sabato 21 aprile 2012

l’Unità 21.4.12
La sfida democratica è uscire dal leaderismo
La caduta di Berlusconi e Bossi segnala il fallimento della forzatura bipolarista, dove l’enfasi sulla decisione legittima l’eclisse dei controlli
di Stefano Rodotà


Caro direttore, con l’abituale sua nettezza, di cui sempre dobbiamo essergli grati, Alfredo Reichlin solleva la questione dell’attacco ai partiti e, in sostanza, della stessa sopravvivenza della democrazia in Italia (e non solo, visto che giustamente volge lo sguardo ad una crisi assai più generale).
E scrive che «non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo». Proprio da qui bisogna partire, e proprio qui è la difficoltà, perché questo indispensabile rinnovamento culturale e politico deve avvenire in un tempo che pone scadenze così pressanti da schiacciare tutti sul brevissimo periodo.
Vivo con la sua stessa angoscia lo stillicidio quotidiano delle notizie sui fatti di corruzione, un terribile bollettino di una guerra che rischia d’essere perduta non da corrotti e corruttori, ma proprio da chi è rimasto estraneo a queste pratiche. Questo è l’esito d’una saldatura tra decomposizione morale e destrutturazione del sistema politico. Era già avvenuto. Mani pulite venne dopo una stagione all’insegna dell’«arricchitevi» e della «Milano da bere», scambiati per tratti liberatori d’una nuova modernità che tutto consentiva e che, quindi, aveva bisogno di sottrarsi al vincolo della legalità, come puntualmente avveniva nelle aule parlamentari con il rifiuto delle autorizzazioni a procedere contro quelli che le vicende successive avrebbero rivelato responsabili della corruzione.
Dobbiamo chiederci perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale, e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione
che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti. Che sono davanti ai nostri occhi, e si chiamano personalizzazione estrema della politica, appannamento della rappresentanza, rafforzamento delle oligarchie, insignificanza della partecipazione delle persone.
Di fronte a tutto questo si avverte forte un bisogno di «diversità». Parola a molti sgradita, lo so. Ma io che mai sono stato iscritto al Pci, e con il quale tuttavia ho percorso un tratto significativo della mia vita continuo ad essere convinto che Enrico Berlinguer fosse stato lungimirante quando indicò nella questione morale un tema capitale per la politica. Una indicazione assolutamente realistica, come le vicende successive hanno dimostrato. E che, se pur voleva sottolineare una diversità del Pci, la traduceva in un di più di responsabilità che incombeva sul suo partito.
Proprio perché oggi il Pd ha più carte in regola di altri, su di esso incombe una responsabilità maggiore, non tanto per sottrarsi a un discredito generalizzato, ma soprattutto perché è politicamente essenziale la ricostruzione dello spirito pubblico, sulla cui mancanza l’antipolitica costruisce le sue fortune. Ma nella società non vi è solo antipolitica. Dico da tempo che è cresciuta un’«altra politica», di cui si possono discutere forme e contenuti, ma che è un fatto vitale di cui il Pd dovrebbe prendere piena consapevolezza senza restare prigioniero della vecchia diffidenza verso il movimentismo, che si rivela sempre di più come una mossa conservatrice. Bersani ha avuto il grande merito di schierare il Pd a favore dei referen-
dum dell’anno scorso, pur conoscendo le resistenze diffuse e «autorevoli» esistenti nel suo partito. Quel successo non è stato capitalizzato (anzi permangono incredibili resistenze contro l’attuazione del risultato riguardante l’acqua), noncisièresicontochelìviera uno spunto di critica degli «assetti attuali del mondo» ed una manifestazione di quelle soggettività politiche che si stanno costruendo, e con le quali un partito rinnovato deve intrattenere un rapporto, sia pure fortemente dialettico. Un nuovo blocco di forze è necessario, gli antichi steccati devono essere abbattuti. Tornano antiche parole con forza rinnovata. Che cos’è l’eguaglianza nel tempo della disuguaglianza strutturale? Che cos’è la libertà nel tempo della tecnoscienza? Che cos’è la dignità nel tempo della riduzione a merce di lavoratore e lavoro? Che cos’è la solidarietà nel tempo della negazione del legame sociale? Quale antropologia della persona si sta costruendo? Domande che la politica deve rivolgere a se stessa, pena la sua irrilevanza.
Tutto questo mi porta a ribadire quel che dico da sempre sull’indispensabile ruolo dei partiti nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione e sulla necessità di risorse pubbliche per la politica, perché questa non sia consegnata ad una forza del denaro sempre più prepotente. Una rinnovata legittimazione del finanziamento pubblico viene oggi proprio dalla pervasività della logica economica, che vuole sottomettere la politica anche attraverso la sua dipendenza solo dal capitale privato, che è cosa assai diversa dalla buona contribuzione dei cittadini. Di nuovo, però, questo non può significare arroccamento intorno al presente stato delle cose. Anche una fase di transizione esige una diversa visione del contributo pubblico (ne ha discusso assai bene Gaetano Azzariti sul «Manifesto»). Le rendite di posizione sono finite, tutte. E proprio qui il Pd deve fare le sue prove.

