lunedì 12 marzo 2012

l’Unità 12.3.12
Franceschini: «Il Pd deve parlare al popolo di sinistra»
L’intervista «Alle urne progressisti contro conservatori, Bersani candidato»
«Grandi spazi a sinistra. Il Pd deve parlare a quegli elettori»
Il capogruppo alla Camera: «L’orizzonte di questo governo è il 2013
Alle urne progressisti contro conservatori. Bersani sarà il nostro candidato»
Il manifesto di Parigi «Serve un campo ampio dei progressisti con dentro anche i socialisti. L’iniziativa di Bersani sabato prossimo andrà in questa direzione»
di Simone Collini


Trovo abbastanza inutile e anche un po’ stucchevole i dibattito sul governo, con addirittura il tentativo di dividere il Pd tra chi vuole sostenere convintamente Monti e chi no». E per argomentare il suo giudizio Dario Franceschini parte da una «semplice considerazione»: «Il governo Monti noi lo abbiamo voluto, è la destra che lo ha subìto». Per il capogruppo del Pd alla Camera va quindi sgombrato il campo da discussioni sterili, mentre va utilizzato il tempo che separa dalle prossime elezioni per «far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi». Avendo in particolare un obiettivo: «Recuperare a sinistra». Partiamo dal governo Monti: si discute sul tasso di convinzione con cui il Pd lo sostiene...
«Discussione inutile e stucchevole. Il nostro sostegno deve essere convinto perché sta lavorando sulla base della missione che gli è stata affidata, che è quella di affrontare l’emergenza del Paese».
A prescindere da come realizzi questa missione?
«Sapevamo dall’inizio che essendo sostenuto da una maggioranza composta da avversari politici, che torneranno ad affrontarsi alle prossime elezioni, ogni scelta del governo sarebbe stata necessariamente frutto di mediazioni. Alcune misure potranno soddisfarci di più, altre di meno, ma non mancherà mai il nostro sostegno».
Alfano ha fatto saltare il vertice Monti-leader perché si sarebbe parlato anche di Rai e legge anticorruzione: è pensabile che il governo non affronti simili temi?
«Non si può sostenere che il governo si debba occupare solo di economia e il Parlamento delle altre questioni, è una divisione forzosa. Anche perché ogni provvedimento che il governo adotta deve avere il consenso del Parlamento. C’è una vocazione principale riguardante i temi finanziari ed economici, ma è difficile togliere il resto delle questioni dal tavolo. Anche perché tutti gli studi dimostrano che una delle condizioni dell’Italia per uscire dalla crisi è la lotta alla corruzione, che pesa quasi quanto l’evasione, che il malfunzionamento della giustizia ha un peso economico che ricade sulle imprese e sulla credibilità del Paese. Non si può tagliare con l’accetta. Nell’azione del governo deve esserci tutto, anche i temi che possono essere più spinosi».
Il Pd passerà il prossimo anno a spiegare come dovrebbero essere le misure adottate da Monti?
«Non dovrebbe, sarebbe limitante caratterizzarci fino alle prossime elezioni soltanto per le nostre posizioni sui provvedimenti del governo. Questo anno deve essere utilizzato in un altro modo. Accanto al piano del nostro sostegno convinto all’esecutivo ce ne deve essere un altro. Dobbiamo portare avanti un lavoro parallelo per trasmettere agli italiani l’idea di Paese che abbiamo in mente per il futuro, far emergere le differenze rispetto alla destra, far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi con una coalizione costruita attorno al Pd per vincere le elezioni e governare seguendo una precisa agenda».
Si direbbe che per lei nel 2013 non dovrebbe esserci né una grande coalizione né un Monti bis a capo di uno schieramento politico.
«È così infatti. Il governