mercoledì 25 aprile 2012

l’Unità 25.4.12
Un giorno di libertà tra memoria e voglia di cambiare
Chi ha combattutto nella Resistenza lo ha fatto per liberare l’Italia ma anche per inseguire il sogno di un futuro migliore Sta a ciascuno di noi riprendere quelle speranze. E realizzarle
di Carlo Smuraglia
, Presidente nazionale ANPI

Prima di tutto la memoria, perché un Paese che non ricordasse i suoi morti per la libertà e dimenticasse le pagine più gloriose della sua storia sarebbe condannato all’ignominia e al decadimento. Il ricordo, dunque, dei partigiani e dei soldati che combatterono in armi, dei militari che non si arresero ai tedeschi, dei contadini che aiutarono i combattenti, delle donne che fecero irruzione nella vita politica nazionale per battersi in favore della libertà, dei sacerdoti che aiutarono i partigiani e i militari, di tutti coloro insomma che hanno composto il grande quadro della Resistenza; tutto questo è prioritario, rispetto ad ogni altra cosa, perché è dovuto al loro sacrificio ma anche all’esempio che ci hanno dato di fierezza e di speranza. Quei combattenti che non anelavano soltanto alla libertà, ma volevano anche avviare la ricostruzione di un Paese distrutto, sui sentieri della democrazia. Ed è proprio alle loro speranze e ai loro sogni che oggi va dato il massimo tributo perché la memoria non sia formale e retorica, ma sia utile per capire e affrontare il presente e il futuro.
Viviamo in una fase difficile, di fronte a una crisi che non è temporanea ma strutturale, alle difficoltà di tante famiglie senza lavoro e senza un’adeguata sicurezza sociale, al lavoro “dimenticato”, alla dignità sepolta nei meandri del precariato, alle tante modestissime pensioni di vecchiaia, alla ricerca affannosa di accompagnare al necessario rigore quell’altrettanto necessaria equità senza la quale i sacrifici non possono essere accettati.
Una fase difficile, aggravata dal distacco dei cittadini dalla politica (che rischia sempre di trasformarsi in una pericolosissima “antipolitica”), dalla corruzione dilagante, dall’assalto della criminalità organizzata al nostro stesso sistema economico, dalle nostalgie di un passato che non può più tornare, dal degrado anche culturale che sta avviando, da tempo, il Paese su una china estremamente rischiosa. Una fase difficile anche perché alla rassegnazione e alla indifferenza si uniscono talora una protesta e un’indignazione, altrettanto pericolose se fini a se stesse, perché la storia ci insegna che certe derive portano facilmente a soluzioni populistiche e autoritarie, come ci dimostra in questi giorni, anche l’incredibile affermazione elettorale di un movimento di destra estrema in Francia.
In una fase come questa, ci si può affidare allo scoramento, alla caduta di ogni speranza, e perfino alla rassegnazione? Io credo che sarebbe cadere in un baratro senza ritorno. Non sta a me indicare le soluzioni e le alternative; perché non è questo il compito dell’Anpi, mentre lo è l’indicare la strada per “resistere” e avviare il Paese verso il riscatto, con un cambiamento deciso di rotta sul piano economico, politico e sociale.
Il fondamento di questo impegno si può trovare soltanto nel ricorso ai princìpi e ai valori della Costituzione che affondano le radici nella Resistenza che oggi ricordiamo. A quel rilancio di valori dobbiamo contribuire tutti, perché questa, solo questa, è la via della salvezza del Paese.
Per questo, oggi la Festa è e deve essere di tutti, perché al ricordo aggiungiamo il richiamo ai valori fondamentali che si riassumono in parole semplici (lavoro, dignità, uguaglianza, solidarietà) ma estremamente significative.
Una festa di tutti. E sarebbe ora che tutti lo capissero, abbandonando i negazionismi e i revisionismi di sempre e mettendo finalmente da parte i troppi rigurgiti neofascisti (sono di ieri i manifesti che inneggiano alla Repubblica di Salò!), per riconoscersi finalmente in ciò che di grande è avvenuto nel nostro Paese, attraverso la ricostruzione dell’Unità nazionale, nella libertà, e l’apertura delle porte alla democrazia.
Rivolgo dunque, un invito fraterno e amichevole a tutti, cittadine e cittadini, donne e uomini di altri Paesi che si trovano in Italia, a raccogliersi, oggi, nelle piazze attorno alla Resistenza, alla Costituzione, ai valori di fondo che fanno del nostro Paese una vera Nazione. Un giorno di libertà e di festa, nel commosso ricordo dei caduti, volgendosi indietro con la memoria, ma con lo sguardo rivolto in avanti, proteso con la volontà e l’azione verso un futuro migliore.

l’Unità 25.4.12
Ricostruire il Paese
Oggi come ieri i giovani devono vincere la sfida
Non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura fascista eppure il passaggio a cui siamo giunti è cruciale per l’avvenire della democrazia È necessario un grande rinnovamento, bisogna rialzare la testa come allora
di Alfredo Reichlin


Sono passati quasi 70 anni una intera epoca storica dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista. Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia. Un mondo soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri. È in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica dello Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.
La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti, come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.
Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quell’antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché? È evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta, né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli. Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali.
È sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo. Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinché tutto resti come prima. È caduto Bossi? Avanti allora un altro: Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto. L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore.
Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? È evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decadrà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare? Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero, a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati?
È necessario un grande e profondo rinnovamento. Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà, ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi.
È con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa, come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo. Le elezioni francesi possono essere anche per noi una opportunità di cambiamento. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico. Una critica, la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo, ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese.
Italia e giustizia sociale. Questa è la nostra bandiera, che dovremmo tenere più in alto e con più orgoglio. La loro era fino a ieri il patto tra Berlusconi e Bossi. Adesso è Grillo per l’Italia e la signora Le Pen per la Francia. Mi rattrista molto. Ciò che mi consola è che io, tanti anni fa, l’ho vista scappare molto impaurita questa classe dirigente inetta e trasformista. Aveva però di fronte un progetto di ricostruzione della nazione, che coinvolgeva anche forze non di sinistra.

l’Unità 25.4.12
25 Aprile scaccia populismo
di Bruno Gravagnuolo


Ancora un 25 aprile, per fortuna. Dopo che in tutto questo dopoguerra la destra, con contorno di moderati terzisti, ha tentato di svilirlo. O di ridurne la portata. Ecco una sintesi di ciò che è stato in gioco. Di quel che è stato conquistato e che nei tempi mutati dobbiamo rilanciare. Primo: il 25 aprile segna la vittoria della Resistenza. Guerra di liberazione civile. Con l’accento su liberazione dal nazifascismo. Nonché dalla sua «guerra ai civili» terroristica che non riuscì a trascinare l’Italia in una vera guerra civile a fianco di Hitler e Mussolini.
Dunque vi fu anche guerra civile, ma fu «secondaria», a fronte della liberazione: civile, partigiana e coobelligerante con gli Angloamericani. E non vi furono due «patrie». Perché la stragrande maggioranza degli italiani in retrovia, in prima linea o in «zona grigia» voleva quella Liberazione. Questo con tutto il rispetto per i ragazzi di Salò e quant’altro: roba rifritta e scontata. Con la quale già Togliatti seppe fare i conti. Senza bisogno di Pansa, Mazzantini o De Felice.
Seconda conquista: dal 25 aprile vengono Costituzione e discontinuità antifascista iscritta nella prima. In guisa di Grund-Norm fondativa. Spartiacque simbolico non negoziabile, da cui tutto deriva. Dunque: frattura inaugurale e Repubblica democratica fondata sul lavoro. Una e indivisibile. Con requiem finale per le pagliacciate della Lega, assunte con fin troppa tolleranza culturale o sociologica (federalismo, «barbarie novatrice», costola della sinistra, etc., etc.). Infine, terza conquista: che «tipo» di Repubblica? Parlamentare, bicamerale, riformabile col 138 senza rimettere in questione i fondamenti. Tra cui, oltre al lavoro, i partiti, cuore della democrazia. Che il fascismo liquidò inneggiando a: «giovinezza», élites, tecnica, movimento vitale dal basso e legame capo-masse. Guarda caso...

il Fatto 25.4.12
Il nostro 25 aprile
di Paolo Flores d’Arcais


 L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità del-l’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio.
I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.

