italia, specialmente nelle zone del terremoto e fra le tribù degli esodati. E Beppe Grillo li aspetta. Poi toccherà ai sociologi spiegare lo strano voto “né di destra né di sinistra”. Giusto.
QUI, TRANNE i Radicali, Di Pietro, Arturo Parisi e alcuni di noi (noi: coloro che hanno dichiarato il dissenso) sparsi nel compatto Pd, tutti votano uguale. Sembra che sia al lavoro un bravo scenografo che di volta in volta fa apparire, e poi cancella, due paesaggi diversi. Il primo è pauroso al punto che le autorità di governo avvertono: non possiamo aiutare le vittime del terremoto. Ma improvvisamente la scena si illumina e compare una politica seria e affidabile che compie un grande gesto: dona metà del suo finanziamento pubblico ai bisogni del Paese. Il problema è che i soldi, sia quelli da incassare sia quelli da donare, non ci sono più, come ha già avvisato il governo, come ci stanno dicendo gli altri Paesi europei. Allora come pagare la politica? È un problema che condividiamo con il resto del mondo. Ma gli italiani non solo hanno già detto che cosa pensano del finanziamento pubblico dei partiti nel famoso e stravinto e rimosso referendum dei Radicali. Sono stati anche costretti ad assistere all’acquisto di diamanti da parte della vicepresidente del Senato e del suo collega Stiffoni e alla distribuzione delle “paghine” ai ragazzi Bossi, tutto (e ben altro) con soldi pubblici. Episodi di colore, direte. Ma c'è la solida testimonianza del senatore Lusi a darci notizie, in parte false e in parte vere, sullo stato di degrado e il livello di vergogna.
MA IL VERO, disorientante problema è la ferma linea di condotta del versante presentabile dei partiti. Possibile che nessuno abbia intravisto il dislivello fra ciò che accade qui dentro e ciò che sta succedendo là fuori, dove ci sono abbandono, isolamento, paura e rischio di rivolta? Il treno del Parlamento, affollato di maggioranza senza partito e di partiti senza maggioranza, continua a correre, confidente e veloce, su un binario morto. Dispiace, ma andrà a sbattere.
l’Unità 25.5.12
Bufera sullo Ior. Sfiduciato Gotti Tedeschi
Il presidente lascia. Dimissionato dai laici a capo dell’Istituto: «È venuto meno ai suoi doveri»
di Roberto Monteforte
CITTÀ DEL VATICANO Lo hanno sfiduciato. Il presidente dello Ior, l'Istituto per le opere di religione, professor Ettore Gotti Tedeschi è stato messo alla porta dai cinque laici che compongono il Consiglio di sovrintendenza dell’istituto finanziario vaticano. All’unanimità il vice presidente Ronaldo Hermann Schmitz e da Antonio Maria Marocco, Manuel Soto Serrano e Carl Albert Anderson, tutti ecomomisti di grande prestigio, hanno deciso di non rinnovargli la fiducia. Non è stato un fulmine a ciel sereno. Da tempo i rapporti all’interno dell’istituto si erano deteriorati, pare proprio per dissensi nell’applicazione della normativa per la trasparenza finanziaria che doveva portare la Santa Sede nella «white list» dei Paesi virtuosi in materia di antiriclaggio. In particolare sul ruolo dell’Aif, l’autorità di informazione finanziaria, alla cui testa è stato messo il cardinale Attilio Nicora. Sulla natura e sui poteri di questa autorità vi sono stati scontri che hanno coinvolto anche la segreteria di Stato e che sono arrivati anche sui giornali. Contrasti vi sarebbero stati pure sulla conduzione degli affari dell’ente gestiti dal direttore generale Paolo Cipriani che con Gotti Tedeschi nel 2010 è stato indagato dalla procura di Roma con l’accusa di riciclaggio.
Non ha voluto neanche confermare la cosa il professore Ettore Gotti Tedeschi. «Preferisco non dire nulla ha detto raggiunto telefonicamente dall’Ansa altrimenti dovrei dire solo brutte parole. Abbiate pazienza». Ma alla fine nel tardo pomeriggio la conferma ufficiale è arrivata dal Vaticano con una nota del direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi.
LA GOVERNANCE
«Il 24 maggio 2012 il Consiglio di Sovrintendenza dell’Istituto per le Opere di Religione si è riunito in sessione ordinaria. Fra i temi in agenda spiega Lombardi -, c’era ancora una volta la governance dell’Istituto. Nel tempo questa ha destato progressiva preoccupazione nel Consiglio e, nonostante ripetute comunicazioni in tal senso al Prof. Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la situazione è ulteriormente deteriorata». Sta qui la spiegazione della decisione assunta. «Dopo una delibera continua la nota -, il Board ha adottato all’unanimità un voto di sfiducia del Presidente, per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio». Alla dichiarazione di padre Lombardi segue quella del Consiglio di Sovrintendenza dell’Istituto che dà conto della mozione di sfiducia adottata alle ore 14 nei confronti del presidente Gotti Tedeschi e ne «ha raccomandato la cessazione del suo mandato quale presidente e membro del Consiglio». «I membri del Consiglio continua sono rattristati». Si apre una nuova fase. «Il Consiglio adesso guarda avanti, al processo di ricerca di un nuovo ed eccellente Presidente, che aiuterà l’Istituto a ripristinare efficaci ed ampie relazioni fra l’Istituto e la comunità finanziaria, basate sul mutuo rispetto di standards bancari internazionalmente accettati».
Oggi si riunirà la Commissione cardinalizia di vigilanza presieduta dal segretario di Stato, cardinale Tarciso Bertone per trarre le conseguenze della delibera del Consiglio. Quanto fosse di peso, ascoltato e influente il professore Gotti Tedeschi, già consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti e chiamato nel 2009 da Benedetto XVI a mettere ordine nelle finanze vaticane, lo testimonia anche il recente e contestato libro del giornalista Nuzzi «Sua Santità». Si oppose anche alla costituzione di un polo sanitario Vaticano in Italia al quale lavorava il cardinale Bertone come soluzione al complesso «San Raffaele» di don Verzé.
il Fatto 25.5.12
Lotte di potere. Il presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, licenziato dal cardinal Bertone
Ior: il Vaticano scomunica il banchiere di Dio
di Stefano Feltri
Vicino a Cl e Opus Dei, aveva promesso di rendere più trasparente la banca del Papa, poi indagato per violazione delle norme sul riciclaggio
Il Vaticano licenzia Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dell'Istituto Opere Religiose, lo Ior, il fondo sovrano dello Stato Pontificio che nei decenni ne ha rappresentato il lato più oscuro. La nota della sala stampa vaticana sottolinea che non si è trattato di dimissioni spontanee: “Il Consiglio di Sovrintendenza dello Ior ha adottato una mozione di sfiducia del presidente Gotti Tedeschi”. Le colpe del banchiere 67enne, professore della Cattolica ed editorialista dell'Osservatore Romano, non sono esplicitate nel comunicato ufficiale. Ma chi frequenta il Vaticano ne ha una lunga lista, così lunga che la cacciata di Gotti era attesa da mesi.
GOTTI TEDESCHI ha commesso alcuni peccati veniali e altri capitali. Nella prima categoria figura l'ineleganza con cui nel 2009, poco dopo la nomina allo Ior, faceva sapere a tutti di aver contribuito all'enciclica della “Caritas in Veritate”, dedicata soprattutto a temi economici. “Non si fa, all'enciclica collaborano in tanti, ma quando viene emanata è solo e soltanto del Santo Padre”, spiegano in Vaticano. Ma Gotti Tedeschi aveva bisogno di ribadire che era allo Ior non in quota del segretario di Stati Tarcisio Bertone, ma in quanto stimato da Joseph Ratzinger in persona. Altri peccati veniali sono la pervicacia con cui ha sostenuto per anni che la vera soluzione alla crisi economica era nella demografia, fare più figli contro lo spread, lo scarso talento diplomatico: poco dopo la nomina a presidente Gotti ha rotto i rapporti con Intesa SanPaolo. Nell'estate 2010 lo Ior ha cancellato l'usufrutto concesso a Mittel sullo 0,2 per cento del capitale di Intesa e poi ha venduto le quote (eredità dei rapporti ai tempi dell'Ambrosiano). Una vendetta personale di Gotti nei confronti di Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa e di Mittel, finanziaria cattolica bresciana quotata in Borsa e base del potere bazoliano. Così Gotti Tedeschi si è rifatto per aver perso il posto quando Bazoli aveva guidato Intesa a fondersi con il San Paolo, nel cui cda sedeva per conto degli spagnoli del Santander. In Vaticano non hanno apprezzato. Bazoli, come dimostrano le carte pubblicate da Gianluigi Nuzzi in “Sua Santità” (Chiarelettere) è uno che a Natale manda 25mila euro – di Intesa – al Papa, che bisogno c'è di irritarlo?
MA GOTTI sta pagando soprattutto i peccati capitali, relativi alla trasparenza dello Ior e al tentativo di portare il Vaticano fuori dalla lista nera dei paradisi fiscali. Ci sono due punti di vista: Gotti Tedeschi ha esagerato con il tentativo di bonificare lo Ior (questo dicono i suoi sostenitori) e alla fine il cardinal Bertone lo ha rimosso per evitare che troppi segreti cadessero. Seconda versione: Gotti ha attuato una trasparenza di facciata, perché in Vaticano nessuno ha mai voluto davvero rendere lo Ior un'istituzione limpida. Come ha denunciato il il cardinale Attilio Nicora, presidente dell'Autorità Informazione Finanziaria del Vaticano in dossier rivelato da Marco Lillo sul Fatto, il Papa ha spinto per la trasparenza, poi la legge vaticana ispirata da Bertone ha ridotto i poteri dell'Aif che vigila sul riciclaggio. Quel che è certo è che Gotti Tedeschi ha trascinato lo Ior in una strana vicenda, per la quale è anche indagato: 23 milioni di euro dello Ior che dovevano essere trasferiti all'estero dalla sede romana della banca del Credito Artigiano, 20 milione alla JP Morgan di Francoforte e 3 alla Banca del Fucino. La Procura di Roma sequestra la somma (poi la restituirà) e indaga Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani per violazione delle norme sull’antiriciclaggio. La cosa bizzarra è che il Credito Artigiano una banca legatissima allo Ior, l'allora presidente Giovanni De Censi era nel consiglio dell'istituto vaticano. Eppure è proprio il Credito Artigiano a segnalare l'operazione alla Banca d'Italia. Un pasticcio di Gotti che nei prossimi mesi temeva di veder sancita la permanenza dello Ior nella grey list dei paradisi fiscali. Comunque la si guardi, il banchiere non è riuscito a completare il processo di rinnovamento nello Ior. Ulteriore peccato capitale di Gotti: prima spinge, in asse con Bertone, per coinvolgere lo Ior nel salvataggio del gruppo dissestato del San Raffaele di don Luigi Verzè, anche per arginare il laico Giuseppe Rotelli. Ma al momento decisivo lo Ior si tira indietro e Rotelli conquista un altro pezzo della sanità lombarda.
SI PUÒ DARE un’altra lettura: in Vaticano Comunione e Liberazione e l’Opus Dei sono in declino, mentre altri movimenti come quello dei Focolarini si stanno rafforzando. Gotti Tedeschi era espressione dell’Opus ma vicino a CL, la sua caduta è quindi sintomo della fine di un’epoca. Per la successione si era parlato di Cesare Geronzi, ma il favorito sarebbe il notaio torinese Antonio Marocco, da poco entrato nel consiglio di sovrintendenza dello Ior, vicino a Bertone.
il Fatto 25.5.12
La cassaforte della Chiesa fondata nel 1942. Risponde direttamente al Pontefice
Risponde direttamente al Papa e ha un patrimonio di 5 miliardi di euro l’Istituto per le opere di religione (Ior), fino a ieri guidato dal banchiere Ettore Gotti Tedeschi, subentrato nel settembre 2009 all’ex presidente Angelo Caloia. Fondato da Pio XII nel 1942, al posto dell’amministrazione creata da Leone XIII nel 1887, lo Ior ha per scopo statutario quello di “provvedere alla custodia e all’amministrazione di beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo Ior medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità”, ma “può accettare depositi di beni da parte di enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”. Nel 1989 Giovanni Paolo II, proprio dopo le vicende del Banco Ambrosiano, modificò lo statuto della “banca vaticana”, in modo da affidarne il controllo a un “Consiglio di vigilanza” di cinque cardinali, che veglia su un Consiglio di sovrintendenza composto di cinque laici e un direttore generale, che rispondono direttamente al Papa. Nel febbraio del 2008 papa Ratzinger ha rinnovato la commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, dopo aver nominato al suo vertice il suo più stretto collaboratore, il Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, al posto di Angelo Sodano.
La Stampa 25.5.12
“Ior poco trasparente” Sfiduciato il presidente Ettore Gotti Tedeschi
La Santa Sede è preoccupata dalla fuga di documenti, alcuni transitati dall’email del banchiere
Dopo mesi di tensioni, la decisione del board dell’istituto
di Andrea Tornielli
CITTÀ DEL VATICANO Rimosso Ettore Gotti Tedeschi è stato sfiduciato dal board dello Ior. Ne era diventato presidente nel 2009 sulla scelta ha pesato l’estromissione dello Ior dalla «white list»
Il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, alle due di ieri pomeriggio è stato sfiduciato dagli altri quattro membri del Consiglio di sovrintendenza dell’Istituto per le Opere di Religione e ha lasciato l’incarico. Una decisione che arriva dopo mesi di tensioni, contrasti e scontri che si sono consumati all’ombra dei palazzi vaticani e che sono emersi all’inizio dell’anno con i «vatileaks», la pubblicazione di documenti e memoriali interni, alcuni dei quali riguardanti proprio la gestione delle finanze vaticane.
La guida dello Ior viene assunta ad interim dal vicepresidente del Consiglio di sovrintendenza, il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz. Gli altri membri che hanno sfiduciato Gotti sono l’americano Carl Anderson (leader dei Cavalieri di Colombo), l’italiano Giovanni De Censi e lo spagnolo Manuel Soto Serrano (che è nel board del Banco di Santander, lo stesso per il quale lavora anche l’ormai ex presidente della banca vaticana). Poco dopo la diffusione della notizia, nel tardo pomeriggio di ieri, la Sala Stampa della Santa Sede ha comunicato che nella riunione del Consiglio di sovrintendenza «fra i temi in agenda, c’era ancora una volta la governance dell’Istituto. Nel tempo, questa ha destato progressiva preoccupazione nel Consiglio e, nonostante ripetute comunicazioni in tal senso al prof. Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la situazione è ulteriormente deteriorata».
«Dopo una delibera, il board ha adottato all’unanimità un voto di sfiducia del presidente, per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio». I membri del Consiglio «sono rattristati per gli avvenimenti che hanno condotto al voto di sfiducia, ma considerano che quest’azione sia importante per mantenere la vitalità dell’Istituto» e guardano «avanti, al processo di ricerca di un nuovo ed eccellente presidente, che aiuterà lo Ior a ripristinare efficaci ed ampie relazioni fra l’Istituto e la comunità finanziaria, basate sul mutuo rispetto di standard bancari internazionalmente accettati». Parole che sottintendono come questo non sia avvenuto sotto la presidenza di Gotti Tedeschi.
La Commissione cardinalizia che vigila sullo Ior – composta dagli italiani Tarcisio Bertone e Attilio Nicora, dal francese Jean Luis Tauran, dall’indiano Telesphore Placidus Toppo e dal brasiliano Odilo Pedro Scherer – è stata convocata d’urgenza e si riunirà quest’oggi «per trarre le conseguenze della delibera del Consiglio e decidere i passi più opportuni per il futuro». Le fonti vaticane considerano altamente improbabile che i cardinali ribaltino la decisione presa ieri.
Ettore Gotti Tedeschi, banchiere cattolico, considerato vicino all’Opus Dei, era stato chiamato alla presidenza della banca vaticana nel 2009. Il suo arrivo doveva accelerare il processo di trasparenza voluta da Benedetto XVI nelle finanze vaticane. Pochi mesi dopo il suo arrivo, lo Ior era stato coinvolto in un’inchiesta della magistratura romana per alcune movimentazioni di denaro: Gotti aveva deciso di collaborare con i giudici, facendosi interrogare senza passare attraverso le rogatorie internazionali, con un’iniziativa che non era piaciuta a tutti Oltretevere.
Professore di etica e finanza all’Università Cattolica di Milano, autore di saggi, editorialista de «L’Osservatore Romano», l’ex presidente dello Ior è stato un consigliere molto ascoltato dall’ex ministro Giulio Tremonti, che ha accompagnato da Benedetto XVI per parlare di economia e globalizzazione. Tremonti lo aveva nominato consigliere per «i problemi economico-finanziari ed etici nei sistemi internazionali» oltre che membro della Cassa Depositi e prestiti.
La decisione di sfiduciarlo è stata presa in un momento particolarmente complicato e difficile per la Santa Sede, alle prese con una massiccia fuga di documenti: alcuni di questi erano transitati anche attraverso l’email di Gotti Tedeschi e riguardavano le tensioni interne sorte nella fase preparatoria della nuova legge sulla trasparenza, che nelle intenzioni doveva servire ad avvicinare il Vaticano agli standard internazionali. In discussione ruolo e poteri dell’Aif, autorità di informazione finanziaria di controllo presieduta dal cardinale Attilio Nicora, che secondo il porporato e secondo lo stesso Gotti risultava ridimensionata dalle nuove norme entrate in vigore lo scorso gennaio.
La Stampa 25.5.12
“Preferisco non parlare. Direi solo brutte parole”
Tre anni e molti nemici: ecco il perché del benservito
di An. Tor.
CITTÀ DEL VATICANO Preferisco non parlare, altrimenti dovrei dire solo brutte parole. Abbiate pazienza». La sfiducia che ha portato all’uscita di scena di Ettore Gotti Tedeschi dallo Ior dopo neanche tre anni di presidenza, è giunta improvvisa ma erano mesi che il banchiere aveva preso in considerazione la possibilità delle dimissioni. Fin dai giorni dell’inchiesta della magistratura romana sulla movimentazione di denaro in alcuni conti dello Ior da banche italiane a banche tedesche, Gotti aveva scelto di collaborare direttamente con i magistrati. Quella vicenda era stata l’inizio delle incomprensioni con il direttore generale dell’Istituto, Paolo Cipriani. In quella occasione Gotti, sottoposto a indagine dai Pm, ricevette un pubblico sostegno da parte di Benedetto XVI che lo salutò dopo un Angelus a Castel Gandolfo ricevendolo insieme alla moglie. «Dobbiamo essere esemplari» aveva ripetuto il Pontefice. E il nuovo presidente, scelto dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone, aveva continuato il processo di rinnovamento e trasparenza già in atto, chiudendo i conti correnti «in sonno» intestati a prestanome.
