martedì 17 aprile 2012

l’Unità 17.4.12
Controlli Il presidente della Corte dei Conti a capo della commissione
Bersani: «Vincolare la vita delle forze politiche a criteri di trasparenza»
Partiti, ecco la legge Pd-Pdl-Udc: «Errore abolire i finanziamenti»
di Maria Zegarelli


Pd, Pdl e Udc depositano il ddl per la riforma dei partiti e la trasparenza dei bilanci, difendendo il finanziamento pubblico. «Cancellarlo sarebbe un errore». Critico Di Pietro. Oggi il Pd riunisce una segreteria ad hoc.

Pd, Pdl e Terzo Polo sono pronti a regolamentare il finanziamento pubblico ai partiti ma non a rinunciarci. «Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici destinati ai partiti già drasticamente tagliati dalle manovre finanziarie del 2010-2011 sarebbe un errore drammatico, che punirebbe tutti allo stesso modo (compresi quelli che in questi anni hanno rispettato scrupolosamente le regole) e metterebbe la politica completamente nelle mani di lobby, centri di potere e di interesse particolare».
A metterlo nero su bianco è la relazione introduttiva alla proposta di legge sui bilanci dei partiti depositata lo scorso 12 aprile alla Camera, firmata da Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pierferdinando Casini. «Il finanziamento pubblico si legge nel testo presuppone regole certe che garantiscano la trasparenza e il controllo sui bilanci. Questa è la strada e bisogna intervenire rapidamente». Perché il punto non sono i finanziamenti, necessari a escludere una politica riservata soltanto ai più abbienti o sottoposta alla pressione delle lobby, il punto è un altro: «Trasformare il finanziamento pubblico nella leva per riformare i partiti».
La strada maestra «è quella della discussione e dell’approvazione di una legge organica che trasformi i partiti in associazioni riconosciute, dotate di personalità giuridica, con precisi requisiti statutari», dando finalmente il via all’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Il segretario Pd ieri con i suoi collaboratori è tornato a sottolineare che proprio questa è la priorità, l’esame della legge già entro maggio-giugno, «sarebbe un segnale importante, è indispensabile vincolare la vita di un partito ad alcuni criteri di rappresentanza e trasparenza». Al Nazareno sono convinti che «il tema di un partito che funziona bene riguarda l’intero sistema perché se anche uno solo si comporta male ci sono riflessi su tutti». E Bersani, come ha ribadito anche a Cortona, non ci sta a far finire il suo partito nel mucchio, «non siamo tutti uguali», né a prestare il fianco «agli apprendisti stregoni» che soffiano sulle vele dell’antipolitica. Argomento bollente e del quale si discuterà in una segreteria convocata ad hoc stamattina.
LE SANZIONI
Nel testo depositato alla Camera, firmato anche dai capigruppo dei partiti di maggioranza, i partiti difendono il loro ruolo e puntano a controlli rigidi per chi non rispetta le regole prevedendo, ad esempio, che «nel caso in cui le irregolarità riguardino proprietà immobiliari o partecipazioni a imprese il partito o movimento politico perde il diritto a godere di una somma pari al 10 per cento dei valori patrimoniali non iscritti nel bilancio o indicati in maniera inesatta». Il controllo sui bilanci, che vengono pubblicati su internet, è affidato a società di revisioni esterne, mentre viene istituita una Commissione di controllo coordinata dal presidente della Corte dei Conti, e si prevedono sanzioni fino a tre volte la misura dell’irregolarità subita.
Introdotte anche norme volte a evitare quanto accaduto nella Margherita e nella Lega. «I partiti e i movimenti politici che partecipano o hanno partecipato alla ripartizione dei rimborsi per le spese elettorali si legge infatti nel documentosono soggetti fino allo scioglimento degli stessi l’obbligo di rendicontazione di cui alla legge n.2 del 1997», che prevede norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici. Obbligo, poi, di investire le liquidità, proventi del finanziamento pubblico, soltanto in titoli emessi dalla Stato, mentre chi eroga finanziamenti o contributi ai partiti per un importo che nell’anno superi cinquemila euro è tenuto a renderle pubbliche.
Troppo poco per Antonio Di Pietro che evoca l’arrivo «dei forconi sotto Montecitorio», mentre dal Pdl Giorgio Stracquadanio dice che non voterà il ddl depositato da Pd, Pdl e Udc perché «sconcertato». Avrebbero dovuto rinunciare all’ultima rata del finanziamento, aggiunge.

il Fatto 17.4.12
Bilancio 2010. Spese pazze anche per sede, vigilanza e pulizie
I conti Pd: 2 milioni l’anno per alberghi e ristoranti
Alfano, Bersani e Casini insistono: “Sarebbe un errore drammatico cancellare i finanziamenti pubblici ai partiti”
di Wanda Marra


Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici, destinati ai partiti già drasticamente tagliati dalle manovre finanziarie del 2010-2011 sarebbe un errore drammatico”. Uniti nella lotta Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini la loro strenua difesa dei contributi erogati dallo Stato la mettono addirittura nella premessa alla proposta di legge che dovrebbe garantire la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti. E sulla quale chiedono “la legislativa” ovvero il voto direttamente in Commissione. Un iter lampo per “blindare” gli unici cambiamenti considerati sostenibili. E soprattutto evitare qualsiasi taglio ai soldi dello stato. D’altra parte il tesoriere del Pd, Antonio Misiani al Fatto l’ha detto chiaro e tondo: senza la rata di luglio i partiti chiuderebbero.
Il suo, di partito, ha 43 milioni di euro di disavanzo, anche se in 4 anni (2008-2011) ha ricevuto completamente 200 milioni di euro di (cosiddetti) rimborsi elettorali. Come? Rocco Gargano e Roberto Trussardi per MicroMega Bergamo hanno fatto un’analisi in cui evidenziano le voci che più saltano agli occhi del bilancio del Pd relativo al 2010. Sotto il capitolo per viaggi, ristoranti, alberghi, spese di rappresentanza risultano spese per ben 2.165.138,00 di euro. Ancora più esoso l’affitto della sede nazionale, il Nazareno a Roma: 3milioni, di cui 1.783.000 per regolazione di “poste pregresse”. Una sede assai curata vista la cifra per vigilanza, assicurazioni e pulizia: ben 1.862.000,00 euro. Poi, ci sono gli stipendi: 12 milioni per 173dipendenti, 17 giornalisti e12 collaboratori. Oltre a 1.460.000 in collaborazioni e consulenze.
Venti milioni di euro se ne vanno per la campagna elettorale. Due paginette di iniziative varie e imprescindibili, come le “1000 piazze” o il “dopofestival a Sanremo”. Non manca qualche altra chicca: per esempio, un accantonamento di 5 milioni di euro per le “iniziative volte ad accrescere la partecipazione delle donne alla politica”.
INTANTO, i territori soffrono: se i parlamentari sono tenuti a versare al partito 1.500 euro al mese delle loro indennità, gli eletti ai vari livelli dovrebbero contribuire in entità variabile alle spese delle federazioni e dei circoli. Ma la parola chiave è “contributo volontario”. Raccontava ieri Libero che infatti spesso non lo fanno, soprattutto se sono praticamente certi di non essere rieletti. Il Pd del Pie-monte inserisce nello stato patrimoniale crediti non riscossi dai candidati per le regionali 2010 per 73.600 euro. Un caso tra i tanti. Spiega Felice Casson, parlamentare veneto: “So di una politica che non paga in Veneto. Ho chiesto che sia reso noto”. Dopodiché? “Noi non possiamo rivalerci in nessun modo, visto che formalmente si tratta di contributi volontari”.
DUNQUE, oggi l’Aula si prepara a votare sulla richiesta di legislativa del presidente della Camera sollecitata da ABC, che non vede scritta da nessuna parte la rinuncia alla tranche di luglio o la volontà di ridurre i finanziamenti. Oltre a prevedere il controllo sui soldi non da parte della Corte dei Conti, ma di un’Autorità e a lasciare l’ultima parola a Camera e Senato (e dunque il controllato controlla il controllore). Se in 63 deputati si pronunciano per il no, si procede a un iter normale. Dirà di no la Lega (59 deputati ), mentre l’Idv voterà a favore, presentando degli emendamenti(per esempio, quello sulla rinuncia alla rata di luglio). I Radicali (che sono 6) subordinano il loro sì al fatto che la seduta finale venga data in diretta. Magari alla fine riuscirà il blitz: una legge fatta di gran carriera che cambia tutto per non cambiare la sostanza.

il Fatto 17.4.12
La proposta di Sposetti: raddoppiare i contributi


Altro che ridurre i finanziamenti, c’è chi li vorrebbe addirittura raddoppiare: raccontava ieri il Giornale che alla Camera dei deputati è tuttora in corso di esame in commissione un disegno di legge (il numero 3809) presentata dall’ex tesoriere Ds, Ugo Sposetti, e firmata da oltre 45 esponenti democratici, oltre a tre onorevoli del gruppo misto, uno ciascuno di Idv, Udc e Responsabili, cinque del Pdl. Secondo questo progetto di legge i partiti devono diventare associazioni riconosciute, iscritte in pubblici registri, con statuti ispirati al principio della democrazia interna, primarie obbligatorie per la scelta dei vari candidati e fondazioni politico-culturali collegate ai partiti stessi. Organismi questi che curerebbero attività culturali e di formazione politica per conto dei partiti. Per questo, alle fondazioni il progetto di legge assegna fino a un massimo di 185 milioni di euro. Da sommare ai 180 milioni di euro e passa che i partiti già ricevono dallo Stato sotto forma di rimborsi elettorali.

Corriere della Sera 17.4.12
La corsa bipartisan alle fondazioni Quei conti da rendere trasparenti
Come le formazioni politiche ricevono anche soldi pubblici
di Sergio Rizzo


ROMA — Chi è Leonello Clementi? Raccontano Claudio Gatti e Ferruccio Sansa in un libro appena pubblicato da Chiarelettere, Il sottobosco, che è stato con 28.405 euro il principale finanziatore individuale alla nascita di Italianieuropei, a cui 23 fra persone e società hanno contribuito con complessivi 517.457 euro. Ha dato a quella fondazione ispirata da Massimo D'Alema ancora più dell'imprenditore Alfio Marchini oppure del fondatore della Sigma Tau Claudio Cavazza. E il suo nome figura accanto a donatori come Coop (103.291 euro), Pirelli e Asea Brown Boveri.
Un personaggio dalle relazioni ampie e articolate, Clementi. Soprattutto in politica, dove, secondo gli autori di quel volume, «è in grado di spaziare da sinistra a destra», fino agli uomini più stretti del giro di Silvio Berlusconi. Gatti e Sansa rivelano che tramite una società irlandese «era pagato come procacciatore d'affari» dalla banca d'affari Dresdner Kleinwort che si era occupata della cartolarizzazione dei debiti sanitari. Ma pure che era il lobbista della compagnia petrolifera francese Total in Basilicata…
Nessuno stupore, almeno per la trasversalità: l'epoca in cui l'ideologia condizionava anche il sostegno economico ai partiti è morta e sepolta. Il problema è la trasparenza. Il record di Leonello Clementi si è appreso perché il suo nome è stato pubblicato dalla stessa fondazione Italianieuropei. E la pubblicità dei finanziatori dovrebbe essere il minimo sindacale, non soltanto per i partiti politici, ma anche per le strutture parallele.
Strutture che sono talvolta destinatarie di cospicui finanziamenti pubblici. «Sei milioni della Margherita sono andati ad associazioni, a fondazioni e per finanziare campagne di candidati di tutte le aree politiche. Ma la stessa situazione vale per altri partiti non più attivi come i Ds, Forza Italia e An. Perché non rivolgete la stessa domanda anche a loro?», ha chiesto Francesco Rutelli ai giornalisti durante una tesissima conferenza stampa, lo scorso 16 marzo. Anche se la domanda che aspetta una risposta è decisamente diversa: «Non si poteva provvedere, prima di arrivare a questo?» La riformina che dovrebbe introdurre finalmente alcuni controlli sui conti dei partiti, oggi di fatto inesistenti, contiene un passaggio potenzialmente cruciale. Dice che nel caso in cui una fondazione riceva 50 mila euro da un partito, dovrà essere assoggettata allo stesso regime.
Anche se sarebbe forse opportuno che i controlli venissero estesi alle fondazioni di emanazione politica indipendentemente da qualunque contributo ricevuto dal partito. Visto che di soldi ne incassano pure dai privati, e sono soldi che vanno sempre a finanziare la politica.
Per dire quanto quegli strumenti siano importanti, cinque anni fa era stato predisposto un disegno di legge che li istituzionalizzava. Con tanto di risorse statali. Era consentito infatti ai partiti di creare «fondazioni politico culturali» a cui sarebbero stati attribuiti «contributi pubblici» per finanziare programmi di vario genere. La proposta saltò per l'opposizione di radicali e dipietristi. Il che non ha frenato la corsa.
La sinistra ha aperto la strada, e ogni elenco rischia di essere del tutto parziale. Ma non si possono non citare Nuova economia nuova società (il think tank di Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco), Glocus (Linda Lanzillotta) Democratica (Walter Veltroni), Vedrò (Enrico Letta), Cloe (Anna Finocchiaro), la Romano Viviani (Riccardo Conti, Gianni Cuperlo, Silvia Della Monica), Astrid (Franco Bassanini)...
Va da sé che anche il centrodestra ha ben presto recuperato il terreno perduto. Il solo sito del Pdl registra ben 11 fondazioni. Parola più gettonata: libertà, manco a dirlo. La Fondazione della Libertà per il Bene Comune fa capo ad Altero Matteoli: con lui c'è anche l'ex capo dei costruttori romani Erasmo Cinque. Per chi ama l'inglese, ecco la Free foundation ideata da Renato Brunetta. La Cristoforo Colombo per le Libertà riunisce i fedeli di Claudio Scajola. Riformismo e Libertà è presieduta da Fabrizio Cicchitto con segretario generale Gianfranco Polillo, attuale sottosegretario all'economia. Il Movimento delle libertà è nata da Massimo Romagnoli, ex parlamentare di Forza Italia.
L'Italia, appunto: si va da Italia Protagonista di Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, che si rifà alle idee di Pinuccio Tatarella, a Nuova Italia del sindaco di Roma Gianni Alemanno, di cui è segretario generale l'ex capo dell'Ama, Franco Panzironi. Il quale, liberato dall'incombenza dell'azienda capitolina dei rifiuti, può dedicarsi, come direttore, anche a una seconda fondazione: la Alcide De Gasperi, presieduta da Franco Frattini. E dall'Italia all'Europa: ecco Europa e Civiltà, di Roberto Formigoni e Riformisti europei di Carlo Vizzini. Nell'elenco delle fondazioni che fanno riferimento al Pdl non poteva mancare Magna Carta, il cui sito contiene anche l'elenco dei soci fondatori come Mediaset, l'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, la British american tobacco che ha comprato l'Ati dai Monopoli di Stato, o la Erg, e soci «aderenti»: qual è la Finmeccanica.
Potremmo concludere con Città nuove, la fondazione della governatrice del Lazio Renata Polverini, consapevoli però di essere ai margini di una galassia sempre più gigantesca, e per forza di cose un po' ovvia. Prendiamo la parola «futuro». Se il fondatore del Fli Gianfranco Fini ha la sua Fare futuro, Maurizio Lupi è ancora più preciso: Costruiamo il futuro. Mentre Luca Cordero di Montezemolo, il quale però non fa riferimento ad alcun movimento politico esistente, immagina una Italia futura. Fondazione apartitica, come la Res publica chiaramente ispirata da Giulio Tremonti: forse alla ricerca di una Uscita di sicurezza (il titolo del suo ultimo libro, Rizzoli)?

il Fatto 17.4.12
Gabanelli: “Così si batte l’evasione”
“Via il contante contro l’evasione. Si può fare, se i politici vogliono”
di Stefano Feltri


A raccontarla sembrava una provocazione. Ma si discute molto della proposta fatta da Report: tassare al 33 per cento ogni prelievo o deposito di contante. Milena Gabanelli è convinta che si possa fare “è solo questione di volontà politica”.
A raccontarla sembrava una provocazione, ma ora se ne discute parecchio perché la proposta fatta da Report domenica sera è semplice: tassare al 33 per cento ogni prelievo o deposito di contante così da costringere tutti a usare le carte di credito. Ogni pagamento sarebbe tracciabile ed evadere il fisco diventerebbe quasi impossibile. Milena Gabanelli è convinta che si possa fare davvero, “è solo questione di volontà politica”.
Milena Gabanelli, il Giornale obietta che introdurre la tassa sul contante senza ridurre le imposte attuali darebbe la mazzata finale alla nostra vacillante economia.
Credo invece che l'economia ne avrebbe un grande beneficio, grazie allo sgravio fiscale immediato da noi proposto, nella misura di 50 euro al mese per ogni italiano. Il vantaggio di questo sistema è che stringerebbe i tempi del recupero dell'evasione, perché facendo emergere immediatamente il sommerso, aumenterebbe le entrate dello Stato fin dal primo mese e quindi renderebbe possibile da subito l'abbattimento dell'Irap e delle imposte sul reddito. Calerebbe la pressione fiscale e andremmo in direzione di una maggiore equità, come tutti desideriamo.
Francesco Boccia del Pd è sulla vostra linea. Ieri ha detto di portare avanti in Parlamento la vostra proposta e a dicembre aveva proposto di tassare al 10 per cento i movimenti in contanti, prelievi e depositi. Poi il progetto è stato abbandonato. Basterebbe?
Non basterebbe. Senza un meccanismo di compensazione sarebbe solo una tassa in più. Prendiamo l'esempio di un micropagamento in nero da 100 euro. Con una tassa del 10 per cento sui movimenti in contanti, continuerebbe a essere conveniente evadere. Alla scelta “121 con fattura o 100 in nero in contanti”, il cliente pagando in nero risparmierebbe comunque 10 euro perché avrebbe dovuto prelevarne 111 per ottenerne 100.... e 111 in nero è pur sempre meno che 121 con fattura. Dall'altro lato, facciamo il caso di un fisioterapista che non deve sostenere molte spese per materiali o servizi. Ogni euro di nero se lo mette in tasca, se invece lo dichiara, se ne mette in tasca circa la metà. La “tassa” sul contante per dissuadere l'operatore dovrebbe essere molto più alta del 10 per cento, altrimenti gli conviene fare lo sconto al cliente. Da giornalisti e profani abbiamo proposto un “dissuasore” pari al 33 per cento, ma altri più esperti di noi possono definire meglio le cifre.
Monti, nella puntata, spiega che sotto i 500 euro non si può fissare alcun limite, perché altrimenti si dichiarerebbe illegittima un taglio di banconota in circolazione .
L'obiezione del premier appare logica: ma anche con una limitazione ai pagamenti in contanti a 500 euro, rimarrebbero enormi buchi nella tracciabilità. Tant'è vero che in Gran Bretagna hanno proibito alle banche di distribuire le banconote da 500 a causa del fatto che la loro agenzia per la lotta alla criminalità organizzata ne ha riscontrato l'uso per scopi illeciti nel 90 per cento dei casi.
L'obiezione più immediata alla vostra proposta è che ci sono troppi italiani incapaci di affrontare il passaggio dalla moneta cartacea a quella elettronica.
Le carte di pagamento sono già 34 milioni (carte di credito) e 37 milioni (bancomat), il problema è la bassa frequenza di utilizzo, per pagamenti in media da 80 euro. Chi non è capace di usare le carte di solito è la popolazione più anziana, che può essere aiutata dai familiari e da una campagna di "alfabetizzazione" che dovrebbe necessariamente precedere l'introduzione di questo sistema. Se poi all'anziano si spiega che è meglio imparare a usare una carta che vedersi togliere servizi o alzare il ticket (come oggi avviene), sarebbe più propenso di quel che si crede.
Nella puntata intervistate rappresentanti dell'Abi. Pensi che ci siano poteri antitrust sufficienti in Italia per costringere le banche a ridurre le commissioni?
Vedremo, il procedimento è articolato. A fronte di un volume notevolmente superiore di utilizzo di strumenti di pagamento alternativi al contante, penso che anche le banche italiane calerebbero le commissioni. E se non lo fanno bisogna “persuaderle”.
Di fronte a queste soluzioni così nette c'è sempre chi dice: “Se fosse così semplice, qualcuno lo avrebbe già fatto”.
È soltanto questione di volontà politica, non crediamo ci siano problemi tecnici irrisolvibili.
Monti si è stupito che un programma giornalistico suggerisse anche misure di politica economica. Lo consideri uno sconfinamento o un aspetto del giornalismo d'inchiesta?
È un contributo. Crediamo che il giornalismo d'inchiesta venga svolto non solo denunciando, ma anche, qualche volta, proponendo.


Corriere della Sera 17.4.12
Sul fisco il predicatore Beppe Grillo recupera il vecchio qualunquismo
di Francesco Verderami


Gli evasori hanno trovato finalmente il loro nuovo santo protettore, il loro nuovo nume tutelare, quantomeno il loro nuovo patrocinante in Equitalia. Dicendo che se nel Paese tutti pagassero le tasse nel Palazzo si «ruberebbe il doppio», Beppe Grillo ha offerto uno scudo politico a quanti vorrebbero uno scudo fiscale, ha prodotto un altro argomento a sostegno della logica giustificazionista di chi non paga perché «tanto i servizi pubblici non funzionano», perché «tanto i dipendenti statali non lavorano», perché «tanto ho già dato troppo».
Altro che guitto, il leader del movimento Cinquestelle è un ideologo, e la sua non è una battuta teatrale ma un raffinato messaggio subliminale che per un verso tocca il cuore (e il portafogli) dei renitenti al Fisco, e per l'altro s'intrufola nelle coscienze di chi al fisco vorrebbe ribellarsi. Ai primi fornisce un alibi, un'attenuante, così da alleviare le loro coscienze e guadagnarsi magari le loro preferenze. Ai secondi — e con lo stesso fine — si propone come il capo di un moderno fronte qualunquista, parla cioè alla gente comune vessata dai tributi come fece sessantotto anni fa Guglielmo Giannini, che non a caso mise nel simbolo del suo movimento un omino schiacciato dal torchio delle tasse.
Perciò Beppe Grillo non è una novità ma solo il passato che ritorna, non è nemmeno l'emblema dell'antipolitica, semmai è l'epigono della politica spettacolarizzata, è l'eterogenesi dei fini, di campagne cioè che hanno fatto effetto e che però sono sfuggite a ogni tipo di controllo. Come un derivato finanziario, produce i suoi effetti devastanti in un sistema prossimo al default, e mettendo una calza alla telecamera della realtà, la distorce per offrire nuovi miraggi e per offrirsi come un pastore che comprende e perdona: perché pagare le tasse, se poi a Roma con quei soldi c'è chi si paga le vacanze? Strano, anche questa non sembra nuova. Non sarà che il predicatore è alla ricerca delle pecorelle leghiste smarrite?