Corriere 25.4.12
Le mille bandiere dei partigiani. Il valore dell'unità nella Resistenza
di Aldo Cazzullo


Colpisce, nelle rituali e ormai stucchevoli polemiche sul 25 Aprile, il riproporsi dell'antico riflesso ideologico: destra contro sinistra, difensori dei ragazzi di Salò contro fazzoletti rossi e Bella Ciao. Ma la Resistenza non è una cosa di sinistra.
Non è patrimonio di una fazione, neppure di quella che talora se n'è impossessata
nel dopoguerra; è patrimonio della nazione.
La Resistenza non è solo Bella Ciao (che peraltro un capo partigiano come Giorgio Bocca non aveva mai sentito cantare in tutta la guerra di liberazione). Non fu fatta solo dalle Brigate Garibaldi. La Resistenza fu fatta dai militari, come i fucilati di Cefalonia, che per primi presero le armi contro i nazisti. Fu fatta dai carabinieri come Salvo D'Acquisto, che si fece uccidere con un gesto nobilissimo per evitare la rappresaglia per un attentato che non aveva commesso. Fu fatta dai monarchici come il colonnello Montezemolo, cui a via Tasso vennero strappati i denti, le unghie, ma non un solo nome dei compagni, prima della morte alle Ardeatine. Fu fatta dai sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che quando vide i nazisti fucilare 82 suoi parrocchiani scelse di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Fu fatta dagli alpini come Maggiorino Marcellin, che restituiva i corpi degli Alpenjäger con un biglietto «da un alpino italiano a un alpino tedesco». Fu fatta dalle donne e dai civili. Dai valdesi come Willy Jervis, dagli ebrei come Leone Ginzburg, dai cattolici come Ignazio Vian, il primo a salire sulle montagne sopra Boves: non un bolscevico, un tenente delle guardie di frontiera e militante della Federazione universitari cattolici, un amico di Moro e Andreotti; i nazifascisti lo impiccarono a un ippocastano davanti alla caserma di Torino.
E la Resistenza fu fatta anche dai comunisti. Che — si sente ripetere — non volevano la libertà ma un'altra dittatura. Argomento perfetto per la polemica politica attuale. Privo di senso quando c'era da decidere da che parte stare, con o contro i nazisti, con o contro coloro che portavano gli ebrei italiani ad Auschwitz. La pietà dovuta a tutte le vittime, e l'umana comprensione per i giovani che andarono a Salò credendo in buona fede di servire l'Italia, non possono cancellare quella che in tutti i Paesi occupati dai nazisti è un'ovvietà, tranne che nel nostro: in quella guerra c'erano una parte giusta e una parte sbagliata.
Certo, la Resistenza fu fatta da uomini. E gli uomini commettono errori, talvolta crimini. La Resistenza ha avuto le sue pagine nere, e per troppo tempo se n'è parlato troppo poco. Generazioni di italiani sono cresciute senza aver sentito parlare del triangolo della morte, di Porzûs, di Basovizza. Ma il rischio è che oggi i giovani non abbiano mai sentito parlare neppure di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema, della Benedicta, dei fucilati del Martinetto, dove fu eliminato il comitato di liberazione del Piemonte, sorpreso mentre era riunito non in una sezione del Pci, ma nella sacrestia del Duomo. Tra loro c'era un solo comunista, un operaio amico di Gramsci, Eusebio Giambone. Gli altri erano avvocati e militari: il tenente Geuna, il capitano Balbis, il colonnello Braccini, il generale Perotti, che era di Carrù, il paese dov'è nato Luigi Einaudi. Se in tutte le scuole si leggesse la lettera in cui Perotti dice addio alla moglie, raccomandandole di risposarsi per crescere i tre figli e pregandola di ricordare loro il suo sacrificio per la patria e per la libertà, di polemiche sul 25 Aprile tra qualche anno non ce ne sarebbero più.

Repubblica 25.4.12
La Resistenza da difendere
di Miguel Gotor


Il 25 aprile di quest´anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani.
Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.
Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all´Italia e il senso dell´onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent´anni di un senso comune anti-antifascistiche ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.
Il primo è quello che vede nell´8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere, rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.
Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi («le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute») è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.
Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta «zona grigia»: l´attendismo e l´indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l´intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell´Italia democratica e parlamentare.
Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l´occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime - contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte - tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell´importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell´antifascismo.
È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all´Anpida parte dei più giovani. Nell´Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell´interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all´Italia.

Corriere 25.4.12
Il commercio e l'eccezione di Pisapia per il Pontefice
di Dario Di Vico


Si è già detto di Giuliano Pisapia e della battaglia che il sindaco di Milano ha intrapreso contro l'apertura dei negozi nella giornata del 25 Aprile e più in generale versus la liberalizzazione del commercio. Per guadagnarsi il consenso delle organizzazioni dei commercianti il sindaco ha steso un protocollo di intenti che regola l'intera materia. Una concertazione in salsa ambrosiana che indica le festività «protette». L'orientamento sembra essere stato quello di tutelare le varie sensibilità politico-culturali. Non è un caso, ad esempio, che la svolta sia stata annunciata durante un convegno delle Acli, un modo per segnalare una particolare attenzione alle feste religiose. Ma per par condicio il protocollo di palazzo Marino considera festività «di valore fondamentale e irrinunciabile» anche il 25 aprile, il 1° maggio e il 2 giugno. Fin qui niente di nuovo, si può eccepire (e lo abbiamo fatto) che l'apertura di un supermercato non lede il valore religioso o politico di una festa, riempire il carrello non equivale a svuotare la memoria o cancellare i valori. Leggendo il protocollo, però, ci si imbatte in una sorpresa. Pisapia pur riconoscendo il valore del 2 giugno quest'anno opera una deroga e consente agli esercizi commerciali di restare tranquillamente aperti. Per quale motivo vi chiederete. Risposta: «La presenza a Milano di Papa Benedetto XVI in occasione del Settimo incontro mondiale delle famiglie». Ma come? In coerenza con quanto detto e fatto finora il sindaco avrebbe dovuto «proteggere» la presenza in città del Santo Pontefice dall'impazzare dei riti del consumismo e avrebbe dovuto sbarrare le porte dei supermercati, invece ha scelto addirittura di «sacrificare» la Festa della Repubblica. Generando così ulteriore confusione.