Tra le persone con le quali si era scontrato Gotti Tedeschi c’era Marco Simeon, l’attuale direttore di Rai Vaticano legato al faccendiere Luigi Bisignani. L’estate scorsa lo Ior era stato coinvolto nell’operazione di salvataggio dell’ospedale San Raffaele di Milano, voluta dal cardinale Bertone e auspicata da diversi uomini della finanza e della politica milanese. Gotti Tedeschi, inizialmente favorevole, si era poi convinto del contrario ritenendola un’avventura pericolosa, e si era scontrato con Giuseppe Profiti, manager dell’ospedale Bambin Gesù e uomo di Bertone nel mondo della sanità. Pure rapporti con il cardinale Segretario di Stato si erano progressivamente raffreddati, anche se negli ultimi tempi si è registrato un miglioramento.
Ma il punto di non ritorno per Gotti Tedeschi è stata la nuova legge sulla trasparenza che doveva portare il Vaticano nella «white list» dei Paesi virtuosi in materia di antiricilaggio. Il presidente dello Ior, d’accordo in questo con il cardinale Attilio Nicora, riteneva che le modifiche apportate fossero troppe e soprattutto che venisse ridimensionato il ruolo dell’Aif, l’organismo di controllo istituito con la precedente normativa. Dove stia la ragione saranno gli esperti di Moneyval a sancirlo il prossimo luglio, quando si conoscerà il rapporto finale sull’adeguamento della Santa Sede alle normative internazionali. Dietro la sfiducia di ieri, Gotti Tedeschi vede una sorta di regolamento di conti. Motivato dalle sue posizioni prese nel corso dell’ultimo anno da un uomo sempre più isolato Oltretevere, che aveva però mantenuto sempre aperto un collegamento con il segretario particolare del Pontefice, don Georg Gänswein.
Corriere 25.5.12
La svolta dopo mesi di accuse e veleni
I contrasti con Bertone e le voci (inverosimili) che fosse lui il «corvo»
l'Esito Traumatico di un Lungo Conflitto
di Massimo Franco
Raccontano che sia l'ultima vendetta di Tarcisio Bertone, il controverso Segretario di Stato vaticano. Il «licenziamento» di Ettore Gotti Tedeschi, economista e banchiere, è il frutto marcio di uno scontro nei meandri più segreti e torbidi del potere finanziario d'Oltretevere.
Una guerra coperta, felpata, combattuta per mesi senza rotture pubbliche; ma ufficializzata ieri con un comunicato così duro da far sorgere molte domande, più che offrire risposte e spiegare in modo convincente l'accelerazione. L'impressione è che la sorte di Gotti Tedeschi sia stata segnata dalle sue perplessità sull'operazione di salvataggio dell'ospedale San Raffaele, voluta fortemente da Bertone e dalla sua cerchia; poi dalle resistenze del numero uno dello Ior di fronte al blitz natalizio che ha cambiato la legge antiriciclaggio, considerata uno dei punti fermi per spezzare la continuità col passato della banca; e infine dalle sue esplicite riserve ad avallare il ridimensionamento dell'Aif: l'Autorità di informazione finanziaria presieduta dal cardinale Attilio Nicora.
Insomma, non è stata una decisione inattesa né improvvisa. Ha l'aria di un siluramento al rallentatore, ovattato e perfido come avviene in questa stagione nelle stanze vaticane. L'epilogo arriva dopo ripetute offerte di dimissioni respinte e un lungo, graduale processo di isolamento passato attraverso lusinghe, poi avvertimenti, e alla fine vere intimidazioni. E conclusosi con una decapitazione che prende atto dell'incomunicabilità e dell'incompatibilità che regnava da mesi fra il «primo ministro» del papa e quello che ormai era il suo banchiere di riferimento solo formalmente. Il conflitto fra Gotti Tedeschi, chiamato da Benedetto XVI e dallo stesso Bertone per restituire credibilità anche internazionale allo Ior, si consuma sotto gli occhi di un'opinione pubblica già disorientata dalle faide che affiorano dalle cronache della Curia; e, almeno finora, nel silenzio dell'«appartamento» papale.
Ma qui si indovina qualcosa di più inquietante, che riguarda l'identità e il futuro della banca del Vaticano, candidata a entrare nella «white list», la «lista bianca» degli istituti di credito ritenuti virtuosi dalla comunità finanziaria internazionale. La sfiducia a Gotti Tedeschi sembrerebbe il primo passo per circoscrivere i compiti dell'Aif, creata da Benedetto XVI nel dicembre del 2010 in primo luogo per prevenire e contrastare «il riciclaggio dei proventi di attività criminose». Parallelo a quello di Gotti Tedeschi, in questi ultimi tempi si sarebbe infatti accentuato il ridimensionamento del cardinale Nicora, ritenuto non abbastanza docile alle indicazioni della Segreteria di Stato; e, riferiscono in Vaticano, obbligato ad aspettare anche giorni e giorni prima di essere ricevuto da Bertone.
Nelle ultime settimane, la situazione si era appesantita attraverso segnali inequivocabili. Riunioni convocate in segreto, tagliando fuori dalle informazioni più «sensibili» Gotti Tedeschi. Voci velenose quanto inverosimili per additare il cattolicissimo banchiere come «il corvo» che faceva filtrare sui giornali le lettere più riservate al papa: una tesi risibile ma utile a fargli arrivare il messaggio che ormai era considerato un nemico indesiderato. L'accusa non detta: essere troppo amico della Banca d'Italia e della Bce di Mario Draghi, e non abbastanza duttile. A questo contorno si sono aggiunti, nel marzo scorso, articoli «ispirati» che accusavano il banchiere di essere all'origine delle classifiche del Dipartimento di Stato Usa, secondo le quali il Vaticano è poco affidabile quanto a trasparenza finanziaria.
In quelle analisi si sosteneva che il vecchio testo della legge antiriciclaggio, quello cambiato da Gotti Tedeschi, era migliore dell'attuale; e che il banchiere si era mosso solo per lucidare la sua immagine di moralizzatore, a discapito del Vaticano: anche se non si spiega perché allora, fra Natale e Capodanno, qualcuno ci abbia rimesso le mani all'insaputa del presidente dello Ior e, pare, dello stesso Nicora. Insomma, le tracce dell'accerchiamento c'erano tutte. E di recente si sono aggiunte brusche convocazioni, rigorosamente in inglese, da parte dell'avvocato Jeffrey Lena: il californiano di Berkeley che rappresenta il Vaticano nelle cause contro i preti pedofili negli Usa; e che da tempo ha assunto un ruolo-chiave nelle vicende finanziarie della Santa Sede come difensore dell'ortodossia bertoniana nei confronti dello Ior e dell'Aif.
Tocco surreale, qualche giorno fa gli ambasciatori presso la Santa Sede sono stati invitati a visitare la banca vaticana. A spiegarne il funzionamento e il ruolo è stato il direttore generale, Paolo Cipriani, bertoniano di stretta osservanza. Alcune agenzie hanno riferito che «fra gli altri» era presente anche Gotti Tedeschi, in realtà assente. Assenza strana, anche se è più singolare che qualcuno abbia voluto fingere che ci fosse. Il banchiere è stato sfiduciato «all'unanimità», precisa un comunicato della Santa Sede, «per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza». Eppure, si sa che Benedetto XVI ha sempre apprezzato il rigore morale e la competenza di Gotti Tedeschi: compreso il suo «pallino», non da tutti condiviso, sulla crescita demografica come uno degli strumenti per risolvere la crisi dell'Occidente.
Per il Vaticano si tratterà ora di fronteggiare un incidente con un'eco internazionale insidiosa. Forse, una delle poche consolazioni del pontefice è che dall'allevamento dell'architetto Paolo Portoghesi a Calcata, a nord di Roma, stanno arrivando asinelli e caprette maltesi per ripopolare i giardini vaticani. E sono spuntate delle cucce per gli amati gatti, riapparsi dopo un periodo in cui, a dare ascolto a certe leggende del sottosuolo papalino, venivano abbattuti da un chiacchierato monsignore amante della caccia.
Corriere 25.5.12
Bagnasco ha seguito la fase istruttoria
«Todi 2». Il manifesto dei cattolici per la «buona politica»
FROMA — (r. zuc.) Il titolo è «La buona politica per tornare a crescere». Ed è un manifesto di 10 cartelle che spaziano dall'economia ai valori, dall'Europa alla centralità della famiglia. Verrà presentato a Roma lunedì prossimo. Ma è già stato ribattezzato «Todi 2» dal convegno dei cattolici che nell'ottobre scorso contribuì a dare uno scossone al governo Berlusconi e porre la premessa del governo Monti. Allora, se non fu una rivoluzione, fu almeno una novità di rilievo. Non segnò la rinascita di un partito cristiano però diede voce al desiderio di mobilitazione culturale e politica dei cattolici riunendo per la prima volta le organizzazioni del lavoro insieme ai principali movimenti e associazioni.
La «fase due» è molto diversa. Perché nel frattempo è cambiato lo scenario. È nato il governo Monti e alcuni tra i protagonisti di quell'incontro (Passera, Riccardi e Ornaghi) sono diventati ministri, la Cisl si è riavvicinata, almeno per un tratto di strada, a Cgil e Uil, e anche la Chiesa ha mutato atteggiamento, senza contare la lezione data ai partiti dalle amministrative. Ma il desiderio di continuare quel discorso, seppure in forme diverse, e trasformarlo in Manifesto è stato ereditato in prevalenza da sette sigle, quelle del mondo del lavoro (Acli, Coldiretti, Compagnia delle Opere, Confartigianato, Confcooperative, Cisl e Mcl), coordinate dal portavoce del Forum di Todi, Natale Forlani. Pagine che fanno pensare a un lavoro di formazione culturale per rendere più incisivo il contributo dei cattolici nelle istituzioni, magari anche nei partiti, anche in vista delle prossime elezioni, ma senza lanciare una nuova aggregazione politica. Lunedì verranno presentati anche gli atti di «Todi 1» e 29 contributi elaborati da esperti, intellettuali e professori di area cattolica. Si tratta comunque solo di una prima tappa. Al Manifesto seguirà il tentativo di una sua articolazione sul territorio e, in autunno, un convegno nazionale, nella stessa cittadina umbra, per lanciare in modo più organico «Todi 2».
Corriere 25.5.12
Il documento. I passaggi principali del progetto del Forum cattolico
«Da noi programmi di governo e qualità delle classi dirigenti»
«È necessario organizzarci per proporre e dialogare con le istituzioni»
«Noi pensiamo la politica come spazio privilegiato per la costruzione del bene comune, ovvero del bene di tutti e di ciascuno, e quindi come forma di carità.
Noi sosteniamo la buona politica che promuove la libertà e la giustizia, sa rispettare i valori e interpretare i bisogni del popolo, sa tenere nel giusto equilibrio le dimensioni dei diritti e dei doveri, sa trovare la strada della crescita nell'equità senza lasciare indietro i poveri, sa promuovere la vita e valorizzare la ricchezza come motore dello sviluppo, sa riconoscere il merito e mettere a frutto i talenti.
Noi difendiamo la democrazia come valore costituente del nostro patto sociale e contrastiamo quelle spinte autoritarie che, mai sopite, possono sempre riaffiorare in Italia come in Europa...
Di fronte ad un mondo che cambia tanto rapidamente, noi avvertiamo l'urgenza di un nuovo impegno e la necessità di preoccuparci e occuparci dei problemi della nostra comunità...
Sentiamo che la nostra responsabilità ci spinge a partecipare alla costruzione di un ambiente favorevole alla libera espressione delle persone, alla ricerca di una più alta e sapiente mediazione sociale tra opzioni e interessi diversi nella direzione del bene comune...
Noi vogliamo restituire ai cittadini, alle comunità, ai territori, pur in un contesto di grande difficoltà sociale ed economica, l'orgoglio di essere italiani, portatori di cultura, professionalità e creatività uniche e apprezzate in tutto il mondo.
Noi crediamo nella capacità dell'Italia di avviare una nuova stagione di crescita, nel quadro della globalizzazione contemporanea, così da riaprire il futuro dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei nostri territori...
Noi guardiamo con speranza all'Europa dei popoli come alla nostra Patria comune perché sappiamo che da essa dipende il futuro dei nostri figli. Il nostro paradigma di riferimento è fondato sugli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa...».
Dai valori al bene comune
«...Nessuna autorità politica può immaginare di costruire un orizzonte di sviluppo per il proprio popolo senza interrogarsi a fondo sui suoi valori fondanti e condivisi. Nell'amore e nel rispetto per la vita in ogni sua fase; nella predilezione della famiglia naturale come luogo per la piena realizzazione della persona umana; nel lavoro come mezzo per affermare la libertà e la dignità delle persone; nel legame con il territorio e la sua storia; nella capacità di tenere insieme universale e particolare sta il genius loci del nostro popolo...».
Stato, economia e società civile
«...Le istituzioni di cui abbiamo bisogno devono saper manifestare tutta la propria autorevolezza senza divenire invasive. Alla luce del principio di sussidiarietà, il loro compito è quello di favorire la libera iniziativa economica e sociale delle persone, della famiglia, delle imprese e delle associazioni... Ciò concretamente significa:
- Rimodellare profondamente il sistema fiscale, con gradualità e determinazione, allo scopo di agevolare gli investimenti, il lavoro e la famiglia.
- Promuovere una forte cooperazione tra istituzioni pubbliche, sistema finanziario e rappresentanze sociali per rendere attrattivo il nostro territorio...
- Sostenere l'impresa come risorsa fondamentale per la comunità che è chiamata ad offrire le condizioni materiali e immateriali per promuoverne lo sviluppo competitivo...
- Rimuovere gli ostacoli che impediscono un ingresso adeguato dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro. È necessario assumere la crescita del tasso di occupazione come obiettivo fondamentale della politica economica e come fonte primaria di inclusione sociale.
- Rilanciare l'impegno per il Mezzogiorno, con profonde innovazioni nelle politiche...
- Mettere al centro la famiglia, come motore valoriale, relazionale ed economico della società, perno del sistema educativo, della cura dei figli e delle persone non autosufficienti...
- Costruire un Welfare moderno e sussidiario, capace di usare in modo efficiente le risorse...»
Le riforme del sistema Italia
«Gli Stati nazionali sono stati fortemente indeboliti dalla globalizzazione economica degli ultimi decenni...
...In questo contesto, occorre altresì completare a livello nazionale la trasformazione istituzionale che in questi anni è stata iniziata e mai completata, puntando in modo particolare su:
- Ridisegnare l'intero sistema dei rapporti istituzionali che vanno dal Comune fino al governo nazionale, sciogliendo contraddizioni e carenze nel quadro di una visione autonomistica, nazionale ed europea.
- Attuare il Federalismo fiscale...
- Promuovere una radicale semplificazione dei processi amministrativi.
- Adottare un nuovo assetto istituzionale fondato sul superamento del bicameralismo perfetto, sulla riforma del governo e su una nuova legge elettorale...
- Attivare quanto disposto dalla Costituzione sul riconoscimento dei partiti come pilastro fondamentale della vita democratica...
- Ripristinare il voto di preferenza degli elettori al fine di favorire la selezione democratica dei candidati...».
Per una politica buona e moderata
Noi chiediamo e sosteniamo una politica capace di rafforzare valori popolari condivisi e di mobilitare grandi energie comunitarie... Una politica saggia, buona e moderata capace di:
- Esprimere una visione sobria dell'esercizio del potere...
- Sostenere, sulla base del principio di solidarietà, la cooperazione tra persone, famiglie, imprese, organizzazioni sociali, istituzioni pubbliche nel perseguimento del bene comune...
- Contrastare, in ogni ambito, il radicalismo culturale e ideologico...»
Da cattolici per la politica
«Siamo consapevoli che è urgente rinnovare i contenuti e la qualità del nostro impegno al servizio del bene comune alla ricerca di una via originale per l'uscita dalla crisi economica, che valorizzi e riconosca la straordinaria qualità delle reti familiari, sociali ed economiche, che caratterizzano la vita delle nostre comunità locali...
Nell'ottica della responsabilità, vogliamo dunque occuparci di politica, contribuendo alla ricostruzione del senso dello Stato e al rafforzamento della qualità morale della vita pubblica, nel pieno rispetto della laicità delle istituzioni, ma anche nella serena consapevolezza che l'ispirazione religiosa, lungi dall'essere delimitata alla sfera privata, possa e debba arricchire la qualità della vita politica e delle istituzioni e rendere lo spazio pubblico di tutti e di ciascuno.
Siamo convinti che questo percorso, soprattutto in Italia e in Europa, possa essere favorito dalla vitalità delle comuni radici cristiane che hanno contribuito, in modo determinante, a edificare le esperienze storiche delle economie sociali di mercato.
Il nostro contribuito al rinnovamento della politica si articolerà piuttosto in modo innovativo, attraverso due canali principali: per un verso, la partecipazione alla formazione dei programmi e delle linee di azione di governo; per l'altro verso, il miglioramento della qualità delle classi dirigenti, a partire da un lavoro di condivisione e coesione all'interno del variegato mondo cattolico, su valori, contenuti e modalità di presenza. Sempre nel rispetto della specificità dei ruoli, delle differenti missioni associative e delle opzioni elettorali.
Nel dialogo aperto con le altre principali culture ed esperienze sociali e politiche presenti nel Paese, il nostro sforzo sarà teso a confrontare le posizioni e a costruire convergenze e unità di intenti in vista del bene comune dell'Italia.
Al fine di conseguire questi ambiziosi ma possibili obiettivi è necessario dotarci di modalità organizzative: per formare le persone, in particolare le nuove generazioni, all'attività politica; per produrre analisi e proposte condivise; per operare scelte vincolanti in base a pratiche di democrazia deliberativa; per interloquire con le rappresentanze che intendono condividerle; per sostenere il dialogo strutturato con le varie istituzioni».
