sabato 14 aprile 2012

l’Unità 14.4.12
Pd, Pdl e Udc presentano il testo ma i tempi rischiano di allungarsi
Si riaffaccia Montezemolo: forze politiche senza dignità
Bilanci dei partiti: Lega e Radicali contro il sì in commissione
di Simone Collini


Depositata la proposta di legge Alfano, Bersani, Casini sui bilanci dei partiti. Montezemolo attacca le forze politiche: «Hanno perso senso del ridicolo e della dignità». Lega e Radicali contro il via libera in commissione

In attesa di vedersi martedì a Palazzo Chigi per discutere con il premier Mario Monti della riforma del mercato del lavoro e delle misure necessarie per la crescita e per far aumentare l’occupazione, Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini hanno chiuso la pratica, almeno per quanto li riguarda in prima persona: la proposta di legge a loro firma sulla trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti è stata depositata alla Camera. Ora però la partita si gioca a livello di gruppi parlamentari e forse anche di singoli deputati.
Dopo che è stato dichiarato inammissibile l’emendamento (contenente le nuove norme) al decreto fiscale, Pd, Pdl e Terzo polo hanno tentato la strada della proposta di legge auspicando un iter rapido grazie alla convocazione della commissione Affari costituzionali in sede legislativa (cioè deliberante, senza dover passare per l’Aula).
I TEMPI RISCHIANO DI ALLUNGARSI
Però con il trascorrere delle ore si conferma l’ipotesi che il niet posto da Lega e Radicali impedirà di accelerare i tempi. Basta infatti che un decimo dei deputati si dica contrario alla legislativa perché questa strada non sia praticabile. E sommati, i deputati leghisti (59) e Radicali (sono 6, all’interno del gruppo del Pd) superano questa soglia. A meno che i vertici Democratici non convincano la pattuglia radicale dell’inopportunità della mossa (Maurizio Turco giustifica il no alla legislativa perché giudica «un alibi» per non riformare il finanziamento pubblico il «voler dare qualcosa in pasto ai cittadini») i tempi per approvare le nuove norme si dilateranno fino a superare le amministrative di maggio.
MONTEZEMOLO CONTRO I PARTITI
La discussione rischia poi di essere accompagnata per tutto il tempo da attacchi ai partiti. «Dopo aver dimostrato di aver perso il senso del ridicolo, ora i partiti hanno anche perso il senso della dignità», dice Luca Cordero di Montezemolo. «Nonostante questa apparente volontà di riformare il finanziamento ai partiti, non si parla del tema più importante, del vero scandalo, e cioè l’enorme quantità di denaro pubblico che va ai partiti stessi». E ora la Lega fa sapere di voler rinunciare all’ultima tranche di rimborsi elettorali, chiedendo a tutti i partiti di fare altrettanto e dicendo che in ogni caso il Carroccio darà la sua parte in beneficienza. Anche Di Pietro fa sapere che l’Idv girerà la sua quota con un assegno circolare al ministro Fornero affinché provveda alle emergenze sociali, se non verrà approvata una norma che impedisca ai partiti di incassare l’ultima tranche di rimborsi.
I TAGLI GIÀ APPROVATI
Pd, Pdl e Terzo polo hanno concordato una strategia in due tempi, puntando ad approvare le nuove norme sul controllo dei bilanci per poi chiudere sulla riforma del finanziamento pubblico, prevedendo anche una diminuzione degli importi dei rimborsi elettorali. Però tanto il Pd quanto gli altri partiti fanno notare come già siano stati effettuati dei tagli. I rimborsi sono infatti scesi dai 289 milioni del 2010 (4,53 euro per ogni abitante) a 189 milioni nel 2011 e 2012 (2,97 euro per abitante) e scenderanno ancora nei prossimi anni fino ad arrivare a 143 milioni nel 2015.
Ma ora l’urgenza è rendere più severi i controlli sui bilanci e più pesanti le sanzioni per chi non rispetta le regole. Nella proposta di legge a firma Alfano, Bersani, Casini (seguono le firme del capigruppo Pdl Cicchitto, di quello Pd Franceschini, e degli esponenti del Terzo polo Della Vedova, Pisicchio e Galletti) si prevede l’obbligo di pubblicare su web i bilanci, l’anonimato per le donazioni fino a 5 mila euro e il controllo da parte di una commissione formata dai presidenti di Corte dei conti, Cassazione e Consiglio di Stato. Rispetto alla prima bozza, nella proposta di legge depositata c’è una modifica: i presidenti di questi organismi non potranno più delegare la propria funzione ma dovranno assumere in prima persona l’incarico, al più indicando due magistrati delle rispettive magistrature che li potranno affiancare.

il Fatto 14.4.12
“I milioni di luglio ci servono sennò i partiti chiudono”
Misiani, tesoriere del Pd confessa: “Abbiamo speso tutto”
di Wanda Marra

Rinunciare all’ultima tranche dei rimborsi elettorali? Impossibile, i partiti chiuderebbero. Sarà una verità impopolare, ma qualcuno deve dirla”. Antonio Misiani, tesoriere del Pd, bilanci alla mano, rivela un dato sorprendente. Soprattutto se rapportato alle cifre incassate dai partiti negli ultimi anni: 503 milioni di euro solo per le politiche del 2008.
Onorevole Misiani, quanti soldi ha in cassa il Pd?
Abbiamo un disavanzo di 43 milioni di euro.
Quindi siete in rosso? Ma negli ultimi 4 anni avete ricevuto 200 milioni di euro.
I 5 anni di rimborsi elettorali per la legislatura del 2008 li abbiamo messi a bilancio tutti insieme, ma arrivano rateizzati. L’anno scorso ci siamo dovuti far anticipare qualche milione di euro per arrivare a luglio
Se l'ultima rata dei rimborsi non dovesse arrivare il Pd non sopravviverebbe?
Esatto. L’80-90 per cento dei nostri introiti sono i soldi pubblici. E il problema non vale solo per noi. Il Pdl i soldi dei rimborsi delle politiche del 2008 li ha tutti cartolarizzati, ovvero se li è fatti anticipare dalle banche. È notizia risaputa. Tutti i partiti hanno bisogno di quella rata per sopravvivere.
Stiamo parlando di tantissimi soldi, però.
Negli ultimi 4 anni per i rimborsi relativi alle varie elezioni abbiamo incassato 37,4 milioni di euro nel 2008, 46,3 nel 2009, 60,1 nel 2011, 58 nel 2012.
Ma come avete fatto a spenderli tutti ?
Un partito vive sempre, mica solo in campagna elettorale. Quei soldi li usiamo per pagare l’attività politica, il personale. Il nostro bilancio è certificato. E rimborsi per le amministrative li trasferiamo sul territorio. Capisco il tema della corrispondenza tra spese e rimborsi, ma in tutta Europa i rimborsi elettorali vengono calcolati con criteri forfettari.
Dipendete dallo Stato.
Noi abbiamo una quota di autofinanziamento (circa 1500 euro mensili a parlamentare), ma le donazioni da privati sono poche. I cittadini hanno molta poca propensione a donare ai partiti, anche per effetto del logoramento del rapporto con la politica.
Secondo la Gazzetta Ufficiale però nel 2010 i partiti in cassa avevano 205 milioni di euro.
È un dato legato al ciclo finanziario. I bilanci si chiudono a dicembre e a luglio quei soldi non ci sono più. Almeno per i partiti veri che fanno politica.
Qual è la somma che i partiti riceveranno il 31 luglio?
La tranche di luglio è di 180 milioni, perché si sommano – appunto – i rimborsi per le politiche, le europee e le amministrative.
Alfano, Bersani e Casini hanno promesso un rinvio. Ma poi nel testo dell'emendamento, che la proposta di legge recepisce, non ce n'era traccia.
Il rinvio è legato all'entrata in vigore delle norme sulla trasparenza e dei controlli dei bilanci. Si dovrebbe arrivare al 30 settembre.
Ma non è scritto da nessuna parte.
Era implicito nel passaggio in cui si parla del “giudizio di regolarità e conformità a legge” dei rendiconti dei partiti per il 2010 e il 2011. Certo, se poi si va molto per le lunghe, finisce che non ci sarà nessun rinvio.
Dozzo della Lega ha detto che loro rinunceranno. Dai partiti di maggioranza nessuna rinuncia in programma?
Anche Di Pietro ha detto che rinuncerà in favore degli esodati. Se può lo faccia. Noi non possiamo.
Ma anche sulla trasparenza il compromesso non è convincente. Dopo il controllo sui bilanci dei partiti da parte dell’Authority l’ultima parola sulle sanzioni spetterà ai presidenti di Camera e Senato. Il controllato controlla il controllore.
Nelle nostre intenzioni si tratta di una mera ratifica.
Ma si sa che può succedere nelle pieghe delle “mere ratifiche”...
Finirà che con tutte queste polemiche, non si farà neanche questa legge.
Dunque, lei non crede che i finanziamenti siano troppi?
Sicuramente si deve ripensare strutturalmente la questione, e noi faremo una proposta. Ma il taglio ai finanziamenti già c'è stato.
Ma dal ‘93, quando il referendum abolisce i finanziamenti pubblici, i soldi erogati dallo Stato sono cresciuti 10 volte.
È vero che c'è stata un’escalation nei primi anni 2000, con punte massime tra 2008 e 2010, col rimborso doppio dovuto al fatto che i partiti prendevano i soldi anche se la legislatura finiva prima. Cosa cancellata con un decreto legge del 2011. Ma adesso siamo in una fase di effettiva discesa. I partiti prenderanno 180 milioni di euro quest'anno, 165 nel 2013, 163 nel 2014, 153 nel 2015. Come dovrebbe essere a regime.

l’Unità 14.4.12
La proposta
Ecco la trasparenza: un euro a voto e cinque per mille
di Piero Fassino


La politica richiede costi ma è sbagliato arroccarsi nella difesa dell’esistente. È necessario darsi regole e modalità di sostentamento anche scontando una riduzione dei rimborsi

Il finanziamento della politica è uno di quei temi “sensibili” che segna il rapporto tra cittadini, partiti e istituzioni. E in tempi in cui quel rapporto è fragile e critico, le modalità con cui la politica è finanziata diventa un sensore particolarmente significativo.
Per questo credo che i partiti debbano avere la lucidità di sottrarsi alla tentazione di chiudersi a riccio, di arroccarsi in una difesa di sé che avrebbe come unica conseguenza di dare ulteriore fiato all’antipolitica, accrescendo ancora di più la distanza tra partiti e società.
Non è in discussione – almeno per me – la assoluta necessità di garantire alla attività politica risorse pulite e trasparenti per il suo esercizio. Al pari di qualsiasi attività umana anche la politica comporta costi e richiede risorse per pagarli. Ma tanto più in tempi in cui a ogni persona e ad ogni famiglia si chiedono sacrifici non irrilevanti (dall’allungamento dell’età pensionabile alla tassazione sulla casa), i partiti hanno il dovere di darsi regole e modalità di finanziamento sostenibili e compatibili, anche scontando una inevitabile riduzione delle risorse fin qui ottenute.
Per questo mi permetto di avanzare due proposte:
1. Si adotti un sistema di rimborsi elettorali che corrisponda ai partiti una somma pari ad un euro per ogni voto ottenuto.
Una dimensione sobria perché è ragionevole stimare che in una campagna elettorale un partito, o i suoi candidati, spendano almeno un euro per ogni elettore.
I rimborsi, in ogni caso, siano corrisposti solo a fronte di documentazione legale di ogni spesa, sottoposta a verifica da un organo di controllo, evitando così abusi o usi impropri di quel denaro. E il rimborso avvenga in un’unica soluzione entro tre mesi dallo svolgimento delle elezioni, superando l’attuale rateizzazione annuale dei rimborsi che fa perdere obiettivamente alla erogazione la finalità di “rimborso elettorale”.
2. Si introduca, inoltre, la possibilità per ogni cittadino di sottoscrivere volontariamente una quota millesimale – il 5 o 4 per mille – sulla propria denuncia dei redditi o, per chi non è soggetto a denuncia dei redditi, sugli oneri fiscali sulla busta paga.
Ciò permetterebbe ai partiti di disporre di risorse pulite, trasparenti e soprattutto espressione di una libera e volontaria scelta di contribuzione.
Sono proposte semplici che garantirebbero due obiettivi: i partiti disporrebbero di risorse per la propria attività; al tempo stesso l’onere a carico della collettività sarebbe sostenibile, sia perché i rimborsi elettorali avrebbero dimensione accettabile e sia perché la contribuzione volontaria sarebbe una libera scelta di ciascuno.

La Stampa 14.4.12
Castagnetti attacca “I rimborsi ai partiti vanno dimezzati”
L’ex presidente del Ppi: “Provvedimento insufficiente”
di Carlo Bertini


ROMA Pierluigi Castagnetti, ex segretario del Ppi, è stato il primo a presentare in tempi non sospetti, quando c’era il governo Prodi, una proposta di disciplina dell’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia dei partiti. E oggi non è soddisfatto della prima risposta che i leader di maggioranza hanno dato a questa esplosione di scandali legati al finanziamento pubblico.
Lei ritiene che vadano drasticamente ridotti i rimborsi elettorali usando la legge Abc sulla trasparenza?
«Certo, è questa la sede appropriata e non c’è tempo per dilazioni. Non va sottovalutato quanto è stato deciso, cioè il controllo esterno dei bilanci dei partiti e le sanzioni a chi non è in regola, che oggi non esistono. Ma non è sufficiente. Oggi c’è un risentimento popolare nei confronti della politica, ma un Paese senza partiti non è sperimentabile. È una tentazione che in Italia c’è stata ancora prima del fascismo e ha coinvolto personalità come Croce e Salvemini: allora era tale la corruzione che si pensava di fare appello alle eccellenze del Paese. Un’illusione che persiste e che va combattuta: una democrazia senza i partiti è una democrazia senza popolo. Credo che i partiti abbiano bisogno di un riconoscimento per questo loro ruolo e quindi di un finanziamento pubblico».
Fatte queste premesse, i rimborsi vanno ridotti e quanto?
«Sì, anzi a mio avviso vanno dimezzati, perché non si può non tenere conto del momento di sacrifici che coinvolgono tutti gli italiani e del clima di estraneità alla politica che sta dilagando. Le vicende di Lusi e della Lega hanno dimostrato che al netto della spese elettorali c’è un residuo sproporzionato delle risorse disponibili per i partiti. Già quando esplose la polemica sugli stipendi dei parlamentari avremmo dovuto prevenire la polemica odierna sui finanziamenti».
Non è il caso di dire apertamente che con i rimborsi i partiti finanziano le loro strutture tutto l’anno e non solo le campagne elettorali?
«Certo, è ora di smascherare questa ipocrisia. Non siamo in America e i partiti non sono comitati elettorali che nascono e muoiono nelle elezioni. Sono strutture che si occupano della formazione dei quadri dirigenti, che organizzano la partecipazione popolare e tutto ciò ha un costo. Fermo restando la necessità del finanziamento pubblico anche per sottrarli ai condizionamenti mai disinteressati delle lobby, è necessario ripristinare il valore della militanza, cioè della gratuità e della contribuzione personale. I rimborsi dimezzati devono bastare per le campagne elettorali, le strutture vanno mantenute con contribuzioni volontarie dirette o mediate tipo il 5x1000».
Lei che ha contribuito a far nascere la Margherita non ritiene doveroso un mea culpa per non aver rinunciato ai fondi pubblici dopo che il partito si era sciolto?
«Dall’anno prossimo i partiti estinti non riceveranno più contributi. Col senno del poi le direi di sì, ma avremmo dovuto sin da subito impegnarci a restituire allo Stato le somme eccedenti la copertura delle spese sostenute. Cosa che doverosamente faremo adesso a giugno».

La Stampa 14.4.12
Lo sfogo di Lusi “Mi accollano tutto”
“Perizia sospetta della Margherita”. E chiede il sequestro dei pc
di Francesco Grignetti


Replica Dopo le rivelazioni dalla perizia degli esperti del partito l’ex tesoriere passa al contrattacco «Di quella consulenza non c’è da fidarsi» Gli avvocati hanno perciò chiesto il sequestro dei computer
Il senatore Luigi Lusi non ci sta. L’ultima ondata di rivelazioni, quelle che campeggiavano sui giornali di ieri, sembrano averlo scosso nel profondo. Non ha digerito quella relazione dei revisori dei conti incaricati dalla Margherita - e prontamente girata alla Procura - che gli addebita, oltre a tutto il resto, anche un esorbitante rimborso chilometrico per viaggi. E invece: no, i viaggi no. Perciò precisa con tono seccato: «Mai salito su una Lancia Thesis. Mai guidato una Lancia Thesis». Se non lui, allora, chi?
Dice anche di più, il senatore Lusi, in uno sfogo di risposta all’offensiva mediatico-giudiziaria di Francesco Rutelli: «Mai chiesto rimborsi chilometrici, mai ottenuto rimborsi chilometrici». E però a questo punto sorge la domanda: se non è stato Lusi a incassare i 69 mila euro per rimborsi chilometrici del gennaio 2008, solo per citare un mese qualsiasi tra quelli citati da chi ha passato al microscopio il bilancio della Margherita, chi ha effettuato questi presunti 47.000 chilometri usando la macchina presidenziale? Una risposta ironica è affidata al suo avvocato Luca Petrucci: «Gli attenti analisti potranno verificare come le autovetture a noleggio, tutte di rappresentanza, siano svariate. Probabilmente il senatore Lusi aveva l’abitudine non solo di compiere migliaia di chilometri, ma evidentemente di cambiare più autovetture nel corso della giornata». Decrittando le parole, pare di capire che tanti nella Margherita avessero in uso auto a noleggio e che però ora tutto ciò viene messo in conto al solo tesoriere.
Quanto alle altre spese pazze che saltano fuori dal bilancio, Lusi non intende sbilanciarsi. Non vuole parlare né dei viaggi, né nell’affitto di un aerotaxi, né del resto. È rimasto scottato dalla sua ultima intervista, ma allo stesso tempo non ci sta a passare per l’unico che ha affondato le mani nella cassa. Affida perciò al suo avvocato un’altra risposta sibillina: «Aspettiamo - dice Petrucci, con tono sempre più ironico che la società di revisione accerti che l’ammanco arrivi ai 220 milioni di euro, per poter attribuire l’intero uso delle risorse all’indagato ed archiviare definitivamente il caso». Si ricordi che 220 milioni è il totale dei fondi che in oltre dieci anni Lusi ha gestito per conto di Francesco Rutelli.
Lusi lascia intendere che di questa consulenza (firmata da Vincenzo Donnamaria, Salvatore Patti e Roberto Montesi) non c’è da fidarsi perché anche le spese effettuate da altri big della Margherita ora vengono accollate a lui. Di sé ripete che gli «tocca il compito di essere massacrato». Ma sospetta manipolazioni. E perciò i suoi difensori ieri hanno ufficialmente chiesto alla procura che vengano sequestrati i computer e l’archivio informatico della Margherita «e ciò al fine di evitare qualsivoglia pericolo di inquinamento probatorio. Potrebbe essere manomesso da “chiunque” e non è difficile conoscere il nome di quel “chiunque”».
Gli avvocati Petrucci e Archidiacono stanno cercando disperatamente di tirare fuori il senatore dai guai. Come prossima mossa, Lusi e famiglia lasceranno le case dello scandalo. I legali annunciano infatti che è stato troncato il contratto di affitto sia per la villa di Genzano («Sarà riconsegnato il 7 luglio prossimo») sia per il lussuoso attico di via Monserrato («Che sarà rilasciato il 4 maggio prossimo»). Entrambi sono stati acquistati distraendo milioni di euro dalle casse del partito defunto. Erano stati i pm Alberto Caperna e Stefano Pesci, esaminando i documenti, a notare che Lusi aveva preso in affitto i due immobili da se stesso con una curiosa partita di giro. Il Lusi proprietario della società Ttt srl aveva affittato al Lusi in carne e ossa i suoi immobili. Risultato: se anche le quote delle due società fossero state consegnate a un custode giudiziario o addirittura restituite alla Margherita, come propone la difesa per rimarcare la presunta natura «fiduciaria» della Ttt, Lusi avrebbe potuto restare ugualmente per anni nel villone ai Castelli romani e nell’appartamento di Roma. Per di più pagando un affitto minimo. A questo punto, però, troncati i contratti di affitto, Petrucci e Archidiacono tornano alla carica: «Siamo assolutamente d’accordo sull’opportunità di restituire ai cittadini tutto quanto posseduto fiduciariamente dal senatore Lusi, tanto che dal 2 aprile è stato chiesto ai tesorieri reggenti della Margherita di indicare il soggetto e le procedure per la cessione di tutte le quote della società che detiene gli immobili».

l’Unità 14.4.12
Chi non vuole l’alternativa
di Alfredo Reichlin


Ci risiamo? Ciò che io mi chiedo è se non stiamo chiudendo gli occhi di fronte ai rischi (o forse solo le tentazioni) di uscire dalla crisi del Paese e dal collasso dei due partiti della destra (l’asse di governo Berlusconi-Bossi) con una avventura antiparlamentare. Molte cose spingono in questa direzione.
Una crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i suicidi e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora, sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali, sta creando una miscela esplosiva. È evidente ed è sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si preoccupa un certo establishment che nuota nell’oro? Mi colpisce molto il fatto che per questa gente e per i loro giornali non va più bene nessuna riforma sul finanziamento pubblico ai partiti. Vogliono altro. Che cosa? Che vuole l’oligarchia, parola troppo vaga di cui mi scuso ma con la quale intendo non tutto ciò che esercita il potere e che continua a garantire l’ordine democratico (compreso, sia ben chiaro, il governo attuale), ma quell’intreccio di cose e di consorterie, compreso il controllo pressoché esclusivo del circuito mediatico? Io ho la spiacevole impressione che la storia italiana e della sua classe dirigente si ripeta. Parlo della storica incapacità di questa di accettare come normale un possibile ricambio democratico a fronte del collasso del suo vecchio strumento di governo. Ciò che è avvenuto in altri passaggi (ricordate l’atteggiamento del vecchio Corriere della Sera di Albertini di fronte alla crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra?).
Al fondo è di questo che si tratta oggi in Italia. Si tratta del crollo impressionante in un mare di vergogna dell’asse di governo Berlusconi-Bossi al quale non i cosiddetti «politici» (noi almeno no) ma l’oligarchia politica-affaristica-mediatica dominante, avevano affidato il compito di governare. Si tratta del mondo «loro», non nostro. No, cari signori, i partiti non sono tutti uguali ed è l’asse politico che ha governato il Paese che ha fatto vergognoso fallimento. No, i partiti non sono tutti uguali. È il partito della destra che ha comprato i deputati necessari alla maggioranza, ha corrotto i giudici, ha dichiarato che pagare le tasse è un furto, ha detto che col tricolore «ci si puliva il culo». Ha imposto alla maggioranza parlamentare di votare solennemente, nell’aula storica di Montecitorio, che la signorina Ruby era effettivamente la nipote di Mubarak. Hanno insomma portato l’Italia sull’orlo del baratro. È vero, perfino il Corriere della Sera ha storto il naso, ma alla fine. Per anni il sostegno fu pieno, certo con il distacco dei grandi professionisti. All’inizio di tutto resta la frase lapidaria con cui l’avv. Agnelli incoraggiò la «scesa in campo» di Berlusconi: «Vada pure, perché se perde perde lui, se vince vinciamo noi». E infatti si sono coperti di soldi. Più del Trota, più delle spese personali di Rosi Mauro. Figurarsi se io non penso che la gente ha ragione di indignarsi. È giusto. Ma c’è qualcosa che non torna. Ed è questa la questione che sollevo.
Perché la sola ipotesi che il partito di Bersani (questo pericoloso sovversivo) possa vincere le prossime elezioni sta creando tanta paura e tanta agitazione in un certo mondo? Mi permetto di ricordare a giornalisti e a persone che pure stimo che il Corriere di Albertini sparò a zero su Giolitti ma, di conseguenza, si beccò Mussolini. Io non chiedo sconti per gli errori e del debolezze del Pd. Chiedo però a un certo mondo in cui, ripeto, ci sono tanti che stimo, qual è oggi, per loro il nemico? I partiti?
Ma quali partiti? La fungaia di partiti e partitini personali che si moltiplicano di giorno in giorno, da Beppe Grillo a De Magistris, trovano simpatia. Allora è il partito che non va, cioè quello strumento reale che bene o male organizza la gente, dà anche ai poveracci una voce e una volontà collettiva, consente che anch’essi possano contare ai massimi livelli della vita statale. È questo che non va? Non va che il Pd sia ormai il solo partito che vive nella società tutti i giorni e tutto l’anno, che vota al suo interno, che ha degli organismi dirigenti e che il suo segretario sta lì, al vertice, ma pro-tempore?
Sottopongo queste mie considerazioni a tutti, anche a uomini come Rodotà e Zagrebelky, a Umberto Eco e Amato, come a Scalfari, Tronti, Claudio Magris, e tanti altri. Cioè a quelli che fanno le opinioni democratiche. Forse io esagero ma non facciamo l’errore di svegliarci troppo tardi. E poi teniamo ben presente il mondo in cui viviamo. Si è rotto un ordine europeo e mondiale. La crisi e al tempo stesso la potenza e la ferocia distruttiva della ricchezza finanziaria senza limiti che sconvolge il mondo, comprese le nude vite delle persone, è impressionante. La mente corre agli anni ’30. L’analogia è evidente. Quella crisi e quel passaggio vide una doppia soluzione: da un lato il compromesso democratico e il grande patto sociale con Roosevelt in America e le socialdemocrazie in Europa; dall’altro la stretta autoritaria, Mussolini, Hitler, la guerra.
La crisi della politica è gravissima, è reale, ma viene da qui. Stiamo attenti alla risposta che diamo.