Repubblica 25.4.12
Lo sterminio prima dello sterminio: l´eliminazione delle "vite indegne"

di Gad Lerner

Esce "Ausmerzen" il libro di Marco Paolini che racconta la soppressione dei deboli fatta dal Nazismo fin dal luglio 1933
Disabili e malati di mente vennero sterilizzati, reclusi, sottoposti a diete micidiali e uccisi nelle prime piccole camere a gas
Le testimonianze di medici e infermieri restituiscono lo stupore di chi è convinto di non avere nulla da rimproverarsi

Lo speciale rapporto dei veneti con la psichiatria dipenderà forse dal fatto che sono un po´ tutti matti, da quelle parti? Città e campagne che il capitalismo non ha mai irreggimentato del tutto nella sua regola tayloristica. Modernità imbevuta di strapaese. Fatto gli è che da Zanzotto a Rigoni Stern, fino alla generazione irregolare dei Diamanti, Stella, Bettin cui è lecito accostare un maestro del teatro italiano contemporaneo qual è Marco Paolini, il Nord-Est si configura come il laboratorio intellettuale critico più sensibile ai temi della diversità. Forse per contrasto alla cultura retriva di chi governa su quel territorio. Sarà un caso che pure la misconosciuta (da noi) riforma della psichiatria – valorizzata invece come esemplare in tutto il mondo – sia stata intrapresa da Franco Basaglia lassù fra Gorizia e Trieste?
Antiretorica eppure grave, intima e solenne come solo lui è capace di modularla riempiendo la scena, la voce di Marco Paolini ha saputo così riformulare per noi il dubbio progressista più scabroso del Novecento: vale la pena dissipare risorse, in tempo di penuria, per mantenere in vita dei "mangiatori inutili"?
Il computo indecente dei risparmi di cui beneficia una società "sana" praticando la sua igiene, cioè eliminando le "vite indegne di essere vissute", è stato recuperato in un foglietto sfuggito alla distruzione degli archivi nazisti. Lista ritrovata in un armadio a Hartheim: «È calcolato che fino al 1° settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti… Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate… E inoltre 2.124.568 uova».
L´appunto autografo di Hitler che ordinava l´eutanasia, cioè la soppressione dei disabili, si presenta caritatevole, rivolgendosi ai medici e «autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l´umano giudizio». Ma non fatevi illusioni: se Marco Paolini ha sentito il bisogno di riscrivere completamente il testo teatrale che l´anno scorso inchiodò al video 1.709.000 telespettatori, proponendocelo ora nella forma compiuta di un libro (Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, pagg. 177, Einaudi Stile libero, euro 12), è perché non possiamo permetterci la consolazione di scaricare per intero quell´abominio tra le colpe storiche del Terzo Reich.
Vero è che la pratica di selezionare in quanto esistenze-zavorra i disabili e i malati di mente, così come di procedere alla loro sterilizzazione fin dal luglio del 1933, con l´istituzione di centottanta apposite corti genetiche, e poi di sottrarli alle famiglie, rinchiuderli in sei centri pseudo-ospedalieri, sottoporli a diete omicide, infine eliminarli nelle prime piccole camere a gas allestite dal Reich, è riconosciuta dagli storici come la fase preparatoria dell´immane sterminio pianificato industrialmente nei lager dal 1942. Non solo. La collaborazione disciplinata di medici, infermieri, psichiatri, autisti e la rassegnazione con cui le famiglie sopportavano il prelievo forzato dei congiunti disabili, rivelarono ai gerarchi di Hitler quanto manipolabile fosse una società totalitaria assoggettata nel terrore. Anche se il timore di uno scandalo pubblico propagato dai familiari per questa strage degli innocenti, indusse il Reich a circoscriverne le modalità dopo il 1941.
Non credo però che Marco Paolini avrebbe proseguito la sua ricerca fino a scrivere questo libro stupefacente se a sollecitarlo non fosse stata una scoperta imbarazzante: l´eugenetica, pseudoscienza della selezione ottimale della specie umana, ben prima del nazismo, e ben oltre, affonda le sue radici nel positivismo della razionalità occidentale. Da Cesare Lombroso a Francis Galton, da Alexander Graham Bell fino a Konrad Lorenz, i teorici dell´eugenetica sono stati riconosciuti dall´establishment come alfieri del progresso. La dogmatica delle compatibilità economiche e un´ambigua nozione di progresso nella ricerca medica, si sono combinate nel legittimare sperimentazioni il cui retroterra non è sempre e solo necessariamente razzista.
Così la ricerca di Marco Paolini e di suo fratello Mario, musico terapeuta, è proseguita un anno oltre lo spettacolo teatrale. Ma non ne ha disperso l´impatto drammaturgico che in Paolini consiste nell´abilità di personificare il racconto, a tratti perfino capace di humour, umile nell´immedesimazione: cosa avremmo fatto noi al posto di quelle infermiere, abituate a praticare iniezioni a prescindere che guarissero o sopprimessero, in obbedienza alle prescrizioni mediche? E il medico che rivendicava la sua funzione sociale a beneficio di una collettività impoverita che doveva pur risparmiare per sopravvivere, dandosi priorità di tutela, e che magari si sforzava di non lasciar soffrire, sopprimendola, la vita indegna di essere vissuta, siamo così certi avesse una sensibilità tanto diversa dalla nostra? Non agiva forse anch´esso per il progresso?
Certo Paolini è capace di esprimere lo sdegno, attraverso un´ingenuità sapiente: «A ben guardare i centri di uccisione sono organizzati come macelli, travestiti da cliniche ma macelli. Soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingue da una macelleria». Eppure prevale la naturalezza di quella scelta eugenetica di selezione che, infine, porterà alla morte procurata di trecentomila esseri umani, censiti in un ufficio di Berlino al numero 4 di Tergartenstrasse e prelevati uno ad uno nelle loro case. Non si spiega altrimenti la scoperta, umiliante per le truppe d´occupazione statunitensi nel luglio del 1945, da cui prende spunto il racconto. Finita ormai da oltre due mesi la guerra, a Kaufbeuren-Irsee, non lontano da Monaco di Baviera, nell´ospedale psichiatrico ("Luogo per sanare e curare", recita il cartello all´ingresso) si è continuato a sopprimere i ricoverati. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, l´esercizio di una deontologia a prescindere dagli ordini del regime nazista ormai deposto.
Attraverso le testimonianze di medici e infermieri (solo due di essi si toglieranno la vita) Paolini ci restituisce lo stupore di chi non riteneva di avere nulla da rimproverarsi. Straziante è il ritratto di Ernst Lossa, soppresso all´età di quattordici anni nonostante la sua strenua resistenza alla Dieta E, completamente priva di grassi. Ancor più piccoli di lui sono i ragazzini italiani dell´ospedale psichiatrico di Pergine in Valsugana, sui quali una corrispondenza burocratica narra sperimentazioni crudeli, sempre "a fin di bene".
Mi piace ricordare infine l´incontro con una donna straordinaria che ha introdotto Mario Paolini alla ricerca di Ausmerzen: Alice Ricciardi von Platen. Era una giovane dottoressa tedesca nel 1946, quando venne incaricata dall´ordine dei medici di raccogliere testimonianze per il secondo processo di Norimberga. Quei ricordi terribili non ne hanno scalfito la dolcezza, fino a quando si è spenta in terra toscana nel 2008.