Corriere 25.5.12
Tra i resti di Sant'Apollinare dente e ossa di 30/40 anni fa
ROMA — Una decina di ossa e una mandibola, con un dente attaccato, databili secondo una prima ricognizione tra i 30 e i 40 anni fa. E che, quindi, non si può escludere siano appartenuti a Emanuela Orlandi, la figlia del messo papale scomparsa nel giugno 1983, o a Mirella Gregori, l'altra ragazza sparita a Roma un mese prima. Sono i reperti-chiave, sottoposti in questi giorni agli esami del Dna, per risolvere i misteri di Sant'Apollinare, dove il 14 maggio è stata aperta la tomba del boss De Pedis. L'ex rettore, Piero Vergari, è indagato per concorso in sequestro di persona. Ieri alla Camera è intervenuto sulla vicenda, a inizio seduta, il deputato pd Marco Beltrandi: «Sarebbe di una gravità senza precedenti che in una basilica ci possano essere resti di persone, non si sa chi, morte da pochi anni». In serata il sindaco, Gianni Alemanno, ha ricevuto Pietro Orlandi, il fratello, che per domenica prossima ha organizzato una «marcia per la verità» dal Campidoglio a piazza San Pietro, all'ora dell'Angelus. Alemanno ha espresso solidarietà alla famiglia e annunciato che alle 9.30 srotolerà una gigantografia di Emanuela (foto) in piazza del Campidoglio. Saranno presenti anche l'ex sindaco Veltroni, il presidente della Provincia Zingaretti, i volontari di «Libera», comitati civici e semplici cittadini da ogni parte d'Italia.
F.Pe.
Repubblica 25.5.12
L’arcivescovo dal pulpito omette la parola mafia, subito polemica
CORLEONE - La famiglia glielo aveva chiesto e il cerimoniale del Quirinale prevedeva che concelebrasse messa, ma alle esequie di Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso dalla mafia nel ‘48 e le cui spoglie sono state ritrovate e identificate solo ora, don Luigi Ciotti è rimasto in disparte. L´arcivescovo di Monreale, Salvatore Di Cristina, non lo ha neanche chiamato al suo fianco e quando, nell´omelia, per ben due volte ha sbagliato il nome di Rizzotto chiamandolo «Rizzuto», dai banchi della chiesa si è levato un brusìo seguito dall´imbarazzo per quella parola «mafia» mai pronunciata dall´alto prelato, come hanno poi sottolineato Walter Veltroni e Riccardo Nencini. L´omelia che si era preparato don Ciotti l´ha pronunciata un´ora dopo, davanti al cimitero di Corleone: «Pronunciamola la parola "mafia". Un cristiano deve avere la forza della denuncia». (a. z.)
il Fatto 25.5.12
La Corte dei miracoli
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, la Corte costituzionale sarà buona e cara, ma quando si tratta della volontà vaticana è come tutta la cosiddetta classe dirigente del nostro Paese, politica, imprenditoriale, laica, religiosa e mediatica: finisce sempre con un “obbedisco”. La sentenza sulla fecondazione assistita è desolante.
Fabrizia
IL MIO COMPITO di responsabile della rubrica “A domanda rispondo” dovrebbe portarmi al civile invito a non fare di tutta un’erba un fascio, a non cadere nella solita trappola di glorificare una istituzione quando ci dà ragione o si avvicina al nostro convincimento e a commentare con asprezza quando l'istituzione si muove in senso opposto. Se vogliamo dare forza a ciò che approviamo, dobbiamo accettare anche ciò che ci sembra sbagliato per non togliere legittimità all’Istituzione che decide. Ho detto le cose che si dicono sempre ma non le condivido. Perché se vedi un errore e ti sembra un errore, e pensi di poter dimostrare che è un errore, hai il dovere di dirlo e pazienza se sembri maleducato. Dunque si dà il caso che alcuni giudici si siano rivolti alla Corte costituzionale per sapere se nella legge 40 sulla fecondazione assistita (quella di Eugenia Roccella, per intenderci, che pone limiti assurdi, violazioni di diritti, umiliazioni sgradevoli o pericolose a chi tenta, lungo il percorso medico praticato da tutto il mondo civile, di diventare madre) sia o no conforme alla Costituzione italiana. La sentenza della Corte costituzionale, questa volta e su questo caso, ricorda a milioni di ex scolari italiani la cauta figura di don Abbondio, che tutto avrebbe fatto meno che dare torto al potere. La situazione è resa più imbarazzante dal fatto che il potente con il quale il confronto di opinioni è stato cautamente evitato, è la Chiesa nella doppia incarnazione di potere spirituale e di Stato. Con nessuno dei quali – si impara presto in Italia – è bene scherzare. Che cosa ha fatto allora il don Abbondio della Corte? Ha suggerito, con una certa mestizia, di “andare all’estero”. Non lo ha detto alle aspiranti madri, sarebbe stato male interpretato. Lo ha suggerito ai loro avvocati. La Corte costituzionale italiana ha detto, quasi con un sussurro: rivolgetevi alla Corte di Strasburgo. Ha fatto capire che forse loro avranno la forza di rendere possibile anche in Italia ciò che è buona medicina dovunque, salvo che nelle province vaticane. Qui forse il dissenso ritorna consenso, per la Corte costituzionale italiana che spesso abbiamo plaudito e ammirato. Speriamo che abbia ragione e che Strasburgo restituisca all’Italia i diritti scippati alle donne italiane dalla Sharia della on. Eugenia Roccella.
Fecondazione eterologa e obiettori di “incoscienza”
E così nel nostro Paese, tra i pochissimi rimasti al Medioevo in Europa, la fecondazione cosiddetta eterologa rimane vietata, con grande esultanza dei buoni parabolani tutori della “vita”. Sono ben strani questi cattolici. Da un lato sono pronti a lapidare le donne che decidono di interrompere una gravidanza. Dall’altro fanno di tutto affinché quelle che vogliono un figlio non riescano ad averlo. Mentre gli obiettori di “incoscienza”, sparsi capillarmente su tutto il territorio, vigilano affinché gameti ed embrioni siano scortati fino al debutto in società, altre guardie svizzere controllano che nessuno possa imitare quegli antichi Maria e Giuseppe che, prima che la loro capannina di Betlemme fosse invasa da pastori e re Magi, aspettavano un sacrosanto figlio senza mai aver copulato insieme… Quella sì che fu una fecondazione eterologa, nel vero senso delle parole (unione tra specie diverse)! Altri tempi, altri costumi. Tornando al nostro presente, in fondo all’abisso teocratico brilla però un barlume: a furia di tornare indietro, potremmo finalmente arrivare all’epoca “avanti Cristo”. Speriamo.
Paolo Izzo
Repubblica 25.5.12
Pedofilia e divorzio, i passi indietro della Chiesa
risponde Corrado Augias
Gentile dottor Augias, con argomentazioni degne della "miglior" tradizione gesuitica, la Cei stabilisce che il vescovo non ha l'obbligo di denunciare gli abusi sessuali. Può bontà sua "incoraggiare le vittime a rivolgersi alla magistratura". Contemporaneamente, con argomentazioni altrettanto arzigogolate, il Cardinal Bagnasco, presidente della Cei, ha posto il veto al cosiddetto divorzio breve, in quanto, a suo dire, indebolisce la famiglia. Secondo il capo della Cei è quindi meglio trascinare per anni situazioni personali e familiari rese ancor più complesse dall'impossibilità di rifarsi rapidamente una vita. Impossibile non pensare al Vangelo di Matteo (7-22,23): «Molti mi diranno in quel giorno: "Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demoni e fatto in nome tuo molte opere potenti?" Allora dichiarerò loro: "Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, operatori di iniquità"».
Valerio Bruzzone
Le ultime uscite delle gerarchie cattoliche danno l'impressione di un certo sbandamento già avvertito, drammaticamente, quando scoppiò lo scandalo della pedofilia. I vescovi, è scritto nelle "linee guida" annunciate da Mariano Crociata, segretario della Cei, non sono tenuti a denunciare alle autorità civili un prete pedofilo. Possono raccomandare alle vittime di farlo, questo sì, ma non è bene che vadano più in là. Nel documento si richiama infatti l'articolo 200 del codice di procedura penale sul segreto professionale, si ricorda che un vescovo non è un pubblico ufficiale, che i vescovi sono esonerati dall'obbligo di deporre e di esibire documenti, che il loro "archivio segreto" è inviolabile, si richiama questo o quell'articolo del Concordato, insomma un inappuntabile e gelido breviario giuridico nel quale non compare mai quella qualità cristiana che dovrebbe primeggiare e cioè la carità. Del resto il capo di monsignor Crociata, vale a dire lo stresso presidente della Cei cardinale Bagnasco, solo pochi giorni fa aveva dettato un deciso no al divorzio breve che non mancherà, data la fragilità di molti parlamentari, di avere conseguenze legislative. Per giustificare il divieto si è tirata in ballo la sofferenza dei figli; gli psicologi invece in larga maggioranza ritengono che sia proprio il tempo d'attesa della separazione a causare i maggiori traumi per cui prima la situazione si risolve meglio è. Non basta. Il Vaticano ha tirato in ballo lo status di "capo di Stato estero" del Papa per reclamare per via diplomatica contro il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi "Sua Santità" (Chiarelettere ed.). Monsignor Bagnasco ha esortato di recente la politica italiana a rinnovarsi. Se rivolgesse analoga esortazione alla sua Chiesa forse non sarebbe male.
il Fatto 25.5.12
Lusi paga tutti. Ecco i versamenti dell’ex tesoriere
Franceschini, Letta e Fioroni rimborsati fino a febbraio 2012
di Valeria Pacelli
Rutelli, Bianco, Letta, Fioroni, Franceschini, Gentiloni, Marini: dai conti della Margherita gestiti dall’ex tesoriere Luigi Lusi hanno attinto praticamente tutti i vertici del partito nel periodo compreso tra il gennaio 2009 e il febbraio 2012. Quello che fino a ieri era solo la parola di un “ladro” e “corruttore”, come è stato definito dai suoi ex colleghi di partito, ora ha preso forma in documenti ufficiali consegnati ai pm di Roma, Alberto Caperna e Stefano Pesci.
I resoconti dettagliati sono finiti sui tavoli degli inquirenti solo due giorni fa, quando è stata sentita Francesca Fiore, che si è definita la “segretaria particolare” dell’ex senatore. La donna ha consegnato ai magistrati una chiavetta usb con i file excel dei bonifici disposti da Lusi. Dei soldi che sono usciti dal 2009 al febbraio del 2012 ha segnato tutto: chi ne era il beneficiario, ma anche chi andava a ritirarli e, ovviamente, casuale e relativi importi. E da una prima lettura, la documentazione (di cui i pm dovranno ora verificare la veridicità attraverso le ricostruzioni dei movimenti bancari) conferma quello che Lusi ha dichiarato anche in giunta per le autorizzazioni del Senato. Ha tirato in ballo Enrico Letta, Giuseppe Fioroni, Paolo Gentiloni, Rosy Bindi, Dario Franceschini affermando di aver pagato fatture a questi esponenti del partito.
Molte voci, bisogna dirlo, sono relative al 2009 e quindi sono configurabili come rimborsi per spese elettorali o relative a “prestazioni di stampa o connesse a scadenze elettorali”, come ha affermato a verbale Francesca Fiore. Ma i conti registrati dalla segretaria di Lusi arrivano fino a febbraio del 2012, quando l’allora tesoriere lascia l’incarico e la gestione dei conti. Così i dati relativi all’ultimo anno sono riferibili esclusivamente al primo mese.
FIORONI nel 2010 percepisce circa 180 mila euro tra “rimborsi vari” e “noleggio automezzo”. Un valore nettamente superiore rispetto a quello registrato nel 2012, dove per “spese telefoniche” vengono percepiti 204 euro. Dario Franceschini invece nel 2010 ha ricevuto 162.230 euro e nel 2012 solo 583 euro. A Paolo Gentiloni vanno 72.283 euro per il 2010, 38 mila nel 2011 e 3.154 nel 2012. C’è poi Enrico Letta, con i suoi 132 mi-la euro percepiti nel 2010 e 1.680 nel 2012. Il file con le voci relative a Francesco Rutelli, è danneggiato e visibile solo in parte. Si legge il dato del 2010: il totale è di 900 mila euro.
I documenti saranno letti con attenzione dai magistrati. Si dovrà comprendere anche perché Lusi disponesse questi pagamenti fino a febbraio del 2012, ciò quando la Margherita non esisteva più. Dopo aver tirato in ballo tutti, sempre in giunta, Lusi aveva affermato di aver pagato “per le loro attività politiche, non direttamente ma attraverso loro intermediari”. Aggiungendo di aver escluso finanziamenti a Pierluigi Castagnetti e Franco Marini, che avevano costituito l'Associazione dei Popolari. Anche se pure Marini figura nei file excel. Nel 2009 riceve 55 mila euro, mentre nell’anno successivo il valore è uguale a zero.
LA SEGRETARIA di Lusi dice anche altro. Ai pm afferma che “negli ultimi due anni (Lusi, ndr) mi iniziò a passare alcune fatture che dovevano essere “riviste” da lui. Ad esempio verificava se l'Iva veniva indicata al 20% o al 4% (che è l'aliquota per l'attività politica) o se era precisa l'indicazione. Era lo stesso Lusi a dare le indicazioni per le fatture che non andavano direttamente alla contabilità”. Poi conferma l’esistenza dell’accordo tra rutelliani e popolari. E ricostruisce: “Tutto nasce con le europee 2009, quando Lusi mi parlò della necessità di trattare alcune spese distinguendole dal resto in quanto rimborsi della politica. Verso il 2010 o il 2011 Lusi mi disse che occorreva essere precisi anche nelle imputazioni delle fatture ai vari soggetti autorizzati a spendere, perché c'era un accordo per suddividere le spese in termini di 60/40. Non ricordo chi aveva il 60 e chi il 40 per cento”. E ancora: “Bianco, Bindi, Bocci, Fioroni, Franceschini, Letta e Marini erano popolari. E Gentiloni, Renzi e Rutelli, invece rutelliani. Conoscevo alcune persone che venivano per conto dei singoli politici”. Infatti a ritirare quei rimborsi non erano direttamente i politici nominati, ma loro persone di riferimento. “Per Bindi veniva o la segretaria o un certo Paolo; per Bocci veniva il suo assistente Paolo Martellini e a volte forse lo stesso Bocci; per Marini c'è ben poco; per Fioroni me le dava di solito lo stesso Lusi o Iannuzzi che mi portava le fatture in busta chiusa; Franceschini non è mai venuto e veniva Giacomelli; per Letta non è mai venuto, credo se ne occupasse Lusi. Quanto a Rutelli le fatture me le dava Lusi; si trattava più che altro di rutelliani, come Mi-lana e anche Renzi, per il quale veniva un certo Gavini, suo mandatario elettorale”. Tutti pagamenti disposti tramite bonifici. Ma giravano anche soldi in contante che, spiega Fiore, “veniva usato solo per i regali in occasione delle festività o per qualche compleanno o simili. Si trattava solo di regali che faceva lui (Lusi, ndr). Gli importi erano alti, un po’ meno di 10 mila al mese. Per Natale assai di più, solo di enoteca saranno stati 30 mila euro. I destinatari erano politici, specialmente abruzzesi o a lui legati, come Fioroni e Rutelli. Fuori dalla politica potevano essere i parenti e gli amici”. Una testimonianza che potrebbe rivelarsi importante al fine dell’inchiesta. Ma, secondo la Margherita, quando dichiarato da Fiore “conferma ciò che abbiamo sempre detto: la piena separazione tra le spese politiche, assolutamente ordinarie e legittime, e le malversazioni del tesoriere”. I vertici dei Dl hanno così commentato con una nota le rivelazioni sottolineando che “gli accertamenti sulla cassa hanno confermato neppure i più stretti collaboratori del tesoriere erano a conoscenza del reale ammontare dei suoi prelievi”.
Intanto ieri il tribunale ha confermato la necessità della custodia cautelare in carcere per l'ex tesoriere.
Corriere 25.5.12
«Ecco chi veniva pagato da Lusi». La segretaria porta le fatture ai pm
Confermato l'arresto dell'ex tesoriere della Margherita
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — Sono registrate in una chiavetta Usb le fatture pagate da Luigi Lusi ai politici della Margherita. È stata Francesca Fiore, la segretaria del senatore indagato per associazione a delinquere, appropriazione indebita e illecito reimpiego, a consegnarla due giorni fa ai magistrati romani. Convocata dopo che davanti al Parlamento l'ex tesoriere aveva affermato di aver dato soldi a numerosi leader, la donna ha confermato i versamenti a numerosi esponenti del partito svelando anche dettagli su alcuni documenti finanziari riconducibili a Francesco Rutelli che non sarebbero stati registrati nella contabilità ufficiale. «Per Lusi passavano le fatture per l'attività politica», ha dichiarato la testimone, poi ha indicato anche altre spese che sarebbero state effettuate negli ultimi anni. Il suo verbale è stato depositato — insieme a quello delle altre segretarie della Margherita e dei due commercialisti indagati con Lusi — al Tribunale del Riesame che proprio ieri ha confermato l'ordine di arresto per il senatore confermando l'impianto accusatorio e fornendo ulteriori elementi alla Giunta di Palazzo Madama, mentre ha ordinato la scarcerazione dei due commercialisti che erano ai domiciliari. Il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il sostituto Stefano Pesci hanno così avviato verifiche sulle «uscite». Anche perché è stata la stessa segretaria ad evidenziare come «negli ultimi due anni Lusi mi iniziò a passare alcune fatture che dovevano essere "riviste" da lui».
Soldi a politici e assistenti
Racconta Fiore: «Tutto nasce con le europee 2009, quando Lusi mi parlò della necessità di trattare alcune spese distinguendole dal resto in quanto rimborsi della politica. Cominciai a raccogliere queste fatture segnando anche le persone che le portavano. Io ho tenuto una copia delle fatture e poi le avevo inserite in un file Excel. Una volta pronte tornavano a Lusi che me le ridava perché le passassi all'amministrazione. L'imputazione a questo o quel parlamentare la facevo sulla base di chi portava le fatture e di quel che mi diceva Lusi. Verso il 2010/2011 Lusi mi disse che occorreva essere precisi anche nelle imputazioni delle fatture ai vari soggetti autorizzati a spendere perché c'era un accordo per suddividere le spese in termini di 60/40. Non ricordo chi aveva il 60 e chi il 40». I magistrati chiedono chiarimenti, lei specifica meglio e fa i nomi dei destinatari.
«Bianco, Bindi, Bocci, Fioroni, Franceschini, Letta e Marini erano "popolari" e Gentiloni, Renzi e Rutelli invece "rutelliani". Conoscevo alcune persone che venivano per conto dei singoli politici. Per Bindi veniva o la segretaria o un certo Paolo. Per Bocci veniva il suo assistente Paolo Martellini e a volte, forse, lo stesso Bocci; per Marini c'è ben poco; per Fioroni me le dava di solito lo stesso Lusi o Giovanni Iannuzzi che mi portava le fatture in busta chiusa; Franceschini non è mai venuto e veniva Giacomelli; per Letta non è mai venuto né lui né la sua segretaria, credo se ne occupasse lo stesso Lusi. Quanto a Rutelli le fatture me le dava Lusi; si trattava più che altro di rutelliani come Milana e anche Renzi, per il quale veniva un certo Gavini (si tratta di Bruno Cavini, ndr), suo mandatario elettorale».
Fatture tolte e regali
La segretaria parla di un incontro avvenuto con il leader del partito dopo l'avvio dell'inchiesta sulle ruberie del tesoriere. «Dopo che era scoppiata la cosa, forse nel febbraio 2012, mi chiamò da lui Rutelli e mi chiese "Francesca, ma come è possibile che tu non ti sia accorta di niente?" riferendosi a quello che usciva sui giornali. Io gli dissi che non mi ero accorta di nulla e dissi anche di quello schema che io avevo preparato e che ora ho consegnato a voi. Lui mi parve stupito, tuttavia ricordo che in un'occasione, nel 2011, Lusi mi chiese di fare una stampata del tabulato perché doveva incontrarsi con Rutelli. Non so però se glielo abbia mostrato. Anzi. A ben pensare credo lo abbia mostrato, perché dopo l'incontro con Rutelli mi fece togliere alcune fatture imputate a quest'ultimo. Mi pare che fossero fatture di Cristina de Luca e di Mario Di Carlo, i cui costi dovevano essere ripartiti tra Rutelli e Gentiloni. Mi pare che poi me li fece ricambiare un'altra volta».
L'accusa sollecita spiegazioni sulle modalità di pagamento visto che Fiore specifica come «le prestazioni erano generalmente di tipografia in gran parte connesse a scadenze elettorali perché se non erano legate all'attività politica Lusi non concedeva il pagamento».
Pm: e il contante?
Fiore: Solo per i regali in occasione delle festività o per qualche compleanno. Si trattava di regali che faceva lui (Lusi ndr). Forse molti anni fa furono fatti regali per conto di Rutelli e non so come fossero pagati e da chi. Quello che so è che il contante che prelevava era destinato a regali che faceva Lusi. Gli importi erano alti.
Pm: Diecimila al mese?
Fiore: Forse un po' meno. Per Natale assai di più, solo di enoteca saranno stati 30 mila euro.
Pm: I destinatari chi erano?
Fiore: Politici, specialmente abruzzesi o a lui legati, come Fioroni e Rutelli.
I rendiconti modificati
Quando i pubblici ministeri chiedono alla segretaria se sia a conoscenza di «operazioni di modifica dei rendiconti» lei conferma e spiega: «A volte le ragazze si sfogavano perché veniva richiesto di effettuare modifiche "impossibili" e che loro non sapevano come fare. Sfoghi simili li aveva anche Sebastio», uno dei due commercialisti finiti sotto inchiesta insieme a Lusi. La donna racconta poi che quando si seppe dell'inchiesta «fu Lusi a dirmi che era scoppiato un problema a seguito di "accordi saltati". Mi disse che la vicenda riguardava case che lui aveva comprato su accordi con altri che ora "si facevano indietro". Disse che sarebbe cominciata la guerra e che lui si sarebbe dimesso».
Sulla gestione della contabilità si concentra l'interrogatorio del commercialista Giovanni Sebastio di fronte al giudice Simonetta D'Alessandro. E lui cerca di coinvolgere i vertici del partito: «Nella sua relazione il tesoriere riportava il dettaglio delle macrovoci: attività politica, consulenze, spese generali. Quindi informava anche chi non era un tecnico per potergli permettere di fare le sue valutazioni e quindi gli associati della Margherita potevano sapere se un partito che alla fine del 2007 è finito, è confluito dentro il Pd, nel 2008 come mai sono stati spesi più soldi dell'anno precedente. Queste cose non c'è bisogno di essere un tecnico per poterle leggere e infatti all'ultimo bilancio, nell'assemblea, Parisi alza la mano e dice: "Come sono stati spesi questi 4 milioni di attività politiche?". Sospendono l'assemblea, si riuniscono a porte chiuse alla fine della giornata e approvano il bilancio». I magistrati ritengono che sia lui sia l'altro commercialista Mario Montecchia avallassero tutte le «uscite» perché inseriti nell'associazione a delinquere creata da Lusi. E quando il giudice gli chiede perché avessero avallato i versamenti alla società «TTT srl» di proprietà del tesoriere, Sebastio afferma: «Se al tesoriere che ha la fiducia di Rutelli e di tutto il partito gli vengono dati tutti quei poteri, i bilanci vengono approvati senza alcuna remora da parte degli stessi politici, perché se loro non hanno dubbi li devo avere io che sono un consulente?».
Corriere 25.5.12
Quei 60 milioni dello Stato alle radio «politiche»
Basta la firma di qualche parlamentare per accedere a finanziamenti prorogati «in via transitoria» da cinque anni
di Paolo Soglia
Tra i fortunati vincitori della lotteria (sempre gli stessi) c'è Radio Radicale, voce della lista di «Marco Pannella». Oltre alle decine di milioni erogati per un servizio di diretta parlamentare che fa pure la Rai, riceverà anche quest'anno più di 4 milioni di euro
Ucciderne mille per mantenerne sei: il governo ha tagliato i rimborsi previsti per le radio locali ma continua a regalare milioni alle cosiddette radio «di partito». Contributi diretti, che arrivano al 70% delle spese messe a bilancio. Molto si è parlato delle ruberie perpetrate dai finti giornali di partito: per accedere ai contributi bastavano uno o due parlamentari compiacenti che dichiarassero (solo sulla carta) di rappresentare un movimento fittizio poi, come per incanto, compariva un giornale che ne diventava «organo» intascando i rimborsi. La legge sull'editoria, però, prevede che i contributi possano essere «corrisposti alternativamente per un quotidiano, un periodico o un'impresa radiofonica...».
Quando per i giornali venne abrogata la possibilità di ricevere i contributi col giochino del deputato «disponibile», ci si dimenticò di fare lo stesso per il settore radio-tv. Nel 2007 il claudicante governo Prodi pensò di intervenire stabilendo che anche le radio dovevano quantomeno «essere organi di partiti politici che abbiano il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere o due rappresentanti nel Parlamento europeo, eletti nelle liste di movimento...». Subito dopo, però, ecco arrivare il salvagente per i furbetti. Nella stessa legge si stabilisce infatti che le emittenti «di partito» già inserite in graduatoria «continuano a percepire in via transitoria con le medesime procedure i contributi stessi, fino alla ridefinizione dei requisiti di accesso». Insomma, per chi ha già intascato continua la cuccagna e sparisce addirittura la scocciatura di cercarsi un onorevole che di anno in anno firmi la dichiarazione da allegare alla domanda.
In via transitoria, si capisce, d'altronde in Italia nulla è più stabile del transitorio... Dal 2004 al 2009 i contribuenti hanno versato nelle casse di sei radio «di partito» circa 60 milioni di euro. In cima al podio, tra i fortunati vincitori della lotteria (sempre gli stessi) c'è Radio Radicale, voce della lista di «Marco Pannella». Oltre alle decine di milioni erogati per un servizio di diretta parlamentare che fa pure la Rai, riceverà anche quest'anno più di 4 milioni di euro. Le radio di partito «verosimili», diciamo così, sarebbero finite qui: esiste anche Radio Padania ma i leghisti preferiscono incassare i contributi per il giornale La Padania che costa ben di più...
A seguire troviamo Ecoradio, un'invenzione dei Verdi di Pecoraro Scanio che entrò nel club grazie alle firme dei deputati ambientalisti Cento e Lion a nome del «Movimento politico Italia e libertà». I verdi si sfaldano, non così la scatola da soldi che passa a tal Marco Lamonica, proprietario di Ecomedia spa, voce del movimento «ComunicAmbiente» (e chi non lo conosce...) che sta per incassare 3 milioni e 274 mila euro. Tra i deputati che si sono alternati negli anni a metter la firma per garantire i finanziamenti a Ecoradio troviamo Massimo Fundarò (Verdi), Cinzia Dato (Ulivo), Mauro Libè (Udc) e Sandro Gozi (Pd). In sei anni Ecomedia spa ha portato a casa ben 18 milioni e 445 mila euro. Le spese di Ecoradio sono aumentate negli anni a dismisura: non così gli occupati, calati drasticamente. Dulcis in fundo, l'anno scorso il giudice del lavoro ha condannato Ecomedia per comportamento antisindacale. Insomma, soldi spesi bene.
Ottima performance anche per Radio Città Futura di Roma. L'ex emittente della sinistra extraparlamentare dopo tante vicissitudini è finita da alcuni anni nell'orbita di una nota agenzia di stampa radiofonica, storicamente vicina al Pd. Magicamente è diventata anche organo del movimento «Roma idee». I rimborsi sono lievitati dai 366 mila euro del 2004 ai 2 milioni e 182 mila euro nel 2009. Tutto reso possibile dalle firme pesanti date a suo tempo da due nomi grossi del Pd, Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti. La rappresentanza del movimento «Roma Idee» ha fruttato a Rcf in sei anni oltre 10 milioni di euro. Quel movimento ovviamente esiste solo sulla carta, ma come idea per intascare soldi dallo Stato non è niente male.
A metà classifica, con 496 mila euro, troviamo Radio Veneto 1 di Treviso di proprietà di Tr.Ad sas di tal Roberto Ghizzo, rappresentante del movimento «Liga fronte veneto nord-est Europa». A «garantire» in questo caso sono prima il parlamentare leghista Antonio Serena e poi Simonetta Rubinato (Pd). Quasi lo stesso importo prende Radio Galileo di Terni che si è dichiarata «organo» di «Cittaperta» per gentile concessione del senatore Pd Leopoldo Di Girolamo. I contribuenti per finanziare questi famosissimi movimenti politici hanno già staccato un assegno rispettivamente di 3 milioni 227 mila euro e 2 milioni 412 mila euro.
L'ultima ruota del carro è Radiondaverde di Cremona diventata organo del movimento «A viva voce» grazie alle firme dei deputati ulivisti Lucia Codurelli e Daniele Marantelli. Per il 2009 prenderà 170 mila euro. Poveretti, una vera e propria elemosina, che comunque negli anni ha fruttato un gruzzoletto di quasi un milione di euro. Piccolo neo: a dicembre 2010 il Gip Guido Salvini, nell'ambito di un'inchiesta su una megatruffa perpetrata da alcuni editori emiliani e lombardi sui contributi editoria, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare anche per l'amministratrice di Radiondaverde Raffaella Storti. L'accusa è stata successivamente archiviata e i soldi continuano ad arrivare.
Ora il governo Monti ha abbassato la percentuale del rimborso alle (finte) radio di partito dal 70% al 40% (che può però arrivare al 50% se hanno poca pubblicità). Bene, anzi male, malissimo. Vorrà dire che invece di regalare dieci milioni di euro all'anno ne regaleranno «solo» sette. Altro che «spending review», i tecnici adottano la stessa linea di Tremonti: tagli lineari che limano i contributi a questi sedicenti «organi», ma non mettono minimamente in discussione la legittimità a riceverli. Sarebbe invece il momento di presentare il conto, destinando risorse solo agli aventi diritto e non a chi prospera sfruttando amicizie politiche, costi quel che costi, anche al prezzo di ambiguità, compromessi, o veri e propri sotterfugi.
Corriere 25.5.12
L'Espresso e la multa del Fisco da 225 milioni
(s. bo.) Il gruppo L'Espresso è stato condannato a pagare 454,7 miliardi di lire, circa 225 milioni di euro, dalla Commissione tributaria regionale di Roma per fatti che risalgono al '91. In seguito alla diffusione della notizia il titolo ieri in Borsa ha perso il 5,43%. Il gruppo ha replicato di ritenere la sentenza «manifestamente infondata, oltreché palesemente illegittima sotto numerosi aspetti di rito e di merito» e confida che sarà annullata. Ha dunque dato mandato ai legali per il ricorso in Cassazione. La Commissione, spiega in una nota il gruppo editoriale, ha dichiarato legittima la ripresa a tassazione di 440,8 miliardi di lire (circa 227 milioni di euro) per plusvalenze realizzate e non dichiarate e di 13,9 miliardi di lire (circa 7 milioni di euro) per il recupero di costi assunti come indeducibili relativi a dividendi e credito di imposta, con applicazione delle sanzioni ai minimi di legge e condanna alle spese di giudizio. L'Espresso sottolinea poi che già in due precedenti gradi di giudizio i ricorsi sono stati accolti e che i fatti contestati erano stati dichiarati insussistenti in sede penale. I legali del gruppo spiegano che gli accertamenti fiscali sono relativi tra l'altro alle vicende che hanno portato alla suddivisione tra Cir e Fininvest della Mondadori alla successiva quotazione di «La Repubblica».
l’Unità Lettere 25.5.12
Salvare la legge Basaglia
di Gian Luigi Bettoli
Il Parlamento mette in discussione la “legge Basaglia”, cioè la legge 180/1978, la riforma delle politiche della Salute Mentale per cui l’Italia è diventata il consolidato punto di riferimento internazionale. Il risultato della votazione in commissione, porterebbe a raddoppiare il periodo di “trattamento sanitario obbligatorio” (Tso), cioè quel delicatissimo istituto in cui viene revocato il diritto di libera scelta di ogni persona, per sottoporla ad un trattamento sanitario in forme coattive. Non solo: si allungherebbe all’inverosimile la possibilità di trattenere una persona contro la sua volontà, fino ad un anno, con evidente soddisfazione di quel sistema di cliniche private che ambisce ad un ben pagato ritorno alla clausura istituzionale delle problematiche di salute mentale. L’azione antiriformatrice, condotta negli indimenticabili anni del governo berlusconiano attraverso una pluralità di progetti controriformatori, troverebbe in tal modo la sua sanzione, con l’accantonamento delle moderne politiche di Medicina Sociale, a favore degli autoritari modelli muccioliani di trattamento delle tossicodipendenze, secondo la lettura semplicistica dell’on. Ciccioli. In un tutto coerente, dall’estensione dei sistemi di comunità di grandi dimensioni, alla diffusione dei centri di reclusione amministrativa per immigrati, in una logica concentrazionaria contraria alle politiche della salute e si parva licet dei Diritti Costituzionali. Stupisce che il colpo di mano avvenga a poche settimane dalla legge che impone finalmente la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, uno degli ultimi orrori della psichiatria ottocentesca. Ci auguriamo che il Parlamento corregga questa enormità, evitando al nostro Paese di passare da modello planetario di buone politiche della Salute Mentale al medioevo manicomiale.
il Fatto 25.5.12
Topi da biblioteca
Il saccheggio dei libri: arrestato il direttore De Caro
di Vincenzo Iurillo e Ferruccio Sansa
Incunaboli e manette. È stato arrestato Marino Massimo De Caro, manager bibliofilo consulente dei ministri Galan e Ornaghi. Prototipo dell’uomo d’affari bipartisan, amico di vita e affari del berlusconiano Marcello Dell’Utri e del dalemiano Roberto De Santis. Galeotta la sua passione per i libri. Vicenda nata da un articolo di Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano. Prendi la più antica biblioteca di Napoli, la Girolamini: 159.700 volumi, tra le più ricche del Mezzogiorno e conosciuta in tutto il mondo. Affidala incredibilmente a un direttore, Massimo Marino De Caro, coinvolto e poi prosciolto fino al 2009 in un’inchiesta per sospetta ricettazione di un libro antico. Lo stesso De Caro che appena nominato ordina una movimentazione dei volumi senza registrare gli spostamenti, così da rendere irrintracciabili i libri. Condisci il tutto con una sorprendente disposizione del conservatore della Biblioteca, padre Sandro Marsano (indagato), che esonera un dipendente dai servizi di controllo e ordina “di non attivare più gli impianti di videosorveglianza, perché De Caro aveva la necessità di accedere alla biblioteca anche fuori dagli orari di apertura”.
MESCOLA con un gruppo di persone, guidate da De Caro, che (secondo i pm) nella notte avrebbe fatto razzia dei libri. Il risultato è una biblioteca “smembrata e mutilata, forse irrimediabilmente”, come afferma il procuratore aggiunto Giovanni Melillo che ha coordinato l’inchiesta dei carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico culminata ieri negli arresti di De Caro e di quattro suoi fiduciari con accuse di peculato e ricettazione. Con De Caro&C. sono indagati anche il conservatore della Biblioteca, padre Sandro Marsano, e una collaboratrice del senatore Marcello Dell’Utri, Maria Grazia Cerone. L’ordinanza del Gip Francesca Ferri racconta la sottrazione di centinaia di volumi dal valore inestimabile. Furti documentati da video realizzati dagli stessi dipendenti entrati in conflitto con De Caro (che, secondo una testimone, maneggiava assegni con l’intestazione del Senato). I video mostrano incursioni notturne in biblioteca, andirivieni di auto da cui scendevano uomini con borse o scatoloni. Le persone filmate avevano le chiavi. La svolta una settimana fa: in un box di Verona i carabinieri trovano 257 libri della Girolamini. Era stato affittato il 20 aprile, due giorni dopo il sequestro giudiziario della biblioteca. Come si è potuto compiere questo saccheggio? Il procuratore Alessandro Pennasilico teorizza “un’insensibilità dei napoletani all’adeguata tutela delle ricchezze culturali”. E Melillo: “Da anni si diceva che all’interno dei Girolamini avvenivano strane sottrazioni. Gli intellettuali ne parlavano, ma la denuncia formale è stata fatta dal professor To-maso Montanari, un fiorentino”. Intanto sono stati trovati 11 volumi antichi con timbro della Biblioteca Arcivescovile di Genova. Erano in casa di padre Marsano. Gli investigatori vogliono capire a che titolo ne fosse in possesso. L’arresto di De Caro potrebbe suscitare timori bipartisan. Perché De Caro fa affari con figure vicine ai vertici di centrodestra e centrosinistra. A Firenze è indagato per corruzione con Dell’Utri. Al centro dell’indagine uno degli impianti solari più grandi d’Europa, quello di Gela, progetto da cento milioni. I pm ipotizzano che, per ottenere il via libera delle autorità, sia stato chiesto l’intervento di Dell’Utri mentre De Caro si è interessato al progetto come consulente insieme con Domenico Di Carlo (non indagato), già capo della Segreteria del ministro dell’Agricoltura Saverio Romano. Tutto parte dalle carte dell’inchiesta P3. Gli inquirenti fiorentini avevano trovato traccia di un pagamento di 558 mila euro che Dell’Utri (indagato in quell’inchiesta) aveva ricevuto da De Caro. De Caro al Fatto aveva spiegato: “Ho pagato Dell’Utri per un libro rarissimo che riporta la lettera del 1493 scritta da Colombo a Isabella d’Aragona”. De Caro pare quasi gettare sospetti sui carabinieri: “Quel libro io l’ho già mostrato ai Carabinieri del Nucleo artistico di Venezia, ma dopo la perquisizione dei Ros nella mia casa di Verona, il libro non c’è più. Mi hanno rubato un valore di un milione di euro e farò una denuncia per furto”. Ma Dell’Utri e De Caro, insieme con Aldo Micciché (latitante in Venezuela che vanta legami con famiglie ‘ndranghetiste), hanno fatto affari per acquistare una partita di petrolio venezuelano da milioni di euro. Per trovare una raffineria in Italia De Caro si rivolge all’amico De Santis. Racconta De Caro: “Ma D’Alema l’avrò visto al massimo sei o sette volte”.