l’Unità 14.4.12
Vendola, Parisi, Di Pietro contro la bozza Violante: «Torna al proporzionale»


Antonio Di Piero, Nichi Vendola e Arturo Parisi attaccano la proposta di modifica (la cosiddetta bozza Violante) che sta elaborando la maggioranza che sostiene il governo, Pd, Pdl e Terzo Polo. E rilanciano la loro proposta di legge di iniziativa popolare già depositata in Parlamento.
In una conferenza stampa ieri a Montecitorio il leader dell’Italia dei Valori, quello di Sinistra e Libertà e l’ulivista del Pd così definiscono la
bozza: «È un tradimento della volontà espressa da 1 milione e 200mila cittadini che hanno chiesto di eliminare il Porcellum, non di tornare alla Prima Repubblica». I tre sono tra i promotori del referendum bocciato dalla Corte Costituzionale a gennaio.
«Non ci fidiamo di quello che sta facendo questa pseudo-maggioranza», ha detto Di Pietro. Nichi Vendola sostiene che «dovrebbe essere il tempo del coraggio», contro il «trasformismo» e invece è il tempo della furbizia». Che sarebbe, secondo il leader di Sel, disegnare in sartoria una legge elettorale come «un abito Arlecchino, cucito secondo logiche di convenienza di una o dell’altra parte politica». E conclude: «Se va avanti la proposta di riforma della maggioranza vince il partito del Gattopardo».
Arturo Parisi, promotore del comitato referendario, parla di «tradimento» dei cittadini che hanno firmato per il referendum: «Bisogna cambiare il Porcellum senza fare marcia indietro».
Sulle polemiche non intende soffermarsi Pier Luigi Bersani, impegnato nella campagna elettorale in Toscana: «Il processo è avviato e cambieremo la legge elettorale o con Monti o dopo». Dal canto suo Luciano Violante contrattacca e difende la sua proposta: è sbagliato dire «che la proposta ci fa tornare indietro, al proporzionale. Non è cosi». Invece l’impianto ipotizzato per la riforma, spiega l’ex presidente della Camera, punta «a che vi siano governi stabili e di legislatura» evitando «alleanze che sono grandi ammucchiate, che vincono ma non governano».
Stessa linea sostenuta da Gaetano Quagliariello, Pdl: «Per difendere il bipolarismo serve «una competizione fra grandi partiti» con un vincitore identificabile «a cui spetta la formazione del governo del Paese.
Alle critiche dei referendari risponde anche Anna Finocchiaro: «Il sospetto che qualcuno voglia cambiar tutto per non cambiare nulla è forte», per cui il Pd cercherà di far accelerare i tempi in Senato, spiega la capogruppo, per approvare al più presto un’organica riforma istituzionale. Ma «l’urgenza assoluta è la modifica dell’attuale, antidemocratica, legge elettorale. Su questo nessuno cerchi alibi per evitare di farlo».

l’Unità 14.4.12
Il conformismo di Libertà e Giustizia
di Michele Prospero


Non sembra esserci ancora, tra le forze intellettuali e i movimenti della società civile, la piena consapevolezza dei rischi involutivi, davvero spaventosi, che corre la democrazia in Italia. Il comunicato che «Libertà e Giustizia» ha diramato l’altro giorno è un preoccupante segno dei tempi tempestosi che possono travolgere le istituzioni, senza incontrare argini efficaci. Se una delle espressioni più note della cosiddetta società civile
riflessiva non trova di meglio che parlare di un «malloppo» da sottrarre ai partiti, naturalmente tutti dipinti come potenziali ladroni, è meglio non immaginare il livello di altre metafore. E dire che, solo qualche settimana fa, l’associazione si era espressa con ben altri termini (e toni) sui problemi della crisi e della riforma della politica. Ora, al posto della pacatezza dell’analisi, affiora una repentina inversione di marcia che suggerisce di adottare uno sbrigativo linguaggio agitatorio. Il cuore del breve documento di «Libertà e giustizia» è infatti racchiuso nel brano seguente. «Tutti i partiti sono diventati delle scatole che valgono solo per la merce che contengono: i soldi dei cittadini».
Se così parlano autorevoli giornalisti e fini costituzionalisti, figuriamoci quale linguaggio coverà nel ventre più molle del Paese. Se un’antipolitica così radicale accomuna ceti intellettuali e strati marginali, non c’è da stare molto rilassati su ciò che potrebbe accadere tra breve. Lascia davvero molto riflettere che «Libertà e Giustizia» trovi così naturale accodarsi al conformistico clima distruttivo odierno. È più agevole cavalcare
la tigre dell’antipolitica che lavorare (criticamente) al fianco dei partiti più impegnati per un approdo di tipo europeo alla insidiosa transizione in corso. La minacciosa onda dell’antipolitica potrebbe sconvolgere presto ogni cosa. È inutile e ipocrita perciò concludere invocando la mano esperta di uno statista per impedire la frana. Dove pescarli gli statisti se il giochino abituale è quello per cui i partiti sono tutti uguali, complici del malaffare? L’illusione che dal cilindro dei media esca magicamente un politico di riserva, da porre alla testa di una qualche lista civica, non porta molto lontano. Per questo il comunicato ha un qualcosa di tristemente tragico.

La Stampa 14.4.12
Partiti, il nodo da sciogliere
Legge elettorale, ultimatum del Pd
Franceschini: “Riforme entro maggio”. La Lega rinuncia all’ultima tranche del finanziamento pubblico
di Carlo Bertini


Il pressing dei bipolaristi che temono un ritorno alla «prima Repubblica» e il sospetto diffuso che il gioco dei veti incrociati terrà in vita l’odiato Porcellum fanno breccia sui principali contendenti della partita sulle riforme. Al punto da indurre il capogruppo del Pd Dario Franceschini a lanciare un ultimatum che lascia sul terreno una scia di polemiche con il Pdl. Accusato di voler frenare il cambiamento della legge elettorale per incolpare poi tutti dello stallo. Aprendo il convegno annuale della sua corrente AreaDem a Cortona, Franceschini la mette giù senza perifrasi: «Temo che la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto per poi far diventare una responsabilità indistinta di tutti i partiti non aver fatto nulla. Il rischio che il percorso delle riforme costituzionali non arrivi in porto è altissimo». E se tutto ciò fotografasse una politica incapace di assolvere il suo compito di riformarsi restituendo ai cittadini il potere di scegliersi gli eletti e con una cura dimagrante dei propri ranghi parlamentari, sarebbe il disastro. Perché non è un mistero per nessuno che «bisogna recuperare credibilità e per farlo bisogna darsi nuove regole», ammette Franceschini toccando il tema caldo del finanziamento dei partiti. «E se non si fa questo e si lascia crescere un sentimento di rabbia non si può pensare che il vuoto della politica non sia colmato da qualcun altro». Il timore è il fiorire di liste civiche nazionali, di «partiti degli onesti», che sconvolgerebbero un quadro politico destinato comunque a scomporsi e ricomporsi dopo il governo Monti. Un timore che deve avere anche la Lega falcidiata dagli scandali, se il capogruppo Dozzo annuncia l’intenzione del Carroccio di rinunciare all’ultima tranche dei rimborsi elettorali, invitando tutti gli altri a fare lo stesso.
Il giorno dopo l’intesa raggiunta sulle riforme costituzionali, il capogruppo del Pd dunque lancia l’allarme, perché «abbiamo preso l’impegno di cambiare le regole e non può finir male. Insomma se entro maggio non saranno approvate in prima lettura al Senato, il rischio è che il percorso delle riforme non vada in porto trascinandosi con sé anche la mancata approvazione della legge elettorale».
E qui scatta l’ultimatum, anche se Franceschini non vuole definirlo tale: primo giro di boa entro maggio delle riforme condivise - riduzione dei parlamentari, più poteri al premier - altrimenti «cambiare schema». Passando subito al solo esame della nuova legge elettorale, varando una norma che assegni al Senato la funzione di Assemblea Costituente per la prossima legislatura. Dopo il fuoco di fila di reazioni indignate, con Cicchitto che attacca questo «processo alle intenzioni» ingiustificato, a dar man forte al suo capogruppo ci pensa Bersani. Confermando che i vertici del Pd nutrono il sospetto di una melina studiata ad arte e che comunque sia «un processo sulle riforme costituzionali è avviato e lo porteremo a termine con Monti o dopo Monti».
Franceschini, d’intesa con Bersani, prova anche ad ammorbidire il fronte dei bipolaristi. Scesi in campo con il tandem Parisi-Di Pietro-Vendola per difendere il referendum tradito dalla bozza di sistema proporzionale messa a punto dalla maggioranza. «Perché un milione e duecentomila cittadini hanno chiesto di eliminare il Porcellum non di tornare alla Prima Repubblica». Allora, il capogruppo Pd tira fuori dal cilindro l’idea di una correzione: assegnando un «premietto» di maggioranza ai primi due partiti - leggi Pd e Pdl - o alle prime due liste apparentate. «Così un partito sceglie se presentarsi da solo o apparentato ad altri e se il consenso non sarà sufficiente in Parlamento si cercherà di allargare la coalizione». Tradotto, il Pd potrà scegliere se presentarsi alleato con Sel e Idv e il Pdl con la Lega, tanto dopo dovranno fare tutti i conti con Casini. "L’ex segretario «Temo che la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto» Il timore è un fiorire di liste civiche nazionali, che sconvolgerebbero il quadro politico"

Corriere della Sera 14.4.12
Legge elettorale, lite Pd-Pdl Bersani: forse si farà dopo Monti
di M.Gu.


ROMA — È scontro tra Pd e Pdl sulla legge elettorale. Le parole di Dario Franceschini al convegno di Areadem, a Cortona, hanno fatto infuriare i dirigenti del partito di Berlusconi e Alfano, innescando un aspro botta e risposta su quale delle due forze politiche voglia buttare a mare la trattativa sulla legge elettorale. E Pier Luigi Bersani, da Lucca, ha svelato quel che molti temono. E cioè che i partiti non troveranno l'accordo per cambiare la legge elettorale entro la fine della legislatura: «Se non si conclude sotto Monti, vuol dire che si concluderà dopo...».
Certo, il Pd ce la metterà tutta per cambiare il Porcellum, ma la trattativa è passata da una fase di stallo a un'evidente turbolenza. Ancora Bersani: «Siamo interessati a sbaraccare la legge elettorale. Ce lo faranno fare? Spero di sì... Il processo è avviato». Ma chi mai metterebbe la mano sul fuoco sul fatto che si concluda prima del voto del 2013?
Aprendo la riunione della sua corrente, Franceschini ha spronato il Pd a «vedere le carte dei partiti». Va bene l'accordo appena siglato con Pdl e Terzo polo sulle riforme costituzionali, ma il capogruppo dei democratici alla Camera è a dir poco scettico sulla fattibilità: «È altissimo il rischio che il percorso non arrivi in porto e trascini con sé anche la mancata approvazione di una nuova legge elettorale». Un rischio che il Paese non può correre. Il timore di Franceschini è che «la linea non dichiarata del Pdl sia rallentare tutto per poi far diventare una responsabilità indistinta dei partiti il non aver fatto nulla».
La proposta dell'ex segretario del Pd ha il sapore della sfida. Se entro maggio non verrà approvata in prima lettura la riforma costituzionale al Senato, «per evitare un fallimento totale» il Pd dovrà cambiare schema. E chiedere «di approvare direttamente una nuova legge elettorale, affidando al Senato solo le funzioni di riscrittura della seconda parte della Costituzione». Nel merito della riforma Franceschini condivide l'impianto proporzionale che i tecnici dei partiti stanno dando al nuovo sistema di voto — metà collegi uninominali e metà liste, con sbarramento al 5% — ma raccogliendo la preoccupazione di chi vuole garantire il bipolarismo e costruire le alleanze prima del voto e non dopo, propone un correttivo. Prevedere cioè che il premio di maggioranza vada «non solo alle prime due liste, ma alle prime due liste o coalizioni di liste apparentate». Non un tecnicismo, ma la possibilità di liberare la politica «dalla spinta a coalizioni forzose».

l’Unità 14.4.12
Dimissioni in bianco. La riforma lascia le donne in pericolo


Pubblichiamo la lettera aperta sulle «Dimissioni in bianco» al ministro Elsa Fornero e alle commissioni Lavoro di Camera e Senato scritta dal Comitato 188, dal nome della legge.
Il disegno di legge sul mercato del lavoro dedica un intero articolo, l’articolo 55, alla normativa contro le dimissioni in bianco. Riteniamo questa scelta giusta e frutto anche dell’iniziativa di tante donne,fuori e dentro il Parlamento,che non hanno mai smesso di chiedere e proporre norme capaci di impedire le dimissioni in bianco.
Perché non era e non è possibile rassegnarsi alla pratica barbara di far firmare al momento dell’assunzione una falsa lettera di dimissioni da tirar fuori quando una lavoratrice è in gravidanza,un lavoratore è malato o non desiderato o, molto frequentemente, immigrato o immigrata.
A febbraio, noi del Comitato “188 per la 188” abbiamo incontrato il Ministro Fornero; abbiamo lanciato una giornata di mobilitazione nazionale; abbiamo scritto una lettera al Presidente del Consiglio, ai Presidenti di Camera e Senato, a tutte le parlamentari e i parlamentari; abbiamo raccolto, in un giorno e mezzo, 188 autorevolissime firme di donne di tutti i settori della società italiana ,diverse per esperienze, generazioni,culture politiche.
L’abbiamo fatto per sostenere la necessità intervenire subito in modo da porre fine al ricatto agito sulle persone, non solo al momento dell’assunzione,ma durante tutta la durata di quel rapporto di lavoro su cui pende la spada delle dimissioni conservate in un cassetto. Ormai “dimissioni in bianco “ è un modo di dire entrato nel linguaggio e l’indignazione per l’abuso è entrato nel senso comune. Per questo abbiamo salutato con piacere l’art.55 del disegno di legge e il fatto che Ministro Fornero abbia mantenuto quanto aveva dichiarato in più occasione e per questo lo ringraziamo.
E perciò, senza alcun pregiudizio, vorremmo fare alcune osservazioni e
domande di chiarimento sugli 8 commi che compongono l’articolo 55. A noi la procedura prevista pare complicata. Per le dimissioni volontarie si rimanda ad un meccanismo ancora da definire entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge o in in alternativa ad uno scambio di raccomandate incrociate tra datore di lavoro, persona coinvolta,Direzione territoriale dl lavoro. E ad un meccanismo di convalida differente nel caso della lavoratrice madre. Forse era preferibile individuare un’unica modalità:un modulo numerato e progressivo, senza costi, con il quale dare le dimissioni,utilizzando la tecnologia.
Non è chiaro il senso dell’ ”offrire entro 7 giorni dalla ricevuta della raccomandata le proprie prestazioni al datore di lavoro”come forma di contestazione delle dimissioni”. Non è chiaro perchè si utilizzi sempre la formula “datore di lavoro”.Implica che l’ambito della norma è riferita solo al rapporto di lavoro subordinato?Se fosse così sarebbe un errore. Ma soprattuto non è chiaro il comma 8,laddove si dice che “Salvo che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che abusi del foglio firmato in bianco al fine di simulare le dimissioni o la risoluzione consensuale è punito con la sanzione amministrativa da 5000 a 30.000 euro...».
Non è chiaro quando l’abuso diventa reato: di sicuro la firma in bianco estorta , è un abuso grave . E,come diceva il “documento policy “del Governo ,quell’atto ,quell’abuso, configura un licenziamento discriminatorio ,che semplicemente diventa nullo:questa la giusta sanzione,non la multa.
Il disegno di legge non cita più il licenziamento discriminatorio e cita al contrario la legge 689 del 1981, quella sulla depenalizzazione. Può trattarsi di una dimenticanza o di un sottinteso, la multa può essere una sanzione aggiuntiva:ma il Ministro e le Commissioni parlamentari competenti potranno ben comprendere come si tratti di un punto particolarmente rilevante, che richiede un chiarimento e nel caso un cambiamento.
Il “Comitato 188 firme per la 188”

l’Unità 14.4.12
La teologia cristiana può aiutare la sinistra
In tempo di crisi il tema è come pensare il «Noi sociale» intorno a un futuro condiviso. Il «Noi» è ben più della somma degli individui. E il bene comune è un principio che va affermato anche battendo l’individualismo di gruppo
Serena Noceti, fiorentina, è docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale. È stata allieva di Severino Dianich ed è esperta di «ecclesiologia». Dal 2003 fa parte del Consiglio di presidenza dell’Associazione teologica italiana e oggi ne è vicepresidente.
di Serena Noceti


La domenica prima di Pasqua volontari della Cgil hanno distribuito sul sagrato di centinaia di chiese italiane volantini «contro i licenziamenti facili e per la dignità del lavoro»: un gesto di forte spessore simbolico che si pone come appello ai cristiani e alla Chiesa intera, anche nelle sue strutture istituzionali. In una stagione nella quale la crisi economica e la discussione sulle forme di partecipazione politica mettono impietosamente a nudo una fragilità che è prima di tutto culturale, può venire un contributo a delinea-
re il volto di una visione progressista e «di sinistra» in Europa dalla tradizione cristiana, dal modo in cui essa pone la domanda sull’umano e sulle dinamiche del vivere sociale?
Per rispondere positivamente, un buon punto di partenza è il binomio persona-Noi (sociale), che fa da chiave di volta per il pensiero sociale cristiano. Da tale binomio discendono l’affermazione del valore delle differenze nel processo di determinazione dell’identità personale e sociale, la comprensione del soggetto a partire dalla rete di relazioni in cui è posta l’esistenza, l’attestazione che la società è intrinsecamente necessaria alla realizzazione dell’uomo, il riconoscimento dell’apporto dei singoli a costituire un Noi che è ben più della somma degli individui.
È un binomio che, riconoscendo il valore del singolo, della sua libertà, dei suoi legittimi desideri e aspirazioni, della tutela dei diritti individuali, salvaguarda dalla deriva dei totalitarismi (di natura politica o, più spesso oggi, economica) che sacrificano i singoli alla ragion di Stato; ma al tempo stesso evita forme di «individualismo di gruppo», che antepongono gli interessi di alcuni (classi sociali, comitati, o persino istituzioni religiose) alla dedizione al bene comune, che non è mai un particulare imposto a tutti. È per questo che il principio di sussidiarietà non può essere inteso come principio primo, ma è sempre inseparabile da un principio di solidarietà globale e di assunzione comune di responsabilità per l’insieme. Il documento del Concilio Vaticano II
Gaudium et spes, in particolare, declina il rapporto persona-Noi sociale facendo appello all’orizzonte ultimo della famiglia umana e alle necessità e possibilità implicate da uno scenario mondiale. Anche se la congiuntura odierna è lontana dallo scenario geo-politico ed economico degli anni ’60 del secolo scorso, e quelle visioni ottimistiche possono apparire oggi ingenue e datate, il pensiero sociale cristiano non può non rinviare a quello stesso orizzonte di valore.
Un secondo apporto può venire dalla considerazione della giustizia e della ricerca inesausta della sua realizzazione quale dinamica fondamentale che deve animare, secondo le Scritture ebraico-cristiane, il vivere sociale.
Giustizia nell’accesso ai beni primari e nella regolamentazione delle relazioni economiche, giustizia sul piano giuridico, del riconoscimento dei diritti e dell’esercizio dei doveri. Giustizia infine come modalità di impostare ogni relazione umana (nella sfera dei rapporti primari, delle comunità intermedie, delle forme istituzionalizzate del vivere sociale) nella fedeltà all’altro e insieme al senso del Noi, al pieno sviluppo di ciascuno. Non a caso per la Bibbia la realizzazione della giustizia viene verificata rispetto alla condizione di vita di alcuni gruppi umani: i poveri e gli stranieri.
Lungi dall’essere mero destinatario di un’opera assistenziale di risposta immediata al bisogno (prassi alla quale per troppi secoli la Chiesa si è limitata, mentre tutelava lo status quo e rinviava a un futuro consolatorio dopo la morte), il povero è colui che, drammaticamente, mette sotto gli occhi di tutti i bisogni fondamentali a cui una società realmente umana deve dare risposta. È colui che segnala ciò che è necessario, e che per la sua stessa condizione denuncia quanto sia falsa, fallace e incompleta la realizzazione della società a cui appartiene.
La Bibbia consegna poi un elemento di riflessione critica alle legislazioni attuali quando regolamenta la convivenza civile a partire non esclusivamente dalle esigenze degli abitanti del Paese appartenenti al popolo, ma dalla condizione dello straniero che vi soggiorna e di quello che vi sopraggiunge. Opzione per i poveri e tutela di coloro che nel contesto del tempo venivano considerati i «senza diritti» non sono solo indicazioni per una prassi individuale, ma sono orientamenti su come guardare ai soggetti sociali e su come rispondere alle esigenze di tutti a livello politico.
L’ultimo elemento caratterizzante la via della giustizia così come la intendono i cristiani è la scelta decisa per la nonviolenza. La Bibbia è ben consapevole di quanto siano inevitabili i conflitti e ferite le relazioni umane, ma le parole di Gesù e la sua stessa prassi fino alla croce attestano con chiarezza la nonviolenza come unica forma realmente praticabile con la quale affrontare tensioni e conflitti, se non si vuole negare a se stessi e all’avversario lo spazio di una umanità sempre possibile.
Le Chiese cristiane hanno indubbiamente contraddetto nel corso dei secoli molti di questi principi e la storia dell’Occidente e non solo, ne porta i segni e le ferite: il mancato riconoscimento della libertà di coscienza (a fronte del continuamente riaffermato diritto della verità), la negazione del valore dell’altro e talora la sua soppressione violenta, la giustificazione religiosa dell’intervento armato e la benedizione degli eserciti in armi, la sacralizzazione di forme di potere oppressive e alienanti, i compromessi continui davanti a poteri e ricchezze, mostrano la resistenza che i cristiani stessi hanno opposto a questa visione della giustizia, offuscando così la profezia ecclesiale. La stessa idea di laicità è maturata dall’incapacità di garantire la pace sociale su base religiosa cristiana nelle guerre di religione del XVI-XVII secolo. Ma questi principi fanno parte del dna fondativo dell’esperienza cristiana e indubbiamente costituiscono uno dei contributi determinanti per il delinearsi di quell’antropologia moderna occidentale nella quale ci riconosciamo; come tali rappresentano a un tempo una sfida per la revisione della teologia e dell’agire cristiano, ma anche un apporto specifico che può essere condiviso con quanti, pur mossi da altre motivazioni o da altro sentire, lottano per gli stessi valori umani.
La giustizia ha animato la lotta e alimentato le motivazioni ideali di tanti attraverso i secoli. In un contesto culturale che coniuga secondo l’intuizione di Lyotard crisi delle grandi istituzioni e crisi delle metanarrazioni, la teologia cristiana può in fondo costituire per la sinistra un richiamo a pensare il Noi sociale intorno a un futuro comune; senza indulgere a generici utopismi, senza rassegnarsi a un pragmatismo insensibile al confronto sul possibile «non ancora», l’antropologia cristiana richiama le istituzioni (non ultime quelle ecclesiali) a riformarsi in una logica di giustizia, che verifichi continuamente se stessa su ciò che è individuato come bene comune al di là dei particolarismi, che valuti i passi compiuti sulla base di quanto fatto nella lotta contro ogni impoverimento ed esclusione.