Corriere 25.4.12
«Il calice fu versato per molti» Cambia la formula dell'Eucarestia
Non si dirà più «per tutti». Il Papa: è la traduzione corretta
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — La lettera di cinque pagine è rivolta alla conferenza episcopale tedesca ma riguarda ogni vescovo, a cominciare dagli italiani che ne discuteranno nell'assemblea di maggio. Benedetto XVI spiega le ragioni per cui si dovrà cambiare la formula dell'Eucarestia nella messa. Nell'ultima cena Gesù spezza il pane («questo è il mio corpo») e poi prende il calice del vino, e qui durante la messa il sacerdote ripete parole che i fedeli sanno a memoria: «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Solo che nei Vangeli non si legge «per tutti». E il pontefice vuole che si torni alle parole di Gesù: «Versato per molti».
Lo stesso Papa ricorda i riferimenti testuali. Nel vangelo più antico, Marco (14,24) si legge upèr pollôn, in quello di Matteo (26,28) c'è scritto un analogo perì pollôn, insomma il «per molti» è la traduzione letterale dal testo originale greco. Assente in Giovanni, in Luca (22,19) c'è «per voi» (upèr umôn). L'indicazione era già contenuta in un documento della Santa Sede firmato nel 2006 dal cardinale Francis Arinze. Ma ha incontrato resistenze, dalla Germania agli Usa all'Italia. L'espressione «per tutti» venne introdotta dopo il Concilio con la riforma di Paolo VI, nel '69, il messale latino aveva «pro multis». Il timore di tanti vescovi è che si interpretasse la modifica come l'esclusione di alcuni dalla salvezza, una reazione preconciliare. Così il Papa ha scritto ai vescovi tedeschi, chiarendo che le cose non stanno affatto così: l'«universalità» della salvezza non si discute, anche San Paolo scrive che Gesù «è morto per tutti». Il senso non cambia: negli anni Sessanta, ricorda, gli esegeti giustificavano il passaggio a «per tutti» citando Isaia 53 («il giusto mio servo giustificherà molti») e dicendo che «molti» è «un'espressione ebraica per dire la totalità». Solo che Gesù usa «molti». Bisogna guardarsi da traduzioni «interpretative» che hanno portato a «banalizzazioni» e «autentiche perdite», scrive: «Mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano». Questione di «fedeltà» alla «parola di Gesù» e alla Scrittura. Il Papa invita tuttavia a preparare preti e fedeli: «Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l'entrata in vigore della nuova traduzione». La sua stessa lettera, come una catechesi, dà voce ai dubbi («Cristo non è morto per tutti?», «Si tratta di una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?») per fugarli. In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei concluderà la discussione sul nuovo messale. I timori non mancano, ma un grande teologo come il vescovo Bruno Forte spiega: «Il problema non è teologico, ma pastorale. Il Papa mette in luce che la redenzione oggettiva, per tutti, passa attraverso l'adesione libera di ciascuno. Dire "per molti" non esclude ma anzi esalta la dignità e l'assenso umano. Tuttavia la gente è abituata a "per tutti": per questo, dice il Papa, il cambiamento va fatto dopo una lunga catechesi che ne faccia capire il valore».

Corriere 25.4.12
Il paradosso dell'Italia senza destra
Storicamente debole, divisa, sempre priva di legittimità intellettuale
di Ernesto Galli della Loggia

Per capire le vicende della destra nell'Italia repubblicana conviene, a mio giudizio, prestare più attenzione al panorama ideologico complessivo del Paese che al sistema dei partiti in senso stretto. È innanzitutto sul piano delle idee, infatti, che si è decisa la sorte della destra italiana. La destra ha perso la sua battaglia politica allorché per mezzo secolo, tra il 1948 e il 1994, non è riuscita in alcun modo a disporre delle risorse intellettuali necessarie per rompere con il passato da un lato, e dall'altro per diventare un diverso luogo di formazione e di coagulo di una classe dirigente.
La storia culturale della cosiddetta Prima Repubblica è stata dominata per mezzo secolo da un punto di vista genericamente di sinistra. Dal 1948 al 1994 è quasi impossibile trovare un romanzo di successo, un manuale scolastico, un libro di storia, un film, un programma televisivo di qualche valore che in un modo o in un altro non rifletta un tale punto di vista. All'egemonia della sinistra nella sfera pubblica ha contribuito in maniera molto significativa anche la Carta costituzionale adottata nel 1948, i principi della cui prima parte si ispirano a una visione solidaristica, tendenzialmente egualitaria, di tutela collettiva soprattutto degli interessi più deboli, che rientra pienamente nella tradizione della sinistra e del cattolicesimo democratico.
Come si sa, questi principi costituzionali hanno cominciato ad avere sempre più larga applicazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con la diffusione nel discorso ufficiale del Paese della cosiddetta «cultura della Costituzione». Si tratta di un orientamento di etica pubblica — politico solo in senso lato, ma niente affatto neutrale — il quale ha avuto l'effetto di diffondere e legittimare un punto di vista — direi qualcosa di più: una vera e propria visione del mondo, ispirata ai valori e alle idee propri della sinistra.
Dunque, durante la Prima Repubblica la destra in senso proprio, la destra politica e i suoi partiti, sono stati di fatto marginali se non inesistenti. Anche su un piano non immediatamente politico i valori definibili di destra non sembrano aver conosciuto miglior fortuna. Va sempre tenuto a mente che in Italia il tempo della Repubblica e della democrazia ha coinciso con un'immensa trasformazione sociale di cui sono ben noti i caratteri. In non più di una ventina d'anni, dal 1960 al 1980, il volto dell'Italia è diventato completamente un altro. Questa grande trasformazione ha significato per milioni di persone soprattutto una cosa: la fine di una povertà secolare. Dunque non può stupire che essa sia stata vissuta come un fatto radicalmente positivo. In tal modo, anche se comportava tensioni e lacerazioni, la dimensione della rottura, del nuovo, acquistò nel Paese un prestigio immediato, quasi ovvio. Tutto ciò che era vecchio, antico — che si trattasse di paesaggi, di fogge di abbigliamento, di rapporti sociali, di abitudini mentali e di vita — apparve indifendibile.
A spingere in tal senso, oltre la natura delle cose, ha contribuito anche una peculiare caratteristica della modernizzazione italiana: e cioè la massiccia politicizzazione con la quale essa è avvenuta. Una politicizzazione cui i vasti movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta diedero — di nuovo! — un forte segno di sinistra, coinvolgendo molta parte dei ceti medi, specie quelli addetti all'istruzione e al pubblico impiego, e non a caso determinando la massima espansione elettorale del Partito comunista. Pur così tuttavia restava ben vivo nel Paese un elettorato potenzialmente diverso ed estraneo rispetto alla vulgata ideologico-politica dominante e ai suoi partiti. E cioè un elettorato di massa che da un punto di vista sociologico era potenzialmente di destra.
Fu solo nel 1994, tuttavia, che questo elettorato, fino allora rimasto nascosto sotto il grande mantello della Democrazia cristiana, ebbe realmente modo di venire allo scoperto. Perché ciò accadesse fu necessario il sovrapporsi di una causa oggettiva e di una soggettiva. Fu necessario, cioè, da un lato, il crollo del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, con la scomparsa della Dc e della legge elettorale proporzionale, e dall'altro la comparsa sulla scena di una personalità come Silvio Berlusconi. L'avvento di un sistema elettorale maggioritario, voluto da un referendum popolare, decretò la fine del centro e l'obbligo di schierarsi o da una parte o dall'altra, a destra o a sinistra. Il rifiuto dei cattolici reduci dall'ormai disciolta Dc di schierarsi contro la sinistra guidata dai postcomunisti — il rifiuto cioè di schierarsi in questo senso a «destra» — lasciò vuoto, per l'appunto a destra, un enorme spazio elettorale. Uno spazio potenzialmente maggioritario, come stava a indicare tutta la storia del Paese. Precisamente in questo vuoto si infilò Berlusconi, con il proposito di riempirlo. Egli capì che per farlo con una speranza di vittoria era però necessario unificare tutte le forze contrarie alla sinistra. E dunque da un lato bisognava porre fine alla pregiudiziale antifascista e all'uso molto spesso strumentale che ne aveva fatto per 50 anni il sistema politico italiano, e dall'altro era necessario accettare senza batter ciglio la neonata retorica secessionista della Lega. Ciò che è quasi impossibile far abitualmente accettare è l'idea che all'origine del ruolo politico e della vittoria di Berlusconi ci sia stata innanzitutto una fortissima ragione di tipo sistemico. Così come l'idea che senza di lui e la sua azione unificatrice difficilmente si sarebbe potuto formare un competitivo polo politico di destra in grado di vincere tre volte le elezioni.
Tuttavia, pur avendo alle spalle circa dieci anni di governo, la destra italiana non è ancora riuscita a risolvere il problema cruciale di darsi una vera identità. Ancora oggi la sua unica vera ragion d'essere resta quella del 1994, l'anno della sua prima vittoria elettorale: impedire alla sinistra di vincere e di governare. L'obiettivo della «rivoluzione liberale» con il quale essa si presentò venti anni fa è stato totalmente mancato. Bisogna chiedersi perché. Con ogni evidenza le ragioni sono principalmente due. La prima è la presenza tra le sue fila di tre destre molto diverse tra loro, portatrici di culture e interessi contrastanti: la destra postfascista, nazional-statalista e fortemente antiliberale; la destra leghista, dotata di una visione localistica e antinazionale, protezionista in agricoltura ma impregnata di una sorta di anarchismo manchesteriano per tutto il resto; e infine la destra berlusconiana vera e propria, oscillante tra un laissez faire di principio e la rappresentanza di tutti i mille interessi settoriali della società italiana, caratterizzata da una generale indifferenza per qualunque valore etico-politico.
Silvio Berlusconi si è mostrato sorprendentemente incapace di rendere in qualche modo compatibili e nel riuscire a integrare queste tre anime della sua coalizione. Leader plebiscitario per antonomasia, e teorizzatore convinto di un tale tipo di leadership, quando però si è trattato di essere realmente un leader politico, ha dimostrato di non riuscire a esserlo affatto. Ha dimostrato di non avere nessuna predisposizione personale autentica per la politica, per la comprensione dei suoi meccanismi e delle sue esigenze di fondo. La sua leadership si è fondata quasi esclusivamente (e ossessivamente) sul richiamo carismatico personale. Un richiamo senza dubbio vero, effettivo, con quel quid di inspiegabile che ha ogni carisma: ma tanto forte nel momento elettorale quanto singolarmente inefficace nel momento del governo. È indubbio che ad accrescere tale carisma e la relativa presa elettorale sono valse non poco anche la sua smisurata ricchezza e la proprietà della più importante tv commerciale della Penisola. Ma a dispetto di quel che si sente ripetere tante volte, denaro e tv non sono stati gli elementi decisivi dei suoi successi elettorali. Denaro e tv sono stati essenziali, semmai, per un'altra cosa non meno importante: e cioè per assicurargli il dominio assoluto sulla sua coalizione. Per farne il leader incontrastato e incontrastabile della destra.
Venuta meno la carta programmatica, alla destra non è rimasto che giocare poche carte identitarie (ma anche qui non senza qualche contrasto più o meno sotterraneo tra le sue fila): la carta di un forte rapporto con la tradizione cattolica del Paese e con la Chiesa, quella dell'enfasi sulla sicurezza, sul law and order, o la carta del contrasto all'immigrazione clandestina. Evidente, però, è stata l'incapacità, se non addirittura il disinteresse — abbastanza sorprendente dal momento che aveva in mano tutte le leve del potere —, che la destra ha dimostrato nell'affermare e organizzare una propria presenza culturale e intellettuale nella società italiana.
Si è così manifestata ancora una volta la debolezza storica di fondo della destra nell'Italia repubblicana. Essa continua a essere esclusa dal mainstream del discorso pubblico. Un'esclusione che riflette una più generale esclusione della destra e dei suoi esponenti dai centri più importanti del potere italiano. Nei salotti buoni dell'alta borghesia, nei circoli della finanza, tra l'intellettualità, nell'università, nei giornali che contano, è ancora oggi rarissimo imbattersi in chi abbia una riconosciuta appartenenza di destra. Riconfermando la propria subalternità, la destra, d'altra parte, non è riuscita neppure a proporre una sua originale narrazione circa il passato del Paese, né a influenzare in modo significativo il senso comune, non dico producendo ma tanto meno riuscendo a identificarsi con mode, miti, figure simboliche nuove e diverse rispetto a quelle correnti, tuttora fortemente dipendenti da un punto di vista di sinistra.
È invece accaduto paradossalmente che proprio sotto il suo governo l'interdetto antifascista — che durante un breve intermezzo tra gli anni 80 e 90 sembrava ormai in via di superamento — si sia trovato, viceversa, rimesso in auge e rafforzato sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista, aprendo una nuova stagione di delegittimazione. Si perpetua in tal modo un duplice pregiudizio che, sfruttato politicamente a dovere da chi ha interesse a farlo, ha nuociuto gravemente al sistema politico italiano e alla vita pubblica del Paese. Il pregiudizio, cioè, secondo il quale: 1) la destra non può che essere qualcosa di radicalmente negativo e ha una natura sostanzialmente estranea o ostile all'ordine costituzionale democratico; e 2) l'idea che di conseguenza il sistema politico italiano debba e possa fare stabilmente a meno di un polo politico di destra.

il Fatto 25.4.12
Paese che vai estremisti che trovi
La crisi fa montare la marea dei populisti d’Europa
di Giampiero Gramaglia