Corriere 25.5.12
La lezione (indecente) di Strauss-Kahn
La lezione del vecchio libertino alla giovane paladina del diritto
Così il lupo DSK si è «mangiato» la giudice Stéphani
di Emanuele Trevi
Nemmeno il grande Diderot o il maligno Voltaire, forse, sarebbero stati capaci di immaginare e descrivere l'interrogatorio subito da Dominique Strauss-Kahn in un'aula del tribunale di Lille lo scorso 26 marzo. Da una parte Stéphanie Ausbart, trentenne, giudice istruttore di un procedimento per sfruttamento della prostituzione, dall'altra lui, DSK, l'accusato, pronto a salire in cattedra per dare lezioni da vecchio libertino.
Bisogna ammettere che, per quanti sforzi possano fare i poeti e i romanzieri, la letteratura involontaria che ci offrono le pagine di cronaca dei giornali è impareggiabile sia sul versante tragico che su quello comico. Nemmeno il grande Diderot o il maligno Voltaire, forse, sarebbero stati capaci di immaginare e descrivere l'interrogatorio subìto da Dominique Strauss-Kahn lo scorso 26 marzo, riportato con ampie citazioni letterali su Le Monde di qualche giorno fa. Si tratta del celebre affaire dei festini organizzati in varie suite di grandi alberghi, tra Parigi e la provincia. Ma per poter parlare di grande letteratura, come si sa, non basta la vicenda: sono i personaggi a fare la differenza. Ed eccoli qui, in un'aula del palazzo di giustizia di Lille, uno di fronte all'altra, i protagonisti del dramma, entrambi dotati del loro tipo particolare di grandezza. DSK, l'accusato, è fin troppo facile immaginarselo. Ma dall'altra parte del tavolo, a tenere degnamente testa al vecchio volpone, ferito ma non arreso, c'è Stéphanie Ausbart, trentenne, giudice istruttore di un procedimento per prossenetismo, ovvero sfruttamento (aggravato) della prostituzione. E come nei duelli verbali del miglior repertorio teatrale, la differenza dei caratteri fa sprizzare le scintille della sfida, la reciproca incomprensione produce lampi di pura verità.
Stéphanie, come si accennava, non ha nulla da invidiare al suo più illustre antagonista. Costretta ad avventurarsi in un territorio ambiguo e scivoloso, nel quale non è facile separare il reato dalla vita privata, impugna il Codice penale come una lanterna. All'umidità, al carattere ombroso del desiderio contrappone un sapere secco, legnoso, totalmente razionale. Ma per stanare DSK, per indurlo a qualche ammissione o passo falso, deve confessare qualcosa di sé. Perché lei, a un certo punto dell'interrogatorio, lo deve ammettere, di libertinaggio non ha nessuna esperienza. E dunque, sospetta un crimine all'interno di pratiche e modi di vita che può solo congetturare dall'esterno.
Questa contraddizione è come una specie di breccia nel muro, turrito e scosceso, dell'impianto accusatorio. Se l'innocente Stéphanie non sa come funzionano le cose durante quei festini, perché solo l'esperienza potrebbe averglielo insegnato, come fa a stabilire come e quando una relazione libertina fra adulti consenzienti si è trasformata in un reato? Attenzione, Stéphanie. Perché se DSK non facesse caso a queste debolezze femminili, non sarebbe quel pezzo da novanta, quel fenomeno che è sempre stato. E il banco degli imputati fa presto a trasformarsi nella cattedra del professore.
E' come se Cappuccetto Rosso iniziasse a chiedere al lupo che sapore ha la carne umana, se le nonne sono davvero così buone da mangiare... Salito in cattedra, DSK è del tutto degno della sua fama. Amico dei più illustri philosophes parigini, non ha difficoltà a formulare aforismi come questo: «Nel libertinaggio non esiste un oggetto, ma solo due soggetti che desiderano partecipare». Viva la Francia! Ve lo immaginate, fuori dal paese di Cartesio, un imputato che si difende a colpi di soggetto e oggetto? Ma poi, cosa vuol dire esattamente la frase? Cosa faranno mai, questi due «soggetti» libertini, privi del loro «oggetto» e liberi di scatenarsi nei territori sconfinati del reciproco consenso? Ma è proprio questo il punto. Come molte affermazioni dei suoi amici parigini, anche questa di DSK non significa assolutamente nulla. Messa a verbale, però, ancora più che su un libro o su una rivista elegante, emana una specie di inestinguibile potenza suggestiva.
Se Stéphanie, in un attimo di debolezza, verrà indotta a pensare che è lei a non capirla, avrà iniziato a soccombere. La luce del Codice penale può vacillare come una candela investita da uno spiffero freddo. Proteggila, Stéphanie! Ma DSK non è forte solo in filosofia. Al contrario, sa dosare e variare da grande chef gli ingredienti della sua lezione. Ad esempio, gli viene fatto notare che quelle signore «libertine» incontrate durante i festini, almeno giudicando dalla maniera di vestirsi, più che soggetti senza oggetto sembrano proprio delle puttane. Ma come!, obietta il professor DSK, con l'ironica degnazione che si riserva a quelle domande degli scolari che, fin troppo ingenue, sono comunque il trampolino di una spiegazione importante. Le scollature vertiginose e le calze a rete non sono affatto segnali di prostituzione. «Ho osservato spesso», rivela DSK a una stupefatta Stéphanie, «giovani donne vestite come me e lei le quali, una volta entrate in un club libertino, indossavano tenute indecenti, senza che questo ne facesse delle prostitute».
Questo è davvero un colpo da maestro, un colpo basso. Perché queste donne vestite come Stéphanie, che a un certo punto della serata si trasformano in insaziabili libertine, come potranno non destare in lei un moto di identificazione? Basta un millesimo di secondo, un fulmineo soprassalto dell'identificazione e il gioco è fatto, il veleno è penetrato nell'organismo. E quando l'estenuata Stéphanie chiede a DSK se gli sembra naturale che una donna di venti anni desideri fare sesso con un uomo di sessanta, anche il più banale senso comune si rivela un'arma potente. Ma come, ribatte il vecchio libertino, il cinema e i romanzi sono pieni di queste situazioni! Cosa conta l'età! Viene un sospetto: ma non è che col passare del tempo DSK ci abbia fatto un pensierino, su Stéphanie? Triste e deplorevole è il lupo che perde il vizio, non quello che continua a fare quello che ha sempre fatto, fino all'ultimo respiro. E voi giovani, che come Stéphanie non sapete nemmeno di cosa si parla, quando si parla di libertinaggio, e contro i padri così imbarazzanti e incorreggibili avete ripristinato la virtù dei nonni, la correttezza, la monogamia... pensateci bene, prima di andare a disturbare un «soggetto» come DSK. Lasciatelo in pace, piuttosto, a cuocere fino all'ultimo nel suo voluttuoso brodo. Non ha fatto niente di così grave. E soprattutto, non lo costringete a farvi la lezione, mentre voi pensate di fargli la morale.
il Fatto 25.5.12
La Cina compra il nostro immaginario
Cinema e calcio la nuova frontiera degli investimenti di Pechino
di Giampiero Gramaglia
Prima, si sono comprati i nostri debiti –quelli americani, soprattutto-, così che ci tengono in ostaggio; poi, hanno cominciato a comprarsi i nostri marchi; quindi, si sono comprati fette di Mondo – specie in Africa, letteralmente; e ora, s’impossessano dei pezzi pregiati del terziario avanzato, sport e svago. Mai come oggi, la Cina è vicina, anzi è proprio qui da noi; salvo, poi, portarsi a casa, lì da loro, le icone del successo. Per il momento, riusciamo a tenerci stretta la proprietà intellettuale, ma prima o poi dovremo barattare pure quella con i punti di crescita che ci mancano.
LA CINA fa sul serio; e con metodo. Mica improvvisa, come i magnati russi che, ricchi d’una ricchezza troppo improvvisa per essere tutta frutto di lavoro e di saggezza, comprano per divertirsi e si riducono a rodersi il fegato: pensate al povero – si fa per dire: è nella ‘top ten’ dei paperoni planetari - Abramovich, che ha penato 10 anni e centinaia di milioni di euro per vedere il Chelsea vincere la Champions, secondo solo al “buon” Moratti, che di anni e di soldi ne ha buttati di più prima di vedere l’Inter vincere qualcosa.
Ma torniamo alla Cina, che dello sport ha sempre fatto uno strumento di prestigio e di penetrazione: certo, una volta c’erano ginnasti e ginnaste, fatica tanta, gloria poca, soldi nisba; poi sono venute le nuotatrici che facevano faville in vasca – tutte dopate si scoprì ben presto; infine, i campioni che a Pechino 2008 valsero per la prima volta alla Cina il primato delle medaglie d’oro (51), meglio degli Usa (36) e della Russia (23), che, da quando non è più Urss, fatica a tenere il ritmo. Però, nel calcio la Cina e i cinesi hanno sempre arrancato: ai Mondiali, c’è arrivata una sola volta, nel 2002, e ne uscì subito senza manco segnare un gol; e neppure la Coppa d’Asia ha mai vinto – due volte seconda -, lasciando al Giappone e alle due Coree la palma di potenze calcistiche continentali.
Ma, adesso, la musica cambia. Prima, i cinesi sono venuti a prendersi Lippi: l’artefice dei Mondiali 2006 allenerà, per 10 milioni di dollari l’anno, il Guangzhou Evergrande, squadra neo-promossa in serie A, ma, evidentemente, di grande ambizioni e di mezzi adeguati; e, forse, lui, sempre vicino ai suoi campioni, si porterà dietro un po’ di vecchie glorie di quella squadra, qui da noi magari consunte, ma in grado di fare ancora meraviglie laggiù. E non pensi Lippi che in Cina sia una passeggiata: fra gli avversari, troverà quel Drogba, che, dopo avere consegnato la Champions ad Abramovich, lascia il Chelsea e va allo Shanghai Shenhua, squadra più titolata dell’Evergrande e già adusa ai grandi nomi europei, perché l’allena quella testa matta di Nicolas Anelka. E chissà quanti, ora che le chiuse si sono aperte, li seguiranno.
Mentre si allestisce il set del nuovo campionato cinese, il gruppo Dalian Wanda si compra, per 2,6 miliardi di dollari, l’Amc, seconda catena di sale cinematografiche americana, creando, così, il maggior operatore mondiale del settore. L’obiettivo è di avere un’industria cinese del grande schermo capace di competere con Hollywood e con Bollywood e di portare la cultura locale fuori dai confini nazionali. Certo, soggetti e copioni dovranno adattarsi, perché le produzioni cinesi sono spesso ancorate a storie con giapponesi cattivi nella Seconda guerra mondiale. Siamo a un’iniziativa speculare rispetto a quella della Dreamworks di Spielberg, che anni fa aveva realizzato una joint venture cinese per andare a caccia di nuovo pubblico.
Economicamente, Wanda, che ha parchi a tema, catene d’alberghi, centri commerciali e locali da karaoke, e il cui amministratore delegato Wamng Jianlin è il super-ricco cinese 2012 per Fortune, non fa un affare acquistando Amc, che, con i suoi oltre 5000 grandi schermi nel Nord America ha perso 73 milioni di dollari nel quarto trimestre 2011. Ma per Wanda sono bruscolini: il suo è per dimensioni il terzo investimento cinese di tutti i tempi sul mercato americano. I primi due riguardavano la finanza. Ora si cambia settore.
Repubblica 25.5.12
I Fratelli musulmani cantano vittoria ma in Egitto i laici continuano a sperare
L’ira di Mubarak davanti alla tv per le prime presidenziali
Secondo il principale partito islamico Morsi avrebbe superato il 50% dei voti
di Fabio Scuto
IL CAIRO - Mancavano ancora tre ore alla chiusura delle urne e già i Fratelli Musulmani reclamavano la vittoria alle prime elezioni presidenziali d´Egitto. Il candidato della Fratellanza, che già domina il Parlamento eletto lo scorso novembre, Mohamed Morsi è stato il più votato nel primo giorno di voto in Egitto, annuncia raggiante nell´elegante palazzo sulle colline di Moqattam che ospita i suoi uffici il vicepresidente del partito della Confraternita, Giustizia e Libertà, Essam el Erian. Erian spera che il trend sia stato mantenuto anche nel secondo giorno di votazioni. Un risultato che annullerebbe il ballottaggio previsto per metà giugno e proietterebbe sulla sedia che Hosni Mubarak occupò per trent´anni questo ingegnere, con un master alla University of Southern California, anima conservatrice di un partito islamista senza nessuna esperienza di governo alla testa del più importante, influente e popoloso paese del Medio Oriente.
Ma la volatilità del voto egiziano, del quale non ci sono precedenti, invita a maggiore cautela. Come quella che si respira a Dokki, nel Quartier Generale di Amr Moussa - ex ministro degli Esteri del raìs, ex segretario della Lega Araba - il candidato laico con forse maggiori chance di arrivare al ballottaggio. Nella piccola palazzina affittata per l´occasione circola qualche diagramma. «Si, sappiamo che Morsi è stato il più votato, ma Moussa è al secondo posto con oltre il 25% e questo è un ottimo segnale, pensiamo di arrivare serenamente al ballottaggio».
L´ultima giornata di elezioni si è svolta anche ieri con grande tranquillità e nel paese si sono registrate le abituali difficoltà, lunghe file fuori dai seggi, un certa lentezza nel votare. Per far fronte al fatto che quasi la metà degli elettori egiziani non sa né leggere né scrivere sulle schede, a fianco ai nomi dei candidati, è stampata anche la loro foto, e ciascuno di loro ha scelto un simbolo. Moussa il sole che sorge, Morsi una bilancia che simboleggia la giustizia, Abol Fotoh - l´altro candidato islamico molto accreditato - un cavallo.
«Se vince un candidato del vecchio regime le elezioni sono state una truffa e torneremo in Piazza Tahrir», ripetono come un mantra i militanti della Fratellanza, facendo riferimento sia a Amr Moussa che a Ahmad Shafik, ultimo premier di Mubarak riammesso alle elezioni all´ultimo minuto che però ha spuntato il sostegno della numerosa comunità copta d´Egitto. Il pericolo è che la Fratellanza - certa della vittoria - voglia forzare la mano delegittimando un presidente che non venga dalle loro file, aprendo scenari imprevedibili.
Lo spoglio delle schede è iniziato subito dopo la chiusura dei seggi alle 9 di ieri sera e nella giornata di oggi sarà possibile individuare le tendenze del voto. Le numerose tv egiziane hanno organizzato dirette no-stop che hanno attirato milioni di telespettatori, molto più delle "soap opera" arabe in genere molto seguite. Fra gli egiziani incollati alla tv anche il raìs deposto. Ingrigito, intristito, quasi incredulo, poi furente: con questo stato d´animo Hosni Mubarak, costantemente intubato, dal suo letto di ospedale ha voluto seguire in tv l´andamento del voto. Così ce lo descrive il quotidiano indipendente Al Tahrir, raccontando che a far compagnia nel Centro Medico Internazionale del Cairo dove è ricoverato da mesi c´è la moglie Suzanne, che per l´occasione avrebbe deciso di vestirsi a lutto, quasi a voler simboleggiare le peggiori giornate nella storia di famiglia.
Repubblica 25.5.12
Così hanno fallito i giovani di piazza Tahrir
Non sono riusciti a trasformarsi in un soggetto politico elettoralmente rilevante
di Francis Fukuyama
Si fa fatica a decidere per chi fare il tifo nelle elezioni presidenziali egiziane. Due dei candidati di maggior rilievo, Amr Moussa e Ahmad Shafiq, sono stati funzionari di primo piano nel regime di Mubarak e sono sospettati di avere legami con i militari. Abd el-Moneim Abol Fotoh si presenta come un islamista liberale espulso dai Fratelli musulmani, ma per qualche ragione è sostenuto dall´ultradestra religiosa dei salafisti. Più indietro nei sondaggi rispetto a questi tre c´è Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli musulmani, una formazione che è partita mostrando un volto moderato, ma che recentemente sta inviando segnali inquietanti di un orientamento più radicale. Il grande assente di questo assortimento di candidati con speranze di vittoria è un liberale autentico, un candidato che non abbia nessun legame con il passato autoritario e che non sostenga un programma islamista. Il candidato che corrispondeva meglio a questo profilo era Mohamed el-Baradei, ex direttore dell´Agenzia internazionale per l´energia atomica e vincitore del Nobel per la pace, che si è ritirato a gennaio dopo una campagna mai decollata.
Come siamo arrivati a questa situazione, in cui le due forze più potenti del nuovo Egitto rappresentano il passato autoritario o un islamismo dalle dubbie credenziali liberali? La rivoluzione di piazza Tahrir, all´inizio dell´anno scorso, è stata alimentata dalla rabbia dei giovani della classe media, che usavano social network come Facebook e Twitter per organizzare le proteste, diffondere le informazioni sulle atrocità del regime e costruire il consenso per un Egitto democratico. All´epoca si parlò molto del ruolo positivo giocato dalla tecnologia, che rafforzava la democrazia e apriva al mondo società chiuse, ma incapaci di bloccare il flusso delle informazioni.
Eppure questo gruppo di giovani attivisti, che ancora riesce a mobilitarsi per proteste di piazza, non è riuscito a trasformarsi in un soggetto politico elettoralmente rilevante nell´Egitto del dopo-Mubarak. Certo, questi giovani non sono rappresentativi della stragrande maggioranza del popolo egiziano, che resta poco istruito, conservatore dal punto di vista sociale, e rurale. Ma un leader liberale modernizzatore avrebbe potuto rappresentare le speranze di crescita economica e libertà politica di tanti egiziani, e piazzarsi almeno fra i primi quattro candidati alla presidenza? Dovremo aspettare analisi più approfondite sulle elezioni, inclusa l´entità dei brogli, prima di poter dare una risposta a questa domanda. Sembra evidente, con il senno di poi, che la cacciata di Mubarak non sia stata una rivoluzione a tutti gli effetti, come sembrava. I militari rimangono un´istituzione potente, poco disposta a cedere veramente il potere.
