l’Unità 21.5.12
L’Italia del coraggio deve battere l’Italia della paura
A prescindere dalla matrice l’obiettivo era di seminare terrore
Il clima che si respira nel Paese deve preoccuparci
di Antonio Ingroia
Pur con la cautela dovuta alla delicatezza delle indagini e al riserbo degli investigatori, l’orribile attentato di Brindisi impone alcune considerazioni.
Prima considerazione: chiunque sia il responsabile di un atto criminale così efferato, organizzazione terroristica o mafiosa, ovvero assassino solitario, l’obiettivo era uno, semplice e terribile. Seminare il terrore nel Paese, veicolare una nuova, sottile, paura sociale da aggiungere alle altre paure che si vanno diffondendo. Colpire al cuore il senso più intimo di sicurezza di ogni cittadino, che ha diritto di essere sereno quando manda i propri figli a scuola. Colpendo un’innocente studentessa si è voluto colpire la gioventù del Paese. Prendendo di mira una delle scuole italiane, si è voluto incrinare ancora la sicurezza collettiva di una comunità nazionale. Ecco perché, chiunque sia stato, non possiamo sentirci «sollevati» anche se dovesse essere smentita la «pista mafiosa». Perché l’atto in sé, per la scelta dell’obiettivo, dei tempi e delle modalità esecutive, fa pensare trattarsi, certamente e comunque, di un atto terroristico con finalità destabilizzanti del senso di sicurezza dei cittadini. Qualcuno sta soffiando sul fuoco.
Secondo elemento: il fuoco. Il clima che si respira nel Paese deve preoccuparci. Senza voler alimentare eccessivi allarmismi che rischiano di fare il gioco dei professionisti del terrore, non va sottovalutato il diffuso senso di insicurezza che si percepisce, a Nord come a Sud. Prevale nel cittadino medio un costante sentimento di precarietà, che è innanzitutto economica ed esistenziale, di incertezza per il proprio futuro. Se a questo dovesse aggiungersi un crescente senso di insicurezza pubblica, il clima di instabilità nel Paese rischia di montare in modo allarmante. Il risorgere del terrorismo politico, le nuove forme di degenerazione violenta della contestazione sociale, la montante intolleranza ostile al confronto democratico sono fattori potenziali che trovano il loro habitat naturale nella situazione di incertezza del sistema, di cui sono ingredienti: la crisi economico-finanziaria nazionale ed europea, l’instabilità politico-istituzionale, la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni, l’approssimarsi di importanti scadenze elettorali e la conseguente fibrillazione nel mondo politico-istituzionale. Questi sono i combustibili che giacciono sul fondo del Paese. L’attentato di Brindisi, insieme agli altri fatti delittuosi degli ultimi mesi, apparentemente del tutto scollegati fra loro, sembrano dimostrare che sono diversi gli attori ben consapevoli di questo contesto «esplosivo», e pochi sono gli artificieri che vogliono disinnescare e i pompieri che vogliono spegnere il fuoco. Purtroppo, molti sono gli attori interessati ad appiccare l'incendio. Ecco perché bisogna tenere la guardia molto alta. Perché perfino il gesto stragista di un fanatico può essere usato da altre menti più lucide, ma non meno criminali. Terzo elemento: il Paese reale. C’è l’Italia che ha paura, una paura sociale ed economica. La paura di perdere il posto del lavoro, la paura dell’incertezza economica, paura nel mondo del lavoro e nel mondo dell’impresa. È la paura della precarietà. Di fronte alla quale i fomentatori della paura sono in agguato. È qui che covano le strategie collettive ed individuali, patologiche e criminali, per fomentare la paura, anche perché no? a colpi di bombe. L’Italia non è nuova a scenari del genere. Scenari apocalittici? Forse, ma è bene stare attenti. Coesi e vigili. Ma anche fiduciosi, perché c’è anche l’Italia del coraggio. L’Italia dei giovani che hanno manifestato ancora contro la mafia e la violenza. Pronti a scendere in piazza nel segno della solidarietà e per la legalità. Giovani forti ed innocenti come la povera Melissa, che diventerà il simbolo di questa Italia. La società perbene pronta a resistere e ad impegnarsi giorno per giorno per un futuro più libero.
Conclusioni: che fare? Perché la paura non diventi panico, perché l’Italia del coraggio prevalga sull’Italia della paura e dei fomentatori del terrore, occorre un rinnovato impegno delle istituzioni per dare fiducia e speranza. Dimostrando fermezza contro ogni forma di sistema criminale, quello della mafia e del terrore, ma anche quello della corruzione. Per conquistare sempre maggiore fiducia nelle istituzioni, per dare ancora più coraggio all’Italia del coraggio. Per preservare la democrazia.
Corriere 21.5.12
Nella mente folle dell’assassino che uccide innocenti
Colpisce i figli per renderci tutti bersagli
di Donato Carrisi
Non è stato un semplice attentato. Questa, invece, è una guerra. Un esercito di un solo soldato contro il mondo intero. E non è cominciata adesso, bensì tanto tempo fa. Ma prima era solo nella testa dell'uomo che ha schiacciato il pulsante del telecomando che ha fatto esplodere la bomba. Una guerra personale, alimentata con l'odio di anni, generata dalle viscere del risentimento. Ma combattuta anche per conto di chi, come lui, ha dovuto subire per tutta la vita. Per chi non aveva voce, né rispetto. Perché lui, nel suo delirio, ne è sicuro: questi uomini invisibili e vessati ora sono dalla sua parte, anche se non possono dirlo, perché «gli altri» non capirebbero, perché quelli sanno solo giudicare e sputare sentenze. Ma ci ha pensato lui a punirli, perché nella sua testa gli altri ora sono il nemico. È convinto che la sua guerra sia eroica, per questo non risparmia nessuno. Una ragazzina morta è solo una pedina sacrificabile, un giusto tributo di carne e sangue da versare alla causa. Non ci sono innocenti in questa guerra. Ma se la sono voluta loro, lui ha solo reagito. E noi non possiamo permetterlo. Nella sua follia, la missione è andare contro chi l'ha respinto, escluso, maltrattato o, semplicemente, ignorato per tanto, troppo tempo. Adesso, però, la sua guerra è in mondovisione, e tutti possono vederla. E nel momento in cui tutti lo cercano, paradossalmente, lui non si sente più invisibile. Sono qui, sembra dirci. E sono pronto, venitemi a prendere.
Ha costruito la sua motivazione giorno per giorno, assemblandola pezzo per pezzo, in solitudine, come ha fatto con la bomba, costruita forse in cantina o in garage, mentre il mondo là fuori non sospettava nulla. Solo che la carica esplosiva che lui si porta dentro è di gran lunga più micidiale di tre bombole di gas. Ce lo dice il fatto che non bastava un ordigno a caso. No, bisognava colpire dove avrebbe fatto più male. Dritto al cuore. Giovani vittime, in modo che tutti si sentissero padri e madri, perché non esiste dolore più deflagrante della perdita di un figlio. Ha scelto di piazzarla davanti a una scuola, una con un nome simbolico, dedicata a chi il mondo degli altri celebra come eroe solo dopo che è morto. Lui ha voluto smascherare la nostra ipocrisia, e farci sentire vulnerabili. Perché l'onda d'urto della bomba non si è esaurita in un normale sabato mattina di scuola, ma continua, si propaga muta sotto forma di paura che rompe gli schermi della quotidianità, invade le case, s'insinua nelle famiglie. E ci fa sentire tutti bersagli.
Era questo lo scopo, fin dall'inizio. Per questo il soldato solitario ora ride. Di noi che abbiamo fatto, frettolosamente, di quella bomba e di quella povera vittima un simbolo. Ma questa non è la guerra dell'antimafia. Questa è la sua guerra. Ride perché, così, abbiamo fatto fare bella figura alla criminalità organizzata, alle mafie coi loro codici d'onore che, in realtà, sono solo codici di business secondo i quali ammazzare una ragazzina davanti a una scuola non è affatto immorale, ma fa semplicemente male agli affari.
Ride di chi «sentiva nell'aria» l'odore di questa bomba prima ancora che esplodesse: comici che non fanno ridere nessuno, tranne lui. Ride di noi, infinitamente deboli e impauriti. E soli. Perché davanti all'ombra il nemico può essere chiunque e il pericolo può nascondersi ovunque. Ogni luogo pubblico diventa un potenziale «target». Chi pensa che chi commette un simile atto voglia poi svanire nel nulla, si sbaglia in partenza. E adesso che abbiamo scoperto che l'uomo senza volto non è classificabile come mafioso o eversivo, e non possiamo sentirci rassicurati nell'inquadrarlo in una categoria conosciuta che, in passato, abbiamo già sconfitto, dobbiamo fare i conti con la realtà più tremenda. Lui è uno di noi. Il soldato ora ci guarda coi nostri stessi occhi. Ci guarda e aspetta. Ci guarda e ci sfida. La sua guerra dura da un pezzo. La nostra è appena iniziata.
Repubblica 21.5.12
Orrore che divora figli e futuro
di Benedetta Tobagi
"Fra tutte le azioni delittuose che gli uomini possono compiere contro altri uomini, la strage è una di quelle che più si avvicina al male radicale", ha scritto Norberto Bobbio. "Non c´è forse modo più perverso di ridurre l´uomo a mezzo che quello di considerare puro mezzo di un disegno ignoto la sua morte violenta".
E a Brindisi, nemmeno uomini, ma ragazzini, sono stati l´obiettivo, il mezzo di una strategia ancor più perversa, ancora ignota. Solo il caso ha evitatouna strage di studenti, sabato. Ma questo non argina l´orrore e lo sconcerto di fronte al ritorno di una pratica stragista che ha fatto un nuovo salto di livello. Una sola vittima, ma chi uccide una vita uccide il mondo intero, recita un adagio ebraico, e il sorriso radioso di Melissa basta a spalancare il baratro. Chi prepara un attentato del genere cerca di seminare terrore e sconcerto: è un attentato al pensiero, oltre che alle vite umane, paralizzante, destabilizzante. Proprio Melissa, nell´ultimo compito di psicologia scriveva: «Tra tutti gli esseri viventi, l´uomo è l´unico capace di riflettere su se stesso». E tocca riflettere anche sulle mani, comunque tragicamente, perversamente umane, che l´hanno uccisa. Un attentato del genere è simbolico. Come ogni simbolo apre uno spazio informe di significati tra la materialità del gesto e i suoi possibili significati - un mare oscuro, in questo caso. «Un´enormità senza precedenti», commenta il ministro degli Interni Annamaria Cancellieri. Già: e ce ne vuole, per poterlo dire nell´Italia che ha visto una bomba ammazzare 85 persone, famiglie, bambini, turisti in viaggio, nella sala d´aspetto di seconda classe della stazione di Bologna il 2 agosto del 1980. Condannati i Nar, la strage di Bologna resta una delle più oscure quanto alla finalità politica ultima di quel gesto abnorme. Ma colpire una scuola, nessuno era mai arrivato a tanto. L´incertezza sulla matrice accresce la paura. Numerosi elementi simbolici, dall´intitolazione della scuola al premio per la legalità, la contiguità fisica con il passaggio della carovana antimafia, la prossimità temporale con il ventennale della strage di Capaci, avevano immediatamente portato a pensare alla mafia, ma i magistrati tendono ora a escludere questa pista per l´attentato. La cautela è d´obbligo, in un Paese che ha una triste famigliarità con i depistaggi, ma le indagini si orientano con decisione verso il gesto isolato di un folle. Si risveglia dunque una mia impressione di cittadina atterrita a leggere di un ordigno costituito di bombole a gas: il simbolo mi aveva trasmesso il terribile messaggio che non c´è bisogno di tritolo o mezzi d´alto livello e ardua reperibilità. Qualcuno sibila: possiamo ammazzarvi, voi e i vostri figli, come e quando vogliamo, con oggetti ordinari di uso domestico. Un delirio d´onnipotenza. Una tentata strage di innocenti. Lo strazio dei bambini è il caso limite, l´immagine stessa del male radicale che annichilisce l´uomo, in tanti luoghi della filosofia, della teologia, della letteratura. Per tutti, le parole dell´Ivan Karamazov di Dostoevskij, che per il grido di un solo bambino torturato è pronto a rinnegare Dio e restituire il "biglietto d´ingresso" alla celeste armonia prestabilita. Non sono bambini, qui, gli obiettivi, ma adolescenti.
Erano proprio i giovinetti e le vergini il capro espiatorio, il tributo di sangue preteso dalle feroci divinità antiche, dal Minotauro ai feroci dei aztechi: le primizie della società. Non più bambini e non ancora adulti, creature nell´età di passaggio, colti nel luogo simbolico della formazione e della crescita. Adolescenti innocenti quanto i bambini, con l´in più di un barlume di consapevolezza in fieri. Primizie della società, quasi senza voce, vulnerabili, esposti, già quotidianamente frastornati da un mondo cupo e minaccioso che, anche in condizioni normali, non offre prospettive certe né rassicurazioni. Terribile il lucido commento a caldo di un compagno di scuola di Melissa nel blog del collega Giancarlo Visitilli nella sezione Bari di Repubblica. it: «Noi che non votiamo siamo quelli che possono morire». Non ha scelto a caso, chi ha colpito proprio lì. Una scuola premiata per le sue buona pratiche, un´isola felice in un sud sempre difficile. Com´è lontano, il mondo vitale che emerge dalle voci della scuola di Brindisi, dagli squarci che articoli e saggi allarmanti aprono sul nichilismo che dilaga tra gli adolescenti oggi. Tanto più atroce, dunque, il tentativo di colpire al cuore la ricerca di senso di questi studenti in un mondo che dà così poca speranza. Un gesto di odio verso la vita, il futuro, la bellezza, che Melissa - anche lei ridotta, suo malgrado, a tragico simbolo - incarna alla perfezione. L´ipotesi del gesto del folle, sul genere di Unabomber, che pare prendere corpo, rafforza la pregnanza del simbolo. Il pensiero corre al norvegese Breivick, che consuma una strage sull´isola di Utoya dove era radunata la primizia della società, una gioventù cosmopolita,progressista, piena di ideali e voglia di impegnarsi nel sociale. Come ce l´aveva Melissa, scopriamo da amici, parenti, insegnanti, dal parroco. Il pazzo, di solito, cerca una platea, l´autoglorificazione, la fama, gode perversamente del potere di vita e di morte sugli altri. Ma il pensiero si arresta sgomento. Qualunque sia stato il movente - rabbia, odio, frustrazione, vendetta - sfogarlo su dei ragazzini innocenti fuori da scuola spalanca un abisso. Porta in casa nostra scenari d´orrore che abbiamo conosciuto finora solo da tragici fatti di cronaca degli Stati Uniti, con la novità della scelta molto italiana della bomba - con il sovraccarico di tensione e attenzione che tale scelta comporta nel nostro Paese, in virtù della nostra storia. Nell´attentato di Brindisi si manifesta dunque quel male radicale in cui Bobbio individuava la cruda essenza di ogni strage, con l´aggravante che a essere ridotti a mezzo sono le creature che si affacciano alla consapevolezza; non solo la nuda vita, ma la vita che comincia a prendere in mano se stessa, che comincia ad affacciarsi al mondo adulto. Si è voluto distruggere e atterrire chi più di ogni altro dovrebbe essere educato, protetto e accompagnato affinché riesca a prendere in mano la propria vita, garantendo così un futuro alla società tutta. C´è forse una forma di feroce invidia da parte di qualcuno che si sente intrappolato in un orizzonte chiuso verso chi, comunque, ha di fronte a sé il mare aperto?
Sarebbe un attentato-Crono, l´ultimo e più atroce epifenomeno di una società divoratrice di figli e futuro. Attendiamo gli sviluppi delle indagini. Certo è che di paura ne ha creata tanta, l´attentato. Ma ha destato anche reazioni di sorprendente maturità. Le uniche parole con cui forse possiamo concludere provvisoriamente questa riflessione vengono ancora una volta da uno degli obiettivi che si volevano terrorizzare, un amico della classe accanto, Riccardo: «Ora si ha paura», commenta, ma completa così: «Se stasera fossi solo e senza i miei amici non parteciperei alla marcia». Ma non è solo, non lo è. E forse, vogliamo sperare, sarà lasciata un po´ meno sola la scuola tutta, d´ora in poi. Ha perso centralità da anni nell´attenzione della politica. Quanto sia centrale, e cruciale, ce lo ha ricordato tragicamente la bomba di sabato.
l’Unità 21.5.12
Ballottaggi, crolla l’affluenza. Non a Parma
Alle 22 ai seggi il 36,2 per cento, 11 punti in meno rispetto al primo turno
Nella città ducale flessione più contenuta: circa 4 punti e mezzo. Legacoop intanto querela Grillo per diffamazione
di Natalia Lombardo
È di 14 punti il calo in Sicilia: alle 19 ha votato il 23,5 per cento rispetto al 37,5 del primo turno
Nel Nord il voto dovrebbe sancire la fine dell’asse Pdl-Lega: centrosinistra favorito quasi ovunque
Urne aperte oggi dalle 7 alle 15 per la scelta dei sindaci al secondo turno. Ieri forte calo dell’affluenza: alle sette di sera di domenica si è recato alle urne per i ballottaggi solo il 36,2 per cento degli aventi diritto, circa 11 punti in meno rispetto al primo turno (36,63%). A Parma la flessione è assai più contenuta: 4 punti e mezzo. I candidati del centrosinistra sono in testa in 12 città sulle 17 che li vedono partecipare ai ballottaggi, mentre quelli del centrodestra lo sono in 3 Comuni su 11. Le sfide principali sono a Parma, Genova e Palermo, L’Aquila.
Forte calo dell’affluenza al secondo turno delle amministrative. Ben 11 punti in meno rispetto al primo turno, quando era sceso di sei punti rispetto al voto del 2007: alle 22 sette di sera di ieri si è recato alle urne per i ballottaggi il 36,25 per cento degli aventi diritto, contro il 47,62 del primo turno. Alle 19 l’affluenza era del 27,8%, alla prima tornata il 36,63%. Alle ore dodici già il dato in discesa era stato registrato dal Viminale con il 10,33%, in cento comuni su cento: un 2,5 in meno rispetto al voto del primo turno (12,83%).
Un crollo di undici punti, dunque e bisogna vedere se la tendenza si confermerà anche oggi, con le urne aperte dalle 7 alle 15. Da sempre ai ballottaggi molti elettori non vanno a votare, magari perché il candidato prescelto è uscito dalla gara; il calo di affluenza storicamente penalizza il centrodestra, già in grande difficoltà in questa tornata elettorale che ha visto la débâcle del Pdl e la scomparsa dai comuni della Lega, se si esclude la vittoria, anche molto personale, di Flavio Tosi a Verona.
In parte può aver contato il clima di ansia e sconforto causato dall’orribile attentato alla ragazze di Brindisi e dal terremoto che ha colpito ieri l’Emilia Romagna, dove comunque c’è stata l’affluenza maggiore. Sono al voto 4 milioni di italiani, di cui 3,46 nelle regioni a statuto ordinario, 118 Comuni in tutto considerati i 18 siciliani.
I candidati del centrosinistra sono in testa in 12 città sulle 17 che li vedono partecipare ai ballottaggi, mentre quelli del centrodestra lo sono in 3 Comuni su 11. Le sfide principali sono a Parma, Genova e Palermo, ma anche l’Aquila, per quel che riguarda i 19 Comuni capoluogo di provincia.
PARMA, LA PROVA DEL GRILLO
A Parma l’affluenza è diminuita di quattro punti e mezzo, la metà del calo registrato in media. Alle 22 hanno votato 64.600 elettori, pari al 45,43 %, contro il 49,84 del primo turno; alle 19 il dato era del 37,7% sul 40,2 del primo turno, quindi un calo maggiore. Qui la sfida è tra il candidato del Pd e del centronistra, Vincenzo Bernazzoli, che parte in vantaggio al 39,2%, e quello del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Federico Pizzarotti, al 19,5%. Il Pdl, non apertamente, ha suggerito di votare il candidato grillino, pur di non far tornare la città nelle mani del centrosinistra.
Per Grillo Parma è la «Stalingrado» emiliana, ma proprio in questa terra ha scatenato l’indignazione del presidente della Lega delle Cooperative, Gianpiero Calzolari, che annuncia una querela per diffamazione nei confronti del comico, per le frasi pronunciare durante un comizio-show a Budrio (dove ha un candidato), nel quale Grillo in perfetto stile berlusconiano ha insinuato che le «cooperative» starebbero «comprandosi i voti». Poi ha corretto un po’ il tiro. «Mi riferivo al Molise», ma l’accusa non è andata giù a Calzolari: «I voti li compra la mafia, noi, al contrario, siamo per la responsabilità civile, l'accusa di Grillo è gratuita e infamante».
I siciliani hanno snobbato le urne, nei 18 Comuni dove si stanno svolgendo i ballottaggi: alle 12 di ieri ha votato l'8,49% (al primo turno il 12,47%), recupera alle 19 con il 23,5 rispetto al 37,5.
A Palermo il ballottaggio è tra l’ex sindaco Leoluca Orlando con l’Idv, che parte al 47,7% e Fabrizio Ferrandelli al 17,3%, il candidato sostenuto dal Pd e da Sel, da una lista civica e da una socialista. Una partita quindi interna al centrosinistra. Ferrandelli, fuoriuscito dall’Italia dei Valori è stato il vincitore delle primarie del centrosinistra e per questo sostenuto dal Pd e da Sel che pure avevano puntato su Rita Borsellino mentre Orlando si è candidato a sindaco dopo le primarie, alle quali comunque l’Idv aveva partecipato.
GENOVA, PD VS TERZO POLO
Nel capoluogo ligure, segnato dall’attentato all’ad dell’Ansaldo Nucleare, in testa con il 48,3 per cento c’è Marco Doria, il professore sostenuto da tutto il centrosinistra, e che raccoglie la sfida di Enrico Musso, ex Pdl ora con il Terzo Polo (soprattutto l’Udc), che al primo turno ha raccolto il 15% dei consensi e sul quale confluiranno i voti del Pdl; ci sono poi i consensi raccolti al primo turno dal grillino Paolo Putti, che ha sfiorato il ballottaggio con il 14%, che è stato quasi scomunicato da Grillo per aver presenziato ad alcune trasmissioni tv. Da lui nessuna indicazione di voto per i ballottaggi, così come da parte della Lega, fuori gioco.
A L’Aquila si sfidano due medici, in vantaggio è Massimo Cialente, sindaco uscente che ha gestito il dramma del terremoto, con il 40,7%, contro Giorgio De Matteis al 29,7%, Udc.
Significativo il dato di Rieti, dove per la prima volta dopo 18 anni il centrodestra è al secondo posto: nel feudo dell’ex An, la sfida è tra Simone Petrangeli, 37 anni, di Sel e sostenuto dal centrosinistra, in vantaggio al 42,9%, e Antonio Perelli, 47 anni, Pdl e Fiamma Tricolore. L’Udc (21% al primo turno), ha dato libertà di voto. Gli altri capoluoghi ai ballottaggi sono Alessandria, Asti, Cuneo, Como, Monza, Belluno, Piacenza, Lucca, Frosinone, Isernia, Taranto, Trani, Trapani e Agrigento.
l’Unità 21.5.12
Pochi giorni per le riforme Pd: avanti col doppio turno
di Simone Collini
Domani alla Camera si comincia a votare il testo sul finanziamento pubblico ai partiti
Riprende l’esame delle norme anti-corruzione: ma pesano i veti e l’ostruzionismo del Pdl
Subito dopo i ballottaggi, dovrebbe chiudersi la partita della legge elettorale. Il Pdl favorevole al sistema francese ma solo col presidenzialismo
Andiamo avanti sul doppio turno, acceleriamo il dimezzamento dei rimborsi elettorali e teniamo duro sul provvedimento anti corruzione». Ecco le indicazioni che Pier Luigi Bersani dà ai suoi in vista delle ripresa a pieno ritmo dei lavori parlamentari. Il leader del Pd, consapevole del fatto che in queste ultime due settimane caratterizzate dalle presidenziali francesi e dal voto amministrativo i rapporti di forza all’interno della maggioranza hanno subito notevoli cambiamenti, nelle prossime 48 ore vedrà Mario Monti e volerà a Bruxelles per incontrare i leader dei partiti progressisti europei. Argomento, in entrambe le occasioni, come far fronte alla crisi economica e quali misure adottare per favorire la crescita. Ma Bersani sa che c’è anche un altro fronte sul quale bisogna intervenire e dare risposte in tempi rapidi, e che riguarda direttamente i partiti. Con i ballottaggi viene archiviata una tornata elettorale segnata da un forte tasso di astensionismo e dalla quale esce rivoluzionario il sistema politico italiano. Per rispondere alla montante marea di antipolitica, è il ragionamento che si fa al quartier generale del Pd, bisogna approvare quelle riforme di cui da troppo tempo si discute.
CORSA AD OSTACOLI
Il primo nodo da affrontare sarà la riduzione dei rimborsi elettorali ai partiti e il controllo dei loro bilanci. L’obiettivo del Pd è dimezzare già la tranche prevista per luglio. L’aula di Montecitorio inizia a discutere il provvedimento domani e nonostante l’azione di freno di Idv e Lega, per i quali i rimborsi vanno del tutto abrogati, la proposta di legge dovrebbe essere approvata giovedì. Ma il via libera della Camera sarà solo un primo passo, perché poi il testo dovrà passare al Senato, dove c’è un calendario fitto di discussioni delicate, a cominciare dalla riforma del lavoro (l’esame in aula comincia dopodomani) e dalle riforme istituzionali: il testo, secondo il presidente della Affari costituzionali Carlo Vizzini dovrebbe essere licenziato dalla commissione per venerdì, ma un’intesa tra le forze di maggioranza ancora non c’è.
A complicare ulteriormente le cose c’è il muro alzato dal Pdl nei confronti del provvedimento anti corruzione. Il rischio di una serie di veti incrociati è dato anche dalla contemporaneità delle discussioni. Domani infatti, mentre nell’aula di Montecitorio si comincia a votare il testo sul finanziamento pubblico ai partiti, nella Sala del Mappamondo si riuniranno le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera per riprendere l’esame del testo. A meno che oggi il Guardasigilli Paola Severino non presenterà a Pd e Pdl un testo che metta tutti d’accordo, la discussione riprenderà da dove si era interrotta giovedì, cioè dall’aumento delle pene minime e massime per il reato di «corruzione per atti contrari a dovere d’ufficio» (4 e 8 anni) grazie all’approvazione di un emendamento targato Pd e duramente contestato dal Pdl.
DOPPIO TURNO E PRESIDENZIALISMO
La speranza di Monti, che cioè le tensioni tra i partiti che gli garantiscono una maggioranza in Parlamento si allentino una volta archiviato il voto amministrativo, rischia di infrangersi contro un Pdl che sulla giustizia è pronto a giocarsi il tutto per tutto. Ma anche sulla legge elettorale, ammesso che questa discussione possa entrare nel vivo (il che presuppone un accordo sulle riforme istituzionali), non si registra una riduzione delle distanze tra le forze che sostengono l’esecutivo.
Bersani, già dopo aver incassato un buon risultato al primo turno amministrativo e dopo aver assistito agli avvenimenti di Francia e Grecia, ha rimesso in campo con maggior forza il doppio turno di collegio: «Non deve essere letta come la proposta del Pd ma come proposta utile per il Paese», è la formula utilizzata per convincere Alfano e Casini. Aperture dal Pdl sono arrivate nei giorni scorsi. Agli esponenti del Pd che stanno portando avanti le trattative è stato poi però spiegato che non se ne sarebbe fatto più nulla.
Il motivo, secondo quanto raccontato, è riconducibile a uno studio commissionato dal coordinatore nazionale Denis Verdini, dal quale è emerso che un simile sistema elettorale sarebbe in questa fase decisamente sfavorevole al Pdl. A meno che non si introduca una variabile tutt’altro che di poco conto. Quella rilanciata ieri pubblicamente da Osvaldo Napoli, per il quale il doppio turno è accettabile come «base di un edificio istituzionale sul cui tetto siede, come corollario istituzionale, un monarca costituzionale, vale a dire il capo dell’esecutivo eletto direttamente dal popolo: che sia al Quirinale o a Palazzo Chigi fa poca differenza».
Il Pd, che esce rafforzato dal voto e che ha incassato un’apertura da parte di Casini («sono disponibile a ragionare su tutto, anche sul doppio turno che non è certo il mio modello elettorale preferito») ora dovrà andare al confronto cercando di capire se il rilancio sul presidenzialismo sia il via ad una nuova fase del confronto o se sia soltanto un modo per far saltare il tavolo e tenere in piedi il Porcellum.
l’Unità 21.5.12
Meglio due turni, ma senza adottare il modello francese
di Cristoforo Boni
L’APERTURA FATTA DA PIER FERDINANDO CASINI HA RIAPERTO IL CONFRONTO SUL DOPPIO TURNO. Non è detto che il Pdl offra analoga disponibilità: anzi, fin qui i segnali sono sempre stati negativi. Silvio Berlusconi oppone da anni uno sbarramento di principio al doppio turno. E il suo partito procede con inerzia, benché lo scenario si sia modificato e probabilmente anche a destra il doppio turno potrebbe offrire oggi uno strumento di ricomposizione politica. In realtà la Seconda Repubblica, dietro lo
schermo delle coalizione coatte, ha sempre alimentato la frammentazione, tuttavia le immagini che le amministrative proiettano sul futuro potrebbero diventare ancora più coatiche, avvicinando lo spettro della Grecia.
Il doppio turno è oggi un’opportunità. Anche perché sul tavolo non c’è la proposta di importare il modello delle legislative francesi, che in tutta evidenza si regge perché ha alle spalle un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Sul tavolo c’è una proposta che rispetta l’autonomia delle forze intermedie (purché superino la soglia di sbarramento) e che recepisce alcuni elementi virtuosi del modello tedesco, riducendo i rischi di ingovernabilità o di Grande coalizione.
In sostanza, la competizione elettorale in Italia potrebbe svolgersi al primo turno come in Germania: candidati di partito nei collegi uninominali e nelle liste (corte) circoscrizionali; sbarramento al 5%, quota proporzionale vicina al 50%. Meglio che in Germania si potrebbe prevedere un solo voto anziché due: il voto disgiunto rischierebbe infatti di diventare un fattore di corruzione.
La novità decisiva rispetto al sistema tedesco starebbe però nello sviluppo su due turni della competizione uninominale. Se nessuno raggiunge al primo turno il 50% si procede a un secondo scrutinio, al quale vengono ammessi i candidati che hanno superato uno sbarramento non inferiore al 10-12% dei voti. Ed è fra il primo e secondo turno che potrebbero formarsi le coalizioni davanti agli elettori: con desistenze tra candidati nei collegi contesi. Dunque, non più coalizioni coatte, strumentali al mito dell’unto del Signore e incapaci di governare, ma alleanze funzionali a formare una maggioranza parlamentare. I partiti intermedi perderebbero, è vero, un po’ di rappresentanza a favore dei partiti maggiori. Ma non sarebbero minacciati nella loro autonomia, potendosi presentare al primo turno con il proprio candidato premier e il proprio programma. Il governo, in tutta evidenza, dovrebbe essere poi affidato al premier designato dal partito che ottiene la rappresentanza parlamentare più consistente e che risulta capace di formare una maggioranza coerente.
Senza doppio turno la frammentazione rischia di corrodere ciò che resta della credibilità delle istituzioni. E non si può pensare di risolvere il problema ancora con un premio di coalizione: il fallimento della Seconda Repubblica è sotto gli occhi di tutti. La vera soluzione alternativa sarebbe una riforma della Costituzione in senso presidenzialista: al di là di robuste obiezioni di merito, vorrebbe dire che non si cambierà il Porcellum prima delle prossime elezioni.
Corriere 21.5.12
Carte segrete, scelta vaticana «Indagheranno i pm italiani»
Si contesterà la pubblicazione di carte di un capo di Stato estero
di Gian Guido Vecchi
In libreria. Pubblicato da Chiarelettere, Sua Santità di Gianluigi Nuzzi raccoglie centinaia di lettere e documenti riservati provenienti dagli uffici di Papa Benedetto XVI
L'anticipazione. Alcuni passi del libro, come quelli relativi al caso del direttore di Avvenire Dino Boffo, sono stati anticipati da Sette, magazine del Corriere della Sera
I casi. Tra le carte anche una nota con l'elenco degli argomenti da trattare in un incontro riservato tra il Papa e il capo dello Stato Giorgio Napolitano
CITTÀ DEL VATICANO — La similitudine è paradossale, ma fino a un certo punto. È come se, riflettono ai piani alti del Vaticano, un «corvo» del Quirinale avesse rubato della corrispondenza privata dalla scrivania di Giorgio Napolitano «e quelle lettere fossero poi state pubblicate dall'Osservatore o dalla Libreria editrice vaticana. L'Italia avrebbe da dire qualcosa, no?». Ecco, a parte l'ufficialità e lo stile dei media vaticani, la questione sta tutta qui. E qui sta anche la vera novità, dopo la pubblicazione del libro di Gianluigi Nuzzi «Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI». Perché il Papa è (anche) un capo di Stato, ovvero «Sovrano dello Stato della Città del Vaticano». E «la pubblicazione di documenti privati del Santo Padre» segna un scarto, spiegano Oltretevere, rispetto alla fuga di documenti riservati dei mesi scorsi.
La faccenda si fa diplomatica, oltre che giuridica: ci si rivolgerà alla magistratura italiana, e non solo. «C'è un problema di rapporti tra Stati». Mesi fa si era vociferato della tentazione di una protesta formale verso lo Stato italiano, ipotesi poi scartata. Anche per non turbare le relazioni eccellenti e la sintonia tra Benedetto XVI, il presidente Giorgio Napolitano e il premier Mario Monti. Considerazioni che restano valide. Però il linguaggio diplomatico conosce infinite modulazioni e, insomma, una «segnalazione» del problema andrà fatta. Ne va dei «diritti personali di riservatezza e di libertà di corrispondenza» che sono tutelati dalla stessa Costituzione italiana (articolo 15: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili») e sono stati «violati» nel caso dei collaboratori, dei mittenti e, soprattutto, del «sovrano» pontefice.
Probabile che tutto passi attraverso la nunziatura apostolica in Italia, cioè l'ambasciata della Santa Sede nel nostro Paese. «Qualcosa succederà, per forza, non si può continuare a far passare ladri e ricettatori come difensori della libertà o idealisti che vogliono purificare la Chiesa», sospirano Oltretevere. Si capisce così la frase del comunicato diffuso sabato dal Vaticano: «La Santa Sede continuerà ad approfondire i diversi risvolti di questi atti di violazione della privacy e della dignità del Santo Padre — come persona e come suprema Autorità della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano — e compirà i passi opportuni, affinché gli attori del furto, della ricettazione e della divulgazione di notizie segrete, nonché dell'uso anche commerciale di documenti privati, illegittimamente appresi e detenuti, rispondano dei loro atti davanti alla giustizia». La Santa Sede per parte sua ha avviato un'indagine penale del Tribunale vaticano e una amministrativa della Segreteria di Stato, il Papa ha nominato una commissione cardinalizia che risponde direttamente a lui. L'ultima mossa è il comunicato, scritto per «rispondere tempestivamente e mostrare la volontà di agire». I «corvi» sono vaticani ma i «documenti privati» sono stati pubblicati in Italia e il Vaticano si rivolgerà alla magistratura italiana e porrà il problema al nostro Paese. Il che spiega la conclusione della nota: «Se necessario, la Santa Sede chiederà la collaborazione internazionale».
Corriere 21.5.12
Giovanni Falcone vent'anni dopo. Lotta alla mafia e tranelli dello Stato
di Gian Carlo Caselli
Caro direttore, le ombre cupe che in vita si addensarono sulla testa di Giovanni Falcone, a causa dell'incisività della sua azione antimafia, sono storia. Spesso dimenticata ma storia. Ricordarla significa illuminare di luce vivida la straordinaria figura di un magistrato che per senso del dovere seppe perseverare con tenacia, nonostante fosse consapevole di rischiare la vita.
Ancora a metà degli anni Settanta c'era chi osava scrivere: «La mafia ha sempre rispettato la magistratura, si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell'ordine». E non erano parole di uno sprovveduto qualunque, ma di un alto magistrato della Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo. È evidente che «ragionando» così era sempre la mafia a vincere. Falcone la pensava diversamente e con gli altri magistrati del pool dell'Ufficio istruzione di Palermo, diretto da Nino Caponnetto, elaborò un metodo di lavoro imperniato su specializzazione e centralizzazione: il cemento armato di un capolavoro investigativo-giudiziario, il «maxiprocesso» del 1986. Per la prima volta nella storia d'Italia vengono portati alla sbarra — con prove sicure — mafiosi siciliani di primaria grandezza criminale che fino ad allora avevano potuto godere di una sostanziale impunità. La fine del mito dell'invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa nostra.
Un'esperienza vincente del genere qualsiasi Paese l'avrebbe difesa con le unghie e con i denti. L'Italia invece no. Vergognoso ma vero, Falcone e il pool furono letteralmente spazzati via, professionalmente parlando, a colpi di calunnie ossessivamente ripetute: professionisti dell'antimafia; impiego spregiudicato dei «pentiti»; uso politico della giustizia. Guarda caso la tempesta si scatenò quando il pool cominciò a occuparsi — oltre che di mafiosi di strada — dell'ex sindaco di Palermo Ciancimino, dei cugini Salvo e dei cosiddetti Cavalieri del lavoro di Catania. Insomma di quella «zona grigia» che è la spina dorsale del potere mafioso, perché assicura coperture e complicità a opera di pezzi della politica, dell'economia e delle istituzioni. Sul banco degli imputati finì Falcone: osannato da morto, umiliato da vivo.
Un ruolo centrale, in questo quadro, ha avuto il Csm (Consiglio superiore della magistratura) quando anch'io ne facevo parte (1986-90). Nel 1987 Caponnetto decise di lasciare l'Ufficio istruzione di Palermo nella certezza che il suo successore naturale sarebbe stato Falcone. Non fu così. Alla candidatura di Falcone si contrappose Antonino Meli, magistrato di ben maggiore anzianità che di mafia però non si era mai occupato. E il Csm (ribaltando l'orientamento adottato qualche mese prima per la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala) scelse non il più bravo nell'antimafia, ma il più anziano, anche se digiuno di processi di mafia. Meli — si badi — aveva presentato anche domanda per la presidenza del Tribunale. Qualcuno però lo convinse a ritirarla per puntare tutto sul posto di capo dell'Ufficio istruzione, una sezione del Tribunale. Ora, il rapporto tra i due ruoli è lo stesso che può esserci tra la direzione di un grande quotidiano e la rubrica della posta del cuore su un foglietto parrocchiale. Non tanto perché l'Ufficio istruzione non fosse un posto importante, semplicemente perché si era alla vigilia dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1989) che quell'ufficio avrebbe soppresso. La bagarre, dunque, non era tanto su chi dovesse succedere a Caponnetto. Anche, ma non solo. Un obiettivo di fatto era anche lo smantellamento del metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso e che difatti Meli (coerente col programma preannunziato allo stesso Csm) smonterà pezzo per pezzo. Invece di continuare lungo la strada della vittoria, lo Stato si ferma. Circondata la fortezza, si ritira rinunciando a espugnarla. Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo volano corvi che spandono veleni di ogni sorta su Falcone, calunniato per nefandezze varie. Ovviamente inesistenti. E fu allora (parole di Borsellino) che Falcone cominciò a morire.
Nel 1989 Falcone, soppresso l'Ufficio istruzione, concorre al posto di Procuratore aggiunto (una sorta di vicecapo) a Palermo. Questa volta ce la fa, ma sembra quasi una gentile concessione, mentre qualcuno dei suoi soliti nemici non esita a insinuare la calunnia che il fallito attentato dell'Addaura (una borsa imbottita di 58 candelotti di tritolo ritrovata il 21 giugno 1989 nei pressi della sua abitazione) se lo fosse organizzato da sé... per farsi pubblicità. In Procura Falcone non lo fanno letteralmente lavorare. Il capo lo ignora, lo umilia con ore e ore di anticamera. Falcone capisce che se vuole continuare a fare antimafia deve «emigrare» dalla Sicilia. Trova una specie di asilo politico-giudiziario a Roma, ministero della Giustizia, dove crea quei caposaldi della lotta alla mafia (in particolare Procura nazionale e Dia) che ancora oggi funzionano molto bene.
Il seguito della «storia» è tragicamente noto: sono le stragi di Capaci e via d'Amelio, le vite di Falcone e Borsellino, insieme a quelle degli uomini e delle donne che erano con loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992, spezzate dalla feroce vendetta mafiosa. Comincia a farsi strada in me l'idea di andare a lavorare a Palermo. E quando deciderò di farlo davvero avrà un forte peso (lo dico senza alcuna retorica) il ricordo di quel che i due amici magistrati avevano dovuto patire in vita. Un ricordo intrecciato con il rimpianto di non essere riuscito — pur avendo sempre votato a loro favore — a convincere la maggioranza del Csm delle loro buone ragioni. Che poi erano quelle della lotta alla mafia nell'interesse della democrazia.
Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Torino
Repubblica 21.5.12
Domani la Corte costituzionale decide sulla fecondazione eterologa
Dal 2004 migliaia di coppie italiane sono andate alll´estero
Nella fabbrica dei bambini dove le coppie cercano la felicità
di Maria Novella Oppo
Domani la Corte Costituzionale dovrà decidere se il divieto di fecondazione eterologa è legittimo o no. Dal suo verdetto dipende il destino di migliaia di aspiranti genitori che ogni anno si affidano a un centro estero da quando nel 2004 è stata approvata la Legge 40. Alcuni migrano nei Paesi dell´Est o in Grecia, dove i requisiti di sicurezza sono però bassi. La maggior parte vola al centro Dexeus di Barcellona, uno degli istituti di medicina della riproduzione più famosi in Europa. Ecco le loro storie
"Prima di andare in Spagna, ho abortito tre volte rischiando la vita per una follia ideologica"
"Attendo la sentenza. Vorrei poter diventare mamma qui, con i miei medici"
BARCELLONA. Grazie, gracias, mille grazie». Sorrisi di neonati, di madri e di padri, fiocchi rosa, fiocchi azzurri. Le immagini formano un unico grande arazzo: Valentina, Matteo, Domenico, Alice, centinaia di foto e centinaia di nomi italiani. Il primo compleanno, il primo triciclo. La vita che inizia, l´avvenire che si schiude. Scherzano le addette del Dipartimento Internazionale: «Ogni anno riceviamo decine di inviti a battesimi e feste di bambini italiani concepiti qui. E molti genitori continuano ad inviarci le foto dei loro figli che crescono». Centro "Dexeus" di Barcellona, istituto di medicina della riproduzione tra i più famosi d´Europa, Gran Via Carlos III, nemmeno mezz´ora dall´aeroporto di El Prat. Le pareti di vetro e cristallo catturano la luce dietro l´antica facciata neoclassica, insieme ai riflessi dell´acqua che scorre in due lunghe vasche-fontane. È in questo avveniristico ospedale privato diretto da Pedro Barri Raguè, famoso ginecologo e uno dei padri della fecondazione assistita in Spagna, che migliaia di coppie italiane in fuga dalla legge 40 e con la speranza nel cuore, sono approdate dal 2004 a oggi in cerca di un figlio. Oltre 500 soltanto nel 2011, l´80% di tutte le pazienti straniere del Dexeus, e di queste più della metà per accedere alla fecondazione eterologa.
Ossia al concepimento in vitro di un bambino con l´ovocita o lo sperma di una donatrice o di un donatore. Pratica severamente vietata in Italia, ma sulla quale tra pochi giorni la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi, e decidere se quel divieto è legittimo o no. Sentenza dalla quale dipende il destino di gran parte di quelle coppie che ogni anno abbandonano l´Italia, per affidare il loro sogno di genitori a un centro estero di fecondazione assistita.
Ricorda Alessandra P., approdata in Spagna nel 2010 dopo aver tentato di diventare madre in Italia nel pieno dei divieti della legge 40. «C´era un clima di sospetto e paura negli ospedali italiani. Mi dissero che non potevo congelare gli embrioni, che si potevano fecondare soltanto tre ovociti, e che mi dovevano essere trasferiti nell´utero tutti insieme. Una tragedia: ho partorito tre bambini all´inizio del quarto mese, sono morti in pochi minuti, avevo già 40 anni, ho rischiato la vita per la follia ideologica di una legge sbagliata... Per anni mio marito e io abbiamo vissuto nel lutto. Poi abbiamo deciso di riprovare, di ritrovare il filo di quel sogno. Nel 2010 ho fatto una ovodonazione a Barcellona, sono rimasta incinta subito e oggi siamo genitori di Benedetta, la gioia della nostra esistenza».
«Con immenso affetto Vanessa e Giulia». Una mamma e la sua bambina abbracciate guardano lontano nella foto-ritratto che la dottoressa Maria Josè Gomez Cuesta, responsabile del laboratorio di "Fertilizzazione In Vitro" tiene alle spalle della sua scrivania. «Sono molto legata a loro, un grande successo dopo un grande dolore», racconta la dottoressa Gomez, per tutti Fina, un concentrato di passione e rigore, che per quattro anni ha lavorato in Toscana, all´ospedale della Versilia, dal 2003 al 2008. «Ero arrivata con un grande entusiasmo, il centro di Procreazione assistita era tutto da costruire, ma nel 2004 è stata approvata nel vostro paese la legge 40, una legge atroce, pericolosa per le donne e per i bambini, di profonda ingiustizia sociale. Ho provato a resistere, ma con tutti quei divieti era diventato impossibile aiutare le coppie, e così sono tornata qui, al Dexeus, che è il centro dove mi sono formata, dove abbiamo laboratori all´avanguardia, sia per la fecondazione in vitro che per l´analisi pre-impianto, in particolare lo studio dei cromosomi dell´embrione, attraverso la tecnica Cgh, comparative genomic hybridization». E nel laboratorio dove inizia la vita, l´aria è perfetta e asettica perché nulla contamini gli embrioni che sono custoditi in incubatori a 37 gradi, la temperatura del corpo materno, su ogni incubatore (una sorta di cassetto) c´è il nome della madre, mentre sui monitor scorre la vita dell´uovo fecondato che cresce, si sviluppa, fino a quando potrà essere trasferito nell´utero della paziente. «Molte coppie italiane mi hanno seguito - dice Fina Gomez - soprattutto quelle che avevano bisogno della fecondazione eterologa, ricordo una ragazza giovanissima, a 25 anni non riusciva a produrre ovociti, un dramma, e poi qui è rimasta incinta».