l’Unità 21.4.12
Günter Grass e Israele
di Marco Rovelli


Sul sito di alfabeta2 (www.alfabeta2.it) ho scritto un pezzo sulla poesia di Günter Grass accusata di antisemitismo. Dove invece essa è un atto di accusa contro la politica del governo d’Israele. Oggi chiunque critichi le politiche di quel governo (e non certo gli ebrei!) viene periodicamente accusato di antisemitismo. Tra le altre cose, citavo una frase attribuita a Levi: «Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele» di cui Domenico Scarpa e Irene Soave sul Sole24 ore avevano dimostrato, a mia insaputa, che Levi non l’aveva mai pronunciata. Internet pone un problema quanto alle fonti: anch’io, che pure sono di formazione storica e le fonti dovrebbero essere un tic mentale, ho creduto a quell’attribuzione, e me ne scuso. La leggi tante volte, e lo dai per scontato. E dopo l’abitudine c’è la fretta, a compiere l’opera.
Però l’articolo di Scarpa e Soave che ripristina la verità non trae per me conclusioni corrette. Al contrario di quel che scrivono, il sillogismo la cui conclusione è «i palestinesi sono gli ebrei d’Israele» è pienamente legittimo, confrontando quell’assunto generale con quanto dice in un’intervista da essi stessi citata (i palestinesi sono «vittime» e «vittime di vicini troppo potenti») e sapendo appunto che Levi firmò appelli in favore dei palestinesi contro il colonialismo israeliano, e a favore del principio «due popoli due Stati» proprio quanto è oggi assolutamente intollerabile per il governo israeliano! Insomma, se Levi ha scritto che i polacchi erano stati gli ebrei dei russi, perché non dovrebbe essere parimenti consequenziale entro la grammatica mentale di Levi che i palestinesi sono gli ebrei d’Israele? Un altro ebreo, Franco Fortini, scrisse: «Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo».

Corriere 21.4.12
«Così Patrizio Peci ha ucciso mio padre un'altra volta»
La figlia di Roberto: non era terrorista, lo sta infangando
di Giovanni Bianconi