Ma una parte della colpa l´hanno gli stessi liberali egiziani. Sono riusciti a organizzare proteste e dimostrazioni, ad agire con un coraggio spesso sconsiderato per sfidare il vecchio regime. Ma non sono riusciti a coalizzarsi intorno a un singolo candidato e poi a impegnarsi nel lento, estenuante lavoro di organizzare, distretto per distretto, un partito politico in grado di presentarsi con qualche chance a un´elezione. I partiti politici esistono per istituzionalizzare la partecipazione politica: quelli più organizzati, come i Fratelli musulmani, hanno portato a casa la maggior parte del bottino in termini di seggi. Facebook, a quanto sembra, è in grado di produrre fiammate prorompenti, ma non di generare calore sufficiente, e per un tempo sufficiente, a riscaldare la casa.
I partiti islamisti, invece, sono riusciti a sopravvivere negli anni in tutto il Medio Oriente, nonostante una pesante repressione, perché sapevano come organizzarsi. Sapevano selezionare i quadri e promuovere un´ideologia, vivevano fra i poveri e spesso fornivano direttamente servizi sociali agli elettori. I partiti hanno successo se si battono per qualcosa: non basta opporsi a una dittatura, bisogna avere un programma propositivo per la crescita economica e l´assistenza sociale.
Lo scenario a cui abbiamo assistito in Egitto non è nuovo. Il politologo Samuel Huntington, nel suo saggio del 1968 Ordinamento politico e mutamento sociale, osservava che le rivoluzioni non vengono fatte mai dai poveri, ma da militanti dei ceti medi urbani in ascesa sociale, le cui speranze e aspettative sono frustrate dal sistema politico esistente. Gli studenti invariabilmente giocano un ruolo fondamentale in queste sollevazioni. Huntington proseguiva dicendo che questo tipo di esponenti della classe media non riesce quasi mai a portare a termine la rivoluzione se non stabilisce un collegamento con le masse rurali. Gli studenti sono bravi a manifestare, ma come organizzatori sono un disastro.
A Facebook, che la scorsa settimana ha fatto il suo debutto in Borsa, è stato attribuito il merito di aver contribuito a costruire la democrazia a livello internazionale. È vero che Facebook e altri social network hanno democratizzato l´accesso all´informazione e facilitato la collaborazione, e sono stati utili anche per favorire la mobilitazione di folle e manifestanti nell´immediato. Ma il networking non equivale a costruire un´organizzazione: per quello ci vuole un programma diverso e più di più lunga durata.
(traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 25.5.12
Canada, gli studenti sulle barricate cento giorni in piazza contro il governo
"No all’aumento delle tasse universitarie". Scontri, 700 arresti
Montreal è una immensa zona rossa: ma la rabbia si è estesa ormai in tutto il Paese
di Paola Bernardini
Sfidano il divieto di assemblea approvato una settimana fa dall´esecutivo provinciale del Québec
TORONTO - Oltre 700 arresti hanno segnato in modo indelebile il centesimo giorno della protesta studentesca nella provincia del Québec . Decine di migliaia di persone, mercoledì, sono scese in piazza contro l´aumento delle rette universitarie. La protesta dilaga: a Montreal, Québec City o Sherbrooke, ma anche a Toronto, Calgary, Vancouver. Dall´Est all´Ovest del Canada il tam tam della rabbia studentesca si oppone al premier liberale Jean Charest, che ha aumentato dell´80 per cento le tasse universitarie. Ogni studente dovrà pagare 254 dollari in più, per sette anni, su una retta già di circa 4000 dollari annui.
A Montreal le proteste si sono susseguite per 30 notti. In segno di solidarietà, agli studenti si sono accodati genitori, docenti, anziani e bambini in marce pacifiche, scandite dal ritmo di pentole, cucchiai e coperchi. Tre i focolai: il college Lionel-Groulx a Sainte-Thérèse, il ponte Jacques Cartier e un albergo in pieno centro a Montreal. La città è un´immensa zona rossa: un campo libero per l´intervento della polizia, grazie alla legge 78 approvata la scorsa settimana dal governo provinciale che vieta riunioni di massa nelle vicinanze di università e scuole, e impone l´obbligo di richiedere l´autorizzazione di manifestare almeno otto ore prima. Tra manganelli, gas e idranti, i poliziotti in tenuta antisommossa hanno arrestato 518 manifestanti a Montreal, 176 a Quebec City e in altre piazze dove gli studenti sventolavano bandiere azzurre coi gigli bianchi, la fleur-de-lis simbolo della provincia francofona.
Di primo mattino è partita la carica delle forze dell´ordine contro alcuni riottosi a volto coperto armati di sassi e spranghe. Le manette sono scattate anche per Emmanuel Hessler, un regista indipendente che si era agli studenti. Mentre lo caricavano su un autobus, é riuscito a twittare: «Stanno arrestandomi, non so cosa succederà ora. Augurami buona fortuna». Tornato libero dopo aver pagato la cauzione, ha raccontato: «Ci siamo ritrovati circondati dalla polizia, non abbiamo capito più nulla. Questo pugno di ferro mi ha sorpreso e terrorizzato».
E forse mai s´erano sentiti dibattiti tanto accesi da quando, nel 1995, il Quebec fu lacerato dal referendum sull´indipendenza dal Canada. Oggi, al di là del rialzo della retta universitaria, il "malessere del Quebec" si inserisce in un disagio diffuso a livello internazionale, con il riverbero della crisi economica e con le misure imposte a una popolazione che inizia a risentirne gli effetti. Sulla crisi germina la rabbia dei giovani contro le disparità economiche e sociali approfonditesi in Canada come negli Stati Uniti.
La rivolta rievoca anche il dissenso del Sessantotto, però alla ventata libertaria bohemien o hippy si è sostituita una protesta che non cede il passo. Mentre sia gli studenti sia il governo restano su posizioni ferree, i socialisti guadagnano consensi e i deputati del Parti Québécois si presentano in parlamento con i simboli della "piazza rossa" della protesta studentesca. L´unico spiraglio è l´apertura di un tavolo con una delegazione studentesca. Dopo le dimissioni del ministro dell´Istruzione Line Beauchamp, il premier Charest ha richiamato al suo fianco un uomo di fiducia, Daniel Gagnier, per trovare a breve una soluzione. E chissà se monsieur Gagnier avrà migliore fortuna.
Repubblica 25.5.12
La nuova sinistra europea
di Hannes Svoboda
Con l´elezione di François Hollande, non solo il panorama politico francese, ma anche quello europeo è cambiato radicalmente. La sinistra in Europa ha ritrovato fiducia e autostima. Già prima delle elezioni francesi, lo scioglimento dei governi olandese e rumeno e la maggioranza assoluta acquisita da Robert Fico in Slovacchia sono stati chiari segnali di una nuova direzione. La stessa cosa vale per alcune elezioni locali in Germania e in Italia. Ma certamente la vittoria di François Hollande potrebbe essere la svolta decisiva.
Nuove alleanze diventano possibili. Prima di tutto con i cittadini europei che soffrono a causa delle gravi e severe politiche di austerità promosse dal governo conservatore tedesco con il sostegno di Nicolas Sarkozy. I governi e i premier di sinistra che sono stati oggetto di forti pressioni da parte di Merkel e Sarkozy possono diventare ora nostri partner per la resistenza. E i Socialisti e Democratici al Parlamento europeo hanno ottenuto un forte sostegno da parte del presidente neoeletto. Varie proposte per promuovere gli investimenti pubblici e riportarli al livello pre-crisi sono sul tavolo. È importante trasformare la golden rule sui tagli economici e di bilancio in una golden rule per l´equilibrio di bilancio attraverso gli investimenti in crescita.
Strettamente connesso con la politica di ripresa economica è la politica per correggere l´iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza. Lo sviluppo negativo della distribuzione del reddito nel senso di un divario crescente tra ricchi e poveri è più marcato negli Stati Uniti che in Europa. Tuttavia, vediamo questa tendenza negativa anche in molti Paesi europei. Portare reddito e distribuzione della ricchezza almeno al livello di vent´anni fa sarebbe già promuovere la crescita e l´occupazione, perché i ceti a basso reddito spenderebbero di più e stimolerebbero i consumi. Le proposte fiscali di Hollande e Obama e quelle dei Socialisti e Democratici vanno nella stessa direzione: riduzione della distribuzione ingiusta e raccolta del denaro per gli investimenti.
Da molti mesi, il presidente Obama si sta impegnando per maggiori investimenti per promuovere la crescita e l´occupazione. È interessante notare che molti a destra, che spesso seguono ciecamente le politiche americane, criticano questa politica di Obama di investimenti per la crescita. Per altro verso, però, per quanto riguarda la regolamentazione dei mercati finanziari e la tassa sulle transazioni finanziarie, gli Stati Uniti sono in ritardo rispetto all´Europa, o almeno rispetto ai progressisti in Europa. Tuttavia, anche noi abbiamo ancora un compito enorme per il riequilibrio e la regolazione dei mercati finanziari. Ci auguriamo che, se Obama sarà rieletto, gli Stati Uniti mostrino un approccio più progressista su questi temi.
Ci sono poi altre questioni sulle quali i Socialisti e Democratici in Europa e i Democratici negli Stati Uniti dovrebbero mostrare una maggiore cooperazione: la questione dei diritti umani/civili e quella dell´immigrazione/integrazione. Le nostre società sono società di grande diversità. Ciò è dimostrato nei diversi orientamenti sessuali e dalla diversa provenienza di molti nostri cittadini.
Molte dichiarazioni di François Hollande e le mie attività e le dichiarazioni di Barack Obama mostrano che questi due leader sono pronti a promuovere delle società progressiste e le diversità al loro interno. Ancora una volta gli Stati Uniti ed i Paesi europei hanno una lunga strada da percorrere per arrivare a delle società che accettano pienamente la loro diversità. Ma in stretta alleanza possiamo procedere molto più rapidamente e darci sostegno reciproco. Solo con una strategia chiara e convincente e con una forte determinazione politica a costruire società aperte, ma anche più solidali ed eque, possiamo battere i gruppi di estrema destra nazionalista, come il Tea Party o i partiti estremisti e xenofobi che abbiamo in diversi Paesi europei.
Ci sono molti compiti che attendono i progressisti e la sinistra su entrambi i lati dell´Atlantico. E anche le forze progressiste sono, tra di loro, molto diverse. Dobbiamo sfruttare l´occasione presente non solo per dare un nuovo volto all´Europa e creare nuove opportunità, ma anche per costruire una cooperazione progressista attraverso l´Atlantico. La debole cooperazione tra Blair e Clinton e alcuni altri dirigenti della Terza Via in passato è stata in parte pensata e progettata come alternativa ai socialisti dell´Europa continentale. Ora è il momento di riavviare quella cooperazione come una forte alleanza progressista tra socialisti, socialdemocratici, democratici italiani da un lato e democratici negli Stati Uniti, sul lato opposto.
La globalizzazione non può essere fermata e non deve essere fermata fino a quando è equa con tutti i partecipanti. Ma per renderla più giusta abbiamo bisogno di una forte cooperazione Ue-Usa. Non una cooperazione di coloro che sono disposti a intervenire militarmente e senza il supporto delle Nazioni Unite. Abbiamo bisogno di un´alleanza transatlantica di forze progressiste che sono disposte a portare equità e giustizia nelle nostre società. Il fallimento sempre più visibile delle politiche conservatrici in Europa con il suo tasso di disoccupazione enorme e la xenofobia in aumento, da un lato, e l´elezione di François Hollande, dall´altro, creano un´opportunità enorme per un´alleanza globale. La cooperazione tra Stati Uniti e Unione europea può essere il nucleo di tale alleanza, ma altri dovranno essere invitati a partecipare.
L´autore è presidente dell´Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici del Parlamento Europeo
l’Unità 25.5.12
Il «Capitale» ora è ancora più vicino al nostro capitalismo
Una nuova traduzione per l’opera di Marx è occasione per affrontare l’oggi ripensando il sistema mercato alla radice
di Jacques Bidet
FRESCA DI STAMPA LA NUOVA TRADUZIONE DEL VOLUME XXXI DELLE OPERE COMPLETE DI MARX ED ENGELS, CONTENENTE, IN DUE TOMI, il libro I del Capitale, presentata qualche giorno fa all’Università degli Studi di Milano-Bicocca in una giornata internazionale di stud io sulla rilevanza attuale della critica marxiana
Una nuova traduzione di Marx è un evento, e ci dà l’occasione di rivedere e correggere la lingua del marxismo e del socialismo. È un evento come lo sono nuove traduzioni di Freud o di Hegel, che rimettono in questione il nostro modo di pensare i rapporti di sesso o di argomentare in filosofia. Si tratta qui di sapere in quali termini orientarci nel
mondo in cui viviamo. Se occorre tradurre di nuovo, questo avviene certamente perché oggi sappiamo meglio di cinquant’anni fa come Marx, attraverso una lunga serie di abbozzi e di correzioni, ha a poco a poco prodotto la sua grande opera e comprendiamo meglio ciò che egli vuol dire, la natura delle sue scoperte. Roberto Fineschi si appoggia a molti decenni di lavoro dei gruppi di lavoro internazionali di Mega2 secondo le norme scientifiche attuali, e ci fornisce una traduzione magistrale, accompagnata da un volume di varianti e di testi marxiani che stimoleranno di nuovo la riflessione; il tutto forma il volume XXXI dell’edizione italiana delle Opere complete di Marx ed Engels che studiosi di varie Università, coordinati da Mario Cingoli di Milano-Bicocca, stanno portando avanti con la piccola e valorosa casa editrice La Città del Sole di Napoli.
Non si tratta solo di filologia, ma anche di teoria e di politica. Ad esempio, per tradurre il termine Arbeiter bisogna usare operaio, che rimanda al lavoratore di fabbrica, o è meglio lavoratore? Certo, gli operai sono più numerosi che mai nel mondo d’oggi, ma «lavoratore» include tutti quelli che lavorano sotto il dominio del capitale, che effettuano un lavoro sia tecnico che commerciale, sia fisico che intellettuale, ed è il termine che meglio risponde a quello che aveva in mente l’autore. Marx non è, come molti credono, «un pensatore del suo secolo»; egli analizza il capitalismo nelle sue forme fondamentali, che si esplicano oggi in forme nuove. È anche alle cassiere e alle telefoniste dei call center che si rivolge l’appello «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!».
Il Capitale manifestava la speranza che la logica del capitale sarebbe stata vinta dai colpi dei movimenti popolari che avrebbero imposto un ordine democraticamente concertato tra tutti. Sappiamo che questo esito non è vicino e che la soluzione è senza dubbio più complessa, ma Marx resta il grande ispiratore di ogni analisi critica del capitalismo. All’inizio del Capitale viene contestata subito la pretesa del capitalismo di spacciarsi come «l’economia di mercato», cioè l’ordine naturale al quale si è pregati di conformarsi. Il testo mostra poi che questo non è vero: nel capitalismo, il mercato serve ad un rapporto di sfruttamento, di cui viene smontato il meccanismo. Ma lo slogan liberale conserva la sua efficacia, e non è facile mostrare in quali modi muoversi verso un ordine alternativo.
Non è per caso che, in questa giornata di studio, la discussione si sia concentrata sul famoso e difficile inizio dell’opera dove Marx tratta del mercato in generale prima di venire a ciò che è proprio del capitalismo, perché è importante giungere a chiarire cos’è «il mercato», in una situazione in cui il capitalismo si impadronisce di tutto per farne merce in vista di un profitto: di tutte le ricchezze della natura, di tutti i beni pubblici, delle nostre vite dalla A alla Z. E non si tratta solo di sfruttamento di salariati: questo meccanismo esclude una parte via via crescente della popolazione da ogni lavoro, da ogni base sociale di esistenza. Oppure si è pregati di farsi «imprenditori di se stessi», giocando ogni giorno la propria pelle sul mercato, costretti a provare che si è di profitto per il capitale che ci impiega. Non si può affrontare l’oggi se non riprendendo le cose alla radice: rifacendo l’esercizio «radicale» di Marx. È questo, prima di tutto, che si impara dal Capitale.
l’Unità 25.5.12
Il gigante Montale tra vita e pagine
di Roberto Carnero
UN LIBRO DEDICATO A EUGENIO MONTALE (1896-1981) DA PARTE DI UNO DEI SUOI PIÙ IMPORTANTI STUDIOSI, ELIO GIOANOLA: Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive (Jaca Book, pp. 388, euro 32). Gioanola, già docente di Letteratura italiana all’Università di Genova, firma una monografia pensata per un vasto pubblico, eppure ricca di novità interpretative.
Il volume giunge infatti al culmine di un percorso di ricerca dettato dalla convinzione che, almeno per gli scrittori dei quali si dispone di materiale interpretativo adeguato, siano criticamente fecondi i rapporti tra il vissuto e l’opera. «Sono sufficientemente seguace di Jean Starobinski spiega il critico per ritenere che qualunque lavoro letterario, anche il più sublimato, non sia comunque frutto dell’immacolata concezione. In questo libro ho quindi scientemente contaminato dati di provenienza biografica e interpretazione critica vera e propria». In esso troviamo infatti la storia di una formazione, la visitazione degli ambienti culturali attraversati, la ricostruzione degli incontri decisivi vissuti e dei personaggi che ne sono protagonisti, la storia del concepimento e della costruzione delle diverse raccolte, l’interpretazione dei maggiori testi sul fondamento degli innumerevoli elementi chiarificatori, di diversa provenienza, venuti alla luce.
Nell’interpretazione di Gioanola, a trent’anni dalla morte, Montale resta ancora tutto intero e la sua statura di gigante del firmamento letterario appare inequivocabile. «Con in più aggiunge lo studioso le cose venute alla luce nel frattempo: epistolari, interviste, testimonianze. Inoltre, dal momento della morte, la critica non ha mai cessato di interessarsi a questo poeta. Per lui la poesia non è mai stata una professione, ma un testimonianza del disagio dell’artista contemporaneo nell’epoca dell’imporsi delle grandi ideologie, oltre che dei miti derivati della scienza e della storia».