Repubblica 17.4.12
L’unica risposta all’antipolitica
Il sistema politico largheggia verso se stesso, mentre è severo (in certi casi fino alla spietatezza) con i cittadini
di Carlo Galli


La democrazia in Italia è già sotto stress: non corre il rischio di esserlo. Questa è la notizia. Non buona. Oltre che da una crisi economica finora indomabile, la democrazia è messa a dura prova da una delegittimazione dei partiti e dell´intera sfera politica. Se il detonatore è stata la vergognosa caduta della Lega nel familismo amorale in salsa padana, ciò che è esploso era già di per sé una polveriera: ovvero, la controversa materia del finanziamento pubblico dei partiti. Di questo in verità si tratta, sotto le mentite spoglie del rimborso delle spese elettorali – un travestimento reso necessario dall´esigenza di bypassare la volontà espressa dal popolo sovrano in un referendum – , che ha portato nelle casse dei partiti, in diciotto anni, 2,3 miliardi di euro. Una somma molto superiore alle effettive spese elettorali, grazie alla quale si sono mantenuti apparati, giornali, raggruppamenti politici fittizi o estinti, oltre che famiglie eccellenti e tesorieri creativi.
Dunque i punti sono due: da un lato, la quantità eccessiva di rimborsi; dall´altro, l´opacità dell´erogazione e della gestione di ingentissime somme di denaro pubblico, affidate – in pratica discrezionalmente – a soggetti (i partiti) dall´incerto status giuridico (entità private non regolate da una legge che ne disciplini la democrazia e la trasparenza della vita interna). Il potenziale inquinante di questa massa di denaro incontrollata è altissimo; Margherita e Lega lo dimostrano.
E l´effetto delegittimante di queste prassi dovrebbe essere percepito da tutti, soprattutto dai politici.
Nessuno escluso. Perché se è vero che non tutti i partiti hanno distratto il pubblico denaro per le private finalità di qualche dirigente; se è vero che la trasparenza dei bilanci è diversa (su base volontaria) da partito a partito; se è vero che alcuni partiti cercano fonti di finanziamento anche e soprattutto nelle contribuzioni volontarie di militanti e di simpatizzanti; è anche vero che tutti i partiti hanno percepito quel pubblico denaro in quantità smodata, e che tutti i partiti definiscono "antipolitica" quello che, originariamente, è invece legittimo sdegno dei cittadini davanti all´evidenza che i sacrifici, in questo Paese, si fanno a senso unico. Il sistema politico largheggia verso se stesso, o almeno è più leggero nei tagli, mentre è severo (in certi casi fino alla spietatezza) con i cittadini.
A ciò si aggiunga che piove sul bagnato, che il discredito si aggiunge al discredito. Questo sistema politico, infatti, è non solo costoso e inquinato ma anche inefficiente: ha dato tanto buona prova di sé da dover affidare l´Italia a un gruppo di tecnici perché tentino (con tutti i limiti della loro azione) di non farla precipitare nel burrone sul cui orlo l´ha condotta la cattiva politica dei partiti. Il sistema politico non è un innocente capro espiatorio del malumore e della rabbia dei cittadini. Ha responsabilità gigantesche: se non giudiziarie, politiche.
L´antipolitica, quindi, nasce – ed è pericolosissima – come reazione alla mancata risposta politica (e non ragionieristica, venata di sufficienza, o di spirito didascalico e paternalistico) dei partiti alle domande, tutte politiche e tutte legittime, degli italiani: "Perché vi attribuite tanto denaro?", "perché non vi sottoponete a controlli seri e severi?", "come giustificate la spesa che la collettività sostiene per voi?". La risposta a queste domande non può essere solo che i partiti sono indispensabili alla democrazia e che quindi vanno in qualche modo finanziati per evitare che la politica cada nelle mani dei ricchi (il che, oltre tutto, è avvenuto, nonostante gli abbondanti trasferimenti di pubblico denaro alle forze politiche). Perché certamente è giusto che la democrazia sia un costo; ma deve essere anche un buon investimento - oculato, controllato, ed equilibrato per quanto riguarda il rapporto costi/benefici -. La democrazia deve "rendere", in termini di qualità della vita associata, di efficienza e di trasparenza decisionale, e al tempo stesso di apertura della politica sulla vita reale dei cittadini.
Non le prediche ma la politica è la vera risposta all´antipolitica. Il primo passo è il riconoscimento che l´antipolitica dei cittadini nasce dalla pessima politica dei partiti. E il secondo è un operoso ravvedimento: una riforma rapida, severa e inequivocabile dei rimborsi, che ne limiti molto l´entità e li sottoponga a controlli inesorabili. Il terzo, sarebbe ricominciare a pensare in grande; a conoscere e progettare la società italiana. Non è chiedere troppo. È esigere il giusto.

Repubblica 17.4.12
Il nuovo che avanza
di Alessandra Longo


Non ha tempo da perdere e non vuole farlo perdere agli elettori. Mario Spallone, 94 anni, già medico di Togliatti e fondatore di un impero sanitario, ritiene che la sua candidatura a sindaco di Avezzano (lo è già stato dal ´93 al 2002) sia quasi una scelta obbligata. Sentite cosa dice a «Il Centro»: «Trovo che i miei concittadini siano di fronte a due possibilità: o vinco io, con la mia lista, a prima botta, o perdono loro...». Ad Avezzano i candidati sindaci sono otto ma il vecchio medico si autopromuove: «Il mio non è un capriccio, la vita mi ha dato tanto. Solo io posso far tornare Avezzano una città-territorio». E il cosiddetto ricambio della classe dirigente? «Forse governerò per un mese o per un anno, o forse ancora per 5, ma solo mettere il mio nome sulla scheda darà respiro alla città». Modesto.

il Fatto 17.4.12
Usciamo dal gorgo
di Paolo Flores d’Arcais


La parte migliore dell’Italia rischia di essere trascinata in un gorgo dove l’unica alternativa alla disperazione sembra la rassegnazione o addirittura la fuga dalla realtà. Sempre più spesso, persone che mai avevano rinunciato alla passione civile, alla razionalità critica, all’impegno, annunciano agli amici l’intenzione di “dimettersi” dalla cittadinanza attiva: da anni non ascoltavano i Tg, perché megafoni “falsi e bugiardi” dell’establishment, ma ora non leggeranno più neppure quel quotidiano e mezzo che racconta il mondo vero, perché questo mondo vero è troppo disperante, alla ripugnanza del regime di Berlusconi è seguito un governo Napolitano-Monti-Passera che ne perpetua l’iniquità con uno stile meno sboccato e più accattivante, e poiché nessuna opposizione “repubblicana” si profila all’orizzonte, meglio “evadere” con qualche buon libro o addirittura qualche serie tv a lieto fine, altrimenti si finisce nel suicidio (e le cronache ci ammoniscono che non è un modo di dire).
Cosa si può rispondere, che non sia omiletico cataplasma consolatorio, per convincere questa Italia a “non mollare”? Perché la diagnosi, se non imbellettiamo la realtà, è davvero disperante. Manette agli evasori, abrogazione della prescrizione, pene “americane” per il falso in bilancio e l’intralcio alla giustizia, tolleranza zero verso il “concorso esterno”, restano un “va-de retro Satana” per quel governo che non ha esitato a salassare esodati e pensionati, poveri e ceti medi. A che serve ribellarsi, senza una forza politica che trasformi la rivolta in voti, e dunque in un governo di “giustizia e libertà”?
Verissimo: questa forza non c’è, e il catalizzatore che la farà nascere non si crea a tavolino. Ma intanto va coltivato il brodo di coltura in cui potrà cristallizzare: la rete di lotte diffuse, iniziative individuali, rivendicazioni locali, i club, la scelta di un giornale, l’esercizio della critica e della solidarietà sul territorio e nel web, dipendono esclusivamente da noi, dalla nostra “inventività civica”. Sembrano impotenti perché frammentarie e isolate. Ma dieci anni fa bastò il catalizzatore di un “resistere, resistere, resistere”ediun“con questi dirigenti non vinceremo mai” per ritrovarsi in piazza in oltre un milione. Oggi può avvenire lo stesso, a partire da una testata giornalistica, un sindacato che non si piega, un appello contro un’indecenza di establishment che passi il segno, il combinato disposto di questi o altri fattori. Non sappiamo quando, ma il brodo di coltura lo creiamo noi, quotidianamente.

La Stampa 17.4.12
Disoccupati e disperati. La camorra li “assume”
Napoli, sempre più incensurati in difficoltà “lavorano” per le cosche
di Antonio Salvati


NAPOLI Ad arricchire l’esercito della camorra anche i nuovi disoccupati, disperati per la perdita del lavoro
La malavita non chiede curriculum, le selezioni sono rapide e il salario spesso è invitante. Sì, ci sono i rischi «professionali», ma quelli si mettono in conto. Perché se non hai lavoro o lo hai perso, finire ad ingrossare le fila della criminalità è facile. Spesso anche troppo.
Così il numero di incensurati arrestati perché sorpresi, ad esempio, a trasportare un carico di droga o a custodire chili di stupefacenti è in aumento. Come il caso dell’idraulico fermato a Scampia alla guida della sua auto mentre trasportava un chilo di eroina. Ha 54 anni, moglie, figli e poco lavoro. O come il fabbro sorpreso, sempre a Scampia, mentre cercava di montare un sistema di porte blindate a protezione degli spacciatori. Poche ore prima erano state abbattute dai pompieri. Per gli inquirenti «la sua prestazione artigianale è stata considerata di favoreggiamento alle organizzazioni criminali» ed è stato arrestato.
«Allo stato non abbiamo una correlazione diretta tra la crisi e episodi del genere – spiega Giovanni Melillo, il procuratore aggiunto che guida la sezione criminalità comune della Procura di Napoli –. Ma in Campania ci sono circa 200 mila disoccupati cronici e una criminalità organizzata che, a differenza di altre, cura tutte le fasi del circuito criminale. Questo inevitabilmente coinvolge nella rete un numero di persone ampio e in continuo aumento».
«La fame spinge il lupo fuori dal bosco», spiega Pietro Ioia, presidente dell’Ex Don (gli ex detenuti organizzati di Napoli). Vede tanti operai specializzati che hanno perso lavoro, cinquantenni con famiglia, disperati, pronti a gettarsi tra le braccia della malavita. «È un periodo difficile per tutti – continua – e molti imprenditori si nascondono dietro la crisi per giustificare il lavoro nero. Cosa fare? Chi commette il primo reato si può ancora salvare. Anche se la tentazione è forte». Daniele Sansone, leader del gruppo musicale ‘A67, ha deciso di far raccontare la storia di Scampia al suo quartiere. Ne è nato «Scampia Trip», progetto multimediale (libro, brani e un documentario) che a marzo è diventato anche spettacolo teatrale. «Nel libro racconto la storia di un mio amico. Con i lavori saltuari guadagnava poco meno di 60 euro alla settimana, in nero, mentre nel suo palazzo una vedetta dei pusher ne guadagnava più del doppio, al giorno. Quando il lavoro è finito, lo ha trovato sotto casa».

l’Unità 17.4.12
Chi sono i conservatori
di Michele Prospero


L’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri merita di essere discusso con il necessario rigore. Non solo perché l’autore è un profondo conoscitore dei modelli di partito, e non uno dei tanti figuranti nel coro dell’antipolitica. Ma anche perché prospetta una soluzione alla crisi italiana che pare nostalgica e pericolosa , e quindi va contrastata con efficacia.

La diagnosi di Panebianco si mostra preoccupata per il clima irrespirabile che il senso comune antipolitico sta diffondendo. In giro circola una tonalità giustizialista rancorosa (contro i corrotti), cui si aggiunge spesso una salsa partecipazionista (il sorteggio, la rete) avversa alle antiche mediazioni. Al populismo delle manette, del sorteggio o della rete si affianca poi una rivolta contro l’incompetenza dei politici, che postula una alternativa tecnocratica ai partiti. Lo scenario è esattamente questo: il populismo e la tecnocrazia sono versioni speculari, non alternative che si dirigono intrepide oltre la moderna democrazia rappresentativa.
Sin qui l’analisi di Panebianco coglie nel segno. Dove cominciano ad affiorare problemi è quando egli non percepisce che già adesso la caduta del prestigio dei partiti abbraccia anche il repentino crollo della credibilità delle istituzioni, e quindi getta ombre sulla loro capacità di tenuta. Gli ultimi sondaggi, apparsi proprio sul Corriere, danno in un tremendo affanno la fiducia per il Parlamento. E ciò non stupisce. L’attacco ai partiti coinvolge sempre anche la rappresentanza e può determinare una esiziale crisi di legittimazione, il cui esito è incontrollabile e talvolta nefasto. Anche Panebianco, del resto, riconosce che in questo clima melmoso può uscire fuori qualsiasi cosa.
È vero che il suo editoriale corregge il tiro rispetto al semplicismo antipartito oggi dilagante, e precisa che dannosi non sono i partiti in quanto tali, ma i rimpianti fuori tempo del partito di massa alla Duverger, sepolto da anni nelle muffe della storia. Qui però Panebianco combatte contro i mulini a vento perché nessun politico, con un minimo di esperienza delle cose del mondo, si sognerebbe mai di resuscitare i cadaveri. Quando Bersani pone al centro del suo disegno una forma partito organizzata non va certo dietro i fantasmi. Egli parte dalle macerie ingombranti che il leaderismo assoluto ha provocato ovunque, anche a sinistra, e non da un astratto dover essere di chi è affezionato a una idea archeologica di partito.
Correggendo una inclinazione dannosa alla presidenzializzazione (anche del suo) partito, Bersani muove dalla analisi di un fallimento acclarato, non si agita per una calda nostalgia. Il partito personale o liquido non funziona, produce guasti, porta alla paralisi. Al declino. Per questo il segretario del Pd opera entro una ipotesi sistemica coraggiosa e tendenzialmente costosa: favorire un riallineamento delle culture politiche (anche della destra) per ristrutturare, dopo la catastrofe dei partiti personali e carismatici, le forze in campo, dotarle di una consistenza organizzativa degna di questo nome. È un interesse di tutta la democrazia. Non c’entra proprio nulla il velleitario inseguimento della partitocrazia, nello stile della prima Repubblica defunta. È invece un grande disegno di sistema.
Sbaglia perciò Panebianco a dipingere un quadro sfocato con degli incalliti sognatori del già visto. Neppure lui può negare la immensa gravità dei guasti storici prodotti dalla fioritura sterminata di partiti personali, carismatici, presidenzializzati. Il repertorio del leaderismo è vasto, la sostanza è la stessa: un capo e poi il deserto. Solo che, dopo essersi svegliato dal suo bel sogno coltivato sin dai primi anni ’90 una democrazia immediata, con un leader forte e un liquido partito debole di mero contorno Panebianco, invece di arrendersi al mondo reale così sfigurato e rinunciare all’effimero mondo di carta, ripropone esattamente la statica riedizione dello status quo, e la spaccia per il tempo nuovo da imporre.
Una democrazia funzionante per lui implica un capo o principe, o sindaco d’Italia che si avvale di debolissime strutture nella conquista di un trionfale consenso passivo, cioè riabilita le stesse scialbe figure che hanno prodotto l’immane catastrofe odierna. Per garantire l’autonomia del capo-decisore, i partiti devono tramutarsi in delle pallide ombre, senza profili organizzativi, percorsi condivisi di socializzazione, classi dirigenti, militanza civica. Il «ghe pensi mi» in versione appena un po’ aggiornata e incarnata da capi con dietro degli snelli «sherpa», come dice Panebianco, non sembra la risposta giusta alla crisi. Non erano solo gli interpreti ad essere sbagliati. Era lo spartito a fare difetto. La mancanza di una presa di atto della caduta sistemica, e non solo di maschere ridicole di capi assoluti, induce allo sviamento analitico. Perciò Panebianco confeziona come un dover essere etico la cruda realtà empirica di questi venti anni di follia. Forse un bilancio più rigoroso, condotto in termini di sistema cioè, avrebbe individuato le radici reali del fallimento dei partiti personali e favorito, dopo il diluvio, anche una diversa idea di ricostruzione. Quella di Bersani ci pare la più matura.

Corriere della Sera 17.4.12
Camusso: «È un errore rendere facili i licenziamenti»
di Francesca Basso


MILANO — «La Marcegaglia e Confindustria hanno perso quando hanno pensato che questo Paese ha bisogno di licenziamenti facili». È la sintesi di Susanna Camusso per una riforma del lavoro in cui «hanno perso i giovani, chiamati strumentalmente in risposta contro altri: si è fatto proprio pochino, poco sugli ammortizzatori e sui collaboratori ha fatto meglio il governo precedente». Il problema, per la leader della Cgil, è che «si continua a pensare che non si deve investire sul lavoro e sulla qualità del lavoro». Il prezzo maggiore lo stanno pagando i giovani. «Abbiamo imprigionato le ultime due generazioni di questo Paese — secondo Camusso — in un eterno presente, costringendole alla rincorsa quotidiana dell'oggi senza avere una prospettiva». Il punto di partenza del ragionamento è il libro di Edoardo Nesi, Le nostre vite senza ieri (Bompiani), di cui hanno parlato al Corriere in Sala Buzzati il segretario generale della Cgil, l'autore e il critico letterario Piero Gelli, coordinati da Dario Di Vico nell'incontro «Cosa lasceremo a chi ha 20 anni oggi». L'errore è che «per anni si è pensata la fine del lavoro — dice Camusso —. È stata teorizzata la flessibilità come libertà salvo poi trovarsi nella precarietà. Si è diffusa l'idea che l'identità arrivava da altro e il lavoro ha perso il ruolo centrale. Mentre nella vita di ognuno di noi il lavoro ha una dimensione fondamentale che si è persa per negare l'ideologia di classe, cancellando così ideologicamente l'identità delle persone». Una realtà che Nesi ha visto accadere: «Ho assistito alla realizzazione di un capitalismo morale, per il quale il lavoro è una dimensione totalizzante. Ora il lavoro non nasce più e chi fa impresa sono persone che si sono formate in un altro momento. In Italia non c'è ricambio. Ma la nuova impresa deve essere fatta da chi ha ora 20-30 anni perché sa capire i nuovi prodotti che potranno dare successo alle aziende».

Corriere della Sera 17.4.12
Permesso di soggiorno al clandestino che denuncia l'impresa
di Roberto Bagnoli


Stop al nullaosta per chi usa il lavoro nero Il premier: riforma più ampia e incisiva
ROMA — Gli imprenditori che usano lavoratori extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno d'ora in poi rischiano grosso: se condannati anche con sentenza non definitiva, oltre a una sanzione pecuniaria, non otterranno il via libera a successive attività mentre lo straniero che presenta denuncia sarà premiato con la possibilità di rimanere in Italia per tutto il periodo della durata del processo. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri di ieri approvando un decreto che recepisce una direttiva comunitaria di tre anni fa. Il dispositivo tuttavia, è stato approvato in forma preliminare in attesa di un parere delle commissioni parlamentari.
Per quanto riguarda la riforma del mercato del lavoro la corsa alle modifiche e agli emendamenti comincerà domani dopo l'incontro previsto per oggi tra il presidente del Consiglio Mario Monti e i partiti di maggioranza. La tormentata riforma, che ieri il premier è tornato a difendere definendola «più ampia e incisiva del previsto perché prevede una maggiore flessibilità per tutti i lavoratori e non solo per i nuovi assunti», torna a dividere in modo radicale le parti sociali mentre i tecnici del Senato ravvisano alcuni dubbi sull'articolo 18 il cui «nuovo rito processuale sui licenziamenti non assicura al lavoratore maggiori garanzie».
Anche il ministro del Welfare Elsa Fornero scende di nuovo in campo contro i critici alla «sua» riforma e, replicando alle imprese, spiega che «nessuno è stato tradito» e che con le modifiche all'articolo 18 «non si è data alle aziende la libertà di licenziare». Ma le distanze restano. La Cgil, in una dura nota, ha sostenuto che «il testo nel passaggio dal governo al Senato è peggiorativo per i lavoratori» e accusa la Confindustria di «utilizzare di tutto, anche la norma sui licenziamenti disciplinari illegittimi, pur di intervenire contro il reintegro». Per viale Astronomia invece, secondo le parole del direttore generale Giampaolo Galli, la «riforma va cambiata e in moltissimi punti, l'impianto è quello burocratico e del sospetto nei confronti dell'impresa».
Nonostante questo quadro surreale della situazione, non c'è molto tempo per evitare di fornire ai mercati altri argomenti per spingere lo spread verso l'alto. Maurizio Castro, relatore per il Pdl in commissione Lavoro del Senato è ottimista: «Con il vertice tra Monti e la maggioranza la partita al 95% si chiude, poi dovremo metterci a correre per mettere a punto le modifiche». La difficoltà tuttavia starà nel tradurre nel linguaggio complesso dei giuslavoristi l'accordo politico. I nodi più importanti riguardano le partite Iva, i contratti a tempo determinato, i contributi per gli autonomi, gli stagionali, le procedure per l'apprendistato e la formazione.

l’Unità 17.4.12
L’annuncio del presidente del Consiglio Mario Monti. «Assistenza per le vittime di stragi»
Decisione concordata con Giorgio Napolitano. Milani: «Gesto di grande valore istituzionale»
Piazza della Loggia: «Le spese del processo a carico del governo»
di Pino Stoppon


Per la strage di Brescia il governo si farà carico delle spese processuali. Lo ha annunciato ieri sera il presidente del Consiglio Mario Monti. La decisione presa dopo aver sentito Napolitano.

Quella decisione della Corte d’Assise d’Appello di Brescia era suonata come una beffa sommata al danno delle quattro assoluzioni che chiudevano così senza colpevoli il processo per la strage di Piazza della Loggia a trentotto anni dall’esplosione e dal sangue delle otto vittime rimaste in terra. Ci ha pensato così il governo a sanarla, dopo aver concordato l’intervento con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il Consiglio dei ministri, infatti, ha deciso di farsi carico di tutte le spese legali che
invece, secondo la decisione della Corte, sarebbe toccato ai familiari delle otto vittime pagare.
«Considerando che la presidenza del Consiglio si era costituita parte civile si legge infatti nel comunicato di Palazzo Chigi deve ritenersi che la condanna in solido delle parti civili al pagamento delle spese sia sostenuta legittimamente dal solo Stato, anche in virtù della vigente legislazione sulla tutela delle vittime del terrorismo». Uno status che si applica anche alle persone che hanno perso la vita in attentati terroristici.
TANTI GLI APPELLI AL GOVERNO
La decisione del premier Monti, arrivata nella tarda serata di ieri, raccoglie così i molti appelli che sono arrivati da sabato, dal momento della lettura da parte del presidente della Corte Enzo Platè. «Sarebbe bello se i partiti democratici, tutti insieme, pagassero le spese processuali il cui onere nella sentenza è caduto sulle spalle dei familiari delle vittime della strage aveva commentato a caldo Walter Veltroni Sarebbe un segnale di partecipazione verso le persone che più di ogni altro hanno sofferto e si sono battute per la ricerca della verità». Così, mentre sulla Rete si moltiplicavano gli appelli e Articolo21 lanciava una raccolta di firme per chiedere l’intervento del governo, la presidenza del Consiglio comunale di Bologna aveva deciso di devolvere una parte del proprio budget per costituire un fondo d’aiuto alle famiglie delle vittime. «Credo che un provvedimento d’urgenza sia la migliore risposta del governo e un segnale di vicinanza e solidarietà con le famiglie delle vittime della strage di Piazza della Loggia», spiegava ieri il deputato del Pd Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, che chiedeva al governo di intervenire con un decreto legge. «È insopportabile proseguiva Corsini che si sia ripresentata ancora una volta questa situazione, come è già accaduto dopo il processo per Piazza Fontana».
«Una beffa, è ridicolo, permettetemi di dirlo, che in questi processi che sono contro anche due uomini che rappresentavano lo Stato, si debbano anche pagare le spese processuali», aveva tuonato dopo la sentenza di assoluzione Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei Caduti di Piazza della Loggia. Che ora, saputo della decisione del consiglio dei ministri, non può che essere soddisfatto. «Ritengo si tratti di un gesto molto importante e positivo spiega un atto di grande valenza istituzionale. Al tempo stesso, però aggiunge mi auguro che sia modificata al più presto la legge in modo che simili episodi non si ripetano ancora e venga così evitato uno screditamento delle istituzioni di cui davvero non c’è bisogno alcuno».

La Stampa 17.4.12
Verità e rispetto, il dovere degli Stati verso le vittime
di Vladimiro Zagrebelsky


Ha suscitato emozione e persino indignazione la sentenza della Corte di Assise d'appello di Brescia nella parte in cui, assolvendo gli imputati della strage di Piazza della Loggia, condanna i familiari delle vittime, costituiti parte civile, a pagare le spese processuali. La gravità del fatto oggetto del processo ed anche il suo inserimento in una serie di vicende analoghe per natura e per esito processuale spiega la reazione ed anche l’iniziativa del governo per porre rimedio a quello che è sentito come un aspetto particolarmente ingiusto della sentenza. Una prima impressione potrebbe collocare questa reazione esclusivamente sul piano delle sensibilità morali. Già, se così fosse, si tratterebbe di questione grave. Ma v'è di più. Il rispetto per le vittime (qui sono vittime i familiari di coloro che vennero uccisi) è un dovere giuridico dello Stato, che assume molte forme. Qui non si tratta di un fatto riducibile alla sua dimensione patrimoniale, ma del possibile conflitto con obblighi che lo Stato ha assunto ratificando trattati internazionali in materia di diritti umani fondamentali. Mi riferisco al Patto dei diritti civili delle Nazioni Unite e soprattutto alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Entrambi i trattati impongono agli Stati di proteggere la vita delle persone e di impedire che esse siano vittime di torture o di trattamenti inumani. E l'obbligo dello Stato si estende, dopo che fatti di quel genere si siano verificati, al dovere di svolgere indagini efficaci per identificare e punire i responsabili assicurando alle vittime la possibilità di partecipare alle indagini, esserne informate e ricevere, se possibile, adeguata soddisfazione.
Un tal obbligo, che si dice «procedurale» non per sminuirne l'importanza, ma solo per distinguerlo da quello «sostanziale» di non uccidere e non torturare, è particolarmente grave quando sia messa in discussione la responsabilità di organi dello Stato nella commissione dei fatti o nella copertura dei responsabili. Ed è questo il caso nelle vicende legate alle stragi commesse in quella che è stata chiamata la «strategia della tensione». Lo stesso discorso, riferito all'obbligo dello Stato italiano di indagare e punire, va fatto anche per quel che riguarda il comportamento di forze di polizia nella scuola Diaz a Genova. Ma di ciò occorrerà discutere quando le sentenze saranno definitive. Per ora va solo detto che contro l'Italia pende già un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E proprio la Corte europea ha ieri pubblicato una sentenza che riguarda i diritti delle vittime. Si trattava di uno degli episodi più bui della guerra in Europa: l'uccisione di oltre 20.000 prigionieri di guerra polacchi nelle foreste di Katyn. Il 1˚ settembre del 1938 le truppe naziste invasero la Polonia. Qualche settimana prima l'accordo Molotov-Ribbentrop aveva previsto la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica. E il 17 dello stesso mese le truppe sovietiche entrarono nel territorio polacco. Ne seguì l'annessione di parte della Polonia all'Urss e 13 milioni di polacchi divennero cittadini sovietici. 250.000 polacchi vennero presi prigionieri. Nel 1940, 21.857 di essi, in gran parte ufficiali dell'esercito, vennero uccisi per esplicito ordine di Stalin e del Politburo sovietico. La conferma di quella responsabilità è venuta dai documenti pubblicati dal governo russo dal 1990, da ammissioni dei nuovi dirigenti russi ed anche da una dichiarazione ufficiale della Duma russa nel 2010. Ma per lungo tempo le autorità sovietiche (e, al seguito, quelle comuniste polacche) attribuirono la responsabilità del massacro ai nazisti. Le indagini sulle responsabilità vennero svolte dalle autorità russe solo dopo la caduta del sistema sovietico, ma si conclusero nel nulla, con una decisione di archiviazione del 2004, di cui i familiari delle vittime ancora non hanno potuto avere conoscenza. L'indagine della Procura Militare è stata segretata e vi sono affermazioni di giudici russi che lasciano addirittura aperta l'ipotesi che questa o quella vittima sia in realtà «scomparsa».
Ad una presa di posizione di accettazione della responsabilità politica di Stalin e del partito comunista, non ha fatto seguito, rispetto alle singole vittime, un’attività concreta ed efficace di chiarimento dei fatti, offerta di tutte la informazioni possibili, ricerca dei corpi, riparazione.
L'interesse della sentenza della Corte europea (non definitiva, poiché certo sarà appellata dal governo russo) risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto che il comportamento delle autorità russe nei confronti delle vittime (i familiari degli uccisi), ha costituito un trattamento inumano, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte non ha potuto esaminare il fatto in sé della strage, né la mancanza di indagini efficaci sulle responsabilità di singole persone, poiché tutto si è svolto prima che la Russia, nel 1998, ratificasse la Convenzione. Ma in questo come in altri precedenti casi, ha affermato che l'inerzia, il distacco burocratico, la reticenza, il rifiuto di considerare le legittime richieste delle vittime costituiscono una violazione grave, «inumana» dei diritti delle vittime.
Tutte le vicende sono diverse l'una dall'altra e questa storica della strage di Katyn è difficilmente comparabile ad altre, ma le vittime e i familiari delle vittime hanno tutti, allo stesso modo, diritto ad un rispetto effettivo da parte dello Stato. Anche quelle delle stragi che hanno insanguinato per anni la politica e le vite degli italiani.

l’Unità 17.4.12
Intervista a Nichi Vendola
«L’antipolitica ci fa fare un pauroso salto indietro»
Il presidente della Puglia: «Crisi sociale e crisi democratica in Europa hanno partorito il fascismo. A settembre gli “Stati generali del futuro»
di Maria Zegarelli


La ripoliticizzazione dei partiti e la loro rifondazione deve passare attraverso un nuovo agire collettivo in grado di restituire un messaggio di speranza». È questa la ricetta di Nichi Vendola contro l’antipolitica che monta nel Paese. Per niente ammaccato dalle notizie che lo vedono indagato il governatore pugliese è più che mai intenzionato a rilanciare l’azione politica del centrosinistra. «Dobbiamo interrompere questo cortocircuito antropologico con una coalizione di centrosinistra che sia una grande alleanza tra politica e nuove generazioni. A settembre convochiamo gli Stati generali del futuro e riconsegnamo un messaggio di nuova prospettiva».
Vendola, secondo lei bisogna rifondare i partiti. Secondo Angelo Panebianco invece, andrebbe rivisto il loro ruolo: non più principi, ma sherpa al supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale. Che ne pensa? «Non sono d’accordo. Dobbiamo partire dalla crisi che c’è in Italia e in Europa per capire dove si forma l’onda melmosa dell’antipolitica che rischia di montare e che rappresenta un pericolo per il futuro dello stesso vecchio Continente. Noi siamo in una fase in un cui il mix micidiale di disoccupazione di massa, recessione e caduta libera della credibilità della politica rischia di segnare un drammatico punto di cesura rispetto alle narrazioni civili e democratiche che hanno plasmato la nostra storia dal 1945».
Crisi della politica e crisi sociale: c’è davvero il rischio di un salto nell’abisso per la democrazia?
«Purtroppo ci sono precedenti. Crisi sociale e crisi democratica in Europa nel Novecento hanno partorito il fascismo».
Non crederà che siamo di nuovo di fronte a spinte di quel tipo? «Evocare questo precedente, sia chiaro, non deve servire a nevrotizzare la discussione ma a rendere più approfondita l’analisi di questa crisi. La spinta di nuovi populismi nazionali si aggancia allo smarrimento di grandi porzioni del Continente e può scommettere sullo smottamento del ceto medio e la precarizzazione della vita produttiva delle nuove generazioni. L’antipolitica può essere l’incubazione di una paurosa regressione, in forme modernissime si può prospettare un vertiginoso salto indietro perché la globalizzazione senza regole ha trasformato la politica in una contesa rumorosa e talvolta priva di oggetto». Il ministro Riccardi individua nei partiti la responsabilità di non aver saputo leggere e quindi governare questa globalizzazione.
«Con la globalizzazione la politica si è fatta paurosamente debole e la finanza paurosamente forte, mentre le destre hanno costruito il circolo del loro consenso mettendo insieme la baldanzosa apologia del primato della finanza globale e il mito delle piccole patrie. Hanno messo in atto la predicazione razzista, il paradigma della paura fondata sull’evocazione di fantasmi della diversità. Il punto di svolta è che l’Europa rischia di spezzarsi nella propria spina dorsale. Non c’è più l’Europa del welfare, di un racconto civile e sociale. È la prima volta che in Italia, ad esempio, le giovani generazioni si sentono globalmente escluse da un circuito produttivo, il ceto medio si va restringendo. In questo contesto i partiti sono stati arroganti perché deboli, voraci perché contavano poco».
Da dove si deve ripartire, allora?
«I partiti devono ricominciare ad affermare un proprio punto di vista autonomo, ripartendo dal concetto di bene comune e abbandonando questo asservimento alle lobby e ai gruppi di potere».
In realtà le vicende Lusi e Lega hanno dimostrato che molto spesso è stato l’interesse personale a determinare l’agire dei alcuni politici.
«La domanda che bisogna porsi è come mai vent’anni dopo tangentopoli siamo allo stesso punto? Forse perché vent’anni fa la corruzione veniva percepita come una patologia mentre oggi viene percepita come la fisiologia della vita pubblica. Ma dobbiamo raccontare tutta la verità: se nella politica c’è chi è corrotto vuol dire che nella società c’è chi corrompe ed aver fatto della politica l’unico imputato vuol dire non voler capire quanto profondo sia il guasto. Ci sono pezzi del sistema d’impresa, delle corporazioni, della burocrazia che hanno assediato la politica per interessi privati e non collettivi. Nella misura in cui tutto è mercato, tutto ha un prezzo, anche la politica si è organizzata come mercato elettorale tanto è vero che le campagne elettorali sono diventate giostre faraoniche di spreco di risorse».
E questo è uno temi su cui si dibatte di più. C’è chi sostiene che bisognerebbe abolire i finanziamenti pubblici. «Si dovrebbe stabilire un tetto massimo di spesa per le campagne elettorale, si deve procedere subito con una legge sulla trasparenza dei bilanci, che devono dimagrire e si deve tornare ad un regime di sobrietà. Ma quando abbiamo fatto tutto questo rischiamo di aver operato in superficie se la politica non si riappropria di un suo punto di vista autonoma su modello di sviluppo, crescita, etica, organizzazione dei beni pubblici. Spetta alla politica indicare i vincoli e limiti di una crescita economica che non può mai assumere contorni di neoschiavismo e di arretramento dei diritti universali».
Intanto, mentre i partiti si interrogano su come riacquistare la fiducia dei cittadini Beppe Grillo avanza. «L’antipolitica non è l’antidoto alla cattiva politica è la sua variante più pericolosa perché mette sul piedistallo l’epopea e la retorica di un demiurgo, di una personalità che propone il proprio carisma come una sorta di esorcismo e attraverso le bestemmie salvifiche pensa di voler far sparire il mondo dei cattivi. Per questo serve un’alternativa forte di buona politica che metta insieme il valore della democrazia e la centralità di una giustizia sociale».

l’Unità 17.4.12
Festa di compleanno per Papa Ratzinger
Niente dimissioni «finché Dio vorrà»
Festa «bavarese» nel Palazzo apostolico per l’85 ̊ compleanno di Papa Ratzinger che conferma il suo impegno alla guida della Chiesa. Aperto un sito per gli auguri via email. Giovedì 19 aprile il suo settimo anno di pontificato
di Roberto Monteforte


«Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta. So, però, che la luce di Dio c’è, che Egli è risorto, che la sua luce è più forte di ogni oscurità, che la bontà di Dio è più forte di ogni male di questo mondo. E questo mi aiuta a procedere con sicurezza. Questo aiuta noi ad andare avanti, e in questa ora ringrazio di cuore tutti coloro che continuamente mi fanno percepire il Sì di Dio attraverso la loro fede». Con queste parole Benedetto XVI ha concluso ieri mattina la sua omelia alla messa privata celebrata nella Cappella Paolina per il suo 85mo compleanno.
Agli amici, ai vescovi tedeschi e alla delegazione giunta dalla sua Baviera, Papa Ratzinger ha parlato dei «segni» offerti alla sua vita dai santi che si festeggiano il 16 aprile, giorno del suo compleanno: la semplicità che ha contrassegnato l’esistenza di santa Bernadette, la veggente di Lourdes. Perché con il nostro «sapere e il fare» ha spiegato non dobbiamo perdere «lo sguardo semplice del cuore, capace di vedere l'essenziale». Dall’altro santo, il francese Benedetto Giuseppe Labre, «viandante europeo», ha tratto il senso di una fraternità da vivere «perché in Dio cadono le frontiere, solo Dio fa cadere le frontiere e lo smantellamento delle frontiere ci unisce e guarisce». Sono i «segni» che ha caratterizzato anche il suo pontificato.
Nelle parole dell’anziano pontefice, pronunciate alla vigilia del suo settimo anno di pontificato che verrà celebrato il prossimo 19 aprile, vi è la conferma della determinazione di Papa Ratzinger a continuare a guidare la Chiesa universale davanti al «male» del mondo che non la risparmia. Nessun abbandono è all’orizzonte. La sua agenda è già fitta: dall’Incontro mondiali per le famiglie di fine maggio a Milano, alla visita ad Arezzo, quindi il viaggio previsto per metà settembre in Libano. L’anno prossimo sarà in Brasile per le Giornate mondiali della gioventù. Poi il Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione e l’Anno della Fede. Questa estate è prevista l’uscita del suo terzo libro su Gesù dedicato all’infanzia del Nazareno.
Attivo e lucido, malgrado l’età e i malanni, il più anziano pontefice dalla fine del XIX secolo, ieri, si è visto festeggiare alla «bavarese» nella Sala Clementina dai giovani in costume e da una delegazione guidata dal ministro e presidente della Baviera Horst Seehofer.
Auguri al vescovo di Roma sono giunti anche dai parroci della Capitale. «Te volemo tutti bene» ha detto in romanesco a nome di tutti a Radio Vaticana, padre Lucio Maria Zappatore, parroco a Torrespaccata. Di buon mattino è giunto quello inviato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano a nome anche del popolo italiano e quello del cancelliere tedesco, Angela Merkel. È stato aperto anche un «sito» in Vaticano per raccogliere i messaggi di augurio rivolti al pontefice. Particolare l’augurio inviato a nome delle Acli dal presidente Andrea Olivero. «Inquieti e mai rassegnati all'esistente» è il titolo del video messaggio realizzato per Famiglia Cristiana. «Le auguriamo ancora anni di gioventù come quelli che ci ha donato afferma Olivero anni nei quali Lei possa spronarci a essere inquieti, di quella Santa inquietudine di Cristo che ha manifestato sin dall'inizio del Suo pontificato». «Noi cercheremo ha aggiunto di non rassegnarci all'esistente, ma di andare, forti degli insegnamenti della Chiesa e forti del Vangelo, a testimoniare la nostra fede nella società».

il Fatto 17.4.12
Ratzinger e quelle dimissioni possibili
Monsignor Bettazzi torna a parlarne come di “un’ipotesi concreta”
di Luca de Carolis


Quell’ultimo tratto di strada “potrebbe essere quello fino alle dimissioni”. E comunque, Benedetto XVI potrebbe lasciare “solo dopo aver finito il libro su Gesù”. Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, descrive come un’ipotesi concreta le dimissioni di Joseph Ratzinger. E lo dice ai microfoni di “Un Giorno da pecora”, programma su Radio2 dove già due mesi fa aveva parlato di un “Papa pronto a dimettersi, perché molto stanco”. Non solo per l’età: “Di fronte ai problemi che ci sono, forse anche di fronte alle tensioni che ci sono all’interno della Curia, potrebbe pensare che di queste cose se ne occuperà il nuovo pontefice”. Una replica, neanche troppo indiretta, a smentite, versioni ufficiali e silenzi imbarazzati sulle lotte di potere in Vaticano, puntualmente raccontate dal Fatto. Scontri a colpi di documenti e veti incrociati, che hanno amareggiato e logorato Benedetto XVI. Un’amarezza lucida, su cui peserebbero anche ricordi dolorosi. Pochi giorni fa, a Tg2 dossier, ancora Bettazzi aveva raccontato possibili e fragorose verità: “Il Papa potrebbe dare le dimissioni, prima che arrivi quel momento in cui non è più il pontefice a guidare la Chiesa. Ha visto gli ultimi anni di Giovanni Paolo II, e sapeva che lui voleva dare le dimissioni ma non glie-l’hanno lasciate dare. Io gli auguro lunga vita e lucidità, ma se Benedetto XVI si accorgesse che le cose stanno cambiando, avrebbe il coraggio di dimettersi”. Ratzinger insomma non accetterebbe di continuare da simbolo vivente, svuotato però di effettivi poteri. E potrebbe lasciare, prima che a governare di fatto la Chiesa sia qualcuno non eletto al soglio pontificio . Ieri il vescovo di Ivrea ha ribadito: “Il Papa è molto stanco, e può darsi che dica: ‘Piuttosto che un pontefice stanco, lasciamo che ne venga uno nuovo, che continui con vigore la purificazione della Chiesa che Ratzinger ha iniziato e che gli sta tanto a cuore’”. Ma quando? Bettazzi precisa: “Il pontefice vuole prima finire il libro su Gesù, gli preme tanto. I giornali dicono che lo finirà a dicembre , ma può essere anche che approfitti dell’estate per finirlo prima”. Poi da scrivere ci sarebbero il futuro di un Papa e della Chiesa. Guidata da un intellettuale che potrebbe anche scegliere di dedicarsi solo ai suoi libri. Bettazzi cita come possibili papabili “Scola, Ravasi, Bertello”. Ma conclude: “Lasciamo fare ai cardinali”. Chiaro e semplice. Come certe verità difficili da dire.

il Fatto 17.4.12
Welby, suicida di seconda classe
di Marco Politi


Capita che un prete celebri messa sulla tomba di un suicida. Non dovrebbe, perché darsi la morte è peccato capitale. Ma una pia bugia, da decenni, ammanta il rito della presunzione che il suicida sia stato “obnubilato” nel momento supremo. Che non sapesse, insomma, cosa stesse facendo e non volesse trasgredire coscientemente un comandamento divino. Ma Antonia Pozzi, la poetessa, alla cui memoria il cardinale Gian-franco Ravasi celebra stasera una messa nella chiesa parrocchiale di Pasturo, poco distante da Lecco, sapeva bene verso dove andava. Stagione dopo stagione la giovane nata nel 1912, che si ucciderà a soli 26 anni, ha duellato con il pensiero della morte, del vuoto, di Dio e dell’assenza di Dio. “Per troppa vita che ho nel sangue tremo, nel vasto inverno”, scriveva. E quattro anni prima di morire, impigliata nel dolore di vivere, lanciava il suo grido: “Non avere un Dio, non avere una tomba, non avere nulla di fermo – ma solo cose vive che sfuggono – essere senza ieri, essere senza domani, e accecarsi nel nulla – aiuto – per la miseria che non ha fine”.
Al Corriere della Sera il cardinale ha confidato che l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei suicidi oggi “presta molta attenzione alle dimensioni interiori della tragedia”. La Chiesa, ha spiegato, non può accettare superficialità o disprezzo dei valori della vita e in quei casi non può ricordare il morto con una “celebrazione esplicita”, E tuttavia, ha soggiunto, la poetessa porta con sé la storia di una “forte personalità e di intensa ricerca interiore, travolta da una sensibilità estrema”.
RAVASI È UOMO di cultura, anzi attualmente è il “ministro della Cultura” in Vaticano. Suo è il programma di dialogo internazionale tra cattolici, seguaci di altre religioni e personalità esplicitamente agnostiche. L’iniziativa chiamata Cortile dei Gentili, stimolata da un’idea di Benedetto XVI. Ma Ravasi è ancora di più: l’esponente di quella tradizione ambrosiana, nutrita del pensiero di Carlo Maria Martini e del suo successore Dionigi Tettamanzi, tradizione religiosa che ha sempre voluto che la Chiesa si misurasse con la modernità e non rimanesse impigliata nei commi aridi delle leggi ecclesiastiche.
Celebrare messa per Antonia Pozzi, che a lungo esplicitamente ha meditato e scritto di essere “entrata nella strada del morire”, è un gesto di frontiera. O meglio, il gesto delicato di un porporato, che spera di spingere la Chiesa a varcare le frontiere del passato inserendo i suicidi anche ecclesialmente nel-l’unica dimensione possibile: l’affetto e la misericordia.
Un gesto piccolo o un gesto profetico. Sivedrà. Madinanziallecoscienze degli uomini e delle donne di oggi e – per chi crede – di fronte alla misericordia divina non possono esistere suicidi di prima e di seconda classe. La tomba di Pergiorgio Welby chiede ancora conto alla Chiesa di Roma della crudele freddezza con cui l’allora presidente della Cei e cardinal Vicario Camillo Ruini negò i funerali religiosi a chi volle accettare con coraggio l’inevitabile morte, rifiutando di restare attaccato degradato ad una macchina. Anche Welby era di una “sensibilità estrema”. Dal suo letto, paralizzato progressivamente dalla Sla, scrisse al presidente Napolitano: “Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere vive funzioni biologiche”. L’eutanasia, soggiunse, “non è morte dignitosa, ma morte opportuna nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ‘ciò che spinge verso il porto’. Per Plutarco la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto”. Welby era a suo modo poeta. Ma non è questo che conta. Certamente nel suo arrovellarsi sul vivere e il morire e sul non sottomettere la propria inesorabile sofferenza al dominio anonimo della tecnologia seppe trovare accenti da filosofo.
Il destino di Antonia Pozzi e Piergiorgio Welby non possono essere artificialmente disgiunti. Cresce nelle coscienze dei fedeli e nella sensibilità contemporanea l’esigenza che la Chiesa cattolica emerga dallo stato di fossilizzazione in cui è scivolata.
CRESCE nelle coscienze il rifiuto delle ipocrisie. I riti solenni per il credente omosessuale Lucio Dalla mentre continua l’accanimento vaticano nel condannare le unioni omosessuali e nel bloccare ogni legge sulle coppie di fatto etero o gay. L’ipocrisia di una gerarchia che insiste nel negare la comunione ai divorziati risposati e chiude gli occhi quando sempre più parroci ignorano apertamente il divieto. L’ipocrisia nel demonizzare la fecondazione artificiale mentre nessuna clinica cattolica seria si azzarda a usare quel “preservativo bucato”, che per il Vaticano dovrebbe essere l’unico strumento per trasferire il seme del marito alla moglie. C’è una Chiesa del quotidiano che è molto più avanti della gerarchia istituzionale. Pochi mesi dopo la morte di Welby il cinquantatreenne Giovanni Nuvoli, ex arbitro di calcio anch’egli da tempo immobilizzato per una grave forma di sclerosi laterale amiotrofica, si lasciò morire rifiutando cibo e bevande. Ad Alghero don Potito Niolu non chiuse la porta della parrocchia. Celebrò pubblicamente il giusto funerale religioso, esclamando che “Giovanni è stato schiodato dalla croce che ha portato per sette anni”. Roma attende ancora che sulla tomba di Welby un cardinale vada a pregare e celebrare messa come chiese invano la madre di Piergiorgio, cattolica di vecchio stampo, ferita gratuitamente nella sua fede.