In fuga dalla recessione. E in fuga dall’Europa. Come se negare i problemi e rifugiarsi nel localismo al tempo della globalizzazione siano risposte efficaci. Certo, le ricette anti-crisi dell’Ue, rigore e sacrifici, tagli e riforme liberiste, non hanno – ancora? condotto l’eurozona al sicuro, non innescano stimoli alla ripresa e creano disagio sociale. Risultato, il richiamo dei populisti euroscettici acquista forza e i risultati elettorali lo provano.
LA CRESCITA “ serve pure a mettere in sicurezza la democrazia”, dice Angelo Panebianco sul Corriere della Sera; e una politica di ‘lacrime e sangue’ senza impatti positivi tangibili la mette in pericolo, specie quando la paura di perdere il lavoro, le certezze del presente, le speranze del futuro, si somma e si salda alla paura del diverso, dello straniero, dell’altro. Euroscettici e xenofobi costituiscono un mix potenzialmente letale per l’Unione e per il disegno di integrazione che pure ha garantito, al nucleo originario, 60 anni e più di libertà, di pace, di democrazia, di progresso economico e sociale, e che ha ne fatto un irresistibile magnete di tutte le realtà circostanti e un catalizzatore di rispetto dei diritti dell’uomo.
E, intanto, tra la mancanza di coraggio dei leader attuali e l’inconsistenza dei demagoghi i burattinai della crisi, la finanza, le banche, le agenzie di rating, tirano ancora le fila dei loro profitti. Certo, la lettura delle elezioni in Francia e della crisi in Olanda varia molto, a seconda dell’orientamento dell’analista: Sarkozy vi dirà che le borse vanno giù perché Hollande, che vuole rinegoziare il Patto di Bilancio fra i 25 – Gran Bretagna e Repubblica Ceca ne sono fuori le spaventa; e Hollande vi spiegherà che il nervosismo dei mercati è frutto dell’exploit dell’estrema destra del Front National, con parole d’ordine contro l’euro e l’Unione. Ma se poi Sarkozy va a caccia dei voti ‘lepennisti’ sul terreno della sicurezza e delle frontiere le incertezze s’intrecciano e si rilanciano l’un l’altra.
La sinistra europea, che la crisi economica ha ridotto ai minimi termini – governa in una manciata di Paesi appena, nell’Ue – attende dalla Francia un segnale di riscossa il 6 maggio. Ma, nel cuore dell’Unione, la destra xenofoba ed euro-scettica ha il potere di fare cadere un governo non sui temi dell’immigrazione, ma su quelli del rigore: dopo il ‘dagli all’Islam’, è l’ora del ‘dagli all’euro’.
RECESSIONE e austerity fanno un’altra vittima, si confermano un moloch mangia governi.
L’avanzata degli euroscettici, ora con i toni della destra, ora con quelli della sinistra, ma sempre vigorosamente populisti, ha contagiato molti Paesi: in Belgio, i nazionalisti fiamminghi attendono che il governo del socialista francofono Elio Di Rupo cada per fare un balzo in avanti alle urne; e in Olanda, gli xenofobi anti-Islam fanno il governo e lo disfano; in Finlandia, i ‘veri finlandesi’, sorta di leghisti nordici, sono un interlocutore politico inevitabile; in Francia, Marine Le Pen guida l’estrema destra più in su di dove suo padre Jean-Marie non fosse mai riuscito a portarla; in Italia e in Germania, dove le elezioni sono lontane, ci sono Grillo e i Piraten; in Grecia le urne di maggio rovesceranno il governo dei tecnici e i partiti tradizionali sotto una valanga di voti di protesta.
In Grecia, come in prospettiva in Italia, è in gioco il sistema politico, con la fine del bipartitismo: nel nuovo Parlamento, ci saranno non 5, ma 10 partiti. E i sondaggi rilevano forti contraddizioni: circa il 75% degli elettori dice di volere un governo di coalizione fra i due maggiori partiti (Pasok, socialista, e Nea Democratia, centrodestra), a garanzia della permanenza della Grecia nell’eurozona; ma, nello stesso tempo, dice che voterà per i partiti contro il Memorandum.

il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /1
L’accusa. La misura è colma
di Jiga Melik


“LA MISURA è colma” è un’espressione che, io dico, ritrae fedelmente quanto si prova di vergogna davanti alle immagini televisive del tenente colonnello Shalom Eisner, che con indosso quel nome, Pace, colpisce a freddo il volto del giovane attivista dei diritti umani (il 14 aprile impegnato in un’escursione di solidarietà con la causa palestinese nei territori occupati, ndr). Il calcio della mitraglietta ha fatto male a lui e a noi. L’immagine di come sono ridotti Shalom e il soldato Shalom fa tremendamente male. La misura è colma. Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio, che in Siria ne uccidano a migliaia, che a Teheran gli omosessuali siano uccisi per strada senza che alcuno possa obiettare e senza che nel mondo se ne parli davvero. Ognuno risponda per sé: e in Israele la misura è colma. Per le vicende di Palestina, Gaza, Hezbollah, solo a Israele posso rivolgermi, non a Siria, Iran e al Qaeda. Perché è come quando un vaso trabocca per una goccia dopo che è diventato più che pieno: la misura è colma.
PER LE PARTI di questa infinita contesa: per i nervi di Israele, spezzati da un assedio più mediatico che militare, più pericoloso degli anni dei kamikaze; la misura è colma per i nervi, i corpi, le pance e le tasche vuote, le case scoperchiate i sentimenti del popolo palestinese, quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas – ma Israele rende assente la democrazia, e il tenente colonnello Eisner è ottuso come il governo Netanyahu.
Gli ebrei nel mondo devono, devono! criticare questo governo israeliano, una destra religiosa primordiale che costringe la moderna società ebraica ad essere assorbita dal paragone coll’integralismo islamico; gli ebrei nel mondo devono cessare di esercitarsi a differire le responsabilità israeliane, di rispondere alle domande con altre domande, invece di rispondere a quelle domande: meno le domande del mondo ricevono risposta, più divengono sacrosante. Questo governo israeliano, la sua rozzezza fanno molti più danni dei missili di Hamas. La misura è colma. E di fronte a quel fucile sbattuto sulla faccia di uno che non la pensa come il governo di Israele e lo vorrebbe dire in quel solitario stato democratico, l’unico della regione come da anni ci si sgola a dire, io dico: la misura è colma. Non ci sono scuse: l’esistenza dell’Iran, della Siria, di Hamas, i Fratelli Musulmani, al Qaeda che si stende sul mondo come una ragnatela. Un fucile in faccia, questo atto di arroganza, non è accettabile; né è accettabile quanto è accaduto in questi giorni in Israele, o da parte di Israele: persone fermate e detenute in assenza di qualsiasi regola, gente tenuta a terra negli aeroporti di mezza Europa senza poter partire per Israele (solo passaggio-corridoio per la Palestina). Israele non può e non deve sospendere la democrazia, nazionale o internazionale. È uno sciagurato segno di miopia politica, un suicidio apocalittico, speriamo non irreversibile, speriamo non in corso, che invece i cosiddetti amici di Israele sostengono con un egocentrismo che lascia sgomenti. La misura è colma.
IL CALCIO di quella mitraglietta è il segno di un’anarchia reazionaria da rispedire al mittente: un governo che dovrebbe essere espressione di un Parlamento democraticamente eletto; un primo ministro che si rivolge agli attivisti filo-palestinesi, ai non allineati, a chi, a torto o a ragione, ma a mani nude, arriva da tutto il mondo, e chiede loro perché non vadano a protestare in Siria, in Iran per quello che accade in quei paesi. Israele è solo. Meno democrazia ci sarà in Israele, meno sensibilità eserciterà lo Stato ebraico mettendo la testa sotto la sabbia e facendola mettere agli altri, nascondendo le regole scomode della democrazia, più la guerra si avvicinerà a rapidi passi felpati.
I veri amici dello Stato ebraico e della pace devono alzarsi in piedi e dire al governo Netanyahu che una grande democrazia deve essere potentemente debole. Israele deve scommettere sulla pace.
*scrittore e autore di “Can express. Rotocalco delle bestialità del nostro tempo”

il Fatto 25.4.12
Israele, violenza e diritto /2
...e la difesa. Ognuno risponda per sé
di Furio Colombo