Corriere della Sera 14.4.12
«Osservatore Romano»: la cultura come umanità
di Paolo Foschini


Non solo «divulgazione» ma soprattutto «produzione» di «cultura come esperienza» e come «espressione dell'humanum». Questo, ha sintetizzato il cardinale Angelo Scola citando una celebre definizione di Giovanni Paolo II, il compito che l'«Osservatore Romano» «svolge ogni giorno» sulle sue pagine: «Strumento prezioso — ha sottolineato — del necessario narrarsi e lasciarsi narrare di cui ha inevitabilmente bisogno una società plurale per tendere al massimo riconoscimento reciproco».
È uno dei passaggi dell'incontro a più voci durante il quale ieri, nella Sala Buzzati del «Corriere della Sera», è stato presentato Uno sguardo cattolico (Vita e Pensiero, pp. 270, 16): raccolta di cento editoriali pubblicati dal quotidiano della Santa Sede, fondato nel 1861, negli ultimi quattro anni che poi sono quelli del suo rinnovamento affidato alla direzione di Giovanni Maria Vian.
Ed è stato proprio il tema del «pluralismo», inteso come presenza di diverse prospettive volte a una comune «ricerca di verità», a rappresentare forse il principale filo conduttore della serata. Così, ricordando ad esempio che il primo a introdurre il termine «relativismo» contro il quale sempre mette in guardia Benedetto XVI fu in realtà un economista e sociologo come Max Weber, il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi ha riassunto quello che a suo avviso è l'approccio dell'«Osservatore Romano» al mondo in questa formula: una «ricerca della verità — appunto — non tramite l'arroccamento su posizioni predefinite, per quanto esse siano note, bensì attraverso la continua proposta di interrogativi. «Niente sarebbe più riduttivo — ha sorriso — che considerare "L'Osservatore" come una sorta di "Pravda" del Vaticano».
Del resto, aveva anticipato il presidente della Fondazione Corriere della Sera, Piergaetano Marchetti, per averne conferma basta scorrere i nomi dei collaboratori del quotidiano: «Da Tony Blair al rabbino Riccardo Di Segni, da Gordon Brown a Sergio Chiamparino... Senza dimenticare che anche durante il fascismo "L'Osservatore" è stato per molti, tanto cattolici quanto comunisti, l'unica fonte di conoscenza della realtà delle cose». Una eredità che l'attuale direttore Vian ha rivendicato con fierezza: «Rinnovamento nella continuità».
Ancora Scola, a questo proposito, ha voluto riprendere un articolo che il futuro Paolo VI e allora monsignor Giovanni Battista Montini aveva scritto nel 1946 sulla «impossibilità di restare indifferenti». E questo più che mai nella «società plurale» di oggi: «Se la cultura è espressione dell'umano allora anche la fede è cultura, ma allo stesso tempo la cultura interpreta la fede. Il pregio degli editoriali dell'"Osservatore Romano" e dei temi in essi trattati, dall'internazionalità all'ecumenismo, dal dialogo interreligioso alla bioetica, dalla scienza all'economia, sta proprio nel situarsi dentro la sfida di questo circolo ermeneutico».
Sfida che il direttore del «Corriere» Ferruccio de Bortoli ha invitato a raccogliere sempre: «Uno sguardo cattolico definisce un concetto importante. Ed è importante che non si fermi alle mura del Vaticano».

l’Unità 14.4.12
Vendola, i dubbi sull’indagine
di Giovanni Pellegrino


Una vicenda che deve far riflettere per il modo con cui la magistratura inquirente interviene su fatti che appaiono di dubbia rilevanza penale. Sarebbe utile una autolimitazione delle toghe

Nichi Vendola è indagato dalla Procura di Bari per peculato, falso e abuso di ufficio in concorso con altri, tra cui l’assessore regionale alla sanità Tommaso Fiore. La notizia suscita clamore, ma anche forti perplessità per la specificità della vicenda oggetto di indagine. Un ospedale ecclesiastico ha preteso dalla Regione Puglia il pagamento di circa 150 milioni di euro e si è rivolto al Tar di Bari per ottenere tutela. La Regione ha deliberato di comporre il contenzioso, impegnandosi a versare 45 milioni. Dubbi successivamente sorti sulla copertura finanziaria della spesa hanno indotto la giunta a revocare la deliberazione transattiva. Il Tar ha condannato la Regione al pagamento di 145 milioni di euro e quindi ad oltre il triplo della somma prevista in transazione. La Regione ha appellato al Consiglio di Stato, che ancora non ha definitivamente deciso.
Se questi sono i fatti, limitarsi a invocare la presunzione di innocenza in una generica professione di garantismo è opportuno, ma non sufficiente. La vicenda è tale da indurre a riflessioni ben più approfondite sul modo con cui nel nostro Paese la magistratura inquirente determina l’attivazione di indagini funzionali all’esercizio dell’azione penale, assai spesso con riferimento a fatti, di cui appare da subito estremamente dubbia la rilevanza penale. Pure la situazione di ingolfamento della giustizia italiana è nota; i richiami e le sanzioni, di cui siamo oggetto in sede europea si accrescono di giorno in giorno.
E se per la deflazione dei contenziosi civili e amministrativi appare necessaria la previsione di filtri, che consentano l’approdo alla giustizia togata di un contenzioso opportunamente scremato, il superamento dell’ingolfamento della giustizia penale non può che affidarsi ad un self restraint della magistratura inquirente. Che induca ad utilizzare energie umane appena sufficienti e risorse economiche indubbiamente scarse soltanto per casi, in cui sia ragionevolmente prospettabile la possibilità di pervenire ad un giudicato penale di condanna.
Ciò escluderebbe tra l’altro che la prescrizione venga a coprire, se mai nell’ultimo grado di giudizio, fatti la cui rilevanza penale è stata già accertata con conseguente spreco di energie umane e risorse economiche. L’indirizzo seguito da alcuni uffici di Procura e all’interno di questi da singoli magistrati risulta nell’oggettività della cronaca quotidiana esattamente l’opposto. Il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale fa da scudo al protagonismo del singolo magistrato, giustificando l’attivazione di indagini anche su fatti, di cui è estremamente dubbia la rilevanza penale. L’assessore Fiore ha acutamente osservato che assai spesso per la magistratura inquirente i pubblici amministratori sono in linea di principio delinquenti... sino a prova contraria!
Nel caso infatti non riesce a comprendersi nemmeno se a Vendola si addebiti di aver deliberato la transazione o di averne in seguito disposto la revoca. Parrebbe che alcune delle
ipotesi di reato riguarderebbero la prima fase, altre la seconda. La stampa locale ha dato peraltro notizia di perplessità sollevate sulla apertura della indagine anche da parte di magistrati interni alla Procura barese. Ciò non ha escluso che la indagine sia stata avviata e che se ne sia chiesta una proroga, così rendendone nota la pendenza. La notizia ha avuto sulla stampa nazionale un risalto appena minore di altre, il cui rilievo penale è indubbio, come quelle che stanno riguardando la utilizzazione a fini privatissimi di fondi pubblici di partiti (Lega e Margherita).
Inviti alla magistratura inquirente di autolimitarsi già nelle fasi iniziali della prosecution sono venuti di recente anche da fonti autorevoli, come nell’ultimo libro di Luciano Violante; ma indagini quali quella barese attestano che l’invito non è stato accolto.
Non resta quindi che prospettare una riforma del modulo organizzatorio delle Procure, che limiti fortemente l’iniziativa dei singoli sostituti. Una estensione della competenza delle Direzioni distrettuali e della procura nazionale antimafia anche ai reati contro la pubblica amministrazione potrebbe risultare un primo passo opportuno.

il Fatto 14.4.12
Vendola: “Per qualche pm sono un buon boccone”
di Luca Telese


Vendola, due inchieste in due giorni, sente di aver sbagliato qualcosa?
Al contrario. Sono sereno perché ho operato nel migliore dei modi. Chi ha costruito queste ipotesi accusatorie ha preso un abbaglio.
Quindi sta dicendo che c'è un complotto dei magistrati?
(Sorride) Un punto fermo della mia educazione politica è non gridare mai al complotto. Però non posso che rilevare un paradosso: le due inchieste sollevano dubbi su azioni che ho messo in atto per tutelare gli interessi della Regione e migliorare la qualità della sanità.
Presidente, non è preoccupante che si riaprano continuamente filoni di indagine?
Mi angoscia che ci siano inchieste, ovviamente. Una persona che sa di essere onesta e non ha mai fatto favoritismi soffre due volte. Ma studio le carte e non vedo alcun fondamento. Cosa posso dire per non minimizzare né avvalorare dei sospetti che ritengo ingiusti?
La sanità pugliese è un colabrodo?
Ci sono tante criticità ma anche straordinarie eccellenze. Quando le inchieste hanno rivelato un diffuso malcostume non ho esitato ad azzerare la Giunta.
È accaduto tre anni fa...
Attento! Dopo tre anni, la persona che io ho allontanato, l’ex dirigente Lea Cosentino, è diventata la mia accusatrice. L’abuso d’ufficio di cui parla consisterebbe nell’aver favorito il professor Sardelli, un primario che ha assunto lei e di cui la stessa Cosentino dice: con quei titoli non poteva che vincere lui.
Ma lei ha chiesto di riaprire il bando o no?
Non sono mai intervenuto su singoli casi. Il mio unico interesse era ed è migliorare il servizio sanitario pugliese estendendo le opportunità di ricerca e di eccellenze. Rivendico tutti gli sforzi fatti in questa direzione.
Quindi la riapertura del bando era legittima?
Certo. Fra l’altro nel primo caso erano esaminate due persone. Nel secondo ne sono state vagliate sei! E a detta di tutti Sardelli vantava un curriculum stellare. E poi era già primario, a Foggia. Ha lasciato un reparto che esisteva per andare a inventarne uno che non c’era.
Magari più prestigioso?
Lei non ha capito. Ha preso in mano un rudere. Ha speso pochissimo per attrezzarlo. Con poco più di 500 mila euro ha costruito un gioiello. IlCorriere della Sera ha scritto, prima di queste inchieste: “È uno dei tre migliori reparti di chirurgia toracica d’Italia”.
Però Sardelli potrebbe essere bravissimo ma anche essere stato favorito...
Conoscevo Sardelli? No, Conoscevo solo il suo curriculum. L’ho forse favorito perché apparteneva al mio schieramento? Macché, era vicino al centrodestra. Io ho chiesto di far concorrere un medico che tutti reputano un’eccellenza.
Però lei e Sardelli vi siete sentiti anche dopo la nomina.
Oh certo! Perché durante la costruzione del reparto mancavano i bidet o le zanzariere. Mi ha chiamato per lamentarsene.
E lei che ha fatto?
Visto che aveva ragione, mi sono attaccato al telefono perché queste cose arrivassero. Lo ritengo un mio dovere, l’ho fatto altre centomila volte.
È suo compito?
Secondo me sì: creare le condizioni per scegliere il meglio e fare in modo che le eccellenze abbiano gli strumenti per lavorare. E se qualcosa nell’ingranaggio si inceppa, fare di tutto, entro i confini della legalità, per rimettere in moto la macchina.
Parliamo delle altre accuse, quelle sull’ospedale Miulli. I capi di imputazione fanno tremare i polsi: “Falso e peculato”. Sempre sereno?
Sì, e per due motivi. L’accusa è aver favorito il Miulli nella sua richiesta di risarcimento per 45 milioni di euro alla Regione. Magari, se fosse così almeno sarebbe chiaro, anche se del tutto illogico. La verità è che abbiamo letto dieci volte quel testo e non si capisce. C’è addirittura un passaggio in cui la pm dice che dovrebbe esserci un supplemento di indagine dopo che il Consiglio di Stato si sarà pronunciato. È il primo caso di reato eventuale che mi capita.
E il falso?
Leggo nella scarna paginetta dell’informazione giudiziaria che il falso sarebbe una delibera preparata dalla Giunta per chiudere la vertenza con l’ente religioso che gestisce l’ospedale.
E si sente di difenderla?
Il paradosso è che noi cercavamo di chiudere al meglio un contenzioso nato prima della mia Giunta. Avevamo ipotizzato una delibera per la transazione, ma l’abbiamo revocata in autotutela. lnsomma quella delibera non ha avuto nessun effetto. In seguito alla revoca della delibera si è aperto il contenzioso oggi al Consiglio di Stato.
Resta l’accusa di peculato.
Aver favorito proprio quell’ente religioso...
E posso dire che questo è un controsenso. Ma come? Leggo sui giornali che sarei indagato “insieme” al vescovo di Acquaviva Mario Paciello. Titola, ad esempio, il Corriere: “Vendola ha favorito la clinica della Chiesa”.
Cosa sta cercando di dire?
Che il vescovo è la mia controparte! Siamo accusati di aver favorito quelli con cui siamo andati in contenzioso.
Per la pm potrebbe essere un sofisticato meccanismo amministrativo.
Quindi la Regione avrebbe scelto di andare in contenzioso nella speranza di perdere e di favorire in questo modo l’ospedale con il risarcimento che otterrebbe? Suvvia, non ha senso!
Allora lei vuole dire che la pm la sta perseguitando? È un’accusa molto seria.
Veramente io non ho nessuna certezza, ma qualche dubbio legittimo che va chiarito.
E cioè?
Ho letto sui quotidiani locali pugliesi resoconti stenografi su liti che si sono svolte tra magistrati nel 2010. I motivi del diverbio riguardavano il che cosa fare nei miei confronti, proprio sul caso dell’ospedale Miulli.
E se anche fosse?
Peccato che invece scopro di essere indagato da solo sei mesi!
Vuole dire che la stanno mettendo sotto inchiesta a rate?
Dico solo che ho chiesto al vicepresidente del Csm, Michele Vietti, di accedere agli atti della sezione disciplinare del Csm. In quegli atti si parla di quelle liti tra magistrati relativamente a cosa fare nei miei confronti. Sono sempre gli stessi accusatori e gli stessi addebiti. Per l’inchiesta di tre anni fa sono stato prosciolto da ogni accusa, il che mi fa sperare di esserlo ancora. Evidentemente, però, sono un buon boccone, una preda appetibile. Forse anche un buon bersaglio.
Quindi il complotto c’è?
Il contrario: c’è qualcuno che mi voleva processare, partendo dai presupposti fragili che abbiamo detto, ma che, evidentemente, non ha convinto nemmeno i suoi colleghi.