Corriere della Sera 17.5.12
Chiesa e diritti umani. Una lunga diffidenza
Le prime aperture, il Vaticano II, i dubbi di oggi
di Paolo Mieli


È un dato acquisito che la Chiesa di oggi presenti il rispetto dei diritti umani come una — tra le più importanti — delle linee guida della presenza cattolica nel mondo. E che faccia risalire questo suo impegno non soltanto all'enciclica Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, con l'esplicito apprezzamento per la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1948, ma addirittura alla presa di posizione di Papa Innocenzo III a favore della Magna Charta Libertatum (1215). Però tra l'apprezzamento pontificio per il documento con cui, otto secoli fa, il re inglese Giovanni Senza Terra definì i limiti al potere monarchico e l'enciclica di papa Roncalli è accaduto qualcosa che rende meno lineare questo lungo tragitto. E che merita di essere approfondito.
Due secoli fa si sono addirittura aperte delle voragini lungo questo itinerario, a seguito della Rivoluzione americana e, soprattutto, di quella francese. All'atto della costituzione degli Stati Uniti sembrò per qualche anno che i problemi avrebbero potuto essere evitati. Nella Dichiarazione di indipendenza americana del 4 luglio 1776 — così come nelle carte costituzionali di tre dei tredici Stati che si federarono per dare vita agli Usa (Virginia, Pennsylvania, Maryland) — figurava un esplicito richiamo ai fondamentali diritti naturali dell'uomo, inalienabili e imprescrittibili. Tra i firmatari di quella Dichiarazione c'era il cattolico Charles Carroll (futuro senatore). Suo cugino, John Carroll — ordinario di Baltimora, primo vescovo americano e, in quanto tale, il più alto rappresentante della Chiesa in quelle terre — espresse pubblica lode nei confronti della Dichiarazione americana, nonché di quel che essa conteneva in materia di diritti dell'uomo, mettendo in risalto il fatto che in essa fosse esplicito il richiamo a Dio, quale padre dei diritti stessi. Daniele Menozzi nel libro Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, che esce il 10 maggio dal Mulino (pp. 280, € 22), nota come Carroll, nei suoi sermoni, dicesse anche qualcosa di più: «Pur non prendendo esplicita posizione sul separatismo del nuovo Stato», il vescovo asseriva che «nella specifica situazione nordamericana, segnata dal pluralismo delle denominazioni cristiane, si può stabilire tra di esse un patto civico allo scopo di garantire la pace sociale». In questo modo tutte le confessioni, riconoscendone l'origine divina, accettavano «gli istituti giuridici necessari a un'ordinata e armoniosa organizzazione del consorzio civile».
La gerarchia cattolica in terra d'America fece dunque suoi — con infinite implicazioni — i diritti sanciti nella Dichiarazione d'indipendenza. Anche se va specificato che, se si fosse opposta, avrebbe messo a repentaglio — per le genti da essa rappresentate, vale a dire una minoranza — i vantaggi di cittadinanza assicurati da quel testo. Ma l'adesione della Chiesa ai principi contenuti nella Dichiarazione non appare, neanche a leggere tra le righe di ciò che fu detto e scritto da parte cattolica, ispirata in alcun modo da «criteri di prudenza».
Il Pontefice Pio VI (il cesenate Giovanni Angelo Braschi) non si pronunciò sulla benedizione data da Carroll alla Dichiarazione d'indipendenza americana e conseguentemente avallò l'approvazione di quel che essa conteneva in materia di diritti umani. Papa Pio VI, all'epoca dei pronunciamenti del vescovo Carroll, era asceso al soglio pontificio da poco più di un anno e già intravedeva problemi ben più urgenti con i quali si sarebbe dovuto cimentare nel decennio che avrebbe preceduto la Rivoluzione francese. Problemi che gli venivano da Paesi cattolici: il Granducato di Toscana, in cui Leopoldo I (appoggiato dal vescovo di Pistoia Scipione Ricci, nipote dell'ultimo generale dei gesuiti) voleva imporre una radicale riforma religiosa; l'Austria di Giuseppe II che, a seguito dell'editto di tolleranza del 1781, si era spinta fin quasi alla rottura con la Chiesa di Roma. Poi fu la volta della Francia. E della Rivoluzione.
All'inizio, secondo Menozzi, non era scontato che i rapporti tra la Chiesa e la Francia rivoluzionaria evolvessero in modi così tragici. Anche se l'urto tra Chiesa e Rivoluzione fu violento sin dalle prime settimane: la Dichiarazione votata dall'Assemblea nazionale costituente nell'agosto del 1789, che sarebbe stata approvata in ottobre dallo stesso Luigi XVI, pur essendo, per quel che riguarda i diritti dell'uomo, simile a quella americana di 13 anni prima, toglieva di fatto alla Chiesa privilegi di cui essa aveva a lungo goduto. Cosicché, in un Paese a stragrande maggioranza cattolica, scrive Menozzi, sgretolava «il nesso tra appartenenza politica e appartenenza religiosa». Nella Dichiarazione francese, prosegue lo studioso, l'assetto sociale basato sui diritti umani appariva «il frutto di un atto di autodeterminazione di individui che si sottraggono alla sottomissione verso norme fissate per regolamentare la vita associata dal cristianesimo e in particolare dalla loro interpretazione a opera dell'istituzione ecclesiastica, unica detentrice delle leggi iscritte da Dio nella natura». Ma il mondo cattolico non fu unanime nel giudicarla, anzi, proprio sui diritti umani, si ebbe subito una divaricazione all'interno della Chiesa. O, per meglio dire, uno scontro, per giunta uno scontro tra fratelli. L'arcivescovo di Bordeaux, Jerome Champion de Cicé, si schierò dalla parte della Rivoluzione e aderì immediatamente al progetto di dichiarazione, affermando che con quella carta si stava definendo quel «che avrebbe rappresentato un modello per l'Europa intera e la posterità». Talché, a suo avviso, occorreva fornire alle popolazioni uno strumento con cui misurare la conformità delle leggi a quelle «verità prime» le quali «vengono dalla natura che le ha deposte in tutti i cuori e che le ha rese inseparabili dall'essenza e dal carattere dell'uomo». Suo fratello, il vescovo di Auxerre Jean-Baptiste de Cicé, disse invece che era assurdo porre in quei termini la questione dei diritti umani e che «l'esperienza nordamericana non poteva costituire un modello perché in quel giovane Paese le fortune erano distribuite in maniera livellata», cosicché sarebbe stato molto «pericoloso per l'ordine sociale inculcare l'esistenza di diritti a una popolazione incolta e sofferente per le diseguaglianze economiche», prima che si fosse provvisto a diminuire gli squilibri. Provò a individuare una terza via tra le due posizioni un parroco rivoluzionario, Henri-Baptiste Grégoire, che propose di far seguire la Dichiarazione dei diritti da una proclamazione dei rispettivi doveri. Il canonista Armand-Gaston Camus presentò una mozione in tal senso, ma l'Assemblea la respinse per 570 voti contro 433. Quei 433 suffragi configuravano sì una minoranza, ma erano la prova di un ampio spazio di manovra ancora esistente all'interno dell'assemblea rivoluzionaria. L'abate Jean-François-Ange d'Eymar de Walchrétien iniziò allora una battaglia, non isolata, per ottenere che il cattolicesimo fosse proclamato religione di Stato pure in un contesto di «tolleranza» nei confronti degli altri culti. Fu sconfitto. Ma quando, nel luglio del 1790, fu votata la costituzione civile del clero, i cattolici si divisero ancora in «costituzionali» (coloro che ritenevano esserci ancora margini per «trattare») e «refrattari» (che negavano l'esistenza di ulteriori margini per giungere a un compromesso).
Nel frattempo, a Roma, Pio VI, pur esprimendo nell'allocuzione del 29 marzo 1790 la sua perplessità su alcuni passaggi della Rivoluzione, si muoveva ancora con grande circospezione. La condanna divenne esplicita nel «breve» apostolico Quod aliquantum del 10 marzo 1791. Pio VI diceva in quell'occasione che «ritenere tutti gli uomini uguali e liberi» costituiva un atto contrario non solo alla ragione, ma anche alla dottrina cattolica. Secondo il Papa, «l'uguaglianza e la libertà votate da codesta Assemblea mirano a rovesciare la religione cattolica» dal momento che, impedendo al cattolicesimo di assumere la qualifica di religione «dominante», toglievano alla Chiesa il diritto di pretendere che lo Stato costringesse «a professare l'obbedienza cattolica quelli che col sacramento del battesimo da loro ricevuto si sono alla Chiesa medesima di per sé assoggettati».
Poi ci fu un secondo «breve» del Pontefice (aprile 1791), nel quale Luigi Fiorani e Domenico Rocciolo in Chiesa romana e rivoluzione francese (edito dall'École Française de Rome) hanno individuato il punto di non ritorno nei rapporti tra Roma e Parigi. Tuttavia nel mondo cattolico si muoveva ancora la corrente dei «possibilisti», i quali suggerivano di tenere una porta socchiusa alla Rivoluzione: Nicola Spedalieri, teologo siciliano che aveva pubblicato un De' diritti dell'uomo, l'ex gesuita Gian Vincenzo Bolgeni (figura a lungo studiata da Renzo De Felice), il cardinale Stefano Borgia ne erano gli alfieri. Il «possibilismo», in quel frangente, non riuscì a imporsi. E però il dibattito che si sviluppò sul libro di Spedalieri (furono dati alle stampe ben venticinque titoli che si occupavano di quel testo) sortì l'effetto di gettare un fascio di luce proprio sui diritti dell'uomo. Il seme era gettato. Furono gli eventi a impedire che germogliasse come avrebbe potuto.
Nel 1789 il clero francese si era schierato in massa dalla parte della Rivoluzione. Ma nonostante ciò, pochi mesi dopo, i rapporti tra Chiesa e Rivoluzione si tesero all'inverosimile. Nel febbraio 1790 la Rivoluzione impose la secolarizzazione degli ordini non caritativi; in luglio la costituzione civile del clero. In settembre pretese dal clero un giuramento di fedeltà alla nuova Costituzione rivoluzionaria. La rottura con la Chiesa di Roma fu a questo punto inevitabile: avvenne — come si è detto — una prima volta nell'aprile del 1791 e fu poi definitiva nel maggio dell'anno successivo. Nell'agosto del 1792, in Francia, gli ecclesiastici che avevano rifiutato il giuramento vennero condannati alla deportazione e in settembre vennero uccisi trecento sacerdoti. Più di trentamila preti furono costretti a fuggire all'estero. In settembre la Francia rivoluzionaria occupò i territori pontifici di Avignone e del Contado Venassino. Nel 1793 fu ufficialmente soppresso il cristianesimo e instaurato il «culto della dea Ragione». In marzo si ribellò la Vandea e all'inizio del 1794 la rivolta fu stroncata nel sangue. Poco dopo fu la fine del Terrore. Ma non ebbero termine i guai di Pio VI.
Nel 1796 Napoleone attaccò lo Stato pontificio e costrinse il Papa all'umiliante armistizio di Bologna. A cui seguì l'ancor più tragico (per la Chiesa) trattato di Tolentino. Nel febbraio 1798 il Direttorio fece occupare Roma: fu deposto il Pontefice, fu abolita la sua sovranità temporale e proclamata la Repubblica. Pio VI riparò a Siena, poi nella certosa di San Casciano; successivamente fu deportato a Torino e infine nella fortezza di Valence, prigione in cui morì il 29 agosto del 1799. In quel momento sembrò che per la Chiesa fosse tutto finito e da più parti si parlò di Pio VI come «ultimo Papa». Il conclave per l'elezione del suo successore si tenne a Venezia, sull'isola di San Giorgio, sotto la protezione dell'imperatore austriaco Francesco II. Durò oltre tre mesi, dal 1° dicembre 1799 al 14 marzo del 1800, quando la maggioranza dei voti cardinalizi confluì su Luigi Barnaba Chiaramonti, che prese il nome di Pio VII. Il nuovo Pontefice, rientrato a Roma, provò a convivere con Napoleone e per un po' sembrò che ci riuscisse; poi, però, le relazioni tra Francia e Chiesa degenerarono nuovamente e, nel 1808, l'imperatore francese ordinò l'occupazione della città eterna per proclamarne in seguito l'annessione all'impero (1809). Successivamente Pio VII fu deportato a Fontainebleau e costretto a firmare un concordato capestro. Per sua fortuna nell'ottobre del 1813 Napoleone fu sconfitto a Lipsia, cosicché Pio VII poté rientrare a Roma. Poi, dopo la definitiva uscita di scena del Bonaparte (1815), la Chiesa riprese il suo corso. E la memoria della Rivoluzione restò come il ricordo di un incubo.
Fu il filosofo Hugues-Félicité-Robert de Lamennais che, dalle colonne di «Avenir», ripropose, negli anni Trenta, le tesi del cattolicesimo liberale, ricevendo pronta condanna dal nuovo papa Gregorio XVI. Lamennais tenne il punto con il libro Parole di un credente ed ebbe un vasto seguito tra i cattolici belgi. La Chiesa, in un certo senso, si adeguò al nuovo. «Era evidente», scrive Menozzi, «che il papato aveva ribadito la condanna per un'organizzazione della società imperniata sul riconoscimento dei diritti dell'uomo; ma, costretto a fare i conti con la concreta realtà politica, continuava a non allinearsi pienamente alla prospettiva di chi chiedeva che sempre e dovunque la Chiesa a quell'assetto civile si opponesse in nome dei diritti di Dio».
Di fatto l'autorità ecclesiastica tollerava regimi che si richiamavano all'eredità dell'Ottantanove. Si trattava di uno spiraglio del quale presto approfittarono alcuni importanti settori del mondo cattolico. Ne costituiscono riprova alcune pagine di grande attenzione alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo contenute nella Filosofia del diritto (1843) di Antonio Rosmini. L'elezione (1846) di Pio IX, Giovanni Maria Mastai Ferretti, sembrò, sulle prime, assicurare «una consonanza romana» a queste posizioni. Nel novembre 1847 il mito di un Pio IX «riformatore, liberale e democratico» — con varie sfumature ampiamente diffuso in tutta Europa — raggiungeva anche gli Stati Uniti: al Broadway Tabernacle di New York fu organizzata, «senza distinzione di confessione religiosa e di partito», una manifestazione in onore di papa Mastai presieduta dal sindaco della città, William Brady. In tale occasione non solo si inneggiò al nuovo Pontefice, «che promuoveva libertà costituzionali, facendosi alfiere della libertà in tutto il vecchio continente», ma si giunse addirittura a definirlo «coraggioso sostenitore dei diritti dell'uomo».
La stagione di Pio VI, Pio VII e Gregorio XVI sembrava ormai lontana, adesso si annunciava un'era liberale. Ma durò poco. La rottura del 1848 tra Carlo Alberto e papa Mastai Ferretti (che si sottrasse dalla guerra all'Austria) nonché la Repubblica romana del 1849 riportarono la Chiesa alle pulsioni di cinquant'anni prima. Nell'enciclica Nostis et nobiscum, pubblicata dall'esilio di Portici nel dicembre 1849, Pio IX, «fornendo una lettura della situazione contemporanea che si richiamava alla genealogia degli errori moderni, denunciava quegli assetti costituzionali che erano scaturiti dai sommovimenti quarantotteschi come antitetici ad una organizzazione della società rispettosa dei diritti prospettati dalla Chiesa per la vita collettiva». E, nell'allocuzione tenuta al concistoro segreto del 18 marzo 1861, all'indomani della proclamazione del Regno d'Italia, il Pontefice definì l'incompatibilità del cattolicesimo «con una civiltà moderna», che presentava come «la causa dei mali che funestavano il presente». Condannò altresì «la proclamazione di diritti antitetici a quelli della Chiesa che ogni regime doveva garantire all'interno del suo ordinamento: l'introduzione della libertà di religione, di stampa, di manifestazione del pensiero e l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, indipendentemente dal culto, nell'accesso ai pubblici impieghi e alle scuole». Insomma, proprio perché essa riproponeva il modello elaborato dalla Rivoluzione francese, il Papa proclamava l'impossibilità di «acconciarsi con l'odierna civiltà per la cui opera mali sì grandi e non mai deplorati abbastanza succedono».
In quello stesso 1861 viene pubblicato Les principes de 89 et la doctrine catholique, di Léon Godard, professore di storia ecclesiastica e archeologia cristiana al seminario di Langres, nel quale si suggeriva alla Chiesa una riconciliazione, appunto, con i principi dell'Ottantanove. L'anno successivo, il testo di Godard veniva messo all'Indice. Ma nel 1863 ne veniva pubblicata un'edizione «rivista» che riceveva un'attenzione (rispettosa ancorché critica) da parte della «Civiltà Cattolica». Pio IX, però, nell'allocuzione Maxima quidem (9 giugno 1862) si era pronunciato in maniera definitiva contro i «falsi diritti degli uomini», contrapponendoli al «vero e legittimo diritto», l'unico riconosciuto dalla Chiesa di Roma. E il «Sillabo» avrebbe suggellato questa impostazione.
Dopo la scomparsa di Pio IX (1878), in Francia Henri Louis Charles Maret diede alle stampe nel 1884 un libro, La verité catholique et la paix religieuse, dedicato al nuovo Pontefice, Leone XIII, in cui riprendeva le tesi di Godard. L'enciclica Immortale Dei (1885) condannava ancora una volta il desiderio riconducibile alla Rivoluzione francese di «abbandonare la religione alla coscienza degli individui, dar piena libertà a ognuno di seguire quella che più gli talenta, e anche nessuna, se così gli piace». Ma poi, trascorsi sei anni, una nuova enciclica dello stesso Pontefice, la Rerum novarum (1891), definendo «stretto dovere» dello Stato «prendersi la dovuta cura del benessere degli operai», apriva ai diritti qualche spiraglio. Il Vangelo veniva presentato come il più compiuto codice dei diritti e, scrive Daniele Menozzi, «questa impostazione avviava, sia pure sul circoscritto terreno economico e sociale, una prima possibilità di dialogo del cattolicesimo con la modernità».
Un salto nell'elaborazione cattolica su questi temi è rappresentato dalla nascita a Parigi, nel 1899, del Comité catholique pour la défense du droit, su iniziativa dell'intellettuale Paul Violler, nella battaglia a difesa di Alfred Dreyfus; e dalla pubblicazione de La Déclaration des droits de l'homme et la doctrine catholique dell'ecclesiastico Joseph Brugerette, anch'egli per la campagna a favore del capitano ebreo ingiustamente accusato e, più in generale, contro l'antisemitismo. Un secondo salto è individuabile nel pontificato di Benedetto XV, più precisamente nella lettera del suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Gasparri, inviata nell'aprile del 1916 al Comitato esecutivo dell'American Jewish Committee, che aveva pregato il Pontefice di intervenire a favore degli ebrei sottoposti a vessazioni e persecuzioni, soprattutto nei territori dove operavano le truppe russe. La lettera diceva apertamente che il Vaticano non avrebbe mai cessato «di inculcare l'osservanza, tra individui come tra popoli, dei principii del diritto naturale e di riprovare tutto quello che viene a violarli». E uno studio di Raffaella Perin ha sottolineato come nell'originale, prima dell'intervento del Sant'Uffizio, la dizione fosse, anziché «diritto naturale», «diritto comune».
Dai tempi del caso Dreyfus la battaglia per il riconoscimento dei diritti dell'uomo si intreccia con quella per liberare la Chiesa dalle scorie antisemite. Il libro di Hubert Wolf, Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich (Donzelli), ha portato alla ribalta il lavoro fatto in tal senso dall'Opera sacerdotale degli Amici di Israele, nata nel 1926, che due anni dopo poteva contare tra i suoi aderenti 19 cardinali, 287 tra arcivescovi e vescovi e circa tremila preti. Il Sant'Uffizio impose lo scioglimento dell'associazione e la ritrattazione del consultore, Ildefonso Schuster. Ma Pio XI volle che nel decreto che ordinava di sciogliere l'Opera fosse espressa «sia una condanna dell'antisemitismo come forma di odio e di ingiuste vessazioni verso gli ebrei, sia l'affermazione di una costante carità esercitata dalla Chiesa verso di essi».
Hubert Wolf ha poi analizzato con attenzione le tre celebri prediche contro il nazismo del vescovo Clemens August von Galen dell'estate 1941, notando come in esse si passasse dalla difesa degli interessi della Chiesa alla difesa dei diritti umani tout court e suggerendo una piena condivisione di questo orientamento da parte di papa Pacelli, Pio XII. E Daniele Menozzi, sulla scia del libro di Wolf e di un altro importante volume di Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d'Etiopia (Laterza), dimostra come quel riconoscimento quasi ufficiale dei diritti universali imprescrittibili e inalienabili, che si sarebbe realizzato con la Pacem in terris di cui si è detto all'inizio, «aveva già preso corpo nel corso dei pontificati di Pio XI e Pio XII». Sì, anche Pio XII, nei cui radiomessaggi dei primi anni Quaranta (in particolare quello prenatalizio del 1942), pur senza cedere alla visione liberaldemocratica dei diritti umani, il Papa parlava con sempre maggior apertura mentale dei diritti stessi.
Jacques Maritain farà compiere ai diritti l'ingresso definitivo in campo cattolico pubblicando dapprima Question de coscience (1937), poi parlandone in modi sempre più espliciti nella lettera al generale de Gaulle del 21 novembre 1941 e nei discorsi radiofonici trasmessi dal suo esilio americano a partire dal 1942. Comunque, al momento di varare la Carta dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite nel 1948 (esaltata da Maritain), fu respinta la mozione del delegato brasiliano Tristao de Athayde che chiedeva fosse inserito nella Carta un esplicito riferimento a Dio, da cui l'uomo aveva ricevuto in dono i diritti. Come reazione a questo diniego, il giudizio di Pio XII sulla Carta dell'Onu era stato negativo. Ed era partita sulla rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», una violenta campagna di padre Antonio Messineo contro Maritain. Ma un altro gesuita, John Courtney Murray, negli Stati Uniti cominciò a battersi a favore della compatibilità tra dottrina cattolica e diritto alla libertà religiosa. Nonostante ciò, il progetto di una carta cattolica dei diritti umani, «inciampando sulle divaricazioni interne al mondo cattolico» (scrive Menozzi), non andò in porto. E per anni fu ancora ostilità tra la Chiesa di Roma e i diritti umani come erano stati definiti dall'Onu. Finché venne la «svolta di Roncalli», la cui complessa gestazione è stata ben illustrata da Alberto Melloni in Pacem in terris. Storia dell'ultima enciclica di Papa Giovanni (Laterza). Complessa gestazione per cui lo storico parla di «debolezza, insufficienza e inadeguatezza» della svolta stessa.
In seguito Paolo VI, scrive Menozzi, riuscì a non smarrire il senso profondo dell'apertura giovannea, anzi le diede spessore e ne è riprova il suo ultimo discorso del gennaio 1978, interamente dedicato ai diritti umani. Così fu anche da parte di Karol Wojtyla. Talché, nel quarantesimo anniversario della Dichiarazione universale del 1948, Giovanni Paolo II si spinse a definire la Carta dell'Onu «una pietra miliare posta sulla strada lunga e difficile del genere umano». Anche se, osserva Menozzi, lo stesso Wojtyla proponeva poi «nettamente» la tesi che «solo in parte» un ordinamento basato sui diritti umani «corrispondeva a quanto la Chiesa richiedeva come indispensabile assetto del consorzio civile». Ma, aggiunge l'autore, sarebbe sbagliato «considerare la posizione di Giovanni Paolo II sui diritti umani nei termini di una mera concessione retorica alla società moderna, compiuta con l'obiettivo reale di collocare il cattolicesimo sul terreno della modernità al fine di cercare di sovvertirne i fondamenti». Semmai sarà l'attuale stagione, quella di Benedetto XVI, che produrrà «un irrigidimento» segnato da «un invasivo ritorno della Chiesa alla legge naturale a danno dei diritti umani». Ritorno dietro il quale si intravedono tutte le «carenze di un ambiguo aggiornamento ecclesiale». Segno che non è mai stata del tutto superata «l'eredità della tradizione intransigente». E che «la pur reale volontà di apertura della Chiesa al mondo moderno e all'uomo contemporaneo non si è compiutamente tradotta in un appoggio agli strumenti che un lungo e tormentato percorso storico aveva prodotto per regolare la convivenza civile». La definitiva riconciliazione tra Chiesa e diritti umani, secondo questo libro, deve ancora venire.