Perché il centro Dexeus, oltre a essere un polo multidisciplinare per la salute della donna, è una delle cliniche più famose dove viene praticata l´ovodonazione. Per concepire un bambino le donne ricevono l´ovocita di una donatrice che viene fecondato con il seme del partner. A meno che non si tratti di coppie omosessuali, perché in quel caso il seme viene prelevato da una banca dello sperma esterna al centro. «In Spagna - spiega Andrea Barri, responsabile dell´ufficio marketing - sono consentite tutte le tecniche tranne l´utero in affitto, e alle tecniche possono accedere anche le donne single. In generale le nostre pazienti italiane hanno tra i 36 e i 40 anni, sono sposate, hanno una formazione universitaria, e arrivano su consiglio dei loro ginecologi, o di altre donne che qui sono diventate madri. Al Dexeus però siamo rigorosi sui limiti d´età: accettiamo di sottoporre le donne alla fecondazione assistita soltanto fino a 50 anni. Oltre no, perché i rischi per la loro salute sono troppo elevati».
È stata l´eldorado dei "migranti" italiani della provetta la Spagna, dove in questi anni le cliniche della fertilità sono diventate decine, prima che il lucroso business si spostasse anche nei paesi dell´Est o in Grecia, centri con requisiti di sicurezza assai minori però. E nemmeno la svolta a destra del governo Rajoy, sostenuta dalla Chiesa, ha toccato i capisaldi della legge, una delle più "liberal" del mondo. «Un ciclo di ovodonazione costa 8.700 euro, un ciclo di fecondazione in vitro 5.700, mentre le donatrici ricevono un rimborso di circa 900 euro. Siamo molto attenti nella scelta delle donatrici - aggiunge Andrea Barri - se la nostra paziente ha occhi neri e capelli neri, sceglieremo una ragazza con le stesse caratteristiche somatiche. Per questo a volte bisogna aspettare qualche settimana, perché tra chi riceve e chi dona ci sia la maggiore somiglianza possibile».
Sembra tutto semplice ma è invece proprio questa triangolazione genetica a preoccupare gli avversari della fecondazione eterologa, che resta in Italia uno dei punti cardine della legge 40, dopo che nel 2009 la Corte Costituzionale aveva fatto decadere l´obbligo di impianto dei tre embrioni, i divieti di congelamento e di analisi pre-impianto. Paola F. ha 38 anni, convive con il suo compagno da 10, e dopo il terzo tentativo fallito di Fivet (fecondazione in vitro) a Firenze, ha deciso di partire. «I medici italiani sono bravissimi, il centro che mi segue è davvero eccellente, ma non c´è nulla da fare: nonostante tutte le stimolazioni produco pochissimi ovociti, e di pessima qualità... E per me non c´è altra speranza che diventare madre con l´uovo di un´altra donna. Aspetterò la sentenza, magari fosse possibile farlo qui, con i propri medici, senza dover andare all´estero, in un paese straniero. Ma non ci credo: il divieto resterà, in Italia comanda la Chiesa, e noi donne infertili continueremo a emigrare».
«Non siamo un centro che fa miracoli - avverte però il professor Pedro Barri Raguè, direttore del Dexeus, dove nel 1984 è nato il primo bambino spagnolo concepito in vitro - ma abbiamo un´alta percentuale di successi, cioè gravidanze ottenute. Cerchiamo di essere vicini alle pazienti, molte arrivano da fuori, come le italiane, che vengono da noi soprattutto per l´ovodonazione, visto che l´età delle madri continua a salire in tutta Europa, o per accedere a una unità specifica dove ci occupiamo di quelle pazienti che hanno subito più di un fallimento. Ma c´è anche un buon numero di donne, circa il 20%, alle quali purtroppo dobbiamo dire che per loro al Dexeus non possiamo fare nulla».
l’Unità 21.5.12
Tentazione Spd: sarà Hannelore a sfidare Merkel?
Dopo la vittoria nella Renania la governatrice Kraft è popolarissima
La sinistra del partito lancia la sua candidatura
di Paolo Soldini
Per i sondaggi solo lei può battere la Cancelliera. Ma c’è anche l’ipotesi delle elezioni anticipate
C’era una volta la trojka. Non quella che ha fatto a pezzi la Grecia, ma una trojka tutta tedesca e socialdemocratica: Sigmar Gabriel, Peer Steinbrück e Frank-Walter Steinmeier, ovvero il presidente della Spd (attualmente in congedo parentale), l’ex ministro delle Finanze della grosse Koalition e l’ex ministro degli Esteri, nonché vicecancelliere e attuale capogruppo al Bundestag. Fino a due settimane nessuno avrebbe messo in dubbio che il candidato socialdemocratico alla cancelleria per le elezioni dell’autunno 2013 sarebbe stato scelto in questa terna. Si prevedeva, anzi, una fiera battaglia tra i tre, della quale, peraltro, son mesi che si colgono gli antecedenti. Ora la trojka è diventata una quadriglia: ai tre detti sopra si è aggiunto un quarto nome.
È quello di Hannelore Kraft, la trionfatrice delle elezioni di domenica 13 maggio in Renania-Westfalia. La Ministerpräsidentin sull’onda di quel successo è entrata di prepotenza nel novero dei possibili cancellieri d’una Germania che fra 16 mesi si decidesse per la sinistra. Hannelore piace. Piace agli elettori, come s’è visto a Düsseldorf e dintorni. Piace ai socialdemocratici di tutti gli orientamenti perché ha bastonato l’odiata Angela Merkel. E piace ancor di più alla sinistra della Spd perché lo ha fatto con un programma chiaro e del tutto alternativo alla camicia di forza dell’austerity cui la cancelliera attuale sta soffocando l’Europa e anche il proprio paese.
Hannelore ha fatto la sua campagna spiegando e rispiegando che sì, certo, bisogna tenere sotto controllo i conti pubblici, ma che certe spese sono necessarie, che a certi investimenti non si può rinunciare, che il welfare non va distrutto, che la scuola va valorizzata. La genialata del suo concorrente Cdu Norbert Röttgen, che faceva circolare un pallone pieno di gas a simbolo delle spese gonfiate della rivale, gli si è rivoltata contro e non è stato l’ultimo dei motivi per cui Frau Merkel non ci ha pensato tre giorni a dimetterlo da ministro federale dell’Ambiente.
QUESTIONE DI TEMPO
Ieri c’è stata una specie di valanga di dichiarazioni di esponenti della sinistra Spd a favore di Hannelore. Dalla esponente di punta della corrente, Heidi Simonis («per il tipo che è sarebbe in grado di battere Merkel») al capo degli Jusos, l’organizzazione giovanile del partito, Sascha Vogt, al presidente regionale dello Schleswig-Holstein Ralf Stegner («è la persona giusta per tirarci fuori dalla difensiva in fatto di politica economica»). Ma la popolarità della presidente Kraft non è certo confinata nella sinistra della Spd. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dalla popolare Bild am Sonntag è considerata dagli elettori di tutti gli schieramenti la possibile candidata che ha maggiori chance di battere la Merkel, ben più di Steinbrück, di Steinmeier e di Gabriel, che seguono nell’ordine.
Se davvero scenderà in lizza, Hannelore Kraft avrà tutto il tempo necessario per profilarsi come la vera alternativa ad Angela Merkel: donna contro donna. Ma il tempo potrebbe anche non esserci. Date le difficoltà e l’isolamento dell’attuale cancelliera, da qualche tempo c’è chi comincia a scommettere, in Germania, sulle elezioni anticipate. Ieri è tornato a chiederle il presidente della Spd Gabriel, il quale si fa forte di un articolato programma economico alternativo che giorni fa è stato presentato con il massimo dell’ufficialità proprio dalla trojka al gran completo. Sulla base di quel documento (L’uscita dalla crisi – Crescita e occupazione in Europa) i socialdemocratici avranno ottimi argomenti per il negoziato che la cancelliera dovrà avviare con loro e con i Verdi se vuole ottenere al Bundestag i voti necessari a far passare il Fiskalpakt. Se le trattative fallissero, l’opzione delle elezioni anticipate diventerebbe realistica.
La Stampa 21.5.12
Gli indignati arruolano i veterani: “Basta guerre”
Cinquanta reduci in testa al corteo: a noi le pallottole, a loro i profitti
di Paolo Mastrolilli
In marcia. Sono arrivati da tutti gli Stati Uniti e non hanno paura dei manganelli né degli spray urticanti. Spiega uno di loro: «In cucina abbiamo litri di aceto, un rimedio casalingo che contrasta gli effetti dello spray»
Insulti. Tra manifestante e poliziotta il dialogo è impossibile «La strada è nostra siamo qui per difendere il nostro futuro» La poliziotta ascolta impassibile un passante fotografa la scena
Strattoni. Manganelli in tasca, bici, casco. Così la polizia si muove per le strade. E ferma chi non se lo aspetta
Dall’altare della United Church of Christ il pastore Dan Dale usa il sermone domenicale per invitare i fedeli a «posare la spada e lo scudo». Sotto al pavimento, nel refettorio di questa tranquilla parrocchia sull’alberata West Wellington di Chicago, Anthony Robledo fa gli ultimi preparativi con i compagni di Occupy Wall Street: «Avete messo gli anfibi? Le mascherine sono state distribuite? E lo spray urticante al peperoncino? ».
Anthony, 23 anni, è uno dei ragazzi venuti con i bus gratuiti da New York per la marcia contro la Nato. La United Church of Christ si è offerta come punto di raccolta, e mentre i fedeli pregano, i manifestanti vanno alla metropolitana per raggiungere Grant Park. «Ieri notte - racconta Anthony - è stata dura. Noi camminavamo pacificamente in strada, gridando, e la polizia ha attaccato. Jay, un amico che era con me sul bus, è finito in ospedale con un braccio e una gamba rotta. Altri sei colleghi sono stati arrestati. Però non ci intimidiscono, noi andiamo avanti».
La vigilia della marcia è stata agitata. Dopo l’incriminazione per terrorismo di Brian Vincent Betterly, Jared Chase, e Brian Church, anche Sebastian Senakiewicz e Mark Neiweem sono stati arrestati per possesso di esplosivi. Stamattina, poi, il sito internet della città di Chicago è rimasto bloccato per un attacco degli hacker.
La colonna guidata da Anthony sembra in divisa: felpe nere col cappuccio, maschere in faccia. Sulle braccia hanno scritto il numero di telefono della National Lawyers Guild, da chiamare in caso di arresto. Alla stazione di Sedgwick salgono sul vagone gli agenti O’Connor e Gills, della polizia di Chicago: «Salve ragazzi, tutto a posto? ». Appena scendono, Anthony urla: «Kennedy diceva: chi proibisce le proteste pacifiche apre la strada alle rivolte».
Scendiamo alla fermata Adams del Loop, per proseguire a piedi verso Grant Park. Ci accoglie un tipo di mezza età col megafono: «Oggi si muore di caldo, laggiù c’è acqua gratis per tutti». Si chiama Andy Thayer, è uno degli organizzatori: «Dobbiamo smettere di buttare soldi per le guerre, e investire in America. Cinquanta veterani di Iraq e Afghanistan guideranno il corteo per restituire le loro medaglie». Andy ce l’ha con Obama: «E’ stato peggio di Bush, ha deluso tutti. Guerre, droni per ammazzare gli americani, soldi alle banche che hanno provocato la crisi. Un complice del complesso militare industriale». La protesta serve per tenere sotto pressione lui, o chiunque andrà alla Casa Bianca: «Ricordate la battaglia di Chicago nel 1968? Humphrey perse le elezioni, ma Nixon fu uno dei presidenti più progressisti, nonostante fosse un razzista guerrafondaio: chiuse il Vietnam, approvò affirmative action e food stamp, e la Corte Suprema legalizzò l’aborto. E sapete perché? La protesta: se la gente vuole la libertà, deve conquistarsela in strada».
Vicino a Thayer annuisce il reverendo Jesse Jackson: «Obama ha ordinato il ritiro dall’Iraq per la forza degli oppositori della guerra. Ora dobbiamo continuare a premere per spingerlo a lasciare l’Afghanistan e dare ai veterani lavoro e assistenza medica a vita, perché quando combattono li applaudiamo, ma poi li dimentichiamo. Non possiamo spendere 2 miliardi a settimana in Afghanistan, servono alla ripresa della nostra economia».
Uno dei veterani venuti a restituire le medaglie, come accadde davanti al Pentagono durante il Vietnam, è Graham Clumpner, 27 anni, dallo stato di Washington: «Ho servito in Afghanistan con i Ranger, forze speciali, dal 2004 al 2007. Operavo nella zona di Jalalabad». Ha perso amici? «Sì, diversi. Il primo durante l’addestramento, ucciso per errore da un collega. Però non ne parliamo, per rispetto verso le famiglie». E lei ha ucciso qualcuno? «Credo di sì». Perché adesso restituisce la sua medaglia? «Quando mi sono arruolato ero convinto di farlo perché stavamo dalla parte del giusto. Ora non ci credo più, ne ho viste troppe: vite violate, soldi buttati, abusi inutili. Tutto per far guadagnare le aziende che incassano profitti con la guerra, mentre a noi davano 1.500 dollari al mese per farci sparare addosso». Graham e i suoi colleghi hanno chiesto che qualche generale della Nato venga a prendere le loro medaglie: «Altrimenti saremo costretti a buttarle in terra». Vorrebbe parlare con Obama, oltre le barricate del vertice: «Dobbiamo andare via dall’Afghanistan ora, non tra due anni. Abbiamo ucciso bin Laden e rovesciato i taleban: se vogliamo stabilizzare il Paese, è venuto il momento di smettere di distruggere, e cominciare a costruire».
La marcia parte, con Graham in testa.
Pacifica fino alle 5 del pomeriggio, quando il corteo arriva davanti a McCormick Place, la sede del vertice. I poliziotti prendono il megafono per dire che la manifestazione autorizzata è conclusa: bisogna tornare a casa o finire in manette. Nessuno si muove, gli anarchici del Black Bloc forzano le linee degli agenti. Cominciano a volare bottiglie, una barricata di metallo viene sollevata e lanciata contro i poliziotti. Ci sono feriti da entrambe le parti, arresti. La marcia pacifica è finita, comincia una notte di sfida.
Corriere 21.5.12
la «Smart Defence» e l’industria Usa
di Franco Venturini
Sono almeno dieci anni che la Nato cerca di darsi una «difesa intelligente» fatta di sinergie e complementarità, ma il tempo dei ritardi e delle rivalità nazionali, ora, sembra davvero scaduto. La congiuntura economica avversa impone a tutto l'Occidente problemi di compatibilità tra tagli alla spesa pubblica e necessità dei bilanci della difesa. E l'Europa, davanti al palese riorientamento degli interessi strategici dell'America verso l'Asia e il Pacifico, deve prepararsi all'eventualità di non poter contare sempre e comunque sul dispositivo militare statunitense. Per questi due motivi il vertice di Chicago non si è limitato a proclamare le consuete intenzioni ma ha preso atto della realtà e ha varato una serie di progetti concreti che assieme a tanti altri dovranno dare corpo alla smart defence: l'acquisto da parte dell'Alleanza di una piccola flotta di droni da ricognizione che farà base a Sigonella in Sicilia, l'alternanza dei luoghi e delle strutture destinate all'addestramento (in particolare per le ridimensionate truppe americane in Europa), la conferma di una rivista e meglio coordinata capacità deterrente anche nucleare senza con questo chiudere la porta a ulteriori accordi di disarmo con Mosca, lo «scudo» anti-missile ora entrato nella prima delle quattro fasi che nei prossimi otto anni dovrebbe portarlo all'operatività, si spera dopo il raggiungimento di un accordo con la Russia. Questi e altri progetti, tuttavia, da soli non potranno rispondere alla sfida che viene lanciata dalle realtà economico-strategiche (e dai conseguenti orientamenti delle opinioni pubbliche, soprattutto in Europa). Al di là dei singoli terreni di possibile applicazione la smart defence richiederà, per essere efficace, una forte convergenza di volontà politica tra la Nato, la UE e gli Stati nazionali. Tenendo presente, come sottolineato dal ministro Di Paola, che prima viene l'obiettivo politico-strategico e poi la pianificazione del bilancio della difesa. Gli interessi nazionali, c'è da giurarci, non spariranno come per incanto. Dalla sponda europea dell'Alleanza si sono già levate voci che paventano una risparmiosa standardizzazione degli armamenti ad esclusivo beneficio dell'industria americana. L'Unione Europea, per parte sua, assiste agli accordi bilaterali franco-britannici (nell'ambito dei quali non tutto è andato liscio di recente) senza riuscire a creare una cornice europea di cooperazione sufficientemente solida. E la Nato, malgrado i nuovi potenti incentivi alla «difesa intelligente» , rischia di pagare il prezzo dei problemi irrisolti. Per una difesa davvero smart, insomma, nessuno deve voler fare la parte del leone. Le ricadute occupazionali e tecnologiche su scala nazionale dovranno essere tutelate. E anche per questo il trampolino di Chicago dovrà servire a far nascere un patto transatlantico globale più sofisticato e dettagliato, garante dell'equilibrio tra quegli interessi che oggi potrebbero ancora silurare il progetto appena avviato. Il cui affondamento, di questi tempi, sarebbe davvero poco intelligente.
La Stampa 21.5.12
Egitto verso le presidenziali
Elezioni, è la svolta. Ma al Cairo i giovani si sentono traditi
Voto il 23 e 24 maggio. Islamisti e militari al centro della scena
di Francesca Paci
Criminalità, recessione e disoccupazione decideranno le sorti di questa elezione
50 milioni di elettori. Per poter votare occorre aver compiuto 18 anni. Il capo del Consiglio militare, Tantawi, ha esortato gli egiziani ad andare a votare: «Assumetevi la responsabilità nazionale di scegliere il vostro presidente»
A quattro mesi dal compimento del primo anno d’età, l’Egitto post Mubarak va alle urne per eleggere il proprio presidente. Sulle automobili e i minibus incolonnati a passo d’uomo tra i viali del Cairo si moltiplicano i manifesti elettorali dei candidati alla conquista del consenso ma anche dei fuori concorso come i generali che, dovendo recuperare la popolarità perduta, approfittano della fioritura di poster per diffondere l’immagine di un soldato con in braccio un bambino e la scritta «giaish, sciab, yad wahida» (il popolo e l’esercito sono una sola mano), il celebre slogan della rivoluzione.
Il traguardo del 23 e 24 maggio, l’ambito giro di boa rispetto a oltre mezzo secolo di dittatura, è dietro l’angolo. Qualsiasi candidato la spunti, il fratello musulmano Morsy o il suo ex collega Abou el Fotouh, il calcolatore Amr Moussa, la vecchia guardia Shafik o il nasseriano Hamdeen Sabahi, resterà in carica per soli quattro anni (o almeno così dovrebbe) salvo risottoporsi umilmente al giudizio dei cittadini. Una rarità nel mondo arabo. Eppure il vento della rivoluzione che fino a ieri gonfiava le bandiere in piazza Tahrir sembra aver stordito i tamburini del cambiamento.
Tra la subdola riscossa islamista, l’esibizione muscolare dei militari e l’inadeguatezza dei liberaldemocratici inebriati dal miraggio del potere al punto da prepararsi a consegnarlo ai concorrenti, i ragazzi protagonisti della decisiva spallata al regime sbandano. All’entusiasmo per la novità del voto, vera primizia in un paese dove il 50% della popolazione ha meno di 25 anni, si mescolano il sospetto di aver perduto la palla, la voglia di tornare in strada, l’attitudine un po’ infantile alla dietrologia, i sogni e le delusioni nate da una protesta che il sociologo argentino Ernesto Laclau definirebbe anarco-populista, massiccia ma senza strategia politica né leader.
Dopo aver ispirato la primavera globale degli indignati, dai madrileni di Puerta del Sol ai ribelli disciplinati di Occupy Wall Street, la gioventù di piazza Tahrir tira un primo mesto bilancio. A chiederlo non sono solo le proprie intime aspirazioni ma la maggioranza silenziosa degli egiziani, il cosiddetto «hezb al kanaba», il partito del divano, quelli che pur essendo rimasti a casa hanno simpatizzato con la protesta ma ora lamentano l’aumento della criminalità, la recessione economica, la disoccupazione balzata al 12% con punte del 25% tra gli under 30.
«Comunque vada il voto, la rivoluzione non è morta perché la società intera ha rotto il muro della paura e oggi ci sono almeno 500 mila persone che non abbozzeranno più né di fronte a una dittatura militare né di fronte al fascismo islamico» ripete il 41enne Mohamed Raouf Ghoneim, veterano degli attivisti, che un paio di anni fa ha accantonato il marketing per dedicarsi a tempo pieno all’impegno politico. La prova del nuovo corso è nei milioni di egiziani incollati alla tv per il dibattito tra gli sfidanti Amr Moussa e Abou el Fotouh, un vero e proprio avvenimento. La sfida che attende gli egiziani è trasformare l’evento, dalle elezioni alla sentenza contro Mubarak, in un processo continuo e irreversibile.
Corriere 21.5.12
«Via il pattume straniero dalla Cina» Il presentatore contro la giornalista tv
Dietro l'attacco all'inviata di Al Jazeera la crescente retorica nazionalista
di Marco Del Corona
PECHINO — Se Yang Rui è uno strumento del soft power cinese, dev'essere un martello. Che scappa di mano. E sferra colpi decisi, anche a costo di danneggiare lo stesso soft power, già di per sé acerbo. Yang è forse l'anchorman più famoso di Cctv-9, il canale inglese della televisione di Stato. Il suo talk show «Dialogue» è un luogo di confronto reale, sebbene regolamentato, tra ospiti stranieri e una Cina sempre più orgogliosa. Ma la foga nazionalistica di Yang ha assunto di recente toni particolarmente ruvidi. E si è sommata a un paio di filmati che circolano sul web e a una campagna contro gli stranieri che lavorano illegalmente o soggiornano oltre la durata del visto, alimentando fremiti xenofobi immediatamente colti dagli espatriati residenti in Cina.
Sul suo microblog Yang ha colpito con particolare veemenza Melissa Chan, la corrispondente del canale in inglese della tv Al Jazeera, cui non sono stati rinnovati visto e accredito. Di fatto un'espulsione, la prima di un giornalista dal 1998. Per Yang l'americana Melissa Chan è una «puttana straniera», come ha testualmente pubblicato su weibo (il Twitter cinese) mercoledì 16.
Tuttavia l'offesa alla Chan era inserita in una tirata xenofoba che è stata poi ripresa, commentata, chiosata, irrisa, a sua volta attaccata sul web. Prendendo spunto dalla stretta su visti e permessi di lavoro, Yang ha scritto che «il ministero della Sicurezza pubblica deve fare piazza pulita dell'immondizia straniera: acchiappare pezzenti stranieri e proteggere le ragazze innocenti… Eliminate i trafficanti umani stranieri, disoccupati americani ed europei che vengono in Cina per fare soldi (…) traviando il pubblico e incoraggiano la gente a emigrare. Imparate a riconoscere le spie straniere che trovano una ragazza cinese da portarsi in giro mentre campano compilando rapporti d'intelligence, fingendosi turisti per fare rilievi e mappature e migliorare i dati Gps per Giappone, Corea del Sud, Usa ed Europa. Abbiamo cacciato a calci quella petulante puttana straniera e chiuso l'ufficio di Al Jazeera a Pechino (in realtà solo quello dell'edizione in inglese, ndr). Dovremmo fare in modo che chiunque demonizza la Cina chiuda la bocca e vada a quel paese». Il saggista James Fallows, più volte ospite di «Dialogue», ha scritto su The Atlantic: «Credevo fosse una parodia. Invece no».
In altri post Yang Rui se la prende con il Wall Street Journal, che gli ha dato dello xenofobo, ma anche con i propri connazionali, troppo accondiscendenti, «lì a capo chino» pronti a ubbidire agli stranieri. Un paio di giorni dopo Yang ha ammesso che la Cina deve «guardarsi dalla xenofobia», ma ormai il vaso di Pandora era scoperchiato. Il terreno, peraltro, era preparato dalle immagini viste e riviste dell'insolenza di un violoncellista russo dell'orchestra sinfonica di Pechino contro una cinese che si lamentava dei piedi appoggiati sullo schienale del suo sedile e dal video dell'aggressione in strada a un britannico ubriaco accusato di aver molestato una cinese. Il propagandato rigore sui visti delle Sicurezza pubblica fa il resto. Qualcuno, ripensando alla trasmissione di Yang Rui, ha già fatto la battuta: più che «Dialogue», la Cina preferisce il «Monologue».
Corriere 21.5.12
Scienziati e filosofi, la verità è una
La divisione dei saperi è solo una deriva moderna e letale
di Guido Ceronetti
Tempo fa, su queste colonne, Dario Fertilio trattava di un convegno (a Torino e a Ivrea) in cui gli intervenuti si trovavano d'accordo per superare la separazione tra cultura scientifica e cultura-cultura (umanistica, in specie la greco-latina). Sarei d'accordo anch'io: le Due Culture sono immaginarie, la Conoscenza è una, e conoscere, dice Qohélet (1, 18) implica e incrementa il dolore; e il dolore ha bisogno di scienza e di filosofia per essere superato; dunque di un sapere unico.
Gli autori antichi, trattando di cose fisiche in vari De rerum naturae, sarebbero rimasti trasecolati a sentir parlare di Due Culture. Il loro scopo non era la cultura, parola che di vuoto ne contiene parecchio, ma la verità, e la verità è una e indivisibile. Lucrezio fa un poema senza il mito, e il suo poema tutto fisico e astrofisico seduce come una musica, è un monumento di bellezza sonora che fa da lampada nel buio dell'ignoranza — blocco di tenebra in cui nasciamo, viviamo e siamo. Lucrezio riteneva di fare scienza esponendo la dottrina di Epicuro per un fine di salvezza. Ma uno scienziato contemporaneo mi collocherebbe Lucrezio nel guardaroba della «cultura classica», altro fantasma da soffiare via se vogliamo restare veri. In un paio di versi del suo terzo libro (828-29) io leggo una diagnosi del morbo di Alzheimer che si può tradurre così: E mettici (tra i mali mentali) «le crisi di furore proprie del nostro animo e l'oblio di tutte le cose, e aggiunga ancora che ci risucchiano le nere onde del coma (lo stato vegetativo: "lethargi")». Perché ci possa essere una sola cultura bisogna che questa sia inclusiva, autonoma, totalizzante. Se c'è una linea moderna di demarcazione non deve essere accolta come un luogo comune.
Unità sì, ma l'orma è bifronte. C'è una faccia d'ombra. Stesso volto e due facce. Quella in ombra non è innocente: promuove talvolta il crimine, può farsi complice del male. Dalle sue matematizzazioni pure (via Panisperna) è emerso il fungo di Alamogordo, poi quello terrificante di Hiroshima. Poco è mancato che un sommo fisico (Heisenberg) offrisse a Hitler l'arma atomica. La medicina è tantalica, stenta ad afferrare i frutti della salute fisica, ma i piedi li ha tuffati nella morte. Verso il crimine le sue frontiere sono aperte e mobili; la sua totale dipendenza dall'industria del farmaco raduna ombre su ombre. I medici che in Germania prescrivevano la Talidomide, sapevano che cosa si facevano? Un illustre medico e docente, Edoardo Boncinelli, è da poco uscito con questo titolo perentorio: La scienza non ha bisogno di Dio. Non lo contesto, ma come filosofo so che l'uomo ha bisogno di Dio, dalle nascite anteriori alle ulteriori apparenti morti, e che le mura intorno ai nostri passi sono quelle circolari dove si muovono in cerchio i detenuti di Newgate. Le aperture di Darwin sono una meravigliosa e sterminata finestra e hanno accresciuto, ci direbbe Spinoza nel suo linguaggio ingannevolmente matematico, la conoscenza della «res extensa» di Dio. Darwin è un faro per Boncinelli: io mi arrischio a dire che Dio ha bisogno di Darwin, per rivelarsi nell'orca e nell'iguana, o nelle urla della scimmia umana senza principio.
Vediamo ancora. Il vecchio statista Ariel Sharon è in coma vegetativo dal 4 gennaio 2006. In Israele i medici, che io sappia, sono liberi di porre un termine a una simile fine-che-non ha fine. A quanto si dice, la famiglia, in mancanza di disposizioni dell'infelice, non autorizzerebbe la Parca a tagliare il filo. La povera Eluana, da noi, rimase in tale stato per poco meno di diciotto anni. I casi non sono pochi, oggi, nel mondo. Se il coma si protrae oltre sei mesi, un anno, giuridicamente, e soprattutto, umanamente, lo status del paziente si tramuta in quello di vittima di un crimine. Se la scienza si fa guidare dalla possibilità tecnologica (dal puro potere tecnico amorale) è bomba di Hiroshima. Cor ultimum moriens: così sentenzia la scienza, ma l'espianto a cuore battente è onnipotenza tecnica che ha volto di crimine. Certo, casi simili non hanno bisogno di Dio, di un referente morale di tipo Ragione Pratica kantiana: ma allora chi c'è che li ispira? Solo un Demiurgo malvagio, nemico della specie umana!
Non va dimenticato che la cultura egemone, la tecno-scientifica, si origina da un immenso tesoro aureo di pensiero assassinato, e da lei divorato come la piccola Cappuccetto Rosso dei Grimm. Il suo fondamento è magico-alchemico e miracolistico, e prima o poi riemergerà dalla pancia del lupo. Se si vuole affrontarlo senza orripilazioni, questo è un bel tema da meditare e discutere — perché procedere da orbi decisi a restare tali è l'alternativa.