Repubblica 14.4.12
Stupro di Montalto, via al processo e il paese difende ancora il branco
di Federica Angeli


MONTALTO DI CASTRO (Viterbo) - Lei in aula non c'era. Ad ascoltare per la prima volta davanti a un giudice il dramma che ha cambiato la vita di una ragazza di quindici anni c'era la madre, gli occhi accecati dal dolore, le mani chiuse sullo stomaco. «Non dovrei dirlo, lo so, ma auguro la morte a quei ragazzi».
Dopo quattro rinvii per legittimo impedimento, ieri mattina, è cominciato il processo contro gli otto giovani di Montalto di Castro accusati di aver stuprato, a turno e per tre ore, la notte del 31 marzo del 2007, una studentessa.
L'udienza è iniziata alle nove e trenta del mattino: prima testimone, la sorella gemella della vittima. È stata lei a raccogliere, per prima, il racconto della sorella, rientrata a casa, a Tarquinia, dopo quella notte di follia. «Mia sorella da quel giorno è diventata un'altra. Era la migliore della classe e non ne ha più voluto sapere di andare a scuola - ha raccontato al magistrato la ragazza - rideva sempre e ora è scattosa, nervosa, irascibile. Quella notte ha cambiato la sua vita, quando mi ha raccontato cosa le avevano fatto non ho saputo aiutarla a dovere, ero giovane. Ma lei era sconvolta e, dopo averla ascoltata, io lo ero più di lei».
«Non c'è pace senza giustizia», recita uno striscione nero srotolato da un presidio dell'Unione donne italiane davanti al Tribunale dei Minori di Roma mentre, in aula, sfilano uno dopo l'altro i testimoni dell'accusa: il fratello della vittima, il medico di base della famiglia, il preside della scuola frequentata allora dalla ragazza, uno psicologo della Asl che l'ha avuta in cura per mesi.
Ma la giustiziae la pace, in questa terribile vicenda accaduta cinque anni fa nella pineta che costeggia il litorale di Montalto di Castro, al termine di una festa di compleanno, sembrano essere rimaste appese a un tempo mai trascorso. Tutto è ancora fermo a quella maledetta notte del 2007 e ai giorni che seguirono, e che furono un rincorrersi di veleni, accuse e maldicenze. «È tutta colpa della ragazza, lei c'è stata», dicevano cinque anni fa nel paesotto dell'alto Lazio, tra la Tuscia e la Toscana. E ieri Montalto di Castro, mentre al tribunale di Roma si ripercorrevano le tappe della violenza del branco, era ancora trincerato dietro la strenua difesa dei suoi otto compaesani. «Le dico che quella ragazza c'è stata - si scalda un anziano seduto a un tavolino del "Bar del Corso"- era una poco di buono, l'aveva già fatto con un altro gruppo di ragazzi a Tarquinia. Li ha sedotti e quelli poverini a sedici anni avevano gli ormoni a mille».
In quel paese di settemila anime, giovani, donne, anziani, la pensano ancora tutti, o quasi, così. «Se è vero quello che è accaduto, è sicuramente una cosa deplorevole - dice Daniela Iezza, barista - ma certo è che se sei invitato, a quell'età, a un banchetto del genere, è chiaro che partecipi. Perché quei ragazzi avrebbero dovuto sottrarsi? ». Un banchetto? «Beh, se quella ragazza, come ho sentito da alcuni filmati su Canale 5, li invitava uno dopo l'altro ad andare con lei.... credo sia difficile a quindici anni dire di no». «Lo volete capire o no che sono ragazzi e che hanno fatto una bravata? - interviene Riccardo Mencaroni, titolare di una pizzeria - Io loro li conosco bene, lei no. Perché dovrei credere a lei? ».
Ecco: i rancori, i giudizi spietati, i pregiudizi sono ancora tutti lì, congelati per cinque anni e, riaperti ieri, sono tornati vivi, accesi, partecipati come se fosse trascorsa appena una settimana.
«Io penso che la lentezza della giustizia - sentenzia Giorgio Sorci- in questo caso abbia avuto una grossa responsabilità: allungare i tempi ha comportato un inasprimento delle proprie posizioni. E il processo è già fatto.
Quegli otto ragazzi hanno un marchio appiccicato così come lo ha la ragazza e, senza una sentenza del tribunale, non se ne esce». Come a dire che la sentenza è già stata scritta e quello che deciderà la magistratura non inciderà sull'esito del processo.
«Se avessi saputo tutto questo, se avessi minimamente sospettato di subire un giudizio così duro, lo giuro, non avrei mai denunciato quanto ho subito», confida la giovane vittima, all'ex consigliere di Parità alla Provincia di Viterbo Daniela Bizzarri che le è stata accanto in tutti questi anni. Ma, accanto alla rassegnazione, una debole speranza si è riaccesa con l'inizio di un processo cominciato troppo tardi.
Ad allungare i tempi del giudizio ha contribuito anche la "messa in prova" concessa agli otto giovani: un beneficio che, se avesse avuto esito positivo, avrebbe portato all'estinzione del reato.
Ma fu revocato perché la solidarietà espressa pubblicamente nei loro confronti fece ritenere ai giudici che nel paese non ci fossero le condizioni necessarie al loro ravvedimento.

l’Unità 14.4.12
Ma si può criticare governo e Stato di Israele?
di Moni Ovadia


La querelle che contrappone lo scrittore tedesco Guenter Grass, Premio Nobel per la letteratura e il governo israeliano continua. Dopo che il poemetto dello scandalo "quel che deve essere detto" ha provocato la rappresaglia del ministro degli Interni di Israele nei confronti di Grass interdetto dai confini nel Paese come persona non grata, lo scrittore, amareggiato ma per nulla intimorito, ha risposto al bando per le rime dicendo che un simile trattamento gli era già stato già riservato ma solo da regimi dittatoriali come la Ddr e la Birmania, lasciando intendere che il governo dello Stato di Israele ha comportamenti degni di sistemi totalitari.
Ora, a margine di questa vicenda c'è una domanda che mi sembra utile porre.
Il governo di Israele e lo Stato che rappresenta possono essere criticati come qualsiasi altro governo e Stato? Devono anch'essi sottostare a tutte le convenzioni internazionali incluse quelle sugli armamenti atomici? Devono rispettare come tutti le risoluzioni dell'Onu? I critici severi delle politiche del governo Nethanyahu-Lieberman possono esprimere le loro opinioni senza essere dichiarati dei criminali antisemiti?
Ebbene secondo l'attuale esecutivo israeliano, secondo la maggioranza della coalizione che lo sostiene, secondo molti esponenti delle comunità ebraiche della diaspora e secondo gli ultras filosionisti "laici" la risposta è no e poi no! Mai! In nessun caso!
Questa anomalia, giustificata con ragioni del credo sicuritario che non accetta il confronto con le opinioni, soprattutto quelle dure e sgradevoli, è un problema. Non per i critici, per il futuro della democrazia israeliana.

Corriere della Sera 14.4.12
La difficile scelta di Israele
Israele e le minacce dell'Iran I troppi imprevisti della scelta nucleare
di Arrigo Levi