La Stampa 17.4.12
Norvegia. Il massacro di Utoya
Breivik alla sbarra Show e lacrime “È stata autodifesa”
Aperto a Oslo il processo per l’uccisione di 77persone
“Non sono colpevole e non riconosco questa corte”
Il pluriomicida attacca il multiculturalismo. Si è commosso a vedere il filmato del suo piano
di Andrea Malaguti


Il saluto anti-islamico Un colpo al petto e poi il braccio destro teso e pugno chiuso. Così Breivik si è presentato ieri in aula all’apertura del processo per la strage di Oslo e Utoya Le manette e il pianto Un agente toglie le manette a Breivik in aula (in alto) A destra le lacrime del killer: nessun pentimento, ha pianto vedendo il filmato sul piano dello sterminio
C’è solo una parete di vetro antiproiettile che separa i parenti dei 77 morti delle stragi di Oslo e di Utoya del 22 luglio 2012 dall’assassino Anders Behring Breivik. Ma in questo tribunale con le pareti bianche e luci al neon che contribuiscono all’atmosfera claustrofobica dell’aula, la distanza che divide le vittime dal carnefice è un gigantesco buco nero piantato nella coscienza collettiva di una nazione che non ha voglia di rispondere a un’unica soffocante domanda: perché questo uomo di 33 anni, bianco e della classe media, uno di noi, ha portato l’inferno nelle nostre esistenze? Non eravamo il posto più sicuro, integrato e in armonia della terra? Basta il dubbio per consegnare all’assassino un inaccettabile profumo di vittoria. Per questo gli spalti riservati al pubblico sono semivuoti. Per non alimentare il fanatico delirio di onnipotenza di Breivik riconsegnandogli il centro della scena. Eppure è esattamente lì che si trova. Lui e il suo manifesto razzista. Come si sconfiggono gli incubi, allora?
Con occhi allucinati e scintillanti, nel primo giorno del processo per il più crudele crimine della storia norvegese, il Mostro di Oslo, gonfio in viso, vestito come se andasse a una cresima, si rivolge alle telecamere con il saluto dell’estrema destra anti-islamica, un colpo sul petto e il braccio teso con il pugno chiuso. «Non riconosco questa corte che ha ricevuto il mandato da partiti che sostengono il multiculturalismo», dichiara. E rimane impassibile quando l’accusa elenca i nomi dei feriti e ricostruisce gli ultimi momenti delle vittime dell’isola. «Ho fatto tutto io. Ma non sono colpevole di niente. È stata autodifesa». Voleva fare fuori la classe dirigente progressista di oggi e di domani. La bambina più piccola a cui ha sparato in faccia aveva 14 anni. Trentatré delle sue vittime non ne avevano ancora 17. Ma oggi persino la sofferenza e la morte acquistano trionfali risonanze nella sua testa. Si commuove solo davanti al filmato che sintetizza il suo progetto di sterminio. In quel momento piange come un bambinone fragile.
É pazzo? Deve marcire in galera o in un manicomio criminale? É questo il cuore del dibattito mentre si inseguono perizie contraddittorie. Il sociologo Aslak Sira Myhare sostiene che sarebbe semplice cavarsela così. «Ci servirebbe per dire: visto?, era un caso isolato. Seppelliremmo la cosa e andremmo avanti. Non è giusto. Non è possibile». E la psichiatra Randi Rosenquist aggiunge: «Breivik è ossessionato da una ideologia estrema. Ma l’idea che i musulmani debbano lasciare la Norvegia non ha niente a che vedere con la psicosi». Difficile darle torto. L’ex leader conservatore Jons Simonsem, blogger piuttosto seguito in Norvegia, ricevette il manifesto del Mostro a pochi giorni dalla strage. «La considerai una lettera dall’inferno. I suoi atti sono orrendi e ingiustificabili». Non così tutte le sue idee. «Credo anch’io che tra 20 anni la Norvegia sarà nelle mani dell’Islam». É il taglio nella tela della raffinata organizzazione sociale scandinava, che questa mattina la deposizione di Breivik rischia di allargare con violenza. Sono di più i virus o gli anticorpi?

l’Unità 17.4.12
Uccise 77 persone in luglio, denunciando la politica laburista a favore della società multiculturale
«Sano di mente» secondo l’ultimo referto, in aula piange davanti a un suo video anti-islamico
Oslo, Breivik a giudizio «Non sono colpevole è stata legittima difesa»
Saluta come un templare, ammette la strage ma si dichiara non colpevole. Alla sbarra in Norvegia Anders Breivik. Nessun rimorso, il killer di Utoya si commuove solo quando vede un suo video anti-islamico.
di Marina Mastroluca


Sembra persino gentile quando chiede all’agente che gli sfila le manette se debba sedersi proprio lì. Completo scuro, capelli corti, la stempiatura più ampia delle foto che aveva postato su internet, dove gli piaceva mostrarsi in divise d’epoca. Anders Breivik si mostra calmo, la voce è piana, quasi sommessa mentre spiega una volta di più che i 77 morti nell’attentato di Oslo e nella strage di Utoya sono proprio opera sua. «Riconosco gli atti da me commessi, ma non mi dichiaro colpevole: ho agito per legittima difesa», dice. Ci tiene a mettere la sua firma, i ragazzini massacrati nel campeggio della gioventù laburista erano parte del suo piano. Pensato, scritto, preparato in un quello che appare un delirio ma che il 33enne norvegese rivendica come un atto di guerra al multiculturalismo che inquina l’Europa.
Folle o meno, lo deciderà il processo che dovrebbe durare una decina di settimane. In aula ci sono i parenti delle vittime e i sopravvissuti. Breivik non mostra nessun rimorso, non ne ha. Semmai, spiega il suo legale, solo quello di non aver portato ancora più a fondo il suo piano. L’accusa legge uno per uno i nomi delle vittime, spiega uno per uno come siano stati uccisi. Un elenco lungo. Breivik resta impassibile. Anche quando in aula viene mostrato un video di sorveglianza che mostra il furgone imbottito d’esplosivo che lui stesso aveva collocato in una strada del centro di Oslo: si vedono i passanti ignari, poi il lampo dell’esplosione. I parenti nell’aula del tribunale hanno un brivido d’orrore.
Breivik si commuove solo quando viene mostrato un filmato di 12 minuti che lui stesso aveva postato su internet prima della strage. È un video di propaganda anti-islamica, in cui denunciava la guerra demografica dei musulmani ai danni dell’Europa e si proclamava cavaliere templare. Il killer non riesce a trattenere le lacrime, le labbra gli tremano nello sforzo. Il suo avvocato tenterà poi di spiegare che è stato perché quelle immagini gli hanno evocato la sua missione, le stragi sono state «crudeli ma necessarie, per salvare l’Europa da una guerra in corso».
Per questo Breivik vorrebbe comparire davanti ad un tribunale di guerra. Rifiuta di alzarsi in piedi quando entrano i giudici, fa il saluto dei templari, il braccio teso a pugno chiuso. Dichiara di non riconoscere l’autorità delle corti norvegesi. «Avete ricevuto il vostro mandato da partiti politici che sostengono il multiculturalismo», proclama. Se la prende in particolare con la giudice Elisabeth Arntzen, perché amica della sorella dell’ex primo ministro laburista Gro Harlem Brundtland. Obiezioni di cui la corte prende nota, ma si va avanti. Quando gli chiedono quale sia la sua occupazione Breivik si definisce «uno scrittore», al lavoro attualmente in carcere.
Ha scritto molto il killer di Utoya, prima e dopo la strage, immaginata mille volte nel dettaglio prima di essere compiuta. I suoi scritti sono stati passati al setaccio, sono stati cercati riscontri. Gli investigatori però non hanno trovato traccia del presunto gruppo xenofobo dei Cavalieri templari, al quale Breivik sostiene di appartenere.
MEMORIALE DI 39 PAGINE
Folle o criminale, i pareri sono discordi. Un primo rapporto degli psichiatri, stilato nel novembre scorso, lo ha definito infermo di mente, affetto da schizofrenia. Il secondo invece, appena consegnato alla Corte, lo descrive sano di mente e pericoloso: potrebbe uccidere ancora.
Due letture diverse, toccherà alla Corte stabilire quale sia più vicina alla realtà. Se riconosciuto infermo di mente, Breivik imboccherà la strada delle cliniche psichiatriche. Altrimenti lo aspetta una condanna che non potrà che essere al massimo della pena, 21 anni eventualmente prorogabili se fosse accertata la sua pericolosità sociale.
Per una volta la difesa non si appellerà all’infermità mentale. Breivik non vuole una sentenza che svuoterebbe di senso quello che fatto, la sua guerra privata contro la società multiculturale. Lo spiega in un rapporto di 39 pagine consegnato alla stampa. «Essere dichiarato pazzo sarebbe un destino peggiore della morte», sostiene. Da oggi dovrà comunque rispondere alle domande dell’accusa, che ha chiamato a deporre 90 testimoni. Né la deposizione del killer, né quella dei quaranta testimoni che ha citato a sua volta, saranno trasmesse in tv. Per decisione della Corte. Il processo non diventerà un palcoscenico per i proclami deliranti di Breivik.

l’Unità 17.4.12
Se l’irrazionalità cieca irrompe in politica
di Debora Serracchiani


Ancora ricordiamo l’orrore per la vera e propria caccia che Anders Behring Breivik ha dato ai ragazzi del partito laburista norvegese sull’isola di Utoya, dove si trovavano per il loro meeting estivo. E questo dopo aver fatto esplodere una bomba nel centro di Oslo. Iniziato il processo, sappiamo che le perizie mediche hanno detto che quest’uomo non è pazzo, che è in grado di intendere e volere, insomma che quello che ha fatto è stato deliberato, pianificato ed eseguito con coscienza e raziocinio.
In sintesi, per Breivik c’era una buona ragione per uccidere 77 persone, e questa era la sua legittima difesa di fronte alla politica pro immigrati del governo laburista. Tanto che Breivik è addirittura dispiaciuto «per non aver fatto un maggior numero di vittime». A coronamento, l’assassino ha dichiarato di non riconoscere i tribunali norvegesi in quanto avrebbero ricevuto il loro mandato «da partiti politici che sostengono il multiculturalismo».
La logica che sorregge queste posizioni è aberrante e per certi versi nuova, perché prefigura un’antitesi assoluta, non solo politica ma anche etico-culturale, nei confronti di un sistema di valori e principi, che è quello su cui si regge la democrazia come forma di organizzazione civile e politica delle comunità, e perché al contempo esprime un totale disprezzo nei confronti della vita umana.
A cercarli, casi analoghi si trovano. Teorizzando le estreme conseguenze dell’antisemitismo, anche il regime hitleriano ha trasformato gli esseri umani in cose, invocando e adoperandosi per la «soluzione finale». Negli anni di piombo, che l’Europa ha patito sulla sua pelle, anche i terroristi disconoscevano l’autorità dello Stato, che dichiaravano di dover combattere come un nemico e del quale non riconoscevano, ad esempio, gli organi di giustizia.
Ma qui sembra di assistere, per l’appunto, a qualcosa di nuovo. Le schegge del Breivik-pensiero disegnano i contorni del fantasma di un fanatismo «occidentale», che veste sì i panni della destra estrema, che magari lancia il saluto nazista, ma che ormai ha subito una metamorfosi intima rispetto alle declinazioni dell’ideologia «nera» tradizionale.
Se confermato in futuro, questo potrebbe rivelarsi l’aspetto più preoccupante dell’azione del fondamentalismo islamico sulla nostra società: potremmo essere stati contagiati dal virus che avremmo dovuto debellare, e nella secolarizzata Europa sarebbe entrata in circolo un’idea di scontro tra civiltà di tipo millenaristico, in cui l’islam di cui farnetica Breivik è speculare al «grande Satana» di cui straparlano certi ayatollah. Espressioni come «abbracciare il martirio», utilizzate dallo stesso Breivik, suscitano un’eco sinistra che ricorda la dottrina di cui erano imbevuti i piloti kamikaze dell’11 settembre, o tanti portatori di cinture esplosive.
Obbligatoriamente, ora diremocheilcasoèsingoloocheè estremamente circoscritto, e che alzeremo le barriere contro l’avanzare eventuale di simili idee e il proliferare di emulatori. Tutto corretto, e confido che lo faremo. Ma il primo pensiero istintivo che ho avuto è stato: speriamo che sia pazzo. Un folle possiamo metabolizzarlo, ma a nulla l’Europa è meno preparata che all’irrompere di un’irrazionalità così cieca sulla sua scena politica.

Corriere della Sera 17.4.12
Erik Fosnes Hansen: «La mia Norvegia non è più la stessa Ha visto il male»
di Maria Serena Natale


OSLO — Uno spuntone di ghiaccio in attesa sopra un oceano d'oscurità. La figura dell'iceberg ricorre nell'immaginario poetico di Erik Fosnes Hansen, che in Corale alla fine del viaggio ha raccontato l'ultima notte del Titanic intrecciando i destini dei cinque musicisti andati incontro alla catastrofe sulle note di Händel.
Un'immagine che per un istante proietta un lampo di luce sull'esilio nel buio di Anders Behring Breivik. «Un essere di straordinaria banalità — riflette in un caffè di Oslo il 46enne scrittore norvegese Hansen —, un uomo incapace di provare empatia ed entrare in relazione con i propri simili, tagliato fuori dal consesso umano, esterno a tutto, votato a un martirio solitario concepito come ineluttabile e pianificato in segreto per anni, un iceberg invisibile nella notte».
Com'è cambiata la Norvegia?
«La violenza ha fatto irruzione nella nostra vita e ha svelato una vulnerabilità alla quale non siamo stati abituati dalla Storia com'è accaduto all'Italia o alla Germania, che hanno ancora viva la memoria del terrorismo. L'estremismo esiste e può colpirci, da più direzioni, in qualsiasi momento, non recupereremo l'innocenza».
Il 22 luglio ha contribuito a una polarizzazione politica?
«Le forze estreme non ne hanno beneficiato, al contrario lo stesso Partito del progresso (la formazione della destra populista della quale Breivik ha fatto parte fino al 2007, ndr) ha dovuto moderare la propria retorica. Sia il mondo politico che i cittadini hanno realizzato che i cambiamenti legati al recente processo d'integrazione richiedono un nuovo lessico. La critica al multiculturalismo non deve diventare tabù però oggi più di prima il dibattito si concentra sui valori comuni».
Uno sforzo per disinnescare tensioni che resistono?
«E per dare attenzione alle persone, riconoscendo che nei discorsi su nazionalità e comunità si perdono di vista gli individui concreti, non è solo una questione di forma ma di autentico rispetto».
Cosa si rimprovera la società norvegese fondata sul principio di solidarietà?
«In questo caso il sistema non ha colpe, per quanto fitta possa essere la rete sociale, è giusto che l'individuo mantenga uno spazio personale inaccessibile allo Stato. Uno spazio nel quale può annidarsi qualsiasi forma di disagio».
Due rapporti psichiatrici con conclusioni opposte, un imputato che rifiuta l'attenuante dell'infermità mentale. Il percorso verso la verità giudiziaria si annuncia molto faticoso.
«E doloroso, saranno settimane difficili per i familiari delle vittime e per l'intero Paese. Che Breivik sia affetto da gravi disturbi è evidente ma il valore della definizione tecnica che i giudici daranno alla sua instabilità va al di là della responsabilità penale. Se sarà riconosciuto in possesso delle sue facoltà, tutti noi dovremo fare i conti con l'esistenza del male, inteso non come patologia ma come condizione umana».
Il male dostoevskijano...
«Che per una società razionale e stabile come quella norvegese è più difficile da comprendere. Siamo di fronte a una persona che ha avuto una famiglia problematica e un'infanzia difficile, ma non più di tante altre; un soggetto debole che ha sviluppato nei confronti della società un complesso d'inferiorità e una volontà di rivincita; un individuo che ha come unico obiettivo elaborare e diffondere il mito di sé. Eppure, la malattia dell'anima può spiegare molto, non tutto. Breivik resta un enigma. Questo processo sarà un lungo viaggio, indipendentemente dal verdetto metterà in discussione l'idea che abbiamo del male e di noi stessi».

Corriere della Sera 17.4.12
«Ma quel saluto non è dei templari»
di Monica Ricci Sargentini


Quando è entrato nell'aula Anders Behring Breivik si è rivolto verso la tribuna dei parenti delle vittime mettendo prima la mano sul cuore e poi levando il pugno chiuso, un saluto che, secondo quanto scritto nel memoriale dell'omicida, risalirebbe ai Cavalieri templari. «Escludo che i templari facessero un gesto del genere, ormai li tirano fuori in ogni occasione. L'altro giorno in un ristorante c'era persino l'arrosto del templare nel menù!», è la risposta secca del professor Franco Cardini, ordinario di Storia medievale a Firenze. «Direi che il saluto di Breivik è una rielaborazione romantico-maniacale di tutto il suo mondo. Chiaramente l'uomo ha letto alcuni libri, il suo è un universo pieno di fantasie cristiano/naziste ma molto rimaneggiate».
Cosa le ricorda il gesto?
«Mi sembra più un saluto tipico dei gladiatori che non ha nessuna tradizione in gruppi storici e che ricordo di aver visto nei circhi equestri. I templari sono un ordine religioso al cui interno c'era anche un gruppo adibito al combattimento nelle cosiddette milizie. Le regole sono di origine monastica, non c'è nulla che preveda saluti militari. Un templare si inchina, si inginocchia, si genuflette, non leva certo il braccio in aria. Il ragazzo se l'è inventato o l'avrà preso da qualche libraccio o magari si è ispirato al Quo Vadis degli anni 50 o alla vecchia versione del Gladiatore».

La Stampa 17.4.12
“Un mostro e un mitomane in cerca di pubblicità Ma non prevalga la vendetta”
La scrittrice Stenberg: è un freddo calcolatore
di Francesco Saverio Alonzo


OSLO La più famosa scrittrice scandinava, Birgitta Stenberg, sulla cui vita ottuagenaria si proietta attualmente un documentario che da mesi fa registrare il tutto esaurito nei cinematografi, ha un’ideaprecisa del motivoche ha spinto Breivik a massacrare 77 persone, perlopiù giovani: «È un megalomane nella cui mente interpretazioni nebulose e distorte di ideologie cristiane e paneuropee hanno creato una visione minacciosa del “pericolo islamico” facendo di lui, come egli stesso ammette con orgoglio, un cavaliere templare, difensore di valori religiosi e nazionalisti. Dice di avere agito da soldato, difendendo a su modo la Norvegia e l’Europa dall’invasione musulmana. In realtà è un cavaliere dalla triste figura, un Don Chisciotte sanguinario dell’età moderna i cui mulini a vento erano quei poveri ragazzi falciati a raffiche di mitra a Utoya. Un mitomane, insomma, a caccia di pubblicità, malato di protagonismo e mosso da un’esaltazione “mistica” che non gli ha impedito però di agire freddamente, procurandosi con scrupolosità meticolosa tutti i mezzi necessari per far esplodere bombe e sparare raffiche su raffiche di proiettili mortali».
Quando parla di preparazione meticolosa, include anche il procedimento minuzioso con cui Breivik – pare addirittura con il concorso della madre – ha svuotato, prima di compiere la strage, tutti i suoi conti bancari in Norvegia, trasferendo milioni di euro nei cosiddetti paradisi fiscali?
«È un rovescio della medaglia... Macché diciamo pure che dietro la facciata di una mente distorta, si celava un freddo calcolatore, oltre che un mostro omicida, insomma la medaglia di Breivik ha piú facce, una piú agghiacciante e inattesa dell’altra».
Ma come ha reagito la Norvegia, questa nazione ricca e tranquilla, subendo il trauma di un connazionale che compie uno dei reati più efferati della storia?
«La Norvegia è ancora sotto choc. Nessuno si sarebbe mai aspettato una simile strage. Soprattutto in un momento in cui il processo d’integrazione si stava svolgendo in modo pacifico e fruttuoso».
Breivik dice di voler salvare l’Europa dall’Islam, ma fra le vittime del suo gesto si trovano molti giovani norvegesi ”puri”. Anzi pare che egli si sia accanito proprio su di essi. Come lo spiega?
«Breivik li considera traditori, collaborazionisti, quelli che in Norvegia sono definiti “quisling” dal nome del dittatore che governò il Paese durante l’occupazione nazista».
Lei ha vissuto a lungo all’estero, in Italia, in Francia, in Spagna, Inghilterra, Stati Uniti e in molte altre nazioni. È stata molto vicina a personaggi celebri come il re Farouk, Ernest Hemingway, Lucky Luciano, Robert Graves, ha descritto i luoghi che ha visitato in libri di successo come «Piazza di Spagna» o «L’uomo delle arance», «Gli anni selvaggi», ambientati dove lei era una «straniera». Come vede quest’esplosione di odio verso il diverso?
«Alla base del gesto folle di Breivik potrebbe esservi, dico “potrebbe”, un gruppo di fanatici difensori dei valori nazionali e religiosi. Non dimentichiamoci che il partito xenofobo Fremskrittspartiet è il secondo in ordine di grandezza in Norvegia. Ma moltissimi suoi aderenti hanno comunque espresso orrore e condanna per la strage. Credo che tutta la Norvegia sia pervasa da una profonda crisi, ma anche da un grande desiderio di fare un attento esame di coscienza, mettendo a fuoco certi pregiudizi collettivi, ma soprattutto rafforzando il senso di democrazia che l’ha sempre distinta, assicurando a Breivik un processo giusto ed equo in cui prevalga sulla volontà di vendetta l’applicazione della legge, uguale per tutti».