LEGGO con disagio la lettera che lo scrittore Jiga Malik (pseudonimo di Alessandro Schwed, scrittore israeliano che scrive in italiano e che finora non ho avuto occasione di conoscere) dedica all’accoglienza sgarbata, al respingimento malevolo (e, nel caso che lui racconta, brutale) di volontari europei che stavano recandosi (o tentavano i farlo) in Palestina. Il disagio è per la veemenza dello scritto che accusa con furore, ma lascia tutto in sospeso. Probabilmente lo scrittore non sapeva, al momento di questa lettera, che il colonnello israeliano Eisner, che ha colpito in faccia l’attivista danese Andreas Lassa è stato sospeso dall’esercito israeliano per due anni (sospeso senza stipendio, come precisa la autorità militare di quel Paese). Non si tratta di giudicare se la punizione è giusta, ma di prendere atto che fatti del genere non vengono considerati normali. In altre parole, in un Paese con i nervi tesi e sotto assedio è meno facile che in Italia vi siano caserme Diaz. Però la lettera va più lontano e tenterò di farlo anch’io. Ci sono tre punti importanti che meritano di essere raccolti, valutati, capiti. Il primo punto è espresso così: “Quella irrealizzata vocazione di una patria per la quale può essere democraticamente responsabile solo Israele, certo non il regime di Hamas”. Che io sappia e ricordi, Hamas ha sempre negato ogni riconoscimento all’esistenza non solo storica o politica, ma anche fisica dello Stato di Israele. Hamas indica nella sua Carta costitutiva il dovere di ogni palestinese di cancellare Israele, di rimuoverlo come si estirpa una parte infetta e malata. Hamas è in rapporto stretto con tutti i nemici di Israele. E nonostante abbia rappresentanti seri e credibili presso i governi europei, non ha mai dato mandato a quei rappresentanti di tentare strade o legami che consentano a Paesi terzi interventi ragionevoli.
VORREI FAR notare (poiché il mio rapporto con Israele, non il governo ma il Paese, è noto) che nelle frasi appena scritte non ho detto nulla in favore o contro una delle due entità nazionali. Immagino, mentre scrivo, di essere un diplomatico che ha il compito di avvicinare i due popoli. So che troverò molte difficoltà non nei cittadini ma in un governo (quello israeliano) di destra, che crede soprattutto nello strumento militare. Ma so anche che non troverò alcun appiglio, in area palestinese, tra chi crede solo nella rimozione di Israele (di nuovo, parlo della guida politica, non del popolo) e non vuole fare quel primo passo del reciproco riconoscimento da cui tutto comincia.
La appassionata e veemente critica al governo israeliano è libera e legittima, ma non tiene conto della Storia. Non credo sia così facile dimenticare il modo in cui tanti diversi governi e regimi europei hanno giocato con i loro cittadini ebrei per poi abbandonarli e anzi offrirli ai nazisti per lo sterminio. È vero, adesso Israele è un forte Paese con un forte esercito. Si dice che potrebbe essere più generoso, ed esporsi per primo. Conosciamo qualcuno che lo ha fatto, Europa e isole Malvinas (Falkland) incluse? Il secondo è un passaggio che mi pare molto interessante: “Ognuno risponda per sé”. Mi sembra il cuore del discorso. Perché, se sei israeliano o – da ebreo – ti senti legato (anche in senso polemico) a Israele, hai molte cose da dire e il diritto di farlo. Se sei, per esempio, italiano, prima di dare delle lezioni agli israeliani le devi dare a te, al tuo Paese. “Ognuno risponda per sé”, vuol dire non cercare alibi nei problemi degli altri. Non andrò lontano. Resto sul posto. Noi italiani abbiamo il diritto di chiedere che si faccia finalmente, a Ramallah, il processo per l’assassinio di Vittorio Arrigoni. Ricordate? Arrigoni, carismatico volontario italiano al lavoro fra i palestinesi, è stato ucciso un anno fa, da un gruppo che – a quel che è stato detto – fanno o facevano capo ad Hamas. Invano la madre di Arrigoni, un anno dopo, si è recata in Palestina a cercare giustizia per il figlio. Il tribunale è chiuso, non sono previste sedute, gli assassini, che incontrano amici e parenti per tutto il giorno nel cortile della prigione, hanno ritrattato. E nessuno sembra preoccupato di fare giustizia.
 “OGNUNO risponda per sé”. Giusto. Il governo italiano tace. Il 24 aprile la deputata Pd Codurelli ha presentato un’interrogazione urgente al governo nella Commissione Esteri. Il governo in quel momento era Stephen De Mistura, un espertissimo funzionario dell’Onu diventato appena adesso sottosegretario agli Esteri. Era sorpreso dall’evidenza offerta dalla on. Codurelli. Ma è vero, Arrigoni è stato ucciso e non importa a nessuno, né a Ramallah né a Roma. “Ognuno risponda per sé” ammonisce Jiga Melik. De Mistura ha promesso. Ma il fatto è un bel simbolo del come riconoscere, prima di tutto, le proprie responsabilità. Ed ecco il terzo punto. “Non importa che la democrazia nella regione stia molto peggio”. La storia europea insegna che importa moltissimo. Sono state le democrazie intorno alla Germania e all’Italia, benché invase, benché colpite nel modo più grave, a combattere fino all’ultimo, fino all’arrivo delle due grandi potenze Usa e Urss che hanno stroncato, assieme ai partigiani, il nazifascismo. Ma qui vorrei riprendere quel “ognuno risponda per sé”. Se le democrazie, a cominciare dall’Europa, smettono di essere finti tribunali che prima si indignano e poi si astengono, se imparano a essere presenti e vicini all’uno e all’altro dei due popoli, esigendo democrazia e riconoscimento reciproco, forse comincia la pace.

Repubblica 25.4.12
Pubblichiamo la nuova introduzione della Kristeva al suo "Storie d´amore" oggi ripubblicato
L’importanza di vivere in un mondo innamorato
È l’infinita trascendenza dell´esperienza interiore che ascolto, in controtendenza rispetto alle fiammate mediatiche che ci distolgono dalla ragione
di Julia Kristeva