È probabile un attacco nucleare iraniano a Israele? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all'Iran?
Il mondo intero se lo domanda.
Quanto è probabile un attacco nucleare iraniano a Israele per «eliminare dalla faccia della terra» lo Stato ebraico? O dobbiamo invece aspettarci un attacco preventivo di Israele all'Iran? E quanto è reale il pericolo che l'uno o l'altro di questi possibili eventi coinvolga tutto il Medio Oriente, o addirittura provochi un più vasto conflitto?
Il mondo intero si sta ponendo con grande senso d'urgenza questi interrogativi. Ed è giusto porseli alla vigilia della ripresa a Istanbul questo weekend, dopo una pausa di 15 mesi, dei negoziati con l'Iran dei cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania: il cui obiettivo minimo è di rinviare la possibile acquisizione da parte dell'Iran di un «potenziale nucleare», e di ottenere che cessi l'accumulazione di uranio arricchito nell'impianto sotterraneo di Fordo, situato presso la città santa di Qom. Saeed Jalili, responsabile per Teheran dei negoziati nucleari, ha annunciato che presenterà «nuove iniziative» e ha affermato che «è la strategia del dialogo e della cooperazione che può avere successo con l'Iran». Le dure sanzioni economiche, le apparenti contraddizioni sulle reali intenzioni dell'Iran, a partire dalla Guida suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei, (che definisce «contrario all'Islam» il possesso di armi nucleari, ma difende duramente i programmi nucleari iraniani), fanno sì che da parte occidentale vi sia, accanto a un ragionato scetticismo, anche qualche speranza sull'esito di questi negoziati.
Ma prevale anche un grande senso d'urgenza, per i segnali che vengono da Gerusalemme, che fanno ritenere «possibile» un'azione militare d'Israele prima dell'autunno. Netanyahu chiede che l'Iran ponga fine all'arricchimento dell'uranio, sia al 20% (subito sotto la soglia del bomb grade) che al 3%; che tutto il materiale nucleare già arricchito sia portato fuori dall'Iran; che l'impianto di Fordo sia smantellato. Le affermazioni iraniane che i loro piani nucleari «hanno soltanto scopi pacifici» non godono di molto credito. Certo non ci crede Israele: non soltanto il governo di Netanyahu ma la grande maggioranza dell'opinione pubblica israeliana.
Sullo sfondo di questa grave crisi ci si trova di fronte a un interrogativo, che riguarda la minaccia iraniana ma ha una più vasta portata, ed è questo: fino a che punto la teoria della Mutual assured destruction (o Mad, «Distruzione Reciproca Assicurata»), sulla quale si è basata la pace nucleare fra le superpotenze, rimane valida, in vista del possibile possesso di armi nucleari da parte di nuovi Paesi, a cominciare dall'Iran (a cui certo seguirebbero altri Stati della regione)? Kissinger ha profetizzato che «quando ci saranno venti potenze nucleari un conflitto atomico sarà certo». Da questo numero siamo ancora abbastanza lontani; e la corsa al nucleare sembrava interrotta. Ma l'arma nucleare iraniana potrebbe rompere l'incantesimo.
E ancora: Israele possiede armi nucleari, in parte presumibilmente collocate su sottomarini o comunque indistruttibili. Ma ciò può funzionare da deterrente, nel caso della minaccia iraniana? Un «primo colpo» contro un Paese così piccolo potrebbe bastare (nelle speranze di un ipotetico aggressore) per metterlo fuori combattimento o distruggerlo? E poi, perché non immaginare che una o più bombe atomiche vengano cedute a gruppi terroristici, come Al Qaeda, prive di territorio, non esposte quindi a Mad?
Attenzione, perché queste non sono ipotesi fantascientifiche. Sono gli interrogativi che debbono necessariamente porsi i responsabili della sicurezza, anzi della sopravvivenza, di uno Stato del quale si minaccia l'annientamento. Quale è appunto Israele. Istintivamente, la lunga esperienza fatta con Mad induce a pensare che la minaccia di rappresaglia nucleare basti per rendere inimmaginabile un attacco nucleare contro un Paese nucleare. Ma la storia è piena di imprevisti, di sorprese, di svolte irrazionali. Ecco perché, di fronte al pericolo dell'arma nucleare iraniana, Israele si trova di fronte a scelte terribili.

Repubblica 14.4.12
Flottiglia, Lufthansa annulla i biglietti degli attivisti filo-palestinesi


TEL AVIV - Lufthansa ha cancellato i biglietti aerei di decine di attivisti filo-palestinesi intenzionati ad arrivare a Tel Aviv per la protesta anti-israeliana prevista domenica in Cisgiordania e ribattezzata "flyttilla". La cancellazione è avvenuta dopo che la compagnia ha ricevuto dalle autorità israeliane la lista dei passeggeri a cui non sarebbe stato consentito l'ingresso nel Paese. Anche la società di voli low cost EasyJet ha ricevuto una simile lista.

il Fatto 14.4.12
Videla e la “strage necessaria” dei desapareciidos
Il leader della dittatura per la prima volta ammette: “7-8mila morti nascosti al mondo”


Finora, si era sempre limitato a una strenua difesa della “necessaria crudeltà” con la quale i militari avevano condotto la loro “giusta guerra” contro la “sovversione”. Ma ora, a 86 anni compiuti, e con due condanne all’ergastolo, il generale Jorge Rafael Videla va ancora più in là e riconosce per la prima volta che la dittatura assassinò “sette o ottomila persone” (una cifra comunque molto lontana dai 30 mila desaparecidos ipotizza-ti dal rapporto Nunca Mas della commissione presieduta dallo scrittore Ernesto Sábato). I loro corpi, spiega l’“Hitler della Pampa”, vennero fatti sparire “per non provocare proteste dentro e fuori del paese”. Parole agghiaccianti che tornano a far sanguinare una ferita mai rimarginata, a quasi trent’anni dal ritorno dell’Argentina alla democrazia. Le ha raccolte il giornalista Ceferino Reato, editore della rivista Fortuna (in passato addetto stampa dell’ambasciata argentina presso la Santa Sede, poi all’agenzia Ansa di Buenos Aires) in una lunghissima intervista – 20 ore di registrazione – contenuta nel libro Disposición final, edito da Random House Mondadori, che esce oggi in Argentina.
“NON C’ERA altra soluzione; eravamo d’accordo sul fatto che era il prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione e avevamo bisogno che non fosse evidente, perché la società non se ne rendesse conto – ragiona con freddezza il capo della giunta militare che nel marzo del 1976 rovesciò il governo costituzionale di Isabelita Perón – Bisognava eliminare un insieme di persone che non potevano essere portate davanti alla giustizia e nemmeno fucilate”. Per Videla, intervistato fra il mese di ottobre 2011 e il marzo scorso nel carcere miliare di Campo de Mayo, a Buenos Aires, “ogni scomparsa di una persona può essere intesa certamente come l’occultamento, o la dissimulazione, di una morte”. Tra i casi di desaparecidos, l’ex tiranno ricorda quello del leader dell’Ejercito revolucionario del pueblo (Erp), Mario Santucho: era “una persona che generava aspettative”, e il ritrovamento del suo corpo “avrebbe dato luogo a omaggi, a celebrazioni”. I militanti dell’Erp erano i peggiori nemici del regime, “per la loro preparazione militare e ideologica”. Videla mostra più odio nei loro confronti che verso i montoneros, che invece “conservavano qualcosa del nazionalismo, del cattolicesimo, del peronismo con il quale erano nati”.
NON MANCA, nel discorso del generale, un po’ di ideologia della repressione: “Il nostro obiettivo era disciplinare una società anarchizzata. Rispetto al peronismo, uscire da una visione populistica, demagogica. Per quanto riguarda l’economia, andare verso un’economia di mercato, liberale. Volevamo anche disciplinare il sindacalismo e il capitalismo delle prebende”. Insomma, pillole di “saggezza” totalitaria, a cui Videla aggiunge il termine che dà il titolo al libro-intervista di Reato: “La frase “soluzione finale” non venne mai usata. “Disposición final” fu il concetto più utilizzato: sono due parole molto militari e significano eliminare qualcosa perché inservibile. Quando, ad esempio, si parla di un capo di abbigliamento che non si usa più perché è consumato, passa a disposizione finale”. Ecco, migliaia di persone “buttate via”, perché “non servivano più”. Di fronte al cinismo di un linguaggio come questo, Hebe de Bonafini, presidente delle Madres de Plaza de Mayo, emblema della lotta della giustizia dei familiari dei desaparecidos, inorridisce e preferisce tacere: “Non è mai stata nostra intenzione polemizzare con gli assassini, non cominceremo ora”. (A. O.)

La Stampa 14.4.12
Stati Uniti. La causa degli Indiani
Stavolta vincono i pellerossa Risarcimenti per un miliardo
Il governo riconosce di averli sfruttati nelle riserve. Obama: promessa mantenuta
di Maurizio Molinari


4 milioni di nativi Gli indiani d’America sono suddivisi in tribù. I più numerosi sono i Cherokee ( 310 mila). Seguono i Navajo (294 mila) i Sioux (120 mila) e gli Ojibwe (115 mila) 14 anni di lotta L’accordo di transazione, raggiunto nel dicembre 2009 dopo 14 anni di battaglie legali tra le corti del Montana e quelle federali, è stato trasformato in legge da Obama alla fine del 2010 22,6 milioni di ettari Tante sono le terre appartenenti alle tribù pellerossa gestite e sfruttate dal governo di Washington senza tener sufficientemente conto dei diritti dei legittimi proprietari
Nella sede del Dipartimento di Giustizia di Washington sono il ministro Eric Holder assieme a Ken Salazar, titolare degli Interni, ad annunciare davanti ai rappresentanti delle tribù degli indiani nativi del Nordamerica la fine di un secolo di diatribe legali e 22 mesi di serrati negoziati grazie al passo indietro deciso dall’amministrazione democratica. «L’intento del governo è la giusta composizione dei contenziosi pendenti e la risoluzione onorevole delle storiche rimostranze sulla gestione dei fondi tribali indiani, le terre e altre risorse non monetarie che per troppo tempo sono state oggetto di conflitti fra le tribù indiane e gli Stati Uniti», afferma Holder, leggendo un testochesibasasullavolontà di «consentire alle tribù indiane di perseguire i propri obiettivi nel comune futuro nazionale».
In concreto ciò significa ammettere che negli ultimi cento anni 22,6 milioni di ettari di terre appartenenti alle tribù pellerossa sono stati gestiti e sfruttati dal governo di Washington senza tener sufficientemente conto dei diritti dei legittimi proprietari. Tali «fondi» vennero creati al termine delle guerre con cui le truppe federali piegarono e sconfissero gli abitanti originari del Nordamerica, impegnandosi a gestirli per farne condividere i frutti economici alle nuove generazioni di indiani nativi oramai divenuti cittadini degli Stati Uniti. Ma tale promessa è stata sistematicamente mancata, violata e ignorata da molteplici inquilini della Casa Bianca. Il risultato è stato che gli oltre 100 mila accordi siglati fra Washington e le tribù hanno portato a sfruttare terreni e risorse per progetti immobiliari, agricoli, commerciali, di coltivazione del legame e dell’olio come dell’estrazione del petrolio che molto spesso hanno finito per ignorare i diritti legali dei proprietari originari. Per avere un’idea delle dimensioni di tali accordi basti pensare che il ministero degli Interni gestisce circa 2500 trust di proprietà di 250 tribù i cui territori si estendono sull’intera nazione.
Barack Obama aveva promesso di sanare questa ferita nazionale durante la campagna elettorale del 2008, individuandovi la genesi delle piaghe sociali che ancora oggi affliggono circa 4 milioni indiani nativi: disoccupazione, povertà, alcolismo, scarsa alfabetizzazione e traffici illegali. La tesi del presidente, evidenziata nel discorso pronunciato lo scorso 2 dicembre alla Tribal National Conference riunita alla Casa Bianca, è che il mancato godimento dei diritti economici ha condannato gli indiani americani a difficoltà economiche e sociali di cui adesso il governo federale deve farsi carico al fine di sanare piaghe come gli indici record di abbandono delle scuole. Per questi motivi sin dall’indomani dell’insediamento alla Casa Bianca, Obama compie passi a ripetizione: all’inizio del 2009 decide di aprire i negoziati sui risarcimenti, nel 2010 spinge il ministero dell’Agricoltura a versare 760 milioni di risarcimenti agli agricoltori e firma il Claims Resolution Act - 3,4 miliardi di dollari per 300 mila indiani nativi -, nel 2011 versa 380 milioni di dollari rivendicati dalla Nazione Osage e quindi accelera le trattative che si concludono ora e sono, per il numero di tribù interessate, le più vaste finora condotte sul tema delle compensazioni governative.
A ringraziare l’amministrazione è stato Gary Hayes, presidente della tribù della Montagna Ute, parlando di «semi gettati per segnare un nuovo momento di inizio, che si distingue per la giusta riconciliazione, la migliore comunicazione e una cooperazione più forte» rispetto a quanto avvenuto nel secolo trascorso da quando nello Studio Ovale sedeva Teodoro Roosevelt. L’emozione fra i capi tribù è stata palpabile. «Obama non ha firmato trattati ma ha risolto i problemi, la sua parola si è rivelata d’oro», ha commentato il capo indiano James Allan, riconoscendo al presidente di«aver fatto di più per noi dei suoi ultimi cinque predecessori messi assieme».
L’accordo è stato possibile grazie alla decisione della Casa Bianca di prelevare il miliardo di dollari dal fondo governativo per il pagamento delle cause legali, evitando il passaggio al Congresso che avrebbe allungato i tempi se non addirittura portato a una bocciatura del testo. I leader repubblicani infatti ritengono che dietro lo slancio di Obama verso le tribù vi siano motivi assai prosaici, ovvero garantirsi il loro massiccio sostegno in Stati in bilico come New Mexico, Nevada e Colorado che potrebbero rivelarsi decisivi nella battaglia per la rielezione contro Mitt Romney. Se comunque Obama dovesse rimanere alla Casa Bianca, le stesse tribù che gli sono adesso grate potrebbero trasformarsi in una spina nel fianco perché fra le loro nuove battaglie c’è l’opposizione all’oleodotto Oklahoma-Golfo del Messico a cui la presidenza lega la possibilità di ridurre la dipendenza dalle importazioni di greggio. Il motivo è che per i Sac e i Fox il tracciato passa sui cimiteri degli antenati.