La Stampa 17.4.12
La sindrome di Olso
di Antonio Scurati


Sono uno scrittore. Chi proclama con orgoglio stentoreo al cospetto del mondo un onore tanto dubbio? Chi s’insuperbisce per così poco? Forse il romanziere misconosciuto, colto da un raptus di solitaria esaltazione nella sua soffitta mal aerata?
Oppure il deejay baciato da smodato successo di vendite mai la fortuna fu dea più bendata per aver messo su carta la sua chiacchiera radiofonica? Né l’uno né l’altro. A dichiararsi tale è Anders Behring Breivik, il militante di estrema destra norvegese responsabile delle stragi di Oslo e Utoya costate la vita a 77 ragazze e ragazzi inermi, primaverili, moderatamente fiduciosi nell’avvenire.
«Sono uno scrittore». Breivik lo dichiara davanti al tribunale che da ieri lo processa. Lo fa subito. E’ la prima cosa che dice presentandosi al cospetto del tribunale e al cospetto dell’intero Paese da lui martirizzato. Il procedimento a suo carico viene, infatti, trasmesso in diretta televisiva da monitor a circuito chiuso in altre diciassette procure disseminate in tutta la nazione norvegese, nonché dai media del mondo intero. Con quelle tre parole di auto-identificazione, il delirante assassino dà inizio a un teatro fatto di saluti camerateschi, proclami farseschi, commozioni improvvise, invettive roboanti e annunci apocalittici. Uno show iniziato ieri e lungo, verosimilmente, quanto l’intero processo. Il video del suo ingresso in aula è, infatti, accompagnato da un ronzio insistente fuori campo, quasi un rumore di basso continuo: è il concerto dei motori delle macchine fotografiche che scattano a ciclo continuo.
La reazione più sana di fronte a tutto questo sarebbe probabilmente di ignorarlo. Coglierne per un istante l’aspetto grottesco e poi voltarsi dall’altra parte. Ma non accadrà. Daremo retta, a lungo e a milioni, all’affabulazione demente di questo uomo atroce auto-proclamatosi «scrittore». E, così facendo, gli daremo in parte ragione. La nostra spasmodica attenzione riconoscerà che il suo orribile atto criminale proviene da e ritorna a un immaginario finzionalizzato. E’ figlio cioè di un mondo scivolato senza accorgersene in una zona di confusione tra sogni, miti e finzioni narrative, un mondo che comincia con il delirio paranoide di un potenziale assassino e finisce con le suggestioni esercitate sulle masse di telespettatori globali dalle sue fanfaronate, un mondo in cui la progressiva sfocatura dei confini tra realtà e finzione presenta a un capo del processo di comunicazione un caso di indistinzione psicotica e all’altro un caso speculare di indistinzione mediatica. Nel mezzo, la realtà è solo un pretesto, un labile punto d’appoggio per far girare la ruota impazzita. Anche quando la realtà sia la morte atroce di 77 giovani innocenti.
Insomma, standolo a sentire, stiamo riconoscendo a Breivik la facoltà di influenzare il nostro immaginario collettivo, prerogativa di alcuni, pochi, grandi scrittori. Inoltre, la nostra spasmodica attenzione, se non arriverà ad attribuire a Breivik il rango di autore in prima persona di narrazioni influenti, sicuramente ne farà un oggetto privilegiato di esse: infiniti racconti lo eleveranno al rango di propria materia d’elezione. Racconteremo di lui, a lungo e diffusamente, e ci staremo ad ascoltare. Così il criminale demoniaco parlerà per tramite nostro, ventriloqui del mostro.
E’ una storia che viene da lontano. Nella sua versione attuale comincia probabilmente nel luglio del 1970 in California, quando Charles Manson si presenta con una X incisa sulla fronte alla prima delle moltissime udienze preliminari del lunghissimo processo show intentato a lui e alla sua banda per il massacro di Cielo Drive. Anche prima di allora l’interesse per i processi ai criminali efferati era stata molto forte ma da quel momento in avanti il pluriomicida diventa una figura centrale di una celebrity culture uscita di senno, risucchiata nella perdita di quello stesso principio di realtà che è sempre stata all’origine dei crimini medesimi. Ben presto anche il pluriomicida con motivazioni politiche il nostro terrorista quotidiano entrerà in questo girone infernale. Di lì a poco, primo fra tutti sarà Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos «Lo sciacallo». Il primo di una lunga serie, purtroppo.
Facile, oramai, per noi individuare le dinamiche di questi fenomeni. Difficile, invece, trovarvi un qualsiasi senso. C’è, però, sicuramente il fatto inoppugnabile di una psiche occidentale rimasta vittima di una colossale Sindrome di Stoccolma: ci invaghiamo dei nostri carnefici. Pendiamo dalle loro labbra in attesa di parole rivelatrici. Contempliamo, sgomenti e sedotti, chi ci conficca nella posizione della vittima.
Non riesco davvero a spiegarmi perché lo si faccia. So, però, che l’alternativa a questo colossale autoinganno è una verità ben più dura da sopportare. La verità è che questi assassini diabolici, questi grandi uccisori titanici non hanno proprio niente da dire, nessuna storia da raccontare.
«L’ultima volta che ho visto quest’uomo di persona stava sparando a un mio amico». Così ha commentato l’ingresso teatrale in aula di Breivik un ragazzo scampato alla strage. Dovremmo tutti attenerci alla tragica, lapidaria saggezza di questo commento. La storia di quella ignobile canaglia comincia e finisce lì, in quella breve voragine di nulla.

Corriere della Sera 17.4.12
«Mi batto per l'eutanasia che fu negata a mio fratello»
di Mario Pappagallo


«Liberi di morire». Sottotitolo: una fine dignitosa nel Paese dei diritti negati. Carlo Troilo, l'autore, ha 72 anni. La stessa età che aveva il fratello Michele quando, nel 2004, si uccise gettandosi dal quarto piano della sua casa a Roma. Un dramma che ha segnato Carlo, capo ufficio stampa dell'Iri ai tempi della Prima Repubblica poi al vertice delle relazioni esterne della Rai (è stato lui a coniare lo slogan «Rai, di tutto, di più»), e lo ha trasformato in un garbato contestatore. Sempre in giacca e cravatta, sempre con i modi misurati, ma in prima linea anche nei digiuni-protesta a favore dell'eutanasia, nella battaglia per una legge sul testamento biologico da Paese laico e patria del diritto.
Tutto è scritto nel libro edito da Rubbettino, con prefazione di Emma Bonino. Carlo, alla morte di Michele (convinto assertore dell'eutanasia), ha lasciato ogni altra attività per dedicarsi a un solo obiettivo, sintetizzabile in quel titolo: «Liberi di morire». Liberi di scegliere come terminare in modo dignitoso la parentesi vita. Un grido più che un titolo. Lo stesso che lanciò Michele prima di suicidarsi. Lo stesso che ogni anno lanciano altri mille malati terminali italiani.
«Michele aveva affrontato due durissimi cicli di chemioterapia che, dapprima, sembravano aver funzionato sulla leucemia diagnosticata nel luglio 2003 — ricorda il fratello —. Dopo pochi mesi, invece, il suo male era tornato più violento di prima. Sentenza: poche settimane di vita. Michele ci ha allora chiesto di trovare un medico che lo aiutasse a morire con dignità, e lo avevamo trovato, ma non abbiamo fatto in tempo a dirglielo. La sera stessa del suo ritorno a casa dall'ospedale ebbe per la prima volta un episodio di incontinenza. La sua badante lo spogliò, lo lavò, lo mise a letto con un pannolone. Michele era un uomo elegante, riservato, pudico. La mattina dopo, all'alba, ha aperto la porta finestra del terrazzo e si è gettato».
Ancora oggi Carlo si commuove, trasmettendo insieme tutta la sofferenza del fratello e la frustrazione di non aver fatto in tempo a esaudire quell'ultimo desiderio di Michele: una «dolce morte». Un'indagine di qualche anno fa ha messo in luce che oltre il 60% dei medici italiani, almeno una volta nella professione, ha esaudito quell'ultimo desiderio di un paziente. Agendo nell'ipocrisia. Basta non farlo sapere. Lo stesso sarebbe accaduto a Beppino Englaro quando avviò la lunga battaglia legale con le autorità politiche per porre fine alla lunga «agonia» vegetativa del povero corpo in coma che un tempo era la sua luminosa figlia Eluana. «La vicenda di mio fratello Michele — dice Carlo — ha sconvolto la mia vita. Così ho deciso di fare ciò che Michele avrebbe voluto: rendere pubblico il suo gesto di disperazione e di protesta e cercare di aprire un dibattito, come quello che il presidente Napolitano auspicò nel dicembre 2006 rispondendo a una lettera di Piergiorgio Welby».
Ma che fine ha fatto la legge sulle volontà di fine vita? Così urgente durante la vicenda Englaro, così «insabbiata» oggi. «Per fortuna, perché così com'è, incostituzionale e inumana, innescherebbe subito la raccolta di firme per un referendum abrogativo», chiosa Carlo. Socialista, nato a Milano, ha lavorato al fianco di Enrico Manca e di Gianni De Michelis. È figlio di Ettore Troilo, comandante partigiano e prefetto della Liberazione di Milano. Una città massacrata dai bombardamenti, da ricostruire. Ma che non aveva perso la sua dignità. La stessa che non voleva perdere Michele. Ed ecco che Carlo, oltre la storia del fratello, è riuscito a scrivere un'«agenda laica dei diritti negati», presentata a Milano, nello storico Circolo De Amicis. Omaggio dovuto: «In questa città mio padre è stato prefetto della Liberazione nel dopoguerra. In questa città io mi sono formato alle idee del socialismo riformista, tenute vive dal De Amicis. In questa città c'è oggi un sindaco che da sempre si batte per i diritti civili». Vero. Si deve proprio al Giuliano Pisapia uno dei primi, e migliori, disegni di legge sull'eutanasia.

l’Unità 17.4.12
Israele, botte e abusi sugli attivisti della «Flytilla» dei cieli
Dopo le espulsioni, gli arresti, un video-shock testimonia la violenza usata da militari israeliani contro gli attivisti filopalestinesi della «Flytilla»: un ufficiale colpisce in faccia con il calcio del mitra un pacifista danese.
di U.D.G.


Non bastano le espulsioni. Le «liste degli indesiderati», un aeroporto militarizzato. Chiusa la porta in faccia a gran parte dei 1.500 attivisti dell' operazione «Benvenuti in Palestina» intenzionati vanamente a convergere da mezza Europa nei Territori palestinesi occupati passando per Tel Aviv Israele fa i conti con le polemiche del giorno dopo. Alimentate ieri anche dalla comparsa di un video-scandalo che documenta l’aggressione a colpi di calcio di mitra sul naso perpetrata sabato verso Gerico, in Cisgiordania, da un ufficiale superiore di Tzahal (l'esercito con la Stella di David) contro un pacifista danese estraneo ai ranghi della «Flytilla» dispersa l’altro ieri.
PUGNO DURO
Numerosi partecipanti, segnalati in anticipo come indesiderati dallo Stato ebraico, sono stati stoppati già nei Paesi d'origine con l'annullamento dei biglietti da parte di varie compagnie aeree. Diverse altre decine sono state invece fermate ai controlli dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e sottoposti a fermo (nella camera di sicurezza dello scalo o nel vicino centro di detenzione di Ghivon) in attesa dell'espulsione: epilogo che per molti si è compiuto l’altro ieri e che per altri inclusi due italiani tuttora trattenuti dovrebbe arrivare entro domani. Archiviata la fase dell'ordine pubblico, restano comunque sul tavolo perplessità, critiche e proteste. Gli attivisti già rispediti indietro, come l'italiana Stefania Russo, denunciano d'essere stati «trattati come criminali», fra «perquisizioni corporali» e «atteggiamenti minacciosi», senza la contestazione del benchè minimo reato. E anche sulla stampa israeliana i dubbi non mancano. Dalle colonne del giornale liberal Haaretz che ieri aveva bollato come isterica la reazione del governo e degna dell'Iran l'espulsione collettiva di centinaia di manifestanti l'analista militare Amos Harel definisce «largamente sovrastimata» la percezione della minaccia. Mentre sul moderato Yediot Ahronot il generale della riserva Eitan Haber, già capo di gabinetto di Rabin, scrive che Israele avrebbe dovuto lasciar passare gli attivisti in nome della democrazia a cui si richiama; e accusa le autorità di avere «perso la testa», ma anche contribuito a dare visibilità ai toni anti-israeliani dell'iniziativa.
Il governo di Benyamin Netanyahu e gli apparati di sicurezza replicano affermando di aver agito per bloccare un'operazione ostile, foriera di ipotetici «disordini», e di averlo fatto senza uso della forza. Non aiuta tuttavia l'immagine d’Israele il video-choc di Gerico, girato di nascosto al culmine d'un alterco fra una pattuglia militare e un gruppo di attivisti dell'International Solidarity Movement impegnati sabato in una escursione ciclistica di solidarietà con la causa palestinese nella Valle del Giordano. Alterco degenerato in bruta violenza da parte del tenente colonnello Shalom Eisner, ripreso a un certo punto nell'atto di colpire al volto il danese Anders Ias con il calcio del proprio M-16. L'episodio è stato immediatamente stigmatizzato dal presidente Shimon Peres e da Netanyahu.
Eisner elogiato dall'estrema destra si è difeso sostenendo d'aver subito provocazioni e una bastonata sulle dita, ma la sua giustificazione non deve essere parsa convincente nemmeno agli alti comandi militari: che hanno definito «molto grave» l'accaduto, ordinando un'inchiesta e sospendendo seduta stante dal servizio l'ufficiale-picchiatore. Qualcuno, intanto, ha notato che Eisner indossa la kipa (lo zucchetto degli ebrei osservanti), simbolo nel suo caso di adesione a un' ideologia nazionalista-religiosa legata a filo doppio col movimento dei coloni. Una realtà il cui peso cresce nelle file un tempo dominate dalla tradizione laica dei kibbutz di Tzahal. E che secondo qualche osservatore rischia di cambiarne alla lunga i connotati almeno quanto il colonnello ha cercato di cambiarli al malcapitato pacifista danese.

l’Unità 17.4.12
Problemi cardiaci. Guenter Grass ricoverato in clinica


Il premio Nobel per la Letteratura tedesco Guenter Grass è stato ricoverato per problemi cardiaci in una clinica di Amburgo. Lo afferma il quotidiano tedesco Bild, nell’edizione oggi in edicola. Il giornale cita il portavoce della clinica ma non fornisce precisazioni. Lo scrittore tedesco, 84 anni, a inizio aprile aveva innescato una aspra polemica, pubblicando sulla stampa tedesca una poesia in cui criticava Israele e accusava il Paese di «minacciare la pace mondiale» come potenza atomica, per il minacciato intervento contro i siti nucleari in Iran. Lo Stato ebraico in risposta lo aveva dichiarato persona non grata, una decisione contro la quale aveva polemizzato il quotidiano Haaretz ma che aveva trovato il favore dell’opinione pubblica.
A sua volta Grass ha replicato sostenendo che la decisione di Israele ricordava i metodi della Ddr e della Stasi.

Corriere della Sera 17.4.12
Il nucleare iraniano. Qualche dubbio e una proposta
risponde Sergio Romano


Mentre si moltiplicano i segnali di un possibile (e prossimo?) intervento israeliano per colpire le installazioni nucleari iraniane, il dibattito sulla questione rimane aperto. Sul piatto della bilancia troviamo da un lato le esigenze di sicurezza da parte di Israele di fronte ai programmi nucleari (e missilistici) iraniani, di certo non pacifici, e dall'altra le possibili conseguenze (regionali e globali) di un simile intervento; il tutto complicato da eterne tensioni non solo con Israele stesso ma anche fra l'Iran e diversi Paesi arabi. Uno scenario dunque pesante già oggi, addirittura terribile in caso di attacco; ma visto che nessuno vuole che Teheran si doti di armi atomiche e che la via politico-diplomatica (sanzioni comprese) appare poco efficace, quali potrebbero essere le reali alternative a un blitz militare?
Giovanni Martinelli

Caro Martinelli,
N el calore delle polemiche molti governi e osservatori danno per scontato che l'Iran stia lavorando alla costruzione di un ordigno nucleare. Non sembra in realtà che ve ne siano prove documentate. Il National intelligence estimate del 2007 (un rapporto che proviene dalla massima autorità degli Stati Uniti in materia di spionaggio e controspionaggio) sostenne che i progetti per la costruzione di una bomba erano stati abbandonati nel 2003. Il rapporto fu redatto in un momento in cui la Cia temeva di cadere nell'errore commesso prima della guerra irachena e fu accusato di eccessiva prudenza. Un rapporto successivo, distribuito al Congresso nel 2011, è meno prudente, ma neppure in questo caso gli analisti sembrano avere trovato la pistola fumante. Nel dicembre 2011 il segretario alla Difesa Leon Panetta ha fatto dichiarazioni sul momento in cui l'Iran avrebbe potuto disporre di un ordigno nucleare, ma il suo portavoce, nei giorni seguenti, ha chiarito dicendo: «Non abbiamo alcuna indicazione sul fatto che gli iraniani abbiano deciso di sviluppare un'arma nucleare». Contrariamente all'impressione generale la delegazione degli esperti dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, dopo la recente visita in Iran, non ha detto che l'Iran stia costruendo un ordigno. La delegazione lamenta di non avere potuto visitare tutti i siti che desiderava ispezionare e dichiara nel suo rapporto che l'Iran ha le strutture necessarie per la costruzione dell'arma (una situazione simile a quella del Giappone). Gli iraniani, dal canto loro, continuano a sostenere che il loro programma ha soltanto scopi civili. È possibile che mentano, ma il segreto che avvolge alcune delle loro installazioni potrebbe essere motivato soprattutto dal desiderio di non fornire ulteriori informazioni ai servizi israeliani.
Il vero problema, naturalmente, è l'uso che l'Iran farebbe di un'arma nucleare se avesse il tempo e la voglia di costruirla. Attaccherebbe Israele? Armerebbe la mano di una organizzazione terroristica? Le due ipotesi mi sembrano del tutto improbabili. Se l'Iran lanciasse un primo colpo, la reazione israeliana e, forse, americana, sarebbe, per l'aggressore, catastrofica. La bomba è anzitutto un deterrente. Chi ne dispone lascia intendere al nemico che è in grado di difendersi, se minacciato, e di infliggergli danni irreparabili. Dopo gli attentati dell'11 settembre, l'Iraq e la Corea erano entrambi, nel linguaggio di George W. Bush, «Stati canaglia». Perché gli Stati Uniti hanno aggredito il primo e hanno evitato di colpire il secondo?
Aggiungo, caro Martinelli, che alcuni uomini politici e studiosi americani si stanno chiedendo sempre più frequentemente se la strategia da adottare verso l'Iran non dovrebbe essere quella raccomandata da George F. Kennan al governo di Washington nei confronti dell'Unione Sovietica agli inizi della guerra fredda. Si chiama containment (in italiano diremmo contenere, tenere a bada, contrapporre minaccia a minaccia). Ha funzionato allora e potrebbe funzionare anche il giorno in cui l'Iran fosse davvero dotato di un'arma nucleare.

l’Unità 17.4.12
Intervista a Harlém Desir
«Hollande spezzerà il patto del duo Merkozy»
Il segretario del Ps ad interim: «La ricetta francese trasformerà l’Europa Nel programma investimenti comunitari su industria, energia, infrastrutture»
di Umberto De Giovannangeli


La forza di Francois Hollande è nel suo saper coniugare idealità e concretezza, è nell’aver aggiornato e tradotto in proposte praticabili, principi e valori che sono a fondamento di una identità progressista, di sinistra, a cominciare dalla giustizia sociale. Hollande non prospetta una politica dei due tempi, prima il rigore e poi la crescita. Il suo progetto tiene insieme i due tempi e coniuga tutto questo in chiave europea. Con la convinzione che il rigore senza crescita condanna l’Europa a un decennio perduto, di declino e recessione». A parlare è una delle figure-chiave della campagna presidenziale di Francois Hollande: Harlem Désir, segretario ad interim del Ps durante le primarie, oggi numero due dei socialisti francesi.
Quale peso in chiave europea potrebbe avere una vittoria di Francois Hollande nelle presidenziali francesi?
«Avrebbe un peso molto importante perché una sua elezione a Presidente sarebbe garanzia di rilancio di una politica sociale che punta a coniugare crescita e rigore, senza definire un prima e un dopo. Hollande si fa portatore di un cambiamento possibile, oggi, oltre che necessario. Non resta prigioniero di una visione unilaterale di austerità, non assolutizza il rigore pur facendosi carico di misure che non saranno indolori. Il rigore di Hollande si fonda innanzitutto su un criterio che non è contemplato nel patto Sarkozy-Merkel».
Quale sarebbe questo criterio?
«Quello dell’equità. Il che significa che chi più ha più deve contribuire al risanamento dei conti. Una logica del tutto sconosciuta alla destra e a Nicolas Sarkozy».
Tornando all’Europa...
«L’Europa dei progressisti, che spezza il patto “Merkozy” e che punta sulla crescita possibile. Indicando i campi strategici, definendone le tappe di realizzazione, praticando l’integrazione, valorizzando le diversità proprie di società sempre più multietniche, concependole come un arricchimento comune e non come ostacoli da rimuovere. È l’Europa che punta all’armonizzazione sociale».
Il che si traduce?
«Hollande l’ha detto chiaramente già prima della campagna presidenziale: se sarà chiamato a guidare la Francia, intende rivedere i trattati europei, rafforzando i meccanismi di solidarietà e al tempo stesso dando più risorse alla Banca centrale europea. Non esiste una via autarchica
alla crescita, né la riproposizione in chiave nazionale di una improponibile grandeur. L’Europa non è il problema, ma può essere la soluzione. Su questo Hollande è stato molto chiaro, sostenendo con forza, e con proposte mirate, che la soluzione alla crisi dell’Europa non sarà mai nel ripiegamento su se stessi».
Nel merito, quali sono, sempre in chiave europea, alcune delle proposte più significative di Hollande?
«Il punto da cui partire è che per rilanciare l’attività economica in Europa e bloccare l’aumento della disoccupazione, abbiamo bisogno di investimenti, che rendano il nostro continente più attrattivo e coeso. Il che significa attrarre maggiori investimenti in Europa».
Con quali strumenti trovare nuovi finanziamenti?
«Nel suo programma, Hollande fa alcune proposte concrete: l’emissione di project-bonds (attraverso la Banca europea d’investimento) per i grandi progetti nell’industria, nell’energia e nelle infrastrutture, ma anche ricercare nuove risorse, come la tassa sulle transazioni finanziarie e la carbon-tax, e riorientare gli strumenti esistenti come il fondo sulla globalizzazone e i fondi di coesione per ricreare posti di lavoro e attività economiche».
Hollande si è espresso per una riforma del Bilancio europeo.
«Gli aumenti del budget europeo devono servire principalmente per promuovere le tecnologie innovative, per finanziare investimenti sociali, di infrastrutture e di sviluppo sostenibile; il budget deve essere gestito in stretta collaborazione con la Banca Europea d’Investimento».
C’è chi imputa a Hollande una volontà penalizzatrice verso la finanza. «Nessuna volontà penalizzatrice ma neanche subalternità».
Quale immagine di sé sta dando la sinistra in questa campagna presidenziale?
«L’immagine di una sinistra seria, credibile, pronta ad assumersi responsabilità pesanti. Una sinistra che punta sul futuro e per questo intende investire, con Hollande all’Eliseo, sulla formazione, sui giovani e sulle donne. Il “cambiamento è possibile” non è uno slogan, è il cuore del progetto-Francia di Hollande. Un messaggio rivolto in primo luogo alle giovani generazioni. Un messaggio raccolto».

il Fatto 17.4.12
“Sarkò ha fallito. Spero in Hollande ma sembra Natta”
Franco Bassanini sceglie i socialisti con riserva: “Tentati dall’estremismo”
di Luca Telese