Ho scritto Storie d´amore in una tappa della mia vita in cui l´amore si ritraeva da me. Quale amore? Il colpo del "Grande Amore", mito salvifico, passione consolatrice e derisoria illusione, carica umorale ed elettrica, o fulmine del destino. Un amore che aveva fatto il suo tempo. Non fu però un deserto quello che mi aspettava: su quelle rovine, con l´aiuto della psicoanalisi, è sorto un altro amore, diverso dall´Amore, degno di interesse, in perenne edificazione e che continua a durare. Costruibile e decostruibile attraverso di me, fuori di me, questo amore è l´opera della libertà, è la mia rivolta, di rinascita in rinascita.
Amore-esperienza: amore esplorazione di ciò che fu me, che mi altera e che io altero, che mi esalta, che mi schiaccia, che io abbandono, che mi abbandona, che mi ricrea, che mi trasferisce a te, a lui. Fanatica presenza di un altrui affianco a me e in me, estremità incorporea, che si dà attraverso di me continuamente e dappertutto. Parola che non è niente di ciò che io sono, ma che mi ricompone e ti ricompone, malinteso e interazione che mi sorprendono, mi spossessano, mi inabissano e mi fanno avanzare, folle evidenza. Una specie di società che né mi perde né mi tradisce, né mi delude né mi colma, che non fa altro che eccedermi, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, straniera a me stessa, e-statica. Prima di te, dopo di te, in ogni istante ti raggiungo e ti perdo, ti sono e ti fuggo: te, l´amato amante; noi, liberi in amore.
Amore-storia: amore che si declina in poemi, suoni e immagini, racconti e avventure, e si confonde con la storia della libertà, il cui ombelico è qui, in Europa. Trasporti o delusioni? Che importa. È l´infinita trascendenza dell´esperienza interiore che io ascolto in queste pagine, in controtendenza rispetto alle fiammate mediatiche, alle depressioni nichiliste, alle orge pornografiche e ai magheggi esoterici che ci distolgono dalla ragione. E la scoperta freudiana dell´inconscio e del transfert mi rivela la sua verità logica: io la seguo in un´inclusione esterna (a meno che non sia un´esclusione interna), nella storia dell´Occidente greco ebraico e cristiano che, in cerca dell´Altro, ha costruito quel culto dell´"Io sono" che sa superarsi e che si chiama propriamente capacità di amare, quel favoloso mal d´amore.
Universalmente umana, potenzialmente accessibile a tutti gli esseri parlanti, quest´opera della libertà che io scopro nell´amore ha ricevuto in effetti la sua forma più affinata, la sua realizzazione più diversificata, nella tradizione europea: attraverso la religione, la filosofia, l´arte e la letteratura. Appoggiandomi alla mia pratica della psicoanalisi, ho seguito tutti i suoi rimbalzi tra gli innumerevoli avventurieri e interpreti che mi hanno preceduto, prima di acquisire - adesso ve lo posso confessare - quel sentimento di fierezza finalmente liberata da ogni senso di colpa che ormai provo nei confronti del genio europeo.
Ma è l´incapacità di amare, al di qua e al di là dell´assenza di amore, che trascina al fondo l´analizzante e l´analista. Ed è quella stessa incapacità che minaccia la globalizzazione iperconnessa, quando quest´ultima si illude di poter formattare individui apparentemente cooperanti tra loro a forza di chat, di sms, e altri simili tweet, sopprimendo l´esperienza interiore in cui nasce e muore quell´estremo fanatismo nel quale il me e il te si ricreano in amore.
Niente garantisce che il mondo a venire possa continuare ad essere un mondo innamorato. Se queste storie d´amore dovessero avere una fine, quest´ultima svelerebbe il male radicale che è l´automatizzazione degli umani. Il principio di precauzione circoscrive fin d´ora la libertà - che non potrebbe esistere senza rischi - , il bisogno di sicurezza rafforza le chiusure identitarie, e certe nauseabonde zaffate totalitarie invadono gli spiriti, in tempi come questi, di debito e di austerità endemici. E però io scommetto che l´amore, vissuto a partire dalla diversità delle sue storie qui riunite, possa essere uno tra gli antidoti più radicali, perché più intimi.
In modo insolito, Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura intravede, in un lampo, la possibilità di un «corpus mysticum degli esseri ragionevoli che vi sono...» (...). Noi sappiamo oggi che la metafora kantiana dell´unione con se stesso e con ogni altro non può intendersi solo nel senso - compromesso e in profonda crisi, ai giorni nostri - della "solidarietà", vale a dire della "fraternità". La conclamata universalità dei diritti dell´uomo non sempre ha portato il nostro global village a un´etica esemplare, e la trasparenza mediatica dell´era postmoderna accentua in modo più crudele che mai la persistenza della barbarie. Essendo la libertà sinonimo di desiderio, come posso io entrare fino in fondo in "unione" con i miei desideri e con quelli di ogni altro se non esiliandomi da quel me che ho appassionatamente esplorato, per trasmutare le mie pulsioni e i miei stessi desideri, attraverso l´ascolto della libertà di ogni altro, dell´Ogni Altro? Questo patto, che tiene sotto il suo imperio l´uomo e la donna in cerca di etica, non si riduce alle sole leggi morali; le trasforma in amore assoluto.

Repubblica 25.4.12
Miriam Mafai
Così "Pane nero" racconta la resistenza delle donne
di Franco Marcoaldi


Con "Repubblica" il celebre libro della giornalista appena scomparsa
Quando gli uomini sono partiti per il fronte molte ragazze hanno scoperto la libertà

Sono trascorse appena due settimane dalla morte di Miriam Mafai e oggi i tanti, tantissimi lettori che per decenni l´hanno seguita dalle colonne di questo giornale, avranno modo di riaccostare la sua indimenticabile figura leggendo Pane nero, che esce allegato al quotidiano. In una data nient´affatto casuale: giusto quel 25 aprile, ricorrenza della liberazione dal nazi-fascismo, su cui il libro chiude il suo racconto di guerra. Anche se poi la guerra Miriam la racconta a modo suo, ed è un modo davvero speciale. Le protagoniste di questo lungo viaggio dal ´40 al ´45, assieme tragico e avventuroso, si chiamano Bianca, Marisa, Zita, Lela, Adriana, Carla, Silvia, Lucia… E l´autrice del libro ne raccoglie le voci intessendole tra loro per dare forma a un coro tutto femminile, dove finalmente assume la parola chi, sotto la pressione di quella terribile contingenza storica, si trovò a prendere in mano, per la prima volta, il proprio destino.
L´intento del libro è chiarito da subito, nelle pagine introduttive. Tra le diverse "coreute" c´è chi, una volta scoppiato il conflitto, finisce col guidare il tram e chi per fare la postina, chi organizza scioperi in fabbrica e chi assalta i forni, chi crede fino in fondo nella vittoria di Hitler e Mussolini e chi fa la staffetta partigiana. Eppure, annota la scrittrice, nelle differenti testimonianze una frase continua a riecheggiare: «…Però, è stato bello». Come spiegarsi un´affermazione tanto insolita, stridente? «Forse perché ognuna di noi divenne, nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa».
Se la guerra scardina ogni ordine, nello smottamento va compresa anche la rigida fissità dei ruoli sessuali. È da questa particolare prospettiva che prende le mosse il racconto di Pane nero: incalzante, turbinoso, drammatico. Ma non privo, a tratti, di annotazioni più leggere. Perché la guerra, oltre ad essere bestiale, è anche sommamente ingiusta. E accanto a fame, freddo e morte, lascia spazio per le feste, il lusso, il gioco d´azzardo – almeno per alcuni. L´occhio di Miriam è troppo curioso e smagato per non darne conto. Il quadro deve essere quanto più possibile completo, veritiero. E così è, grazie a una scrittura che combina al meglio l´immediatezza del reportage giornalistico, la puntualità del saggio storico e il respiro del "romanzo" collettivo. Pagina dopo pagina, il lettore rimane inchiodato a una vicenda che lo coinvolge con i suoi orrori e le sue efferatezze, ma anche con i mille slanci di coraggio, riscatto civile, solidarietà umana, nuova consapevolezza politica.
Refrattaria a qualunque retorica e sentimentalismo, proprio per questo Miriam Mafai riesce a restituire appieno il pathos individuale e collettivo che anima quel cruciale passaggio storico. Senza dimenticare mai il suo peculiare punto di osservazione.
Quando, all´inizio del conflitto, sono partiti per il fronte padri, mariti e fratelli, le donne hanno scoperto con sgomento il senso di una nuova libertà. Costrette dagli eventi ad abbandonare il vecchio ruolo di madri e mogli esemplari, si sono trovate per la prima volta in mare aperto. E si sono inventate nuovi lavori, hanno combattuto con le unghie e con i denti per rimediare un po´ di cibo, hanno offerto ospitalità agli sbandati e ricoperto pericolosi incarichi nella guerra partigiana. Ma ora che le ostilità sono cessate, tutti, da destra e da sinistra, raccomandano di tornare all´ordine: «siate miti, siate dolci, siate sottomesse». La «trasgressione» legittimata dalla guerra viene negata, a favore del restauro di un´immagine convenzionale. Ma le donne non saranno mai più quelle di prima. Anche grazie a libri come questo, scritto affinché nella memoria collettiva resti traccia di quel momento di protagonismo femminile.