ROMA — In trent'anni l'ha visto un paio di volte, da bambina. Sempre di sfuggita, senza che si dicessero nulla di significativo. «Avrei voluto incontrarlo di nuovo, parlarci con calma. Non solo perché è sangue del mio sangue. Ma anche per conoscere meglio mio padre. Anche se lui è stato la causa della sua morte». Così diceva Roberta Peci, figlia di Roberto, il papà che non ha mai conosciuto, assassinato dalle Brigate rosse a 25 anni d'età il 3 agosto 1981, dopo 55 giorni di sequestro. Quattro mesi prima che nascesse sua figlia, che la madre volle chiamare come lui. Lo uccisero per reazione al «tradimento» di Patrizio, brigatista che dopo l'arresto decise di pentirsi facendo arrestare decine di ex compagni. L'uomo che Roberta voleva incontrare. «Adesso però non so più che cosa voglio — sostiene — perché le falsità che ha detto il fratello di mio padre sono gravissime, inqualificabili e inspiegabili. È come se l'avesse ucciso un'altra volta».
Lo sfogo di Roberta Peci segue l'intervista che il primo pentito nella storia delle Br ha rilasciato al settimanale Oggi. Nella quale l'ex-terrorista confessa di provare ancora rimorso per la morte del fratello («se avessi immaginato che finiva così avrei fatto i miei anni di carcere e Roberto non lo avrei sulla coscienza»), e poi afferma: «Roberto era buonissimo, ma è sempre stato d'accordo con tutte le mie scelte. Prima la contestazione, poi la lotta armata e infine la dissociazione». E su Roberta: «Non sa niente, non è vero quello che le hanno fatto credere, non è vero che c'è stato un fratello infame e uno buono, Caino e Abele. Sono pronto a spiegarle tutto e le dico: incontriamoci, saprai e capirai».
Roberta Peci s'infervora: «Ora chiede d'incontrarmi? Attraverso un'intervista? Perché in trent'anni non s'è mai fatto vivo? Sapeva benissimo dove stavamo, io e mia madre: a San Benedetto del Tronto, da dove lui è fuggito per andare in clandestinità e dove le Br hanno rapito mio padre. Da libero c'è tornato tante volte, poteva cercarci e parlarci quando voleva. Perché si sveglia ora? E perché dice quelle falsità sul conto di mio padre?».
La figlia di Roberto Peci fa fatica a chiamare Patrizio «zio». Dice sempre «fratello di mio padre», quasi a certificare un distacco che in questi anni s'è allargato e adesso sembra incolmabile: «Praticamente lo paragona a un brigatista, dopo che l'anno scorso siamo finalmente riusciti a fargli intitolare una strada (quella in cui i brigatisti lo rapirono, ndr). Ma mio padre non era un terrorista, è stato solo una vittima, e suo fratello lo sa bene. Si guadagnava il pane montando antenne per la tv, non andava in giro ad ammazzare le persone come lui. S'era sposato, il giorno in cui l'hanno sequestrato era il primo anniversario di matrimonio, aveva concepito una figlia. Non c'è bisogno che ora arrivi suo fratello a spiegarmi chi era. Ci hanno già pensato mia madre e le altre persone che gli hanno voluto bene».
Roberta Peci sa che anche suo padre fu un estremista, e partecipò all'azione armata contro la Confapi di Ancona nel 1976, insieme al fratello: «Glielo chiese lui, per sostituire una persona che s'era ammalata, e mio padre accettò. Lo arrestarono e ha pagato, ma poi basta. Patrizio divenne latitante dopo la scoperta delle armi che aveva nascosto a casa di un amico del nonno. Scappò all'improvviso, quale decisione può aver preso con mio padre, che per quelle armi fu arrestato e subito rilasciato perché riconosciuto estraneo? Io so che mia nonna implorava Patrizio di lasciar stare il fratello, che non c'entrava niente e rischiava di pagare per le sue scelte. Com'è avvenuto fino alla fine».
Anche Patrizio Peci si sente responsabile della morte di Roberto, e forse è l'unico punto su cui la nipote è d'accordo: «Se lui non si pentiva e si faceva la galera come tanti altri, mio padre sarebbe vivo, questo è certo. Ed è l'unica verità. A che serve infangarlo ora, dopo che io e mia madre abbiamo tanto lottato per restituirgli la dignità di vittima del terrorismo? E così le mie zie? Non hanno niente da dire, loro, a quest'uomo riemerso per dire falsità sul conto del fratello ammazzato per causa sua?». È una storia drammatica e crudele, quella dei fratelli Peci, che sembra volgere verso un epilogo amaro. Ma Roberta è decisa: «È inutile che tiri in ballo Caino e Abele. Non c'è un fratello buono e uno cattivo, è vero: ce n'è uno vivo e uno morto. Uno libero che ha potuto crescere suo figlio e uno sottoterra, che sua figlia non l'ha mai conosciuta. Perché i brigatisti l'hanno ucciso facendogli pagare il pentimento del fratello. Oggi quel fratello lo accomuna a sé, ed è un comportamento peggiore di quello che tenne trent'anni fa. Allora poteva essere inconsapevole delle conseguenze, oggi invece sa bene di dire bugie e di sporcarne la memoria. Vorrei sapere perché, ma sono sicura che non sarà lui a dirmelo».

Repubblica 21.4.12
Una nuova edizione del "De officiis", opera del celebre autore latino
Così Cicerone inventò Il concetto di "Persona"
L´idea che la vita politica assomigli a una rappresentazione teatrale in cui bisogna interpretare un ruolo che tenga in equilibrio le esigenze individuali e quelle pubbliche
di Maurizio Bettini