È uno strano ballottaggio: Sarkozy contro... Natta. Ma comunque vada questo voto sarà un segnale importante per dire dove va l’Europa”. Quando Nicholas Sarkozy fu eletto, Franco Bassanini, ex ministro della funzione pubblica in Italia (con l’Ulivo al governo), stupì molti compagni con una significativa apertura di credito in favore del neo-presidente della destra francese, che lo chiamò a far parte della commissione Attali proprio insieme all’attuale premier Mario Monti. Ma oggi ritiene che Sarkò abbia fallito e non nasconde la sua delusione: “All’inizio del periodo di Sarkozy il programma di riforme e di innovazioni che aveva messo in campo era molto interessante. Adesso questa intuizione si è persa per strada”. Bassanini oggi è consigliere della Cassa depositi e prestiti, ma gestisce anche Inframed, un fondo europeo con sede a Parigi. “In Francia – riassume – ho una casa, un ufficio, un figlio, due nipoti e una nuora”. Bassanini è convinto che le elezioni per l’Eliseo potrebbero spostare i rapporti di forza europei, e svolgere un ruolo decisivo nella soluzione della crisi.
Che cosa non ha funzionato nelle scelte del presidente uscente?
Almeno due fattori: uno sul piano internazionale e uno su quello nazionale. Oggi Sarkozy parla una lingua quasi esclusivamente conservatrice. Ha cambiato del tutto il baricentro del suo progetto, dalle riforme alle paure.
Cosa ha determinato questo cambiamento?
In primo luogo il suo partito: era molto più conservatore di lui, soprattutto quello insediato nelle zone rurali che questa legge elettorale fa pesare molto. Poi c’è una responsabilità della sinistra. I socialisti non gli hanno fatto sponda.
Ha giocato qualcosa anche il temperamento?
Sarkozy Ha un carattere che preferisce soluzioni estemporanee. Alla fine del mandato vede indebolito il suo prestigio e il suo carisma.
E sul piano europeo?
Dopo le elezioni tedesche le presidenziali sono l’appuntamento più importante, perché fino ad oggi, operazioni-immagine a parte, i francesi in questi anni sono andati a rimorchio dei tedeschi.
E Hollande, come lo vede?
Se posso permettermi una battuta: il partito socialista francese attualmente è sulle posizioni di Alessandro Natta.
Intende il successore di Enrico Berlinguer, segretario fino al 1988?
Proprio così. Il programma è quello di un partito socialista della seconda metá del secolo corso: intervento dello Stato, spesa pubblica, convinzione che si possano mettere in discussione tutti i paradigmi del mercato.
Non li condivide?
In via astratta, certo. Ma purtroppo in un momento di crisi come questo non basta un solo Paese a farlo.
Troppo conservatore?
Attenzione: c’é un problema strategico: memore di quello che è successo a Jospin, che non arrivò al ballottaggio per l’exploit dei trotzkisti, deve coprirsi sul fronte sinistro.
E al secondo turno?
Poi il profilo viene corretto per conquistare il centro.
Da socialista novecentesco a liberista?
Liberista non direi: la crisi ha spazzato via questo schema politico.
Lo spera la sinistra...
Non solo. Sa cosa ha detto il direttore del Times, James Harding, non un estremista, in una tavola rotonda a cui ho partecipato? “Sono state spazzate via due ideologie: quella che prevede la prevalenza dell’economia di piano. E quella thatcheriana che immaginava che il mercato e il capitalismo si sarebbero autoregolarsi da sè”. Harding sostiene che l’intervento dello Stato deve garantire beni comuni, regole, elementi di redistribuzione. La scommessa è declinare il modello europeo: economia sociale di mercato. Ma c’è una variabile.
Quale?
C’è chi pensa che un forte successo di Melanchon possa costringere la squadra di Hollande a rivedere questa strategia dei due tempi. Le residue speranze di Sarkozy si appuntano su questo. Il successo di Melanchon non è sorprendente per la quantità ma per la qualità: potrebbe unire un bacino che è sempre esistito, anche se diviso. Il “Front de Gauche” aumenta il suo peso specifico.
Trova efficace l’idea dell’aliquota al 75% lanciata da Hollande?
In Francia forse, sul piano simbolico. Ma quella imposta può avere un suo senso se si è in grado di identificare i redditi: in Italia, dove c’é un forte evasione, diventa ingiusta. penalizza il ceto medio alto più onesto e produttivo. Premia il popolo delle società di comodo.
E sul piano del bilancio?
È inutili farsi illusioni. Non puoi risolverei problemi di finanza pubblica e i conti che non tornano nel bilancio con una aliquota. È poco più di un messaggio: il gettito che arriva da una tassazione di questo tipo è davvero relativo.
Che partita si sta giocando?
Il punto più rilevante: dodici anni fa l’Europa aveva una maggioranza di governi di sinistra. Nel quinquennio successivo prevalevano i governi di destra. La politica della Merkel è frutto di questi rapporti di forza.
I socialisti francesi ci aiuterebbero?
La posizione di Hollande sull’Europa così come è uscita fino ad adesso è il nodo più forte per noi: sembra rimettere in discussione la scelta della Merkel e della Bundesbank. Ovvero: riduzione feroce del debito a scapito della spesa sociale.
E la nuova ricetta?
I socialisti purtroppo sono tentati da risposte radicali: vogliono rimettere in discussione il fiscal compact, il trattato di stabilità.
Lei non lo direbbe?
Io chiedo un riequilibrio. Sostegno alla crescita e alla coesione sociale.
Troppo di sinistra?
Non direi destra o sinistra. Penso che con le posizioni di principio non si vada da nessuna parte.
Perché?
Non difende dal rischio di un attacco speculativo. Eppure anche in Germania non tutti la pensano come la Bundesbank. bisogna dialogare con loro.
Se potesse votare sceglierebbe il centrista Bayrou?
No, non è riuscito ad emergere. Non resta che sperare un governo Hollande di forte spessore riformatore.

l’Unità 17.4.12
«I fiori appassiti della primavera araba»
La scrittrice egiziana che ha raccontato la rivolta nel suo blog è pessimista sul futuro democratico del suo Paese. E a un mese dalle elezioni dice: «Quasi tutti i candidati vengono dal vecchio regime o da un background religioso»
di Umberto De Giovannangeli


In Egitto è una star consacrata. Il suo blog Voglio sposarmi è stato un successone e il libro Che il velo sia da sposa pubblicato in Italia da Epoché Edizioni, 2009 (euro 15,00) è diventato un best seller al punto di ispirare una serie televisiva. Per tutti è diventata la «Bridget Jones del mondo arabo». Lei, Ghada Abdel Aal, 32 anni, farmacista e single, le luci della ribalta non se le sognava nemmeno quando, nel 2006, affidò a Internet i suoi travagli emotivi per raccontare al mondo la più grande piaga d’Egitto: la tragicomica ricerca di un uomo da sposare. Perché se non sei maritata, la tua popolarità sociale è pari a zero.
La farmacista scrittrice col suo seguitissimo blog è stata l’anima della Primavera araba in Egitto: Voglio sposarmi è diventato una cassa di risonanza, un vero tamtam a sostegno delle ragioni della rivolta che ha portato Hosni Mubarak a lasciare il potere. «Usare Facebook raccontò Ghada agli albori della “rivolta di Piazza Tahrir per noi è stata una questione di vita o di morte, una necessità, l’unico mezzo per connetterci. Uno strumento vitale per essere uniti, non potendoci incontrare. L’esperienza di Ghada racconta di una generazione che guarda al futuro con curiosità, passione. Una generazione al femminile. Ghada Abdel Aal sarà una delle protagoniste di «Incroci di Civiltà. Incontri Internazionali di Letteratura a Venezia», manifestazione diffusa nei luoghi della cultura cittadina lagunare in programma da domani al 21 aprile che vedrà la partecipazione di 24 big della letteratura mondiale provenienti da 17 Paesi. In questa complessa e contraddittoria fase di transizione, sono in molti, in Egitto, a guardare con attenzione all’esperienza della Turchia di Redigano. Un’attenzione che trova partecipe anche Giada. Che così si è espressa recentemente: «Sarebbe una cosa positiva è il suo pensiero in merito se l’Egitto diventasse come la Turchia: una nazione civile con un’economia in forte crescita e una situazione politica stabile, senza perdere di vista le proprie radici islamiche, ma senza fare di queste radici una ragione di divisione e di emarginazione per altre componenti della solita».
Quanto è rimasto oggi di quello spirito di libertà che ha animato la «primavera» egiziana e che è vissuto nei giorni indimenticabili della rivolta in Piazza Triari?
«Temo che la mia risposta possa ingenerare delusione, ma questo spirito pieno di speranza nel futuro e nella fede che tutto alla fine si possa risolvere al meglio si sta dissolvendo dopo che abbiamo tutti realizzato quale sia lo scenario politico nel quale ciascuno sta combattendo per il proprio interesse, per garantirsi, come si sol dire, la propria fetta di torta, mentre nessuno sembra preoccuparsi delle reali possibilità di costruire una concreta prospettiva. Nemmeno ricordando il prezzo in vite umane pagato per perseguire questo futuro nel nostro Paese».
Il suo blog (e la rete in generale) hanno dato a molta gente la possibilità di parlare e di essere ascoltati. Prima non avevano voce. Pensa che questa esperienza abbia cambiato le persone coinvolte?
«Le persone che non avevano voce hanno trovato nel mio blog uno spazio sicuro per esprimersi o per ascoltare l’opinione di altri senza alcuna censura. Molti di loro hanno avuto il coraggio di parlare liberamente dei loro problemi al punto che poi hanno aperto il loro proprio blog, un’enorme ondata generata dal mio. Così la gente ha potuto parlare dei propri problemi senza alcuna paura di subire campagne calunniatorie».
La «Primavera araba», non solo in Egitto, ha visto protagonisti i giovani e le donne, con le loro ansie, i loro sogni, la loro rabbia e un insopprimibile bisogno di libertà. Nel suo blog e nei suoi libri, lei ha dato conto di questi sentimenti. Vista dagli occhi di una giovane donna, quella egiziana è una «rivoluzione tradita»?
«Penso che donne e giovani abbiano un lungo percorso di lotta davanti a loro e penso debbano essere pronti a numerose altre “rivoluzioni”. Personalmente non ho mai pensato che le cose potessero essere facili, mai ho creduto che la strada per una nuova vita fosse dritta e comoda. Molti pensano veramente che tutto si sia risolto con la caduta di Mubarak, ma altri, me compresa, erano e sono ben consapevoli che ci vorranno anni per dissolvere la corruzione del clima politico».
L’Egitto si avvia alle prime elezioni presidenziali del «post Mubarak». Con quali aspettative lei guarda a questa scadenza?
«Mi aspetto delle elezioni difficili e un cattivo risultato: quasi tutti i candidati provengono dal vecchio regime o da un background politico-religioso. Chi non possiede questi requisiti non ha alcuna possibilità di vincere. Personalmente non appoggio né i primi, né gli islamisti, dunque qualsiasi sia l’esito, certamente non sarà soddisfacente».
La gente nel suo Paese ha potuto percepire il sostegno morale dei Paesi Occidentali?
«I Paesi occidentali hanno sostenuto Mubarak per trent’anni, nessuno si aspettava il loro aiuto; all’inizio della rivoluzione tutte le notizie che venivano dai governi occidentali erano di imbarazzo e per nulla di aiuto al popolo egiziano. Hanno dichiarato la loro solidarietà soltanto dopo che era molto chiaro che non avremmo fatto un passo indietro finché Mubarak non fosse stato destituito. Naturalmente, sapevamo che i media occidentali ci guardavano con simpatia, e di questo eravamo molto contenti».

La Stampa 17.4.12
La bomba Kirchner “Ci riprendiamo i pozzi di petrolio”
L’Argentina nazionalizza il gruppo Ypf controllato dal colosso spagnolo Repsol
«Ma non parlate di nazionalizzazione Torniamo in possesso di un bene nostro»
di Emiliano Guanella


BUENOS AIRES La presidente dell’Argentina Kristina Fernandez de Kirchner ha preso il posto di suo marito Nestor e non si toglie mai il lutto per l’ex presidente
Ha giocato al gatto e alla volpe per settimane Cristina Kirchner, ma alla fine ha dato l’annuncio che tutti, da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico si aspettavano; la compagnia petrolifera Ypf, di proprietà degli spagnoli della Repsol, passa sotto il controllo dello Stato argentino.
Il progetto di legge parla di «recupero della sovranità nazionale degli idrocarburi», in pratica si tratta di una manovra di esproprio e nazionalizzazione molto simile a quella già praticata in Venezuela da Hugo Chavez. Una mossa che colpisce al cuore una delle compagnie più potenti in Spagna, creando panico negli ambienti finanziari e politici iberici già impegnati ad affrontare la difficile crisi economica. La Ypf, sigla per yacimentos petroliferos forense, venne venduta a Repsol negli anni Novanta, l’epoca delle privatizzazioni selvagge volute da Carlos Menem. Per vent’anni Repsol ha potuto estrarre il greggio in centinaia di pozzi dalla Patagonia alla regione andina, fissando a suo piacimento il prezzo del carburante e senza rendere conto allo Stato argentino. Un affare d’oro; gli attivi della filiale argentina hanno fatto crescere la società a livello globale. Ieri le azioni di Repsol alla borsa di New York sono crollate, mentre pochi minuti dopo l’annuncio della Kirchner un gruppo di ufficiali giudiziari occupavano la sede della società nel centro di Buenos Aires per mettere in pratica un decreto presidenziale, promulgato assieme all’annuncio, per assicurarsi immediatamente il controllo dei libri contabili e delle operazioni.
Secondo il progetto di legge, che verrà rapidamente approvato dal parlamento, dove il governo può contare su un’amplia maggioranza, il 51% delle azioni di Ypf saranno controllare e amministrate dallo Stato, mentre il restante 49% saranno gestite da un fondo composto da azionisti privati di minoranza e i rappresentanti delle nove provincie petrolifere.
«Deve essere chiaro a tutti ha spiegato Cristina Kirchner che non stiamo nazionalizzando ma recuperando lo strumento fondamentale per sostenere il nostro sviluppo». Nel suo discorso alla Casa Rosada, sullo sfondo una gigantografia di Evita Peron, la Kirchner ha spiegato le ragioni della decisione, accusando la gestione spagnola di aver svuotato i pozzi più importanti, di non aver investito nella ricerca di nuovi giacimenti e nella modernizzazione degli impianti, al punto da costringere il paese a importare gas e petrolio per la prima volta nella sua storia. «Rischiamo di trovarci paralizzati per colpa della mancanza di risorse ha detto Kirchner -. Nel 2011, anno in cui abbiamo dovuto importare combustibile, Ypf ha registrato il maggior guadagno della sua storia, oltre dodici miliardi di dollari».
È il trionfo della linea nazionalista, che punta a un maggior controllo dello Stato nei settori strategici. La stessa che ha portato al recupero della compagnia di bandiera Areolineas Argentinas dal gruppo spagnolo Marsans e che sostiene la politica ferrea di controllo delle importazioni e del mercato dei cambi, che ha causato l’abbandono di decine di imprese straniere. Una linea nacional popular, simile al peronismo del secondo dopoguerra e che porta Buenos Aires a scontrarsi con partner commerciali di lunga data, non solo la Spagna ma anche i vicini Brasile e Uruguay.
Durissime le reazioni in Spagna, dove la si accusa di populismo e metodi semi-dittatoriali. «Non rispondo a minacce e accuse di basso livello ha risposto Kirchner non scendo al loro livello». La Kirchner ha spiegato che si è ispirata alla brasiliana Petrobras, controllata al 51% dallo Stato e oggi una delle maggiori compagnie petrolifere mondiali. «Dobbiamo essere autosufficienti dal punto di vista energetico». Linea condivisa anche dai social media, dove una delle vignette più condivise è stata quella di Pagina 12, quotidiano vicino all’esecutivo: «La stampa spagnola ci accusa di volergli rubare il nostro petrolio! ».

Corriere della Sera 17.4.12
La lobby americana delle armi ora punta sulle donne
Revolver rosa e reggiseni-fondine Un mercato in rapida espansione
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Due cose ho imparato girando l'America per preparare il mio libro. In questo Paese sul diritto ad armarsi ci sono i favorevoli e un po' di contrari, ma nessuno è neutrale. Secondo: al di fuori delle grandi metropoli a maggioranza democratica, negli Usa tutti hanno almeno un'arma». La fotografa Lindsay McCrum è diventata suo malgrado una studiosa del profilo sociologico dell'America con la pistola («un tema che eccita, non si riesce a discutere, anche se questa è una realtà con molte articolazioni, che non andrebbe liquidata con uno stereotipo»), man mano che documentava in un libro fotografico pubblicato un anno fa, Chicks with Guns, la crescente diffusione di revolver e fucili tra le donne.
Un fenomeno cresciuto a dismisura negli ultimi anni e certificato dalle cifre sorprendenti diffuse lo scorso week end a St Louis durante la «convention» annuale della National Rifle Association (Nra), l'associazione-lobby degli armieri e degli armati. Nonostante il calo dei crimini violenti e l'aumento di stragi e uccisioni dovute anche alla facilità con cui individui esaltati, fuori di senno e aspiranti «giustizieri», riescono a mettere le mani su micidiali armi automatiche, negli Stati Uniti le vendite di pistole e fucili continuano a crescere.
E l'incremento più consistente riguarda proprio l'universo femminile: sono ormai oltre 20 milioni le donne americane che possiedono almeno un'arma (un'indagine Gallup parla addirittura di 23 milioni). E quelle che si esercitano nei poligoni sono cresciute del 47 per cento in dieci anni, secondo la National Sporting Goods Association.
Casi come quello di Trayvon Martin, il ragazzino nero (disarmato) ucciso in Florida da un uomo che si era autonominato vigilante di quartiere e l'aveva scambiato per un ladruncolo, fanno discutere l'America e anche le decine di migliaia di frequentatori della fiera dell'Nra. Se ne parla, magari con dolore, ma come di un semplice, deprecabile incidente. Fatalità della vita, come le vittime della strada.
Chi è abituato da generazioni a crescere in case piene d'armi, chi vive isolato o in zone abitate da animali pericolosi non può nemmeno concepire che la sua libertà di procurarsi armi anche di notevole calibro possa essere limitata. La cosa curiosa è che, nonostante Barack Obama, fiutando quest'aria, abbia rinunciato a porre qualunque argine alla continua espansione di questi arsenali privati (facendo, così, infuriare i suoi elettori della sinistra «liberal»), proprio la paura di una sua rielezione a fine 2012 viene usata da industrie e commercianti per indurre i loro clienti ad accelerare gli acquisti: «Non si sa mai cosa potrebbe succedere con l'Obama 2».
E, siccome il mercato è mercato, a St Louis molti degli stand più affollati erano quelli destinati al «gentil sesso»: dalla fondina che consente di tenere il revolver appeso al centro del reggiseno (i filmati di estrazione rapida sono già su YouTube) allo «Chic Lady Revolver». Praticamente una P38 per lei, fatta di alluminio anodizzato rosa (salvo l'impugnatura e la canna d'acciaio) e venduta a meno di 500 dollari con un'apposita valigetta, anch'essa rosa.
Fino a ieri la donna armata era soprattutto la ragazza cresciuta in un ranch che imparava dal padre a maneggiare il fucile, la moglie che andava col marito al poligono di tiro (negli Usa ce ne sono ormai diecimila, rispetto ai 500 di qualche decennio fa), la poliziotta o la dipendente di un'azienda della sicurezza. Oggi si cerca di vendere l'arma anche come un oggetto «chic», con pubblicità che puntano esplicitamente ai richiami sexy. Le industrie festeggiano, intasate dagli ordini: il valore delle azioni della Smith and Wesson è schizzato alle stelle, mentre la Sturm per adesso ha sospeso le vendite, visto che non riesce nemmeno a smaltire le enormi commesse già acquisite.

Corriere della Sera 17.4.12
Da Cicerone al Maggio '68 La forza di una frase
Come una formula magica che entra nell'immortalità
di Paolo Di Stefano


L' efficacia di una frase è il risultato dell'intelligenza e dell'originalità dell'enunciato, della sua forza emotiva e/o argomentativa e del contesto in cui viene pronunciata, cioè del pubblico che la riceve. Ma c'è frase e frase. Ci sono frasi-slogan che tendono a stupire senza preoccuparsi dell'argomentazione che li precede o li segue: si pensi al messaggio pubblicitario, che deve colpire l'attenzione con immediatezza subliminale. In questo, la pubblicità ha qualcosa della comunicazione poetica che, senza intenzione di persuadere, vuole però smuovere i sentimenti profondi. Ci sono invece frasi che pur rimanendo isolate a mò di proverbio nella memoria dei posteri appartenevano in origine a testi (e contesti) molto ampi e di cui si configuravano come il momento-chiave o come l'assunto da cui sarebbero derivate dimostrazioni più o meno logiche e stringenti. In un famoso discorso contro Catilina, Cicerone si lasciò andare a un'invettiva sui costumi: «O tempora, o mores!», dopo aver accennato alla sfrontatezza del congiurato e prima di affondare il colpo sull'impassibilità del Senato per convincerlo a condannare l'impostore. Anche grazie a frasi come quella (replicata dalla celebre «Mala tempora currunt»), l'autore delle Catilinarie consegnò all'eternità la sua orazione, che secondo Leopardi era «formata sulle regole e i modelli eterni dell'arte più squisita», a differenza di quelle contemporanee che «o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì», insomma non erano degne di durare.
La retorica, in politica, è sempre stata un esercizio indispensabile per ottenere, onestamente o no, il consenso del pubblico, dell'avversario, dell'ascoltatore, del lettore, dell'elettore. Tradizionalmente non c'è battaglia civile senza eloquenza: il talento oratorio del riformista bolognese Marco Minghetti, nemico giurato di Francesco Crispi, si fondava su una ricchissima educazione classica e fu ammirato da tutti per la sua eleganza concreta, essenziale, armonica, affabile. Minghetti incarnò, al sommo grado, un'abilità retorico-argomentativa estremamente efficace sul piano civile e intellettualmente leale. In un discorso contro il trasformismo, pronunciato alla Camera nel 1883, disse: «Io vorrei che il mio pensiero passasse limpido e genuino nella mente dei miei colleghi, senza ambagi e senza orpello» (lo si può leggere interamente nel recente volume Parole al potere, a cura di Gabriele Pedullà, Bur). Il suo auspicio era fondato sulla consapevolezza. Il fatto che Minghetti non ha lasciato slogan memorabili, non è forse un male.
In fondo bisogna sospettare delle frasi indimenticabili. Perché chi lascia ai posteri slogan politici destinati a rimanere nella memoria collettiva spesso le affida a un'argomentazione «degenerata», come l'ha definita Umberto Eco: un discorso che si fonda su entimemi, cioè su falsi sillogismi o su enunciati demagogici. Ai dittatori la proverbialità viene facile, preferendo adottare scorciatoie argomentative e saltando subito a conclusioni enfatiche. Pensate a certi giri di pensiero mussoliniani: «Solo Dio potrà piegare la nostra volontà; gli uomini e le cose mai»; oppure: «Senza sforzo, senza sacrificio e senza sangue nulla si conquista nella storia». Per non dire degli slogan imperiosi passati funestamente agli archivi della storia: «Credere, obbedire, combattere». Enzo Golino ha mostrato, nel suo saggio Parola di Duce, quali politiche linguistiche aggressive, censorie, subdole siano state messe in opera durante il fascismo per convincere il popolo a credere ciecamente nel Condottiero.
Ci sono frasi che, giocando su figure del discorso inconsuete e su combinazioni particolarmente creative, entrano nella memoria per via di paradosso e di assurdo. Certi slogan scritti sui muri della Sorbona nel maggio '68 non sono ancora tramontati anche se i loro contenuti non sono più di grande attualità: «L'immaginazione al potere», «Proibito proibire», «Il patriottismo è egoismo di massa». Per fortuna l'inventività linguistica può anche essere messa al servizio di cause nobilissime. E a volte arrivare a produrre immarcescibili tormentoni da rilanciare nelle occasioni più diverse, estrapolati dal contesto quasi fossero formule magiche, pure stringhe sonore. Ammesso (e concesso) che le parole non cambiano il mondo se non si accompagnano all'azione, la sonorità, la cadenza, la musica non vanno sottovalutate: l'aspetto artistico si sposa con l'efficacia del messaggio. Non va sottovalutato neppure l'impianto sintattico, per esempio quello della magniloquenza democristiana umanistico-giurisprudenziale, con il fascino astratto di certe formule fortunate, anche se sostanzialmente vuote di senso: «Convergenze parallele»... Anche questa, bisogna riconoscerlo, è creatività, sia pure creatività perversa il cui scopo era la prevaricazione verbale tecnocratica, la cortina fumogena di chi non voleva farsi capire.
Il monologo politico più bello (e ambiguo) è l'orazione funebre («Amici, Romani, concittadini...») in cui Antonio cerca di smuovere l'opinione pubblica contro gli assassini di Cesare, con l'ipocrita iterazione «Bruto è un uomo d'onore». Non è un caso che sia stato scritto da Shakespeare. L'eloquenza politica ha sempre richiesto una forte consapevolezza del proprio compito, un'autorialità e un'autorità che oggi scolorano verso il populismo politico e di conseguenza linguistico: verso la discorsività incolore dei «mi consenta», dei «celodurismi» e dei «ma anche», quando non verso la volgarità dell'insulto. Formulette che hanno stancato persino i comici, figurarsi gli elettori.