Se l'elemento unificatore di queste Due Culture è la memorizzazione informatica di tutto (c'è da sospettarlo) siamo fuori dalla verità, perché scaricare virtualmente è riempire all'infinito discariche reali e incineratori tossici, e dissocia la mente. Segnalo un'ambiguità: è stato un bel punto per la verità la dimostrazione che la Sindone come immagine di Cristo morto è falsa (è molto più vero Mantegna!); nello stesso tempo la verità scoperta ha cancellato, o reso più accanito, il sogno, e senza il sogno la vita va in perdizione. L'elettronica filologica arriva a questo: ci informa di quante volte sono ripetute nella Bibbia le parole Bene e Male. Grazie tante. Mi dice qualcosa sul Bene? Mi dice qualcosa sul Male? Sapere quante volte il verbo «sfàgo» è ripetuto nei Tragici greci, sul tragico nella vicenda umana mi dice qualcosa? Ma se tocchiamo il tesoro intangibile della conoscenza greco-latina ci perdiamo con un piede sulle rotte del sogno, e con l'altro sulle mulattiere senza discesa, di illimitata conquista e riscoperta, della verità speculativa. Un bene autentico è a prezzo di fatica.
La Stampa 21.5.12
Margherita Hack
“I miei primi novant’anni da splendida ribelle”
L’autobiografia «Nove vite come i gatti» scritta con Federico Taddia è da pochi giorni in libreria
di Federico Taddia
Bologna. La mia amicizia con Margherita Hack nasce grazie a una telefonata di qualche anno fa, quando le proposi di fare insieme un libro per bambini. Temevo di avere un approccio troppo informale. Dall’altra parte della cornetta c’era invece una voce tranquilla, ben disposta, curiosa di buttarsi in una nuova avventura. Tempo una chiacchierata e il primo appuntamento era fissato. Il telefono che squilla è una costante della sua vita. Come lo è lei che risponde sempre. E che non dice mai di no: al giornalista, all’organizzatore di un festival, all’associazione benefica che cerca un testimonial o allo studente che vuole una dritta per la scelta della facoltà.
Margherita cerca di capire. Segna sul calendario, fissa appuntamenti, immagina ipotetici itinerari e fantastica coincidenze tra treni e taxi. Spiega che è affaticata. Che per lei camminare non è più cosa da poco. Che il respiro è sempre più affannoso. Ma non dice mai di no. Perché, come ti confessa con i suoi occhi vivissimi, il suo corpo i 90 anni li sente tutti: ma la testa no, quella no. Ed è quello che racconta con forza e sincerità in «Nove vite come i gatti», il libro che abbiamo scritto insieme per i suoi 90 anni. Sono stato nella sua casa tutta libri e gatti decine di volte. Ho avuto la fortuna di parlare con lei di tutto e di ridere di tutto. Con lei ho girato l’Italia tra scuole, biblioteche e festival: Tshirt, un sacchetto di plastica dove mettere il cambio necessario per qualche giorno, il bastone per la voglia di muoversi sempre. Non vorrebbe fermarsi mai! Poi magari ti sussurra: «Sono un po’ stanca». Subito dopo però ti guarda e ti dice, dicendolo soprattutto a se stessa: «Ma non me ne frega niente».
E quel «Non me ne frega niente» ritorna come risposta a mille domande: «Perché non ti emozioni guardando le stelle? », «Perché non hai mai cercato Dio? », «Perché non sei mai andata da una parrucchiera? ». Una scrollata di spalle è la risposta più diretta che dà alle domande che ritiene non degne di considerazione. Margherita ti sa continuamente spiazzare: a 90 anni guarda ancora il marito con amore, ancora lotta per i suoi ideali, ancora con pazienza spiega a un bambino per l’ennesima volta cos’è un buco nero. E capisci qual è il suo segreto per non aver paura di morire: non ha mai avuto paura di vivere. E non ha mai perso tempo a cercare i piaceri della vita perché da sempre porta con sé il piacere della vita.
La religione Profondamente lontana dal credere
C’ è stato un periodo in cui mi vergognavo di essere diversa dagli altri. Andavo al liceo, ed essere cresciuta aveva ingigantito differenze alle quali sapevo di non dover dare peso. Eppure sentivo qualcosa che mi distingueva dai miei compagni: il credo dei miei genitori, il fatto di essere esonerata dall’ora di religione e il non mangiar carne. Credevo che trovare un compromesso sulla religione avrebbe attenuato l’aspetto della mia «stranezza» che più di tutto mi faceva sentire vulnerabile. Ho fatto anche la prima comunione per sentirmi meno diversa dagli altri, giusto per fare il compitino, senza nessun tipo di fede.
La scuola Rimandata di matematica
Di quegli anni ho un ricordo meno piacevole. In seconda liceo avevo un professore sempre intento a squadrarci dalla testa ai piedi per beccare qualche attività sospetta. Una specie di guardia carceraria: io tenevo gli occhi bassi per il gusto di farlo imbufalire e mi divertivo a far finta di leggere sotto il banco. Alla mia ennesima provocazione mi si precipitò addosso come un falco per cogliermi sul fatto. Subito si rese conto che non stavo nascondendo nulla e per rimediare alla figuraccia mi tirò via la cartella da sotto il banco. La aprì e dentro ci trovò il giornale. Alla fine dell’anno ebbe la sua vendetta: mi rimandò a settembre in matematica.
L’università Iscritta a Lettere per qualche mese
Scelsi lettere perché gli unici laureati che i miei genitori conoscevano erano passati per lettere. Inoltre avevo sempre dimostrato una certa inclinazione per la scrittura: al liceo liquidavo in mezz’ora una traccia per cui avevo tre ore a disposizione e poi mi rintanavo al cesso a riposare. Mi iscrissi a lettere. La prima lezione fu l’unica che seguii. Le tenne un professorone che parlò per un’ora di «Pesci rossi», una raccolta di scritti di Emilio Cecchi. Mi annoiai a morte a capii subito di aver fatto un errore madornale. Mi precipitai in segreteria e decisi di cambiare facoltà. Stavolta tutto mi era chiaro: al liceo la mia materia preferita era la fisica. E fisica fu.
I figli Non ho mai avuto la vocazione da madre
Un mio collega di Merate mi diceva: «Sei un bestione tutto stupore e tutto senso». Mi ritrovo in quella definizione. Non ho mai avuto tormenti metafisici, ma a volte mi meraviglio guardando la vastità di quel che ci circonda. A 90 anni c’è chi mi chiede se ho rimpianti, ma non è un sentimento che mi appartiene. Altri, lo vedo nei loro occhi, vorrebbero sapere perché non ho figli. Credo che la risposta potrebbe lasciarli delusi: Aldo e io non li abbiamo voluti perché non avevamo quella vocazione. Non mi manca non essere stata una madre: non è una cosa che sentivo mia. Da sempre mi attirano di più gli animali che i bambini, non penso sia una colpa.
La felicità Non desiderare ciò che non si può avere
Sono felice perché non desidero quello che non posso avere. Una volta facevo lunghe camminate nel Carso, oppure nuotavo per ore. Adesso non posso più fare queste cose, ma non rimpiango quei momenti. Non li posso far tornare, quindi faccio altro. La felicità è essere contenti di quello che si ha. E io non posso proprio lamentarmi. Ho avuto tanto senza mai scendere a compromessi. Ho battagliato, certo, ma fa parte del gioco. Sono sempre stata una persona riservata, anche un po’ scorbutica. Eppure ancora oggi sono circondata da gente che mi vuole bene, compresi tanti perfetti sconosciuti che per strada mi salutano con affetto.
La morte Una cosa a cui non penso proprio
Ho 90 anni e anche se con il sentimento il pensiero della morte è lontano, la logica mi dice il contrario. Non voglio dire che vivo nell’angosciosa attesa di quel momento, anzi a dirla tutta non ci penso proprio. So di aver goduto gran parte del tempo a mia disposizione e quindi mi riesce difficile pensare troppo al futuro. Vivo alla giornata. Ormai la mia carriera l’ho fatta, sono in pensione da un bel pezzo, invecchio ogni giorno di più e faccio sempre più fatica a fare qualsiasi cosa.
(Tratto da «Nove vite come i gatti», Margherita Hack con Federico Taddia, Rizzoli, 16 euro)
La Stampa 21.5.12
Cittadini si diventa: in piazza
Dall’agorà greca alla Tahrir del Cairo un luogo emblematico che mette in gioco i rapporti tra spazio e società
di Carlo Olmo
Lo storico dell’architettura Carlo Olmo è direttore dell’Urban Center di Torino
I fili che si intrecciano quando si ragiona sui possibili legami tra la piazza e le espressioni della cittadinanza sono davvero tanti e molto ingarbugliati. Sono fili complessi e contradditori, non solo perché attraversano geografie e cronologie.
Sin dalle prime tracce scritte che noi abbiamo - la riflessione di Aristotele sulla griglia di Ippodamo da Mileto nella Politica - la piazza costituisce insieme l’eccezione e l’enfasi di un disegno urbano che esprimeva assieme un’egual distribuzione delle opportunità per tutti i cittadini e una forma di controllo sociale attraverso lo spazio. Nel ragionamento che Aristotele costruisce e che ha nella vicenda di Thurii il suo esempio più controverso, la griglia è una proposta costituzionale che prevede una redistribuzione dei profitti derivanti dagli usi del suolo funzionale alla organizzazione delle classi sociali. L’agorà, in questa prospettiva, diventa un luogo «eccezionale», volutamente lasciato a funzionare ambiguamente come spazio rituale (in cui il passaggio è anche dal sacro al pubblico) e come spazio sociale (del confronto, del conflitto e della mediazione). Quest’impostazione ha una storia che arriva sino a oggi, con momenti di grande enfasi, quando sarà fatta proprio da diversi pensieri utopici, o quando la griglia diventa il paradigma fondamentale su cui si costruiscono le città di fondazione e la piazza il luogo ancor più caricato del dover essere «costituzionale» e non solo funzionale.
Un secondo filo dalla storia non meno antica è quello che può essere riassunto in un apparente paradosso, The Roman Bazaar, seguendo il lavoro prezioso di Peter Fibiger Bang. La piazza come il luogo del mercato, come il luogo dove lo scambio attraversa tutte le sue declinazioni: sociali (di integrazione e legittimazione di chi opera lo scambio), simboliche (nel passaggio dallo scambio tra beni a quello tra beni e monete, a quello tra monete), antropologiche (con il problema centrale del rapporto tra il denaro e il sacro e del problema di chi gestisce il credito… e l’usura). L’esempio più noto, una specie di incipit occidentale, è la piazza delle corporazioni a Ostia, un altro è la strada-piazza del Gran Bazar a Istanbul. La piazza come luogo del mercato segue, è quasi ovvio dirlo, l’evoluzione della funzione, ma anche della rappresentazione, del mercato nelle società. Questa «piazza» rappresenta anche, occorre sottolinearlo, il luogo per eccellenza dove le regole informali che le società si danno prevalgono su quelle formali (e sulla gestione repressiva o meno della loro applicazione).
Esiste poi un terzo filo rosso altrettanto importante, quello che separerebbe la piazza disegnata, espressione di una volontà di forma, e la piazza che si costruisce per successive addizioni. Tra queste ultime, la piazza del Campo nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti e, se si preferisce al posto di una rappresentazione un luogo reale, quella che sorge a Lucca sulle tracce dell’anfiteatro romano. Tra quelle disegnate, la Piazza ideale dell’Anonimo fiorentino conservata oggi a Baltimora, oppure la piazza Pio II a Pienza o le places royales, in primis la place des Vosges a Parigi. Una contrapposizione che ha fatto la fortuna del modello di piazza «italiana» sino a farla diventare quasi il paradigma della piazza in cui si riconosce una comunità, mentre la piazza disegnata è diventata la rappresentazione dello Stato assolutista. Con ulteriori e interessanti paradossi che ne accompagnano la storia. La piazza «medievale» può diventare il cavallo di battaglia di chi combatte la modernità e rifiuta un concetto universalista di società - così è ad esempio per Léon Krier e per il principe Carlo - mentre la piazza disegnata è diventata l’ultima espressione di una ormai morente cultura modernista: la piazza del Campidoglio a Chandigarh di Le Corbusier o la piazza della Sovranità di Niemeyer a Brasilia ne sono gli esempi più conosciuti.
Dietro tutti questi intrecci sta una riflessione sempre estremamente contraddittoria e complessa sul rapporto che può esistere tra spazio e società, che mette in discussione facili genealogie. Proprio lo studio di come si costruisce realmente ad esempio la place des Vosges mette in luce come quella che appare il paradigma di una volontà assolutista di forma nasca dal riconoscimento - siamo nel 1616 - che l’uniformità sociale costituisca un problema per il funzionamento della città. Mentre saranno studi - soprattutto statunitensi e bostoniani - a cercar di definire il disegno urbano come strumento inatteso di una possibile Urban Democracy. Ma è proprio la piazza, anche in quelle riflessioni storiografiche e critiche, che rimane il luogo più ambiguo.La piazza delle Tre Culture a Città del Messico, plaza de Mayo a Buenos Aires, oggi piazza Tahrir al Cairo sono entrate nell’immaginario politico e culturale come luoghi dove si rappresenta (non tanto si organizza) il dissenso. Sono piazze «fuori scala», scarsamente vissute come tali, che diventano, proprio come luoghi fortemente ambigui, scene di una rappresentazione sociale. In realtà, il rapporto tra piazza ed espressione della cittadinanza è nella storia urbana ben più complesso.
L’esempio forse più immediato rimane l’attuale place de la Concorde. Pensata come piazza destinata a ospitare la statua equestre di Luigi XV, viene localizzata dove sarà costruita dopo un doppio concorso che vede coinvolti quasi tutti i quartieri di Parigi, fondamentalmente perché quel luogo comprendeva il primo grande fallimento di una finanziarizzazione della rendita urbana: quello di John Law. La piazza rimane una piazza aperta verso la Senna, costruendo diverse prospettive visuali, proprio il contrario della piazza chiusa, mito e simbolo delle piazze espressione di un potere monocratico. Diventa con la rivoluzione la piazza delle esecuzioni, poi lo snodo delle processioni rivoluzionarie, per diventare l’inizio del più importante progetto di disegno urbano della Parigi di prima metà dell’Ottocento, rue de Rivoli, sino a essere vissuta oggi come un’immensa rotonda automobilistica che ha perso persino il suo statuto di piazza.
Le metafore aiutano a semplificare questioni complesse. Piazza può essere usata provocatoriamente per semplificare ad esempio nuove forme di comunicazione, ma, come tutte le parole, si porta dietro un’avventura più ricca e forse più interessante del suo uso come semplice metafora.
La Stampa 21.5.12
Trintignant: “L’amore ha un lato oscuro ”
Il grande attore torna con un film sull’eutanasia e ipoteca la Palma Esce l’autobiografia a 10 anni dalla morte violenta della figlia Marie
di Fulvia Caprara
Il regista Haneke: «Racconto la necessità di affrontare il dolore di chi si ama»
L’amore fino alla morte. Superando l’insulto della malattia che trasforma l’essere umano in un grumo inerte di dolore. Il giorno di Amour, l’ultima opera del premiatissimo Michael Haneke, in concorso ieri al Festival, è soprattutto il giorno di Enmanuelle Riva e di Jean Louis Trintignant, interpreti straordinari di una storia ordinaria e quotidiana, spietata come può essere la vita. Colti, eleganti, innamorati fino all’ultimo l’uno dell’altra, Georges e Anne dividono la vita nel caldo appartamento che li ha visti da sempre felici. Un giorno Anne ha un ictus, metà del suo corpo resta paralizzato, vivere diventa una maledizione, nonostante le cure affettuose di Georges, nonostante l’affetto della figlia Eva, interpretata da Isabelle Huppert: «La necessità di confrontarsi con la sofferenza di chi si ama - dice Haneke - è una realtà con cui tutti, man mano che gli anni passano, siamo costretti a fare i conti». L’idea ha conquistato Trintignant, convincendolo a tornare sul set, cosa che aveva giurato di non voler più fare: «E’ vero, sono stato per anni lontano dal cinema, amo molto il teatro, e preferisco recitare in palcoscenico. Ma Haneke è il più grande regista del mondo, l’opportunità che mi ha offerto era meravigliosa, non potevo dire di no. Il lavoro è stato doloroso, ma sono soddisfatto del risultato».
A Cannes la sua rentrée ha un sapore eccezionale, il divo francese che ha lavorato con i registi del mondo, italiani compresi, basta pensare a Dino Risi e a Bernardo Bertolucci, torna al cinema nel più fragoroso dei modi, con una prova che lo proietta immediatamente nella rosa dei candidati al Palmarès, sulla scena della kermesse cinematografica più mediatizzata del globo. All’incontro con la stampa, si presenta accogliendo gli applausi con le braccia alzate, il sorriso sulle labbra, una vaga ironia nelle risposte, soprattutto quando parla delle riprese e di certe manie del regista: «E’ molto esigente, non conosco nessuno esigente come lui, non ve lo consiglio, è veramente difficile lavorarci... ». Seguono gli esempi, dalla scena in cui ha dovuto interagire con un piccione («è stata molto difficoltosa, Haneke pretendeva che gli uccelli facessero quello che voleva lui, ci sono voluti due giorni per girarla»), a quella che gli ha procurato i complimenti dell’autore: «Una volta mi ha detto che gli era piaciuto moltissimo il modo con cui avevo pronunciato la mia battuta, che però, in quel caso, era semplicemente un sì». Del dolore immenso per la perdita della figlia Marie, uccisa a botte a Vilnius, nel 2003, dal musicista Bertrand Cantat, della depressione che ne è seguita, dei pensieri bui, della voglia di morire, del rifugio nella poesia, Trintignant parla senza risparmiarsi nel libro-intervista di André Asséo, appena uscito in Francia, «Jean Louis Trintignant Du cote d’uzés». Adesso è il momento della rinascita: «Sono convinto di essere migliore a teatro che al cinema, forse perchè nel primo caso non posso rivedermi e nel secondo sì». Amour (in Italia arriverà il 31 ottobre, distribuito da Tedora), rappresenta, per diversi motivi, un’eccezione: «Dopo tanti anni mi è capitato di riguardarmi sullo schermo e di essere contento. Sarò presuntuoso, ma stavolta mi sono piaciuto». La folgorazione per Haneke è arrivata con il film Cachè: «Sono uscito dalla sala entusiasta, era da tanto che non mi succedeva. La mia reazione è stata raccontata ad Haneke e, qualche settimana dopo, ho saputo che voleva incontrarmi». Dopo aver letto la sceneggiatura di Amour, Trintignant è tornato dal regista e gli ha detto: «Ecco qui un film che non andrei mai a vedere». Poi i due hanno iniziato a parlare: «Alla fine ho dichiarato esattamente il contrario “è un soggetto superbo, sono certo che andrei a vederlo”».
Accanto alla prova del protagonista brilla quella di Emmanuelle Riva, che subisce la trasformazione fisica di Anne e la fa sua, nei particolari più drammatici: «Sono entrata nel personaggio con molta naturalezza, mi sono messa al posto di Anne, e anche le cose più difficili non mi sono parse tali. Vi sembrerà strano, ma l’unico problema me lo ha dato la sedia a rotelle elettrica, ero davvero spaventata dall’idea di doverla manovrare». Per la prima volta, sul piglio leggendario di Haneke, sulla durezza lucida dei suoi racconti, prevale la carica vitale di due splendidi ottuagenari.
Corriere 21.5.12
Facebook ora si trasforma in Borsa
Sfida alla grande finanza. Dopo la quotazione sul Nasdaq da 104 miliardi
di Federico De Rosa
La sfida alla Corporate America non l'ha ancora vinta. È vero che il posto nell'Olimpo dei supericchi è già un bel traguardo per Mark Zuckerberg. Ma quell'andare su e giù nel giorno del debutto sul listino ha dato un pretesto a chi guarda ancora Facebook dal basso in alto, ricordando i fasti, e le macerie, del 2000, quando la prima ondata degli enfant prodige della New Economy venne inghiottita dal buco nero della bolla, insieme a miliardi di dollari dei risparmiatori. Avranno tempo per ricredersi.
Intanto Zuckerberg è pronto a fare il bis con una nuova scommessa. Dopo aver fatto scoprire Facebook a Wall Street vuole fare il percorso inverso portando i 900 milioni di utenti del social network nel cuore del capitalismo. Tra poche settimane accanto al tasto «like» ce ne sarà un altro che con un semplice clic permetterà di comprare e vendere azioni delle società americane, le quali a loro volta potranno utilizzare la fanpage di Facebook per collocare i propri titoli in Ipo ai risparmiatori-utenti. Si chiama «Loyal3» ed è una piattaforma di trading che dall'inizio di giugno sarà incorporata nelle pagine del social network come una normale applicazione.
In mano a Zuckerberg può diventare un cavallo di Troia insidiosissimo. L'applicazione è pensata per chi di solito non investe in Borsa. Certo, visti i tempi, il debutto su Facebook magari non porterà a un'impennata degli utilizzatori. Però Loyal3 è senza dubbio una finestra su Wall Street che scatenerà grande curiosità. Una porta girevole — più che una finestra — in grado di portare gli utenti del social network a diretto contatto con le società più note come Coca Cola, Walt Disney, General Motors o Bank of America. Di farli dialogare direttamente con i manager utilizzando le finestre di Facebook o comprare azioni delle start-up più promettenti. Ma anche di scambiarsi tra «consoci» pareri, consigli e critiche sulle aziende, senza filtri e censure, usando Facebook come cassa di risonanza. All'inverso, i grandi brand della Corporate America potranno sbirciare nella vita dei propri azionisti-clienti per carpirne abitudini, tendenze, interessi.
Visto così sembra studiato più per gli addetti alla customer reputation delle aziende che per i risparmiatori. Ma la portata di democratizzazione del mercato, almeno quella potenziale, è indubbia se si considera che oggi almeno l'80% degli americani non ha mai comprato un'azione. Loyal3 guarda proprio in questa direzione. Si potranno addirittura comprare frazioni di azioni, se non si hanno abbastanza dollari per acquistarne una intera. Caso non raro se si pensa ai titoli dei brand più noti tra gli utenti dei social network. Un ragazzino di 16 o 17 anni potrebbe avere qualche difficoltà a spendere in un colpo solo 600 dollari per comprare un'azione di Google o più di 200 dollari per Amazon.
Ora con Zuckerberg potrà farlo investendo anche 10 o 20 dollari. Nessuno potrà però superare i 2.500 dollari al mese. E così la speculazione è tagliata fuori. Per tenere lontani gli avvoltoi a caccia di nascondigli sicuri da cui speculare, Loyal3 avrà dei precisi orari per negoziare: se l'ordine viene immesso dopo le 14.30 la compravendita avviene il giorno dopo, aumentando così il rischio sopratutto in tempi come questi in cui avventurarsi in Borsa è un po' come salire sulle montagne russe. Ovviamente non si pagano fee, commissioni, e dunque anche investire 10 dollari è conveniente se si risparmia il costo del broker.
Parlare di concorrenza a Wall Street, tuttavia, sembra non solo prematuro ma anche azzardato, sebbene la storia insegna che nessuno può dormire sonni tranquilli se dal giorno alla notte due signori come Larry Page e Sergey Brin riescono a mettere su Google le più grandi biblioteche del mondo a disposizione di chiunque voglia dare uno sguardo. Il gusto di Internet è proprio disintermediare. E Facebook lo vuole fare con le azioni, tagliando fuori i broker. Resta tuttavia un dubbio: se Zuckerberg vuole davvero rendere più democratica Wall Street, perché mai ha preferito pagare oltre 170 milioni di dollari a Morgan Stanley, Jp Morgan e Goldman Sachs per collocare azioni Facebook sul mercato, quando aveva in casa 900 milioni di potenziali compratori e l'applicazione per vendergliele da solo a costo zero?
Corriere 21.5.12
L'ultimo appello di Hitchens:
La mia cultura inglese declassata e massificata quando incontrò la libertà degli Stati Uniti
di Christopher Hitchens
Non mi capita più perché ormai una nuova generazione di africani e di asiatici è emersa a prendere in mano il mestiere, ma nei miei primi anni a Washington, mi accadeva spesso di trovarmi sul sedile posteriore di qualche grosso vecchio taxi ammaccato alla cui guida c'era un veterano afroamericano. Ero abituato al protocollo della scena: in un caldo e sonnolento pomeriggio del Sud facevo segno di fermarsi a una Chevrolet dalla vernice scrostata. Al volante, girato all'indietro e rilassato, spesso con un mozzicone di sigaro all'angolo della bocca (e non me lo invento, ma qualche volta anche con il classico cappello pork-pie tirato all'indietro) c'era un uomo brizzolato con la cintura dei pantaloni quasi all'altezza delle ascelle. Avrei detto dove volevo andare. In conformità a un antico uso dei tassisti, non avrebbe spiccicato nulla in risposta, ma avrebbe semplicemente innestato il cambio a mano sul fusto del volante e avrebbe iniziato a viaggiare a velocità moderata senza alcuna fretta. Ci sarebbe stata una pausa. Poi: «Inglese?» Avrei sempre tentato di rispondere con qualcosa del tipo: «Be', non sono in grado di negarlo». Qualche volta così mi ero conquistato un sorrisetto; comunque sia, sapevo cosa sarebbe venuto inevitabilmente dopo. «Ci sono stato una volta». «Era nell'esercito?» «Può dirlo». «In Normandia?» «Sissignore». Ma non volevano ricordare la Normandia e neanche i combattimenti. (Non succede quasi mai con chi ha veramente fatto la guerra). Era proprio l'Inghilterra che li interessava. «Accidenti se pioveva… e la birra tiepida. Gente simpatica, però. Proprio simpatica». Non dimenticavo mai di dire, al momento di scendere e senza eccedere volutamente nella mancia, quanto questo impegno da parte loro fosse ricordato e apprezzato.
Non è a questo livello che di solito si celebra la «relazione speciale» tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Per lo più la si commemora con gli incontri della Churchill Society, con una visita della regina in qualche allevamento di cavalli della Virginia o del Kentucky, con cerimonie tutte vessilli, tamburi e bandiere nazionali. Ma penso che l'elemento prima citato meriti di essere approfondito. Agli occhi di molti di quei coraggiosi gentiluomini, segregati nelle loro unità americane, l'Inghilterra si presentava come la prima immagine che vedessero di una società non segregata. Nella mia città natale di Portsmouth nel 1943 ci furono vivaci proteste di strada da parte della gente del posto che respingeva con sdegno il tentativo della polizia militare americana di introdurre un settore di colore nei pub. Il giovane Medgar Evers, a quanto pare, disse ai suoi amici inglesi, una volta di ritorno nel Mississippi, che dopo quel che aveva visto e imparato, non avrebbe più tollerato quella porcheria. Durante il mio primissimo viaggio nel profondo Sud, nel 1970, mi fermai in una minuscola stazione di autobus della Greyhound in Alabama per bermi qualcosa di fresco, e un giovane nero, sentendo la mia voce, cercò di essere gentile e disse: «Qui ammiriamo molto la resistenza di tutti voi nella Seconda guerra mondiale». L'episodio mi si fissò nella mente perché era la prima volta che sentivo dal vivo una persona dire «y'all» — in questa parte dell'Alabama si parlava più lentamente — e perché potevo essere praticamente sicuro che in questo caso dovesse significare tutti noi e non solo la persona cui veniva rivolta la frase (sono ormai in grado di valutare la differenza tra «y'all» e «all of you»).
Gli americani. Erano molto diretti. La leggenda familiare degli Hitchens raccontava come una volta, quando ero ancora un marmocchio, i miei genitori si fossero trovati con me in un aeroporto e si fossero imbattuti in un gruppo di «yank». «Davvero un bel bambino», dissero questi individui grossi e sfacciati, senza darsi la pena di presentarsi formalmente. Vollero fotografarmi e, prima di partire e tornare alle loro vite americane, mi cacciarono nel pugno chiuso un verdone firmato in riconoscimento della mia graziosità. Questa storia venne raccontata molte volte (suppongo che Yvonne e il Comandante siano stati insieme in un aeroporto forse tre volte in tutta la loro vita) e sempre con un accenno di condiscendenza. Ecco cos'erano gli americani per noi: gente che voleva essere amichevole, d'accordo, ma che era così chiassosa e incline a ostentare il denaro.
I punti di vista dei miei genitori divergevano un po' in proposito, proprio per i loro ricordi legati al tempo di guerra come quelli dei veterani di Washington. Il Comandante tendeva a sottolineare il deplorevole ritardo dell'entrata americana nella Seconda guerra mondiale e l'esorbitante prezzo preteso da Roosevelt per le navi obsolete che aveva offerto alla Gran Bretagna nell'ambito del programma Lend-Lease. Il ricordo che aveva Yvonne del medesimo conflitto era più indulgente: i membri delle forze armate americane nella Gran Bretagna del tempo di guerra si erano dimostrati cordiali e generosi e a un appuntamento potevano arrivare con calze di nylon e cioccolato e salmone affumicato. (Proprio questi fattori servivano a spiegare la differenza di genere nell'atteggiamento verso gli «yank»: i combattenti britannici disponevano di una paga molto inferiore e avevano un accesso limitato a fronzoli e lussi. Non era passato molto tempo da quando i nostri ospiti e liberatori dell'altra sponda dell'Atlantico venivano acidamente descritti come «overpaid, oversexed and over here», sebbene tutti convenissero che i più cortesi e galanti fossero i soldati neri o «negri», come osservava all'epoca Orwell).
Così fui educato, a casa e a scuola, con una visione ambivalente dei «nostri cugini americani». Come spesso capita ai parenti poveri, ci consolavamo al pensiero che noi inglesi compensavamo in buon gusto e raffinatezza la nostra crescente penuria di denaro e perdita di influenza. L'americanismo, in tutte le sue forme, sembrava essere volgare e sprecone, rozzo e addirittura brutale. C'era una metafora bella e disponibile nel mio nativo Hampshire. Fino a poco tempo dopo la guerra, gli scoiattoli inglesi erano rossi. Riesco ancora a ricordare vagamente queste dolci creature in stile Beatrix Potter, più piccole e graziose, e più agili, e senza quei tratti da topo che palesano gli scoiattoli grigi visti da vicino. Questa marmaglia, arrivata in passato dall'America per qualche deplorevole caso, era sfuggita alla cattività e aveva a poco a poco massacrato e cacciato il ceppo inglese più fine e riservato. Si diceva che gli scoiattoli grigi non combattessero lealmente e che con un colpo mancino delle loro zampe posteriori castrassero gli infelici scoiattoli rossi. Qualunque fosse la verità, la visione di uno scoiattolo inglese autoctono sarebbe diventata presto una rarità, limitata al nord della Scozia e all'isola di Wight, e tutto ciò, all'ansiosa piccola borghesia, pareva emblematico di un più generale fenomeno di massificazione, declassamento e americanizzazione di ogni cosa...