Del resto Montale è stato un grande innovatore: ha avuto il coraggio di rifiutare le pseudo-novità che fiorivano attorno a lui nel primo Novecento. Spiega Gioanola: «Non gli interessavano le proposte delle diverse avanguardie nate col nuovo secolo (la poesia pura, il crepuscolarismo, il futurismo), a cui pure avevano dato il loro tributo poeti come Apollinaire, Ungaretti, Pound e tanti altri. In esse egli sentiva troppa deferenza al ribellismo di facciata, ansia di sperimentazione ad ogni costo, artificio. Fin dall’inizio c’è in lui volontà nuda di testimonianza della condizione interiore, da esprimere “torcendo il collo alla retorica” e quindi col massimo rigore espressivo». Da qui la sua devozione all’oggetto, e non certo per nostalgie realistiche. Alla base di tutto c’è la sofferenza profonda data da ciò che dopo di lui si chiamerà proverbialmente «male di vivere».
l’Unità 25.5.12
Da oggi a domenica gli analisti discutono insieme a Profumo, Camusso, Magrelli
La solitudine del consumista
Gli psicoanalisti italiani affrontano la crisi
Intervista a Giovanni Foresti, segretario scientifico della Spi, su denaro, potere, lavoro e la scomparsa dell’etica individuale e collettiva
di Maria Serena Palieri
«REALTÀ PSICHICA E REGOLE SOCIALI. DENARO, POTERE E LAVORO TRA ETICA E NARCISISMO» È L’INSEGNA SOTTO LA QUALE SI APRONO OGGI A ROMA ALLA SAPIENZA I LAVORI DEL XVI CONGRESSO DELLA SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA. E subito incuriosisce la singolarità del «passo» per cui un tema, di sicuro, accademicamente in gestazione da un bel pezzo, cade come un ordigno a orologeria nell’Italia di queste settimane, quando le parole collettivamente più gettonate e le più ansiogene sono «crisi», «default», «spread».
Giovanni Foresti, segretario scientifico del convegno, spiega: «Ci lavoriamo da due anni. Questa è la terza tappa del nostro percorso dentro “I nuovi disagi della civiltà”. Espressione che vuol dire, semplicemente, che oggi la gente sta male per cose diverse dal passato». In questo 2012 i freudiani italiani sono evidentemente desiderosi di cimentarsi col «fuori».
Al congresso che inizia questa mattina parteciperà un poeta, Valerio Magrelli. E fino qui la novità non è rivoluzionaria: ai lavori della Spi presenziò in altri anni anche Avraham B. Yehoshua. Ma alla Sapienza si confronteranno con la platea di psicoanalisti, stavolta, pure due personaggi che di quel nodo «denaro, potere, lavoro» incarnano facce diverse: la segretaria Cgil Susanna Camusso e il presidente di MontePaschi Alessandro Profumo.
Professor Foresti, qual è il male psichico dominante che oggi fa soffrire gli italiani?
«Noi mettiamo l’accento sul narcisismo, questa epidemia di amore malsano verso se stessi che fa sì che la gente si ritiri dallo scambio sociale. In apparenza è in relazione, ma fa fatica a fidarsi».
Tra social network e salotti televisivi in effetti si direbbe, piuttosto, che la gente non desideri altro che condividere ogni istante di vita ed esibire i sentimenti più privati. Un’altra parola-chiave del congresso è «regole». A cosa allude?
«Dilaga un’intolleranza capillare della società civile a farsi disciplinare. Siamo ancora nel mezzo di un ciclo che si è aperto alla fine degli anni Settanta, con Margaret Thatcher, Ronald Reagan e le loro politiche di de-regolamentazione. Il modello concettuale che i lacaniani usano da alcuni anni è semplice ma ha una sua ragion d’essere: se un tempo l’imperativo era lavorare e produrre oggi, dicono, è godere e consumare. Una volta gli adulti erano fieri della fabbrica in cui lavoravano, oggi gli adolescenti sono orgogliosi del logo della maglietta che indossano».
A proposito di deregulation ricordate che essa si ispirava al pensiero della Scuola di Chicago e aveva l’obiettivo di liberare gli «animal spirits» dell’impresa. Ma alla lunga, nella psicologia collettiva, non ha prodotto piuttosto un’infantilizzazione: dal cittadino adulto che lavora, appunto, a quello, eterno infante, che consuma?
«Si dice addirittura che abbia prodotto un deperimento del concetto di cittadinanza. C’è qualcosa di avido e distruttivo nel consumo. Mentre buona parte di quanto viviamo è disciplinato dalle politiche di marketing. Ingordo, avido e invidioso: è questo il tipo ideale di soggetto per la nostra società».
Tra i contributi c’è quello di Carol Beebe Tarantelli, vedova dell’economista ucciso dalle Br, psicoanalista e per due legislature deputata. Parla del terrorismo. E di nuovo eccovi in singolare sintonia con quello che sta avvenendo in queste settimane. Com’è nata l’idea di questo tema?
«Il suo è un lavoro, scritto due anni fa e circolato molto nella versione inglese, che a mio parere è un capolavoro per garbo e profondità. Una delle cose che costituiscono un problema per la sinistra, in Italia, è l’incapacità di essere “cattivi”. La piaga del terrorismo è stata combattuta, la sinistra storica ha vinto, ma è rimasto un indigesto non elaborato. La questione del terrorismo pone il problema centrale della colpa. Perché affrontare il problema delle regole significa confrontarsi con chi non le rispetta. Bisognerebbe trovare un equilibro flessibile tra giustizialismo e perdonismo».
Negli anni Ottanta e Novanta a sinistra ha prevalso piuttosto il perdonismo. Scontate le pene molti ex-terroristi hanno ritrovato un ruolo pubblico come autobiografi e scrittori, come «testimoni». «Questo verrà fuori al congresso. Valerio Magrelli ha pubblicato un libriccino straordinario, Il Sessantotto realizzato da Mediaset: è un dialogo all’inferno tra Machiavelli e un leader della sinistra contemporanea, il Soave, il primo prototipo di una lucidità politica grintosa, l’altro simbolo di superficialità e inefficacia».
Noi italiani veniamo da un ventennio in cui ci siamo fatti sedurre da un Grande Incantatore. Oggi invece ci si uccide accusando lo Stato di essere un Grande Persecutore. È un rapporto equilibrato tra cittadini e cosa pubblica?
«È appunto il problema delle regole. O si eludono, si negano, si trasgrediscono, oppure le si vive come l’arrivo di un castigamatti. Il nostro è il Paese dove si teorizza che le tasse non vanno pagate e chi ascolta sogghigna, poi arriva quello che dice che si pagano e succede l’iradiddio. Non solo i suicidi, ma il grido “La Guardia di Finanza va a Cortina a verificare che rilascino gli scontrini. Mio Dio!”. Magrelli, tra l’altro, dice una cosa giusta e complicata, che questa nostra malattia risale alla Controriforma. Noi siamo tutti colpevoli ma non responsabili. Anni fa ho pranzato con un alto prelato e, di fronte al cibo, commentai “Non mi faccia cadere in tentazione”. Sa come mi rispose? “Guardi che il miglior modo di affrontare il demonio è cedere subito”. Non è un capolavoro?».
Professor Foresti, questo XVI Congresso si annuncia come il contrario che accademico e ingessato. Anzi, sembra riservare non pochi effetti speciali. Lei ne ha curato l’ideazione. Ha ottenuto facilmente via libera o ha incontrato resistenze?
«La scommessa è quella di costringere noi tutti a pensare insieme. Curiosamente i colleghi più disponibili sono stati quelli che si occupano di adolescenti. Perché, per definizione, hanno a che fare con la trasgressione: devono farla vivere, accoglierla e governarla. E l’adolescenza è, appunto, l’età emblema dell’epoca che viviamo. E della necessità di ri-fondare delle regole».
Il congresso
«Realtà psichica e regole sociali. Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo» è il titolo del XVI Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, da oggi a domenica alla Sapienza. Gli psicoanalisti italiani dialogano e si confrontano con Silvana Borutti, filosofa, Valerio Magrelli, poeta, Susanna Camusso, sindacalista, Alessandro Profumo, banchiere, Vittorio Lingiardi, psichiatra e Ferruccio Andolfi, filosofo. Aprono e chiudono i lavori Stefano Bolognini, presidente Spi e Ipa e Giovanni Foresti, segretario scientifico Spi. Oggi si discute dei conflitti etici che caratterizzano la vita psichica individuale; domani si parla delle scelte etiche implicite nel funzionamento istituzionale e domenica dei problemi clinici e sociali prodotti dal ripiegamento narcisistico.
Corriere 25.5.12
Verità e relativismo, la sfida impossibile La fallibilità della scienza secondo Karl Popper
Non può esistere l'Essere assoluto e la «conoscenza come congettura» è solo un'ipotesi
di Emanuele Severino
Verità e relativismo, dunque: se ne sta parlando di nuovo anche sul «Corriere». Il relativismo, si dice, nega che l'uomo riesca a conoscere una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si ferma a questa definizione, tutta la cultura del nostro tempo, innanzitutto quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che quella negazione della verità era già sostenuta 2.500 anni fa, e in grande stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande fosse il suo stile? No; perché a quella definizione non ci si può fermare. Anche perché già il pensiero greco sapeva che chi afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli stesso che nemmeno questa sua affermazione è una verità assoluta. (Le cose non sono però così pacifiche, perché un negatore della verità potrebbe replicare che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità, perché no? — visto che se gli si obbiettasse che in questo modo egli nega il «principio di non contraddizione» potrebbe daccapo rispondere che quel principio, così semplicemente affermato, è un dogma; e bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è).
Il relativismo degli ultimi due secoli è tutt'altra cosa. Nega tutto l'antirelativismo che c'è stato nel frattempo. Si crede che il relativismo possa appoggiarsi anche a Pascal, per il quale la verità assoluta non potrà mai esser trovata perché «tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può esistere nemmeno un Dio eterno e assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel «tutto che muta» è, propriamente, il mondo. Nietzsche arriva a tanto perché, fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra l'impossibilità dell'esistenza di un qualsiasi Essere eterno e assoluto.
Ma tale persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell' Occidente — e, ormai, del Pianeta. Sin dall'inizio l'avanguardia dell'Occidente — la filosofia greca — è persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il mutamento sia un passare delle cose dal non essere all'essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del modo in cui esso era stato precedentemente inteso dall'uomo). O gli odierni relativisti ritengono, contro i Pascal sui quali essi si appoggiano, che il mutamento del mondo sia il contenuto di una «conoscenza fallibile, congetturale» (per usare una nota espressione di Popper)? E la «ricerca della verità», che i relativisti preferiscono al suo «possesso», tale ricerca, dico, non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E l'esistenza di tale ricerca è forse, per i relativisti, il contenuto di una conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O vedano loro che cosa intendono sostenere).
Sennonché sono soltanto Nietzsche e pochi altri a saper mostrare perché, dal fatto che nel mondo tutto muta, è necessario concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile oltre a quella che consiste nell'affermazione di quel fatto, e che non esiste alcun Essere eterno e assoluto oltre agli esseri che mutano nel tempo. (In altra sede si tratterà di capire in che consista quel perché). Nietzsche e pochi altri — abitando quello che son solito chiamare il sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo — san fare cioè quel che i relativisti d'oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche perché, per lo più e più o meno consapevolmente, evitano di riconoscere che anche per loro è una verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose mutano col tempo.
Antirelativisti sono coloro che lungo la tradizione dell'Occidente condividono sì la persuasione che il mutamento delle cose del mondo è una verità irrefutabile; ma, a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia anche l'esistenza di un Essere eterno e assoluto al di là o all'interno del mondo. Sono gli amici della «metafisica». Ma nel sottosuolo essenziale del nostro tempo appare l'impossibilità della metafisica. D'altra parte, ai relativisti che stanno fuori del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo sentito, cioè che se tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche l'affermazione che tutta la nostra conoscenza è fallibile e congetturale.
Per trarsi d'impaccio, i relativisti più spregiudicati di superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e congetturale. (Sembrerebbe il culmine dell'atteggiamento critico — ma allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto. Inoltre, anche in superficie, si tratta spesso di esclamazioni inconsapevoli della complessità della questione rispetto a cui sembrano spregiudicate). Il filosofo liberale americano Richard Rorty lo ha riconosciuto. In Italia lo aveva riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non essere americano e di essere fascista, come il suo maestro Giovanni Gentile — che invece, insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a tutti i Popper. Comunque, se il relativista riconosce che tutto quel ch'egli sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale, pronta ad «abbandonare i propri valori» teorici e morali «se altri si rivelano più credibili», ascolto con interesse (condividendo anche i suoi buoni sentimenti) e ritengo che abbia ragione a credere di dire cose fallibili (che poi son cose false, dato che il relativista di ogni tipo non può credere che in futuro le sue opinioni abbiano a rivelarsi verità incontrovertibili).
Ma aggiungo che anche questa sua autocritica è apparente. Domando: chi si dichiara pronto ad abbandonare i propri valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?» È uno che dice: «Forse son pronto, perché non escludo che anche se ne vedessi di più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si son capite le domande, la risposta non può che essere negativa. Anche questo relativista, cioè, non mette in dubbio, è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque assolutamente vero il proprio trovarsi nello stato in cui egli è disposto ad abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l'uomo non apre bocca se dubita di quel che dice. E se dice: «Dubito di quel che dico», egli non dubita di dubitare. (Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l'uomo apre bocca solo se non dubita, la maggior parte delle volte che l'apre dice però cose false; mentre le considerazioni di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile).
A Popper che afferma il carattere fallibile e congetturale di tutta la nostra conoscenza va dunque replicato che, d'altra parte, l'uomo — dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo — è sempre convinto, più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute e incontrovertibili (anche se sbaglia quasi sempre). Come ne sono convinti anche quei logici che avrebbero mostrato (e anzi dimostrato!) «che non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria». Come ne sono convinti anche i relativisti alla Popper e alla Hans Kelsen, che sostengono un'implicazione necessaria, cioè assolutamente vera, tra relativismo, libertà, democrazia. E allora?
Allora, nella folla sterminata di coloro che — senza saperlo e anzi spesso negandolo — sono convinti di conoscere verità assolute, si trovano anche gli uomini dell'Occidente, per i quali la verità assoluta e incontrovertibile dominante è che le cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la necessità che tutte le cose mutino, nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che afferma il divenire e il travolgimento di ogni cosa e di ogni verità.
Restano travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell'Occidente, consistevano nell'adeguare la vita dello Stato e dei singoli individui alla verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare «con verità». Se oggi qualcuno auspica una politica capace di parlare «con verità», deve tener presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo, molti mesi fa, in un mio articolo sul «Corriere», avevo domandato a Ernesto Galli della Loggia, che cosa intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare «con verità». Glielo avevo chiesto anche perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa — ad esempio — usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano legate alla verità incontrovertibile e assoluta della metafisica tradizionale (aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la democrazia procedurale, una «libertà senza verità».
La risposta di Galli della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto — c'era ancora il precedente governo — che una politica che parla con verità è quella che non nasconde ma dice in che stato miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che non riguarda la verità, ma la «sincerità», giacché se non c'è verità senza sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del rapporto tra relativismo e antirelativismo — visto che l'accentuata corruzione della politica e della morale è una conseguenza dello stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la tradizione, dove anche i corrotti si riconoscevano pur sempre sottoposti al giudizio della verità, e il tempo futuro.
Il tempo in cui — con l'inevitabile tramonto di ogni verità metafisica e di ogni eterno Signore del mondo — quella forma suprema dell'agire umano che è la tecnica viene autorizzata a prendere in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica che sa ascoltare il sottosuolo, dico, non la «vera» o «buona politica». (Un processo, questo, in cui consiste il senso autentico dell'«antipolitica». Ne parleremo un'altra volta).
Corriere 25.5.12
Alchimia, versi, fisica dei quanti. Dove ci porta «l'arte del fare»
Gli aspetti pratici e imprenditoriali delle creazioni umane
di Ida Bozzi
Con un tema, «La Grande Opera», che evoca suggestioni a cavallo tra arte, scienza e tecnica (dall'«opera» dell'alchimista all'opera omnia di poeti e letterati, fino all'«opera grande», cattedrale o metropoli che sia, dell'artigiano e dell'architetto) torna a Fabriano da oggi a domenica il festival «Poiesis» ideato e diretto da Francesca Merloni e giunto alla quinta edizione.
Nato nel 2008 come manifestazione dedicata alla poesia, quest'anno vira anche più decisamente verso una formula interdisciplinare, tanto che perfino i percorsi dello scorso anno, che prevedevano le categorie di «arte» o «musica» eccetera, diventano poeticamente in questa nuova edizione «percezione», «pensiero», «visione», e così via, mentre gli ospiti vanno dall'architetto Rem Koolhaas ai fratelli Taviani del cinema, dal poeta Villalta al mattatore Bergonzoni, dal rapper Marracash a nomi celebri delle scienze cognitive come Vitiello o Piattelli Palmarini.
«Ho pensato a tutte queste suggestioni — spiega Francesca Merloni — ad esempio il concetto di opera alchemica, l'unione degli estremi, gli universi dell'opera mondo e dell'opera omnia, ma anche la visione dello scalpellino che non sta scolpendo la pietra ma costruendo una cattedrale, e infine l'opera che noi siamo in quanto costruzione del pensiero: insomma, l'opera in tutte le sue declinazioni, compresa quella del "fare", la poiesis appunto».
Numerosi i fili rossi che attraversano l'evento, continua la Merloni: «Ad esempio possiamo seguire il concetto di "vibrazione": apriamo con il convegno sui neuroni (la risonanza o vibrazione tra cellule nervose è una delle recenti scoperte delle neuroscienze) e poi ritroviamo la "vibrazione" nei canti dei monaci tibetani e nel canto gregoriano, nel concerto di questa sera. Oppure parliamo della visione del mondo e dell'abitare di Koolhaas, ma anche della visione di fotografi o di pittori come Schnabel».
Tra gli eventi più interessanti, oltre al già citato convegno al Giardino del Poio su «Neuroni e fisica dei quanti» con Massimo Piattelli Palmarini, Anyrban Bandiopadhyay, Giuseppe Vitiello (ore 17.30), da segnalare domani al Cinema Montini la proiezione del film «Cesare deve morire» di Paolo e Vittorio Taviani, seguito dall'incontro con i due cineasti (ore 15), il dibattito con Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi (ore 17.30). Tra gli ospiti di domenica, si può scegliere se ascoltare Rem Koolhaas (ore 14.15), lo scrittore Raffaele La Capria (ore 17) oppure Italo Rota (alle 19), o se assistere allo spettacolo della danzatrice Carolyn Carlson al Teatro Gentile (ore 20.30). Ogni giorno, gli incontri con i poeti, con ospiti come Gian Mario Villalta, Antonio Riccardi, Stefano Massari e numerosi altri, inoltre domani sera l'omaggio a Wislawa Szymborska con il recital dell'attrice Licia Maglietta. Tra gli eventi musicali, da citare tra gli altri i concerti di Paolo Fresu e di Elisa domani sera, mentre domenica in chiusura di festival è in programma il concerto del rapper Marracash. (il programma completo sul sito del Festival, poiesis-fabriano.it).