Come si concilia l´utile con l´onesto? O più semplicemente, "che cosa è giusto fare"? È questa la domanda che Cicerone si pose al termine della propria vita, indirizzando al figlio un´opera destinata a diventare un vero e proprio cardine della morale europea: il De officiis. Una domanda fondamentale, la cui risposta riguarda direttamente i compiti e le prerogative dell´uomo in quanto essere sociale – per non parlare di chi ha in mano il governo della città. Del resto, per rendersi conto di come la vita pubblica possa essere avvilita, umiliata, se chi l´amministra smette di porsi questa domanda – come conciliare l´utile con l´onesto? – basta osservare ciò che sta accadendo nel nostro paese, anche in questi giorni. Il De officiis di Cicerone apparterrebbe dunque al genere dei classici attuali? Certo, e oggi lo è più che mai.
Siamo tra il settembre e il novembre del 44 a. C. Roma è insanguinata dalle lotte civili, Cicerone è impegnato nelle Filippiche e solo un anno dopo, nel dicembre del 43, offrirà spontaneamente la testa ai sicari di Antonio. È questo il clima di tumulto all´interno del quale egli scrive il De officiis, sulla falsariga di un´opera composta dal filosofo stoico Panezio. Difficile tradurre in italiano questo titolo, del resto non era stato facile sceglierlo neppure per il suo autore. Il testo greco si intitolava Perì tou kathékontos, ossia (all´incirca) "Su ciò che è conveniente": ma la parola kathékon, scriveva dubbioso Cicerone all´amico Attico, si può tradurre con officium? Attico non aveva avuto dubbi, officium era la parola giusta, e l´Arpinate aveva proceduto di conseguenza. Di solito, chi traduce in italiano si accontenta di rendere De officiis con "Sui doveri", ma Rita Marchese e Giusto Picone – nell´ottima edizione di quest´opera appena uscita per la Nuova Nue di Einaudi – hanno optato per un esplicito "Quel che è giusto fare". Parafrasi eccellente, perché l´officium dei Romani è una categoria pratica, che punta alle azioni: non designa un obbligo astratto, un rigore interiore o uno scrupolo individuale, ma un dovere sociale.
Come Picone mette in evidenza nella sua lucida introduzione, la complessa articolazione del pensiero morale di Cicerone si focalizza su una categoria ugualmente romana: il decorum. Con questo termine si designa ciò che è conveniente, ciò che risulta appropriato per ciascuno quando è in gioco il suo comportamento. Sì, ma in che senso "appropriato"? Per spiegarlo Cicerone ricorre a una metafora di grande efficacia. «Bisogna capire», scrive infatti, «che la natura ci ha dotati di due personae», ossia di due "maschere": una ci rappresenta genericamente come esseri umani, dotati cioè di ragione; l´altra invece come singoli, ciascuno con le proprie inclinazioni e il proprio carattere. Come se non bastasse, a queste personae se ne aggiungono altre due: la prima che ci deriva dal tempo e dalle circostanze, perché si può nascere nobili o umili, ricchi o poveri; la seconda invece è la maschera che indossiamo volontariamente, in base alla nostra scelta individuale: ed è per questo che ci dedichiamo chi a un´attività, chi a un´altra.
Sotto i nostri occhi vediamo dunque nascere una nozione, e una parola, destinate ad avere enorme importanza nella cultura posteriore: "persona". Persona nel senso di soggetto umano e sociale, dotato di una sua propria "personalità", come ancora oggi diciamo; e insieme figura giocata all´interno di tutti quei ruoli, pubblici e privati, che fanno di ciascuno di noi un´entità così complessa. L´idea che sta alla radice di questa scelta metaforica, da parte di Cicerone, è evidentemente la seguente: la vita all´interno di una comunità rassomiglia a una rappresentazione teatrale, in cui ciascuno recita una parte corrispondente al ruolo che gli è stato assegnato. Salvo che, a differenza dell´attore che in teatro indossa la persona del vecchio avaro, o quella del giovane innamorato, il cittadino che "recita" sulla scena della propria comunità ha a disposizione non una sola maschera, e sempre la stessa, ma ben quattro.
Ed eccoci di nuovo al punto: il decorum, ciò che "appropriato" a ciascuno, si colloca precisamente nel luogo in cui queste quattro personae si incontrano. Ciò che conviene lo si realizza appieno solo al momento in cui ci si comporta in modo tale da non compromettere nessuno dei quattro ruoli che siamo chiamati a interpretare. Con una postilla, però, che la drammatica attualità del De officiis ci invita a registrare: «chi ha incarichi pubblici», continuava infatti Cicerone, «deve capire che indossa direttamente la persona della città. Egli è perciò obbligato a sostenerne l´onore e la dignità, preservandone le leggi, né può scordarsi di ciò che è affidato alla sua credibilità».