Repubblica 21.5.12
Istruzioni per una nuova società
Perché la collaborazione sregolata migliora il mondo
di Zygmunt Bauman
Anticipiamo parte dell’intervento dedicato alla solidarietà che Bauman terrà a "Dialoghi sull’uomo", a Pistoia
Tutti i precari soffrono, ma queste sofferenze non si sommano, dividono coloro che le subiscono, negandogli il conforto di un destino comune
Bisogna accettare che, in questo gioco, sia guadagnare che perdere siano concepibili solo insieme. O guadagniamo tutti o perdiamo tutti
Per quanto ne so, è stato un economista, il professor Guy Standing, a coniare (e ha colto nel segno!) il termine precariat. Lo ha fatto per rimpiazzare contemporaneamente i termini proletariat e middle class (ceto medio), ormai ampiamente giunti a scadenza e divenuti dei «termini zombi», come li avrebbe certamente definiti Ulrich Beck. Come suggerisce il blogger che si cela dietro lo pseudonimo di Ageing Baby Boomer (cioè un figlio del baby boom in là con gli anni) «è il mercato che definisce le nostre scelte e ci isola impedendo a chiunque di mettere in discussione il modo in cui tali scelte sono definite. Chi fa una scelta sbagliata sarà punito. Ma a rendere tanto crudele il mercato è il fatto di non tenere minimamente conto che certe persone sono molto meglio attrezzate di altre per scegliere bene perché possiedono il capitale sociale, il sapere o le risorse finanziarie».
Ciò che «unifica» il precariato, ciò che tiene insieme quell´insieme estremamente diversificato facendone una categoria coesa, è la sua condizione di massima frammentazione, polverizzazione, atomizzazione. Tutti i precari soffrono, indipendentemente dalla loro provenienza o appartenenza, e ciascuno soffre da solo. Ma tutte queste sofferenze sopportate individualmente mostrano una somiglianza sorprendente fra loro. Si riducono a una cosa sola: la pura e semplice incertezza esistenziale, una spaventosa miscela di ignoranza e di impotenza che è fonte inesauribile di umiliazione.
Tuttavia queste sofferenze non si sommano, anzi dividono e separano coloro che le subiscono, negando loro il conforto di un destino comune, e fanno apparire risibili gli appelli alla solidarietà.
Tale condizione, sin troppo visibile benché si tenti di dissimularla con ogni mezzo, testimonia che le autorità – quanti hanno il potere di accordare o negare diritti – hanno rifiutato a loro i diritti riconosciuti ad altri esseri umani, «normali» e quindi rispettabili. In tal modo essa testimonia, indirettamente, dell´umiliazione e del disprezzo di sé che sono inevitabile conseguenza dell´avallo, da parte della società, dell´indegnità e dell´ignominia che colpisce alcune persone.
La politica emergente – l´auspicata alternativa a meccanismi politici ormai screditati – tende a essere orizzontale e laterale, anziché verticale e gerarchica. A me essa ricorda uno sciame: come sciami di insetti, alleanze e raggruppamenti sono creazioni effimere, facili da mettere insieme, ma difficili da tenere insieme per il tempo necessario a «istituzionalizzarsi», cioè a costruire strutture durevoli. Possono fare senza quartieri generali, burocrazia, leader, supervisori o caporali. Si unificano e si disperdono pressoché spontaneamente e con la stessa facilità. Ogni momento della loro vita è intensamente appassionato, ma notoriamente le passioni intense svaniscono presto. Non si può erigere una società alternativa sulla sola passione: l´illusione della sua fattibilità consuma gran parte delle energie che costruirla richiederebbe.
Se le rivoluzioni non sono prodotti della disuguaglianza sociale, i campi minati sì. I campi minati sono aree disseminate di esplosivi sparsi a casaccio: si può star certi che una volta o l´altra qualcuno di essi esploderà, ma quale, e quando, non si può stabilire con qualche grado di certezza. Poiché le rivoluzioni sociali sono eventi con uno scopo e con un obiettivo, è possibile fare qualcosa per localizzarle e sventarle in tempo, mentre ciò non vale per le esplosioni dei campi minati. Qualora il campo minato sia stato predisposto da soldati di un esercito, si possono spedire altri soldati, appartenenti a un altro esercito, per estrarre le mine e disarmarle: un lavoro rischioso quant´altri mai, come ci rammenta incessantemente l´antica saggezza del soldato: «L´artificiere sbaglia una volta sola». Ma questo rimedio, per quanto insidioso, non è disponibile nel caso dei campi minati predisposti dalla disuguaglianza sociale: a seminare le mine e poi a estrarle deve essere lo stesso esercito, che non può smettere di aggiungere nuovi ordigni ai vecchi né evitare di metterci il piede sopra più e più volte. Seminare mine e cadere vittime delle loro esplosioni fanno tutt´uno.
Tutte le varietà di disuguaglianza sociale scaturiscono dalla divisione fra ricchi e poveri, come osservava già mezzo millennio fa Miguel Cervantes de Saavedra. Tuttavia, in epoche diverse, possedere o non possedere oggetti diversi sono rispettivamente la condizione più appassionatamente desiderata e quella più appassionatamente sofferta. Due secoli fa in Europa, ancora pochi decenni fa in alcuni luoghi distanti dall´Europa, e ancor oggi su alcuni campi di battaglia di guerre tribali o parchi-giochi delle dittature, l´obiettivo primario che poneva in conflitto ricchi e poveri era il pane o il riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e a certi espedienti politici ragionevoli, non è più così. Ma ciò non significa che la vecchia divisione sia morta e sepolta: al contrario… Oggigiorno, gli oggetti del desiderio la cui assenza è più acutamente sentita sono molti e vari, e il loro numero aumenta giorno per giorno come anche la tentazione di ottenerli. E così crescono l´ira, l´umiliazione, il rancore e il risentimento suscitati dal non averli; e con essi il desiderio di distruggere ciò che non si può avere. Saccheggiare i negozi e darli alle fiamme sono gesti che possono derivare dal medesimo impulso e gratificare il medesimo desiderio.
Oggi gli europei sono 333 milioni, ma nel giro di 40 anni, all´attuale tasso medio di natalità (tuttora in calo in tutto il continente), scenderanno a 242 milioni. Per colmare il divario saranno necessari almeno 30 milioni di nuovi arrivi, altrimenti la nostra economia europea subirà un tracollo, e con essa il tenore di vita che ci sta tanto a cuore. Ma come possiamo integrare comunità differenti?
In un piccolo ma interessante studio, Richard Sennett suggerisce che «una collaborazione informale e senza limiti prefissati è la via migliore per fare esperienza della differenza». In questa formula, ogni parola è decisiva. «Informalità» significa che non vi sono regole della comunicazione prestabilite: si ha fiducia che si autosviluppino mano a mano che aumenta la portata, la profondità e la significatività della comunicazione: «I contatti fra persone dotate di competenze o di interessi diversi sono ricchi quando sono disordinati e deboli quando vengono regolamentati». «Senza limiti prefissati» significa poi che l´esito dovrebbe seguire una comunicazione presumibilmente protratta, anziché essere prestabilito in modo unilaterale: «Si desidera scoprire l´altra persona senza sapere dove ciò lo condurrà; altrimenti detto, si desidera evitare la ferrea norma dell´utilità che stabilisce uno scopo – un prodotto, un obiettivo politico – fissato anticipatamente». E infine «collaborazione»: «Si suppone che le varie parti ci guadagnino tutte dallo scambio, e non che una sola guadagni a spese delle altre». Io aggiungerei: bisogna accettare che, in questo gioco particolare, sia guadagnare che perdere siano concepibili soltanto insieme. O guadagniamo tutti o perdiamo tutti. Tertium non datur.
Sennett riassume il suo suggerimento come segue: «Gli uffici e le strade diventano inumani quando dominano la rigidità, l´utilità e la competizione; diventano umani quando promuovono interazioni informali, senza limiti prefissati, collaborative».
Io penso che tutti noi che siamo chiamati e desideriamo insegnare potremmo e dovremmo imparare la nostra strategia da quel triplice precetto, laconico ma onnicomprensivo, espresso da Richard Sennett. Imparare noi stessi per metterla in atto, ma anche – ed è la cosa più importante – trasmetterla a coloro che sono chiamati e desiderano imparare da noi.
(Traduzione di Marina Astrologo)
l’Unità 21.5.12
Creature selvagge
L’albo di Maurice Sendak esplora i sogni di un bimbo
Da poco scomparso a 84 anni l’autore ha raccontato in questo suo capolavoro fantasie infantili su come sfuggire alla rabbia
di Giovanni Nucci
UNA DELLE PIÙ FATALI FACOLTÀ DELL’ARTE (IN SENSO LATO) È QUELLA DI DIRE MOLTO PIÙ DI QUELLO CHE STA DICENDO: ANDARE OLTRE LA TRAMA, il tratto, il suono, il significato primo di ogni singola parola. È questa capacità di sconfinamento, di superamento della nostra normalmente concepita normalità, a rendere un’opera universale: come è evidente che sia. Ma se l’universalità di Dostoevskij o di Matisse è intuibile già dall’oggetto in questione, cioè da ciò che le loro opere intendono affrontare, meno facile per un albo illustrato che conta 42 pagine, una ventina di tavole e non più di trecento parole. E soprattutto se parla, non so, di mostri selvaggi (o per meglio dire di là «dove sono le cose selvagge» come reciterebbe il titolo originale).
Naturalmente stiamo parlando di Maurice Sendak, che è da pochissimo scomparso all’età di 84 anni, e appunto del suo capolavoro Il paese dei mostri selvaggi, uscito nel 1963 e pubblicato in Italia da Babalibri. Anche in questo caso, come spesso accade per questo genere di opere (cioè per quelle che hanno come oggetto – e come protagonista – l’infanzia, o un bambino), è facile cadere nella trappola di una lettura superficiale e semplificatoria. In fondo è la storia di un bambino, Max, piuttosto irrequieto e che, al culmine della sue irrequietezza, si mette un costume da lupo, ne combina di tutti i colori, e poi immagina (lo immagina solamente?) un viaggio in mare che lo porta ad approdare in un’isola abitata da orribili mostri di cui, però, diviene il re. Dopo che avrà ingaggiato con loro la più scatenata delle ridde selvagge, e passata che è una notte lunga un tempo indefinito, sentendo la mancanza del bene familiare e spaventato dall’effettiva possibilità di venir mangiato dai suoi sudditi, decide di tornare indietro, nella stanza dov’era stato rinchiuso per punizione, e dove lo aspetta la cena, ancora calda.
La storia sarebbe questa e, abituati come siamo ad essere proiettati in avanti, con lo sguardo verso il futuro, non potremo dirla meglio di così: è la storia di un bambino che viene messo in punizione e di quello che si immagina (forse) per sfuggire alla sua rabbia. Perché è difficile che da quassù si possa ricordare, e quindi capire bene, cos’è l’infanzia. Ma se avessimo l’occasione di osservare un bambino di quattro, cinque anni farsi leggere questo libro e seguire con lo sguardo le figure: ebbene, potendolo osservare, vedremo rispecchiarsi nei suoi occhi e nella sua attenzione un mondo infinitamente più vasto e una verità che sembra emergere da profondità vertiginose. Niente a che vedere con la nostra rapida e così pacatamente classificatoria spiegazione, dettata più che altro dall’incapacità di percepire tanta profondità.
LA VERSIONE CINEMATOGRAFICA
Per capire tutto ciò potrebbe essere d’aiuto vedere un’interpretazione cinematografica di questo libro. Uscito nel 2008, con la regia di Spike Jonze e la sceneggiatura dello stesso Jonze e dello scrittore Dave Eggers, il film tratto dal libro Where the Wild Things Are è molto bello, anche se non ha avuto grande fortuna in Italia. Si finisce per chiedersi, vedendolo, se davvero in quel libro ci fosse tutto quello che poi il film racconta. Ovviamente la risposta è no, eppure sì. Come in tutte le grandi opere che riescono ad andare così a fondo delle cose, quando riemergono si portano appresso l’intera umanità.
Nel caso, poi, di opere che parlano dell’infanzia, l’effetto può essere addirittura sorprendente. Perché l’infanzia, già di suo, attinge alla profondità con una spontaneità ed un’efficacia impareggiabili. Dunque il problema, con un libro così, è saperlo leggere con gli occhi di un bambino (cioè così come è stato scritto e come lo hanno interpretato Spike Jonze e Dave Eggers). A quel punto ne viene fuori che Nel paese delle creature selvagge parla, tra l’altro, della rabbia, della frustrazione, della solitudine e dell’immaginazione, dell’incapacità di comunicare le proprie emozioni, della voglia di isolarsi, di scappare, e di perdersi nell’infinita profondità della coscienza, dell’attrazione che subiamo per la selvatichezza più primordiale e animale, della tensione a volerla dominare e, quindi, governarla e della nostra inadeguatezza a farlo: e di come solo l’amore degli altri può darci pace in tutto ciò.
Corriere 21.5.12
Massenzio omaggia la poesia del Novecento
Dieci
poeti italiani leggono i loro versi inediti e le opere dei maestri del
'900 scomparsi nell'ultimo decennio: è dedicata alla poesia la seconda
serata di Letterature Festival Internazionale di Roma, domani alle 21
alla Basilica di Massenzio. Insieme a Robert Hass, uno dei più
importanti poeti americani, saranno presenti: Patrizia Valduga (che
leggerà poesie di Giovanni Raboni); Milo De Angelis (coi versi di Mario
Luzi); Vivian Lamarque (Luciano Erba); Claudio Damiani (Alda Merini);
Patrizia Cavalli (Attilio Bertolucci); Valerio Magrelli (Edoardo
Sanguineti); Silvia Bre (Andrea Zanzotto) Antonio Riccardi (Raffaello
Baldini); Maria Grazia Calandrone (Giovanni Giudici); Valentino Zeichen
(Elio Pagliarani).
La Stampa 21.5.12
Da oggi a Torino
Settimane della politica la quarta edizione
Il
testo che pubblichiamo in questa pagina è una sintesi della lectio
magistralis che Carlo Olmo tiene stamani a Torino, presso il Rettorato
dell’Università, in apertura della IV edizione delle «Settimane della
politica». Ideata e coordinata da Angelo d’Orsi, la manifestazione, in
programma fino a venerdì, è dedicata quest’anno al tema «Agorà. Il
ritorno della piazza». Partecipano architetti, urbanisti, economisti,
politologi, filosofi, giuristi, sociologi, storici. Programma completo
su www.unito.it, www.polito.it, www.scipol.unito.it,
www.festivalstoria.it. Tutte le sessioni saranno trasmesse in diretta
streaming su Unito Media, la piattaforma multimediale dell’Università di
Torino, all’indirizzo www.unito.it/ media e successivamente disponibili
nella sezione on demand.
La Stampa 21.5.12
Metà degli italiani diserta i musei
28
milioni di italiani non visitano musei, né siti archeologici, né
mostre: è quanto emerge da una ricerca del Centro studi G. Imperatori
dell’Associazione Civita presentata ieri a Firenze. Il fenomeno è più
evidente nelle regioni del Sud e in quelle del Nord-Ovest e tra le
donne. Nel 2010 sei italiani su 10 non hanno varcato la soglia di musei o
altre strutture espositive: si tratta di persone comprese nella fascia
più anziana della popolazione (più di 64 anni) e in quella tra i 25 e i
44 anni.
e dell’immaginazione, dell’incapacità di comunicare le proprie emozioni, della voglia di isolarsi, di scappare, e di perdersi nell’infinita profondità della coscienza, dell’attrazione che subiamo per la selvatichezza più primordiale e animale, della tensione a volerla dominare e, quindi, governarla e della nostra inadeguatezza a farlo: e di come solo l’amore degli altri può darci pace in tutto ciò.