La Stampa 14.4.12
Per la Cina la crescita è l’ultima delle tre grandi preoccupazioni
di John Foley


L’attuale condizione della Cina non può essere riassunta in pochi decimi di punto percentuale. È vero, sulla base dei titoli di prima pagina la crescita del Pil dell’8,1% nel primo trimestre del 2012 è stata un insuccesso. Gli economisti intervistati da Reuters avevano previsto un aumento dell’8,3%. Gli investitori non dovrebbero pensarci troppo: la crescita è l’ultima delle tre grandi preoccupazioni della Cina. Il rallentamento è reale, ma ben controllato. Il premier Wen Jiabao ha fissato un obiettivo del 7,5% di crescita del Pil per il 2012, rispetto all’aumento del 9,2% realizzato l’anno scorso. In ogni caso, l’attuale previsione non è certo modesta e potrebbe migliorare. Imporre alle banche di aumentare i prestiti è una misura già adottata: a marzo i prestiti hanno raggiunto 1 trilione di yuan. Ci sono segnali che le cose stanno già migliorando - come il graduale aumento della produzione elettrica a marzo, spesso considerata come una misura “più affidabile” di crescita rispetto al Pil.
Se gli investitori vogliono preoccuparsi per qualcosa, dovrebbero cominciare dalla politica. La misteriosa espulsione del leader di partito di Chongqinq, Bo Xilai, e l’arresto di sua moglie con l’accusa di omicidio, segnala un aumento del premioperilrischiopolitico,poichélaCinasiavvicinaalcambiodi leadership del 2013. Non ci sono segnali di un crollo politico ma una maggiore inquietudine ai vertici potrebbe rallentare le grandi riforme, come l’apertura dei settori d’investimento soggetti a restrizioni oppure la liberalizzazione dei tassi di interesse. Gli investitori preoccupati dovrebbero anche non perdere di vista il sistema finanziario. Come per il Pil, i numeri ingannano. Nel 2011, le banche cinesi hanno dichiarato prestiti in sofferenza di poco superiori all’1% dei loro libri contabili totali. Ma questo è insostenibile, anche se accurato. Il sistema bancario è basato su distorsioni che incoraggiano un’errata allocazione del capitale, con l’attività creditizia guidata più dalla politica che da considerazioni di rischio e rendimento.

Repubblica 14.4.12
Darnton, storico di Harvard, e il suo saggio sulla fortuna dell'opera di Diderot e d'Alembert presso i contemporanei
Illuminismo per tutti
Perché l’Enciclopedia fu il bestseller del '700"
di Benedetta Craveri


Ritorna in libreria Il Grande Affare dei Lumi (Adelphi), la grande inchiesta sulla Storia editoriale dell'Encylopédie 1775-1800, apparsa nel 1979 presso la Harvard University Press, che ha dato fama internazionale a Robert Darnton insegnandoci a guardare la Francia del Settecento con occhi nuovi. Lo storico americano vi realizza l'ambizione di una storia "totale", scegliendo come campo d'indagine l'opera simbolo del XVIII secolo, l' Encylopédie di Diderot e d'Alembert e studiandola come "oggetto fisico e veicolo delle idee", come "anima e corpo" dell'Illuminismo. A fare del celebre Dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers - i cui 17 volumi si susseguirono tra il 1751 e il 1766 - "una delle grandi vittorie dello spirito umano e della carta stampata" non furono solo i grandi intellettuali dei Lumi e l'editore Lebreton, ma una miriade di personaggi secondari e per lo più sconosciuti di cui Darnton ha saputo ricostruire psicologia e comportamenti con una straordinaria verve di ritrattista. Nell'affrontare un campo di ricerca vasto e complesso come quello dell' Encylopédie, Darnton si è avvalso di due atout formidabili: una fonte settecentesca eccezionale - gli archivi di una società tipografica svizzera specializzata in edizioni pirata di libri francesi - e un autentico talento narrativo che conquista immediatamente il lettore.
Professor Darnton, studiando l' Encyclopédie come manufatto librario e come veicolo delle idee, lei prende le distanze dalla storiografia a dominante politica. «L' Encyclopédie viene spesso definita come la "bibbia" dell'Illuminismo, tuttavia per me la sua storia è anche quella di un'autentica "comédie humaine". Nel raccontare come essa ha preso forma ed ha raggiunto lettori di tutta Europa, ho cercato di rendere giustizia alla sua dimensione balzacchiana: ai personaggi pittoreschi che hanno prodotto il libro, intrigato perché venisse autorizzato in Francia e che si sono accapigliati e dilaniati per ricavare il massimo dalle sue spettacolari vendite. E se da un lato la mia ricerca ha assunto il carattere di una detective story, dall'altro mi ha dato l'opportunità di affrontare gli interrogativi classici sul carattere dell'Illuminismo e sul suo rapporto con la Rivoluzione francese.
Spiegando quante erano le copie dell' Encyclopédie, dove venivano vendute e chi erano i suoi acquirenti, ritengo che sia possibile dimostrare come l'Illuminismo fosse penetrato in profondità nella società francese. Lungi dall'essere appannaggio di una élite sofisticata, raggiunse un vasto pubblico di lettori».
Chi erano questi lettori? «Non appartenevano alla borghesia del commercio e dell'industria, erano funzionari statali, ufficiali dell'esercito, giudici, avvocatie persino preti- insomma lo stesso genere di "notabili" che parteciparono agli Stati Generali del 1789 e che, dopo la parentesi del Terrore, dominarono la società francese fino a tutta la prima metà dell'Ottocento. Lo studio degli autori che avevano redatto le voci, sia dell' Encyclopédie di Diderot che di quella successiva, l' Encyclopédie méthodique, pubblicata dal 1782 al 1832, ha dato gli stessi risultati. Gli enciclopedisti hanno avuto poco a che vedere con le forze del capitalismo. Erano per lo più professionisti e la storia del loro lavoro - che attraversa tutta la Rivoluzione - non appare in alcun modo connessa al giacobinismo.
Illustra il modo in cui, tra Sette e Ottocento, il professionismo si affermò come un modo di organizzare il mondo del sapere». Lei sostiene che il carattere radicale del progetto dell' Encyclopédie stava nella sfida di Diderot e dei suoi collaboratori di spiegare il mondo a partire dalla sola ragione. Ma era davvero una novità? «Convengo che le idee dell'Illuminismo si trovavano già in massima parte nelle opere dei filosofi del secolo precedente. Ma quello che a mio avviso contraddistingue l'Illuminismoè il suo carattere di movimento, di tentativo perseguito da tutto un gruppo di intellettuali di cambiare il modo di pensare e di modificare le istituzioni alla luce di valori laici, razionali e umani. Per questo considero la storia dei libri fondamentale per la sua comprensione. Come libro più importante del movimento, l' Encyclopédie riconfigurò il paesaggio mentale dei lettori. Fornì il compendio dell'intero sapere organizzato in accordo a principi epistemologici che prescindevano dalla religione rivelata. Nel servire un'informazione che copriva lo scibile umano dalla A alla Z, essa infuse nelle sue 71818 voci una visione profondamente laica del mondo.
Naturalmente aveva bisogno di nascondere questa tendenza per evitare le persecuzioni da parte delle autorità - e in effetti fu perseguitata, ma solo quanto bastò a farne un successo di scandalo, senza metterne a repentaglio l'aspetto commerciale. Ragion per cui bisognava leggerla fra le righe e rendeva i lettori complici del suo messaggio desacralizzante con tutta una serie di espedienti retorici».
Voltaire - a cui non si può disconoscere il genio della propaganda - era però dell'idea che "se i Vangeli non fossero stato un piccolo libro da due soldi, il cristianesimo non si sarebbe mai diffuso". Il successo dell' Encyclopédie non dimostra allora il contrario? «Voltaire poteva avere ragione quando diceva che le pubblicazioni coincise e brillanti erano più efficaci dei trattati in molti volumi, ma la sua ultima grande opera, Questions sur l'Encyclopédie, è un'enciclopedia in otto volumi. Nella sua strategia di conquista dei lettori l'Illuminismo fece ricorso a generi diversi, dal pamphlet volterriano al trattato enciclopedico». In che modo veniva letta l' Encyclopédie? «Devo confessare che non sono riuscito a farmi un'idea sufficientemente chiara di come l' Encyclopédie venisse letta.
Era un'opera così vasta che poteva esserlo in molti modi, non solo fra le righe per un brivido scandaloso, ma anche per condividerne l'informazione, trattandola come un testo di referenza. Alcuni librai riferivano che i loro clienti la mettevano in bella mostra sugli scaffali senza mai aprirla. Così ci doveva anche essere un fattore di snobismo intellettuale. I notabili di provincia volevano dimostrare di essere al corrente delle novità à la page.
Una cosa però è chiara: la richiesta del libro. Librai d'ogni dove scrivevano di non avere mai visto una ressa simile per comprare un'opera, malgrado il costo relativamente elevato».
Lei spiega chiaramente le ragioni per cui, a partire da Luigi XVI, lo Stato, pur ammantandosi di rigore, ebbe interesse a lasciare prosperare "il grande affare".
Ma perché la Chiesa non riuscì ad armare una contro-propaganda? «In realtà la Chiesa fece un tentativo possente di distruggere l' Encyclopédie.
L'opera venne condannata da papa, clero francese, giansenisti, gesuiti, corte di giustizia di Parigi, consiglio del re. Nel 1752 un editto reale ne bollò i primi due volumi con termini feroci e il movimento anti-enciclopedista degli anni 1750 si avvalse di una propaganda altamente offensiva affidata a polemisti estremamente abili. L' Encyclopédie fu associata a De l'Esprit, il trattato radicalmente materialista di Helvétius che nel 1758 scatenò uno scandalo ancora più grande. Fu allora che un editto reale soppresse il "privilegio" (l'autorizzazione della censura, ndr) dell' Encyclopédie, proibendone la continuazione. Intanto l'opera era stata messa all'indice e papa Clemente XII aveva ordinato a tutti i cattolici che ne detenevano una copia di darla alle fiamme, pena la scomunica. Ragion per cui l' Encyclopédie entrò in clandestinità. Si salvò grazie alla protezione di Malesherbes, responsabile della censura libraria, che simpatizzava con i philosophes, ma i suoi ultimi 10 volumi apparvero solo nel 1765, passata la bufera. Una bufera violentissima che aveva quasi distrutto l'impresa e che avrebbe potuto danneggiare gravemente il movimento stesso dei Lumi.
Dalle nostre relative condizioni di sicurezza in regimi relativamente liberali, abbiamo la tendenza a dimenticare il pericolo reale a cui i philosophes dovettero far fronte. Ho provato a scrivere la storia di come l'Illuminismo sopravvisse, diventando una forza di liberazione, tolleranza ed integrità intellettuale nel mondo moderno».

Repubblica 14.4.12
Un convegno
L’enigma del “Libro Rosso” di Jung
Ne parla il curatore Shamdasani


ROMA - "Sognando ad occhi aperti" è il titolo della lectio magistralis che Sonu Shamdasani terrà questa mattina, alle 9.45, presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma (viale Castro Pretorio, 105). Tra i massimi esperti dello junghismo, docente presso il Centro per la storia delle discipline psicologiche dell'University College di Londra, Shamdasani è il curatore del Libro Rosso di Jung, l'opera scritta e illustrata dallo psichiatra svizzero rimasta inedita fino al 2009 (da noi è uscita di recente da Bollati Boringhieri). Nella "lezione" di oggi Shamdasani illustrerà i cambiamenti nella pratica psicoterapeutica di Jung a seguito della sua attività di auto-sperimentazione dell'inconscio - dal 1913 in poi - e la nascita dell'immaginazione attiva come metodo clinico.
Dopo la sua relazione, seguirà una tavola rotonda moderata da Carlo de Blasio con gli interventi di Alessandra De Coro ("Dalle emozioni al linguaggio nel processo di simbolizzazione") e di Paolo Cruciani ("L'immaginazione per l'uomo di oggi").