«La poesia è scesa negli aspetti pratici della vita — conclude la Merloni — divenendo davvero poiesis, l'opera concreta del fare. E infatti quest'anno presentiamo anche il progetto le "Officine", cui teniamo molto, che proporrà corsi di formazione per artigiani della cultura e dell'impresa, aperti a tutti». Il progetto formativo per gli artigiani, realizzato dalla Commissione nazionale italiana per l'Unesco insieme a Poiesis, sarà presentato domani alle ore 12.30 all'oratorio della Carità. «Sarà una scuola dedicata a tutti quei mestieri e quegli antichi saperi oggi spesso dimenticati, per formare stampatori, librai, ma anche cartoonist, fotografi, e molte altre figure culturali, editoriali e così via; a partire dal mestiere artigiano, per arrivare, chissà, magari fino all'ebook».
Corriere 25.5.12
I «padri padroni». Gli irriducibili che maltrattano senza chiedersi neppure il motivo. E poi quelli che si interrogano, ma non sanno come uscirne
«Perché lo abbiamo fatto» Parlano gli uomini
Incapacità di vivere una relazione di coppia, paura di stare soli. La fragilità dietro gli abusi
Non sono tutti uguali. Gli uomini che usano violenza sulle donne popolano una zona d'ombra della nostra società che dobbiamo cominciare a (ri)conoscere. Ci sono ancora i padri-padroni, che s'aggrappano con la forza dei loro muscoli alla tracotanza di un potere millenario e anacronistico. C'è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché. Sono solo la punta dell'iceberg, quella che più facilmente finisce sulle pagine dei giornali o in un commissariato di polizia. Sotto, si cela una moltitudine di uomini che insultano, tirano sberle, maltrattano con angherie quotidiane o periodici raptus le proprie mogli, compagne, amanti, a volte anche le figlie. Chiedendosi magari il perché ma senza riuscire, da soli, a fermarsi. E il finale tragico è sempre in agguato. Accanto alle storie-confessioni raccolte in queste pagine, abbiamo chiesto a quattro esperti di aiutarci a comprendere cosa avviene nella mente di questi uomini e, se possibile, di spiegare come individuare i meccanismi che scatenano la violenza.
«Nella stragrande maggioranza dei casi, dietro gli abusi c'è un'incapacità di stare nella relazione, di gestire conflitti, solitudini, paure d'abbandono. Una fragilità che non si riesce a riconoscere. Serve un nuovo linguaggio per spiegarla: il patriarcato di terza generazione è molto più subdolo e sottile», spiega Roberto Poggi, counselor e animatore de «Il Cerchio degli Uomini», associazione di volontari di Torino che da anni ha uno sportello d'ascolto per il disagio maschile. «Se un terzo delle donne italiane dichiara di aver subito violenza, significa forse che il 25-30% degli uomini sono delinquenti? Impossibile. Esiste piuttosto un sommerso enorme in Italia, che richiede un cambiamento profondo nelle relazioni, nella capacità di saper gestire i conflitti».
Nella stragrande maggioranza dei casi è la donna a uscire con le ossa (e la mente) rotte da una visione distorta delle relazioni affettive che, nel chiuso delle quattro mura domestiche, degenera nella violenza. «L'assunto di molti uomini è: io non sono violento, la colpa è sua, è lei che mi esaspera. E dunque la mia violenza è soltanto punizione, vendetta». Stefano Ciccone, 48 anni, fondatore dell'associazione nazionale «Maschile Plurale», riflette su relazioni e stereotipi di genere e in particolare sul «rancore degli uomini» (nel libro Silenzi, Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini, edizioni Ediesse). «Un rancore che fa leva su un disagio diffuso, reale, ma lo interpreta in un modo distorto — aggiunge Ciccone —. Nasce dalle dolorose vicende di separazione, dalla rappresentazione paranoica di un femminismo persecutorio, dal risentimento per lo stesso potere seduttivo delle donne che svela tutta la fragilità maschile».
Se la cultura diffusa non aiuta, in Italia spesso anche il disagio degli uomini non trova risposte adeguate: quelli che vogliono mettere in discussione le loro reazioni «sbagliate» non trovano a chi rivolgersi. Lo ammette Marina Valcarenghi, psicoterapeuta di formazione junghiana e presidente di Viola, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza. «Sul piano psicoterapeutico attualmente non c'è niente, salvo qualche iniziativa sperimentale (fra cui la mia, durata nove anni nel carcere di Opera, a Milano), sia per mancanza di soldi, sia per disinteresse delle istituzioni, sia anche per la latitanza della mia categoria professionale che troppo spesso non riesce a distinguere fra la ripugnanza morale e il compito terapeutico». Anche lei conferma che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di uomini malati: «Non si deve riabilitare né guarire; l'obbiettivo è lavorare sulle cause che hanno lasciato emergere l'istinto violento e disattivato i freni inibitori».
La necessità di non lasciare soli questi uomini è ribadita con forza dal dottor Massimo Lattanzi, coordinatore nazionale del Centro Presunti Autori, che invoca una svolta nelle politiche per contrastare violenza e stalking: «Nel triennio 2009/2011 hanno lasciato sul campo circa 400 vittime tra bambini e donne assassinate e uomini suicidi. Nel 95% dei casi il contesto è quello delle relazioni interpersonali, l'episodio che le scatena la separazione, l'abbandono o il rifiuto. Dopo il cosiddetto "colpo di abbandono improvviso" i presunti autori non possono fare a meno di ricontattare e avvicinare la propria vittima, una forma di craving simile a quella vissuta dai dipendenti da sostanze o gioco d'azzardo. Senza un percorso continueranno ad agire anche dopo le misure cautelari», spiega. Per spezzare questa catena è necessario educare gli uomini a una nuova socializzazione, accompagnarli verso modalità più rispettose di relazione. «Nel 70% dei casi il nostro protocollo ha evitato recidive meglio delle misure cautelari. Il muro invalicabile della denuncia o di una misura cautelare è vissuto come ulteriore rifiuto e può produrre gesti molto gravi. Gli strumenti devono essere quelli di una giustizia di tipo riparativa, non solo punitiva, altrimenti il ciclo della violenza non si chiuderà».
Posizione che non trova molti consensi tra gli altri esperti. Come sintetizza Poggi, «la denuncia è uno strumento che serve, perché contiene e ferma la violenza». Una misura d'emergenza come, su tutt'altro piano, le tecniche che insegnano a contenere gli accessi di rabbia. «Poi, per ottenere un cambiamento, bisogna lavorare a lungo, con altri strumenti». Reimparare l'abc delle relazioni non è cosa di un giorno.
Repubblica 25.5.12
I dati della procura: 26 casi dallo scorso 24 aprile. Sette delle vittime sono minorenni
Allarme violenza sessuale a Milano "Una al giorno nell’ultimo mese"
di Sandro De Riccardis
Un uomo in carcere per lo stupro di una 13enne inchiodato anche per un altro episodio
MILANO - Uno stupro al giorno. Aggressioni in strada, alla fine di una notte in discoteca, nel corridoio di una metropolitana, un attimo prima di girare la chiave nel portone. Mentre procura e squadra mobile di Milano inchiodano a un secondo stupro Luca Terranova, il milanese di 30 anni in carcere per l´aggressione ai danni di una ragazzina appena 13enne e ora anche per quella a una 40enne che tornava a casa con le buste della spesa, il procuratore aggiunto Pietro Forno, capo del dipartimento specializzato in reati sessuali, lancia l´allarme. «Sono 26 i casi dallo scorso 24 aprile - spiega - casi di donne che hanno subito violenze da sconosciuti. Sette vittime sono minorenni, 19 maggiorenni». Nei venti giorni precedenti, invece, sono stati aperti undici fascicoli: tre minorenni e otto maggiorenni. «Molti episodi sono stati segnalati alla magistratura dai centri antiviolenza - precisa il magistrato - tra questi, anche le violenze da discoteca: le ragazze vengono invitate a bere da sconosciuti, assumono droghe, poi si ritrovano per strada senza indumenti e non ricordano nulla».
Per far fronte a questa vera e propria emergenza, l´aggiunto ha deciso di affidare i casi di violenze fuori dalle mura domestiche a due soli pm, Cristiana Roveda e Gianluca Prisco, quest´ultimo già titolare dell´indagine su Terranova, raggiunto da una nuova misura dopo quella in carcere per lo stupro della 13enne - l´11 aprile scorso - nell´androne del suo condominio a Porta Romana, in centro a Milano, sotto la minaccia di una pistola giocattolo.
Gli investigatori della squadra mobile, guidati dal dirigente Alessandro Giuliano, sono arrivati a lui dopo che il trentenne era stato sorpreso da alcuni agenti mentre palpeggiava delle donne in metropolitana. Il riconoscimento senza incertezze della ragazzina e il riscontro del dna hanno fatto il resto. Ma le indagini su Terranova da parte della quarta sezione della squadra mobile, specializzata in violenze sessuali e diretta dal vicequestore Patrizia Peroni, non si sono fermate. E un´altra donna, 40 anni, ha riconosciuto nel volto dell´uomo il proprio aggressore, riportando a galla, ancora sconvolta, i momenti tragici dell´aggressione. Lo scorso 25 gennaio, la signora viene intercettata di ritorno dal supermercato - poco distante dalla centralissima via Manzoni - e viene stuprata nell´androne del palazzo. L´uomo non si accontenta, la trascina nel palazzo e continua a violentarla in casa. Scappa portando via soldi, carta di credito e batteria del cellulare. Per l´efferatezza di questo e altri episodi, la procura lancia un appello: «Se qualcuno ha subito violenza, lo dica, perché ci troviamo di fronte a un violentatore seriale - ha detto il procuratore Pietro Forno - Se altre donne riconoscono in Terranova il loro aggressore si rivolgano alla procura». Nella descrizione degli investigatori, l´uomo è alto un metro e sessanta, castano e un po´ stempiato, esile ma abbastanza muscoloso. Una persona dall´aspetto ordinario, diventata l´incubo di una 40enne e una ragazzina, ma forse anche di altre donne.
Repubblica 25.5.12
Le rovine di Adriano
di Francesco Merlo
Sporcizia, indicazioni sbagliate, nessun controllo. Viaggio tra le rovine del gioiello architettonico raccontato dalla Yourcenar. Così la discarica prevista a poche centinaia di metri rischia di essere solo l´ultima ferita
Da solo il muro con i suoi mattoni a rombi varrebbe la visita, ma il turista perde tutto il bello
Trovo più facilmente la discarica di Corcolle che Villa Adriana. I pochi segnali stradali mi mandano sia a destra sia a sinistra ma finisco davanti a un muro cieco, dietro il quale non c´è ovviamente Villa Adriana ma ancora e sempre spazzatura. «Non vogliamo i rifiuti di Roma» annunzia il primo cartello veramente chiaro in questa giungla stradale che è fatta per perdersi, per non arrivare mai. Anche i presìdi di rivolta dei tivolesi non sembrano accampamenti ordinati a difesa delle vestigia dell´imperatore, ma una rimessa di rancori contro la metropoli che prima li ha espulsi e poi li ha chiamati burini: «Roma Zozzona, Tivoli non perdona». Di sicuro, adesso che è stata decisa, quasi tutti scaricano la discarica: il sindaco, la Regione… e anche il ministro Ornaghi che non si riconosce nella figura di Ponzio Pilato ma, proprio come il procuratore della Giudea, minaccia le dimissioni invece di darle. L´Italia, come si sa, è una discarica di dimissioni minacciate e mercoledì scorso Ornaghi, invece di visitare con Monti e con la Cancellieri le macerie della Torre dei Modenesi e quel che resta del Castello di San Felice sul Panaro e di decine di chiese, chiostri e conventi dell´Emilia Orientale terremotata, è andato a minacciare le dimissioni nel posto più spettacolare d´Europa: la Croisette di Cannes. Per la verità già lungo la Tiburtina capisco che prima di difendere Villa Adriana dalla futura discarica che la minaccia, bisognerebbe, come in un sogno, sottrarre l´Animula vagula blandula dalla presente discarica che la soffoca e la nasconde, che l´ammorba.
La Tiburtina è un serpente di spazio-spazzatura (junkspace) a una sola corsia, una zona suburbana di umanità confinata. Come unghiate sulla terra mi passano davanti le cave di quel travertino che abbellisce il "Getty Center" di Santa Monica ma qui abbrutisce il paesaggio già mangiato da case senza disegno, recinti di venditori/compratori di rottami di ferro, casermoni informi che sporcano anche la dolce linea dei colli. Qui c´è anche la discarica del sogno di sviluppo dell´informatica all´amatriciana che i romani chiamarono "Tiburtina Valley" e adesso è solo un altro fallimento industriale, un mondo dismesso ma attraversato da quell´Aniene che verso Roma diventa il feudo abusivo di Anemone e della cricca, le piscine-fantasma dei mondiali di nuoto del 2009.
Sono luoghi pasoliniani ma senza la poesia di Ostia o di Mamma Roma. E va bene che siamo abituati a vedere le vestigia in mezzo al degrado, rovina delle rovine, ma almeno a Pompei ci sono i turisti mentre qui i pochissimi visitatori, se non si perdono per strada, sono come i pellegrini provati dagli enigmi, fermati dalle sfingi, deviati da una toponomastica arrangiata e bizzarra. Sembrano i giocatori di una caccia al tesoro.
Poi, quando finalmente arrivo su "Piazzale Yourcenar" e trovo l´ingresso, quasi mi dispiace di non essere accolto dalla solita folla di questuanti, guide autorizzate e guide improvvisate, truffatori, scippatori, carrettini di panini immangiabili, venditori di souvenir e di paccottiglia d´ogni genere che in fondo rimandano all´archeologia del vivere. Quegli orribili mostriciattoli parassiti del sottosviluppo crescono insieme alla ricchezza, sono microrganismi e fermenti di una decomposizione sociale che è pur sempre vita, anche se andata male.
Invece oggi giovedì, ore 13, su questo piazzale non c´è nessuno. Solo una signora inglese, eroina dall´archeologia, che inutilmente boccheggia in cerca di un bar. Fa molto caldo ma non ci sono luoghi di ristoro, solo una fontanella. Mi sembra di essere a Morgantina dove la povera Venere patisce la solitudine della periferia dopo la folla eccessiva di Los Angeles. E con dolore rimpiango i centurioni con la scopa in testa: qui non vengono perché non c´è danaro da lucrare, non ci sono i turisti da spennare. Persino la grande promozione "Villa Adriana ad un euro" nel ponte del primo maggio è stata un triste fallimento.
Pago il biglietto anche se i tornelli d´ingresso non funzionano e dunque si può entrare gratis perché non c´è controllo. L´erba comincia a seccare e a diventare gialla. Gli ulivi sono bellissimi. Per terra ci sono, altro prologo di discarica o forse epilogo, sacchetti vuoti, bottiglie di plastica, cartacce. Sono rarissimi i cestini dei rifiuti. Sotto una quercia c´è posteggiata una Opel Astra, ma non è un´opera d´arte, non sono i baffi alla Gioconda, è proprio sciatteria ma, tanto, non la vede nessuno.
A Villa Adriana si sparpagliano solo le scolaresche "deportate" che sono quanto di più ostile all´idea del bello da godere: Villa Adriana per loro è come il Manzoni per i ginnasiali, un dovere persino noioso. Alle 14,30 i bambini di una scuola elementare fanno picnic sotto gli ulivi. «Vuole favorire?» mi chiede la maestra. Sono allievi della Granturco di Roma, via della Palombella, a due passi da quel Pantheon che fu costruito proprio da Adriano ed è l´unico edificio della Roma antica ancora in piedi dalle fondamenta al tetto. E a proposito di vanità sulla Croisette non fa male ricordare al ministro che Adriano non firmò il suo capolavoro ma vi lasciò per sempre il nome di chi lo aveva iniziato: «Agrippa fecit». La Yourcenar gli fa dire: «Ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte». All´ombra della quercia c´è sempre l´Astra. È abbandonata? È targata CL558...
Avanza una signora con un cane. E vengo a sapere che gli animali sono ammessi anche se disturbano ed eccitano i randagi che qui vengono allevati e nutriti dai custodi. Al più grosso dei randagi hanno dato il nome Jack e la custode della mostra sull´amore di Adriano per Antinoo mi rassicura: «Er segreto è picchialli colle mani, mai col bastone».
Villa Adriana, si sa, è un posto dell´anima, il trionfo della voluttà architettonica, un florilegio dei capricci edilizi di un grande imperatore: la sala del banchetto, la piscina, il teatro marittimo, la piazza d´oro, il pecile, il canopo, le terme, la biblioteca…. E mi viene il pensiero semiserio che tra altri duemila anni anche la villa di Berlusconi in Sardegna sarà visitata da una signora dell´Oregon con la tuta a fiori alla ricerca della sala del bunga bunga o delle cucine ipogee del cuoco Michele, o ancora dell´approdo sotterraneo, un mondo di voluttà più per Trimalcione che per Adriano, più il Satyricon di Petronio che il romanzo della Yourcenar.
Villa Adriana non è una città in forma di palazzo e non è nemmeno un palazzo, forse è un edificio destrutturato, tante stanze slegate tra di loro che Adriano teneva in piedi per la memoria: appunto le stanze delle memorie di Adriano. Da solo il muro, con i suoi mattoni a rombi, varrebbe la visita purché qualcun spiegasse che era la misura della passeggiata. Per Adriano quei duecento metri erano lo spazio e il tempo giusti della filosofia peripatetica, dialoghi in cammino, il pensiero occidentale in cinque minuti. Le Corbusier ne fece uno schizzo magnifico: lo considerava il prototipo di tutti i muri.
Ebbene, il visitatore non capisce nulla di tutto questo. Le acque della piscina sono sporche e limacciose e non fanno certo pensare al rifornimento di pesce durante i banchetti. Brutte grate d´alluminio circondano il lago dove si organizzavano giochi di guerra navali. I pochi cartelli parlano di geometrie e non accendono mai la fantasia. Non c´è niente che indichi che da lì passavano le carrozze e si fermavano ai piedi di quelle scale. Nessuno può accorgersi che ci sono affreschi ancora stuccati, le grottesche che nel Colosseo e nella villa di Nerone sparirono alla fine del cinquecento.
Tornando a casa il visitatore si sente sperduto e anche io mi sento perduto. Mi sembra di aver fatto una passeggiata in campagna. È stato come visitare un bosco. L´architettura non parla, viene riassorbita dalla natura e diventa una massa informe come la Tiburtina, come i paesi e i quartieri che percorro all´incontrario e finalmente capisco che cosa mi ricordano: le strade di Favara e di Corleone. Si accendono le luci della sera e la Tiburtina si popola di prostitute e travestiti. L´Adriano della Yourcenar diceva: «Io sono il custode della bellezza del mondo». Ci facciano o no la discarica, chiunque abbia visitato Villa Adriana, quando va via si sente discaricato.