La Stampa 17.4.12
Brin: “Mai così a rischio la libertà di Internet”
Il co-fondatore di Google: colpa di troppe leggi e anche di Facebook
di Maurizio Molinari


La libertà su Internet versa in grave pericolo». Sergei Brin, co-fondatore di Google, fa proprio l’allarme lanciato dal Segretario di Stato Hillary Clinton lo scorso anno, ma lo declina in maniera assai differente. L’occasione è un’intervista al quotidiano britannico «The Guardian» che Brin sfrutta per indicare tre grandi avversari della libera circolazione di idee e users online.
Il primo è il gruppo di Stati dispotici o autoritari che impediscono ai propri cittadini il libero accesso online: anzitutto la Cina, ma anche l’Arabia Saudita, la Corea del Nord e l’Iran, che in comune hanno il monitroraggio dei comportamenti digitali dei loro cittadini al fine di bloccare l’accesso a molteplici fonti di informazione. Brin, 38 anni, nel 2010 fu fra i fautori della scelta di Google di ritirarsi dalla Cina a seguito della scelta di Pechino di impossessarsi dei conti email dei dissidenti, ma oggi ammette di aver fatto delle previsioni sbagliate: «Pensavo che nel lungo termine la Cina non sarebbe riuscita a restringere con efficacia l’accesso a Internet, perché è impossibile imprigionare il genio in una bottiglia, ma ora devo ammettere che in alcune aree sembrano esserci riusciti».
Questo vale anche per Riad e Teheran, i cui cittadini, possono navigare solo passando attraverso un sistema di registrazioni che li tasforma in sorvegliati speciali. Fin qui Brin adopera il linguaggio di Hillary, ma poi procede in altre due direzioni che vanno oltre l’agenda del Dipartimento di Stato.
Il secondo avversario della libertà di Internet per Brin sono infatti le leggi, già varate o in discussione, in Paesi del mondo industrializzato che al fine di tutelare la «proprietà intellettuale» impediscono la libera circolazione di idee e prodotti. Ad esempio il co-fondatore di Google, che lasciò l’Urss con la famiglia per fuggire dalle persecuzioni antiebraiche, indica nella legge americana «Stop Online Piracy Act» uno dei «tentativi più errati», perché «ignora il fatto che la pirateria si genera quando i siti dei grandi produttori dell’industria dello spettacolo spingono le persone a non acquistare i loro prodotti». «I consumatori non potendo comprare ciò che vogliono, scelgono la pirateria», osserva Brin, rivolgendo ai giganti di Hollywood la richiesta di non spingere il Congresso a penalizzare i diritti degli utenti.
Ma ciò che Brin più tiene a sottolineare e che gli fa ammettere di «essere impaurito come mai avvenuto in passato» è la crescita su Internet di realtà che definisce «giardini recintati», perché ermeticamente chiusi al popolo della rete. Il riferimento è a Facebook e Apple, perché tanto gli scambi di comunicazione fra gli «amici» del social network guidato da Mark Zuckerberg che le application inventate da Steve Jobs restano impermeabili alle ricerche online, creando dei mondi separati. «Molto va perduto, perché ad esempio le informazioni contenute nelle application sfuggono alle ricerche», sottolinea Brin, ammettendo anche l’indebolimento di Google per via del fatto che le sue potenzialità di motore di ricerca ne escono ridimensionate, con conseguenti danni per la raccolta di pubblicità. «Nel mondo di Facebook e Apple io e Larry Page non avremmo mai potuto creare Google spiega Brin perché allora il web era completamente aperto, mentre adesso è vessato da molteplici limiti che frenano la capacità di innovazione». L’affondo nei confronti di Facebook coincide con l’atteso collocamento sul mercato di azioni per 100 miliardi di dollari e potrebbe causare dei danni all’operazione finanziaria.

Repubblica 17.4.12
L’impero dei sensi
Com’è possibile educare il nostro inconscio
di David Brooks


Anticipiamo un brano de "L´animale sociale" libro dell´editorialista del "New York Times"
Ogni percezione ha il proprio "sapore", la sua consistenza, e le reazioni scorrono senza tregua
Siamo bravi a parlare di incentivi materiali ma non altrettanto a parlare di impulsi e di intuizioni

Se la coscienza è come un generale che vede il mondo da una certa distanza e analizza le cose linearmente e linguisticamente, l´inconscio è come tanti piccoli soldatini ricognitori. Procedono a tentoni sul territorio, mandando un flusso costante di segnali e generando risposte immediate. Non mantengono nessuna distanza con l´ambiente che li circonda: vi sono completamente immersi. Si infilano ovunque, penetrano in altre menti, in altri scenari, in altre idee. Questi ricognitori danno alle cose un significato emozionale. Incontrano un vecchio amico e mandano alla base un impulso di affetto. Entrano in una grotta buia e inviano un impulso di paura. La visione di un paesaggio magnifico produce una sensazione di sublime rapimento. Il contatto con un´intuizione brillante produce piacere, mentre il contatto con la scorrettezza produce una giustificabile ira. Ogni percezione ha il proprio "sapore", la propria consistenza e la propria forza, e le reazioni scorrono senza tregua nella mente in un flusso di sensazioni, impulsi, giudizi e desideri.
Questi segnali non controllano la nostra vita, ma modellano la nostra interpretazione del mondo. Ci guidano, come una specie di gps, via via che delineiamo il nostro percorso. Se il generale ragiona in termini di dati e parla una lingua analitica, i ricognitori agiscono nel territorio delle emozioni, e il loro lavoro si esprime al meglio nella narrazione di storie, nella poesia, nella musica, nelle immagini, nella preghiera e nel mito.
Io non sono un tipo sdolcinato, come mia moglie ha senza dubbio avuto modo di osservare. C´è un bellissimo aneddoto, anche se è apocrifo, su un esperimento nel quale alcuni uomini di mezza età sono stati attaccati a un´apparecchiatura di neuroimaging cerebrale mentre guardavano un film dell´orrore. Poi è stato chiesto loro di descrivere i propri sentimenti per la moglie. Le scansioni del cervello compiute nei due momenti sono risultate identiche: puro terrore, per entrambe le attività! Conosco la sensazione… Tuttavia, se ignoriamo gli impulsi di amore e paura, lealtà e ripugnanza che scorrono in noi in ogni momento di ogni giornata, ignoriamo il più essenziale dei territori: ignoriamo i processi che determinano ciò che vogliamo, il modo in cui percepiamo il mondo, ciò che ci spinge in avanti e ciò che ci frena. (...)
Il tipo di ricerca portato avanti oggi ci ricorda l´importanza delle emozioni rispetto alla ragione pura, delle reti sociali rispetto alle scelte individuali, del carattere rispetto al quoziente di intelligenza, dei sistemi organici emergenti rispetto ai sistemi meccanicistici lineari e dell´idea di avere molteplici sé rispetto all´idea di avere un singolo sé. Se vogliamo tradurre le implicazioni filosofiche in termini molto semplici possiamo metterla così: l´Illuminismo francese, che enfatizza la ragione, perde; l´Illuminismo inglese, che enfatizza i sentimenti, vince. (...) Quando Freud se ne uscì con il suo concetto di inconscio, ebbe un´influenza fortissima sulla teoria letteraria e sullo studio delle dinamiche sociali e persino politiche. Oggi noi possediamo una conoscenza dell´inconscio molto più approfondita, eppure queste scoperte non hanno ancora avuto un impatto adeguato sul pensiero sociale. (...)
I pensatori razionalisti ritenevano che la logica fosse il culmine dell´intelligenza, e che la liberazione del genere umano avvenisse nel momento in cui la ragione aveva la meglio su consuetudini e superstizioni. Nell´Ottocento la coscienza era rappresentata dallo scienziato Dr. Jekyll mentre l´inconscio era il barbarico Mr. Hyde.
Molte di queste dottrine hanno conosciuto un lento e progressivo declino, ma in generale la gente ancora non si rende conto di come le attrazioni e le avversioni inconsce plasmino la vita di tutti i giorni. I comitati per le ammissioni scolastiche giudicano ancora le persone facendo ricorso ai test per il quoziente di intelligenza e non valutando capacità e competenze pratiche. Abbiamo ancora settori accademici che spesso considerano gli esseri umani come individui razionali tesi a massimizzare un qualunque profitto. La società di oggi ha creato un gigantesco apparato per lo sviluppo delle competenze tecniche, mentre è inadeguata quando si tratta di valorizzare quelle facoltà morali ed emozionali che giacciono più in profondità.
Ai giovani in generale viene insegnato come riuscire a superare mille gironi scolastici, quando invece le decisioni di gran lunga più importanti che dovranno prendere riguardano la persona da sposare e quelle con cui stringere amicizia, chi amare e chi disprezzare, e come controllare i propri impulsi. Su tali questioni vengono di fatto lasciati a se stessi. Siamo bravi a parlare di incentivi materiali, ma non altrettanto bravi a parlare di emozioni e intuizioni. Siamo bravi a insegnare le competenze tecniche, ma quando si tratta delle cose più importanti, come il carattere, non abbiamo quasi nulla da dire.
Le ricerche condotte negli ultimi anni ci offrono un quadro più esaustivo di ciò che siamo. Confesso comunque di essermi avvicinato a questo argomento nella speranza di trovare risposte a questioni pratiche e meno filosofiche. Per lavoro scrivo di politica e di società, e nel passato abbiamo visto scelte politiche importanti produrre risultati deludenti. (...)
I fallimenti hanno una caratteristica in comune: fanno affidamento su una visione oltremodo semplicistica della natura umana. Molte di queste scelte politiche sono state basate su modelli superficiali del comportamento umano prodotti dalle scienze sociali. Molte sono state pianificate da studiosi chiusi nei loro laboratori, a proprio agio solo con tendenze che potessero essere misurate e quantificate. Sono state sottoscritte da commissioni legislative che conoscono le sorgenti profonde delle azioni umane quasi come conoscono l´aramaico antico. Sono state messe in atto da funzionari che non hanno la più pallida idea di quanto ci sia di fisso e quanto invece di flessibile negli esseri umani.
Era inevitabile che con queste premesse tali politiche fallissero. E continueranno a fallire, almeno fino a quando le nuove conoscenze su come effettivamente siamo fatti non verranno integrate in maniera esaustiva nella sfera delle politiche pubbliche; fino a quando in parallelo alla storia prosaica, terrena, non verrà raccontata anche la storia magica, sotterranea.
(Traduzione di Giuliana Olivero)

Repubblica 17.4.12
Il saggio di Raffaele Simone sul rapporto tra gli esseri umani e il web
Che succede al mondo preso nella rete
Aristotele ha insistito sul fatto che l’’uomo è un animale politico dotato di linguaggio
Questo è confermato dall’esplosione di gadget dedicati alla comunicazione
di Maurizio Ferraris


e ci fosse un premio per le visioni apocalittiche del Web, andrebbe sicuramente a questo bel libro di Raffaele Simone, Presi nella rete (Garzanti), in cui il mondo del Web, sin dal "Prologo in treno", dove tutti sono intenti a trafficare con i loro aggeggi e a ciacolare del più e del meno ripetendosi sempre le stesse cose ha la fisionomia dell´inferno dantesco. Anzi, visto che prevale il grottesco, della Divina Commedia nella versione Disney.
Di chi la colpa? Degli aggeggi, cioè dei telefonini, dei computer, degli iPad e degli iPod. L´ipotesi di Simone è che il nostro rapporto con la tecnologia sia di esattamento, cioè il contrario dell´adattamento. È la tecnologia che crea i bisogni invece che l´inverso, come avveniva nella interpretazione ottimistica e umanistica di McLuhan: i media non sono estensione dell´uomo ma, al contrario, l´uomo è l´estensione dei media. E dunque tutti questi strumenti, la cui apparizione ha creato una svolta epocale paragonabile alle altre due, della invenzione della scrittura e della invenzione della stampa (la Terza fase a cui Simone aveva dedicato un importante e fortunato volume nel 2000) è anche fonte di possibile perversione e di rischi incombenti di nuova barbarie. Ora, sul fatto che la svolta sia epocale, mi sembra difficile dissentire, e va appunto a merito di Simone aver riconosciuto di buon´ora il processo. E sarebbe anche importante seguire nel dettaglio le analisi, colte e sofisticate, che Simone dedica ai caratteri della trasformazione in corso. Quello tuttavia su cui mi piacerebbe avviare un confronto sono piuttosto due idee-guida che percorrono il libro, la prima di tipo etico, la seconda di tipo teoretico, e che sono strettamente associate.
L´idea etica (e antropologica) è appunto quell´esattamento come deformazione di una essenza umana che sarebbe autentica, o migliore, senza le tecniche, o almeno senza quelle ultime tecniche che danno tanto fastidio in treno. Ma già Aristotele ha insistito sul fatto che l´uomo è un animale politico, ed è un animale dotato di linguaggio. Entrambe queste circostanze sono confermate proprio dalla esplosione di gadget dedicati alla comunicazione. Se Aristotele avesse detto che l´uomo è un animale solitario e taciturno avremmo ragione di parlare di perversione tecnologica, ma così non è, e dunque questi apparati rivelano l´essenza dell´uomo, che non è poi così sublime, visto che si comunicano anche un sacco di scemenze.
L´idea teoretica (e l´ipotesi storiografica) è poi che ci sia una continuità tra il mondo radio-televisivo della seconda metà del secolo scorso e la rivoluzione informatica. Ora, anche in questo caso suggerirei una diversa prospettiva. C´è una frattura: la televisione e la radio sono immagine e parola, priva di memoria. Ciò che invece si trova nei gadget tecnologici contemporanei è anzitutto scrittura e, soprattutto, è registrazione, ossia possibilità di iterazione indefinita, che trasforma ogni flatus vocis in qualcosa di perenne. Ben lungi che con un trionfo della immagine, dei verba volant e dell´effimero abbiamo a che fare con una esplosione senza precedenti della scrittura, che invade ogni spazio della nostra esistenza.
Con questo ovviamente non tutto resta come prima, ed è sacrosanto convenire con Simone sul fatto che la lettura non è più quella di una volta, non è più la "lettura classica", che come tutti i "classici" è fortemente normativa: lettura silenziosa, concentrata, isolata. Quella delle biblioteche prima che irrompessero i telefonini, e anche quella dei "vagoni lettura" dei treni tedeschi e olandesi (ne hanno messi anche sui frecciarossa ma c´è rumore lo stesso, il che suggerisce che la colpa non è degli aggeggi, ma dell´uomo). Tuttavia, quella è, come Simone sa bene, una descrizione idealizzata, e che soprattutto si riferisce a una manciata di secoli nella storia della lettura, dal Medio Evo sino a ieri. Perché per tutta l´antichità la lettura, anche tra colti, avveniva ad alta voce, almeno di norma (Agostino si stupisce della lettura silenziosa di Ambrogio). Per cui se Simone per anacronistica ipotesi si fosse trovato in treno con Simonide, Platone, Aristotele, Democrito, Teofrasto, Tolomeo, Archimede, Plotino e Clemente Alessandrino avrebbe sentito un baccano indiavolato che gli avrebbe fatto rimpiangere i treni di oggi.

Repubblica 17.5.12
Piccole librerie spariscono
Ogni settimana ne chiudono due. Ecco come si estingue una specie
Persino il locale del presidente dell´associazione ha dovuto cessare l’attività. I motivi di una crisi
di Pietrangelo Buttafuoco


Sentite questa, perfino Paolo Pisanti, presidente dell´Ali, l´Associazione dei librai italiani, ha dovuto chiudere: «Anch´io ho abbassato la saracinesca della mia libreria a San Giorgio a Cremano». Si chiude, dunque: «In tre mesi, nella sola Napoli», racconta ancora Pisanti, «c´è stata un vera e propria moria. Un monumento come la "Libreria Guida", al Vomero, quella di Mario Guida, non c´è più. E anche una bellissima Mondadori, in centro, un franchising cui hanno partecipato fior di imprenditori illuminati, s´è dovuta arrendere. Era stata inaugurata il 2 di luglio del 2011. Non si può dire che abbia avuto il tempo di diventare "storica"».
L´involontaria serrata delle librerie in Italia: muoiono come le mosche. Possiamo ipotizzare una media di due alla settimana in tutto il territorio. «Chiudono, chiudono», conferma Salvo Pandetta, titolare della storica "Libreria Bonaccorso" di Catania in piazza Università. Questo negozio è "l´ufficio" di riferimento di Salvatore Silvano Nigro, critico della letteratura, nonché officina di una tradizione il cui marchio è Giovanni Verga. Accanto, proprio a filo di vetrina, da quattro anni ha aperto un negozio delle librerie editoriali (modello Feltrinelli e Mondadori, per intendersi). Per Pandetta il danno commerciale è stato enorme, ma almeno si è preso una bella soddisfazione. Gli arriva davanti al bancone un ragazzo per chiedergli Rosso Malpelo. Lui non fa in tempo a prendergli il volume, che quello sparisce per tornare subito dopo: «Che succede?» chiede Pandetta, col libro in mano. «Nell´altro negozio mi avevano detto che questo libro non esisteva. Hanno scritto nel computer Rosso Malpelo e non è uscito niente». Ecco, la concorrenza sleale. Il vecchio mestiere si prende la rivincita sul business: «Certo che non esce», ribatte sornione il libraio, «è contenuto in Vita dei campi. Oplà!».
«Aprono per far chiudere, e in realtà non sono librerie: sono negozi con uso di libri» spiega con cruda analisi Marcello Ciccaglione, fondatore delle Arion, 17 librerie a Roma. Nella capitale, giusto per aggiornare questa necrologia, con cinque librerie serrate negli ultimi sei mesi ha chiuso anche la storica vetrina della "Libreria Croce" su Corso Vittorio.
Aprire per chiudere. Ad Ancona è stata messa a morte la libreria di città. A Firenze sono morte la Libreria del Porcellino, la Martelli e la Le Monnier. Guai in arrivo per la Edison: è in scadenza il contratto d´affitto e Feltrinelli ha comprato l´immobile. Gioacchino Tavella, libraio a Lamezia Terme, quando viene salutato con l´appellativo di "eroico libraio" fa gli scongiuri.
Aprire per resistere. «Se non avessi la mia struttura», dice Ciccaglione, «una holding con altre associate Arion, non avrei avuto la forza di tenere aperta la mia prima libreria in viale Eritrea. Quando a pochi passi, sullo stesso marciapiede, venne inaugurato un punto vendita, diciamo così, editoriale, ebbi un Natale terribile. Ma ormai tutti noi librai lo dobbiamo mettere in conto: l´editore fa business snaturando la qualità del prodotto, sporcando l´amore per questo mestiere, svilendo la passione per un lavoro che se non fa diventare ricchi, di certo arricchisce. E lo dice uno come me che ha solo la seconda media, ha cominciato con una bancarella e adesso si è guadagnato una qualità speciale della vita grazie ai libri».
Che tipo, il Ciccaglione. «Quando vado a trovare gli amici della mia infanzia a Tor Pignattara, vedo nelle loro case un agio, un affollarsi di gadget e di elettrodomestici e mai, proprio mai, un libro. Mi è capitato di incontrare a una presentazione Carlo Vanzina e non sono riuscito a trattenermi, gli ho detto: "Ma perché non gli mette in mano un libro a uno dei personaggi dei suoi popolarissimi film?"». A proposito di film, non si può non ricordare C´è posta per te: lui è il proprietario della più importante catena di bookstore di Manhattan, le megalibrerie Fox, lei gestisce una piccola libreria di quartiere, "Il Negozio Dietro l´Angolo" proprio accanto al bookstore. I due si incontrano in una chat-room e nasce un amore. Ma era solo un film, appunto, e per giunta americano; nella cruda realtà italiana, l´amore tra chi ama i libri e chi i profitti non riesce a esistere. Piuttosto la pellicola di riferimento, dicono loro, è The Artist: i librai come gli artisti del muto, alla fine di un´epoca.
Restare aperti per vivere meglio. Ancora Ciccaglione: «Sono andato in vacanza ad Antibes, e con allegra rabbia mi sono accorto che in Francia, in qualsiasi sperduto paese della provincia, c´è sempre una libreria. Resto incantato a vedere i miei colleghi: scrivono a penna le schede dei libri per poi collocarle in vetrina. E quel gesto fa capire quanta cultura, quanta civiltà, quanta qualità della vita sia custodita da chi sa investire nella lettura».
Rosanna Cappelli, dirigente Electa, spiega a muso duro la situazione di questa catastrofe: «Al declino della politica fa seguito il declino intellettuale. In Italia non si tiene conto della conoscenza come forma di sviluppo». Si stampano libri che incontreranno tremila acquirenti in tutta Italia, e gli editori riempiono le librerie di titoli che non fanno in tempo ad arrivare per essere tolti. In Italia è venuta a mancare la clientela. L´avvocato Giovanni Battista Compagno, negli anni ‘70, lasciava duecentomila lire ogni mese in libreria come conto aperto per il figlio. Quella paghetta era l´educazione sentimentale del figlio, oggi filosofo, Giuliano Compagno. Lo facevano in tanti in tutta Italia. Quello zoccolo duro, i ragazzi fatti clienti dall´infanzia fino alla maturità universitaria, non c´è più.
Le librerie si trasformano. Gilberto Moretti è andato a farne una a Badia Polesine dove c´era una pizzeria. Ha mantenuto il banco e anche la licenza di somministrazione, ha buoni riscontri, si ammazza di idee e di fatica, e adesso la sua Antica Rampa, libreria-caffè, ricavata in un suggestivo piano interrato medievale, organizza presentazioni nel segno del sugarspritz.
Ma in Italia è venuta a mancare anche la qualità. La decisione di buttare in edicola, a prezzi stracciati, i Meridiani, orgoglio del catalogo Mondadori, è stata letale. Un incentivo a disertare le librerie con un prodotto taroccato, un ennesimo tributo al totem dello sconto. L´Aie, l´Associazione italiana editori, sta organizzando la Festa del Libro dal 19 al 23 maggio e di sicuro finirà a sconti. Come se gli italiani non leggessero più per non spendere. La verità è che gli italiani non entrano più in libreria perché ne hanno dimenticato l´esistenza. Una libreria che muore è un presidio sociale che se ne va. Come non trovare più la caserma dei Carabinieri, l´asilo e l´ospedale: «Se lo dico io», sorride Paolo Pisanti, «faccio come il pescivendolo che dice che il suo pesce è fresco. Però è davvero così. E un´Italia senza librerie è il deserto». Pisanti è impegnato a Orvieto con Piero Rocchi nei corsi di Scuola per librai. Ed è un segno di ottimismo.
Si scimmiotta l´America con l´idea che l´e-book sia il futuro. Ma neanche con il libro elettronico ci sono tutti questi grandi numeri. Anzi. «La Francia, piuttosto», dice Pisanti, «si prenda esempio da Parigi in tema di sostegno alla lettura. Il Centro per il Libro di cui è presidente Gian Arturo Ferrari riceve dallo Stato due milioni. Il governo francese, per l´ente che si occupa della promozione libraria, ne eroga sessanta». E poi la crisi. «Certo», continua il presidente dell´Ali, «c´è la crisi, ma è una storia tutta italiana. Anche in Grecia c´è la crisi, eppure le librerie non chiudono. La libreria è commercio. Ma solo in Italia ci sono gabelle assurde come la spesa di "porto-imballo"».
E poi i soldi, la liquidità. «Tutti i commercianti hanno problemi. A maggior ragione i librai. Gli istituti di credito considerano i magazzini dei libri al pari di carta straccia». E pensare che fu un grande banchiere, Raffaele Mattioli, il mecenate che volle dare alle stampe, nella Valdonega di Verona, quella collana che è il monumento della nostra memoria, la "Letteratura Italiana Ricciardi" il cui motto era «Quinci si va chi vuol andar per pace». Le banche di oggi, si sa, hanno scambiato la pace per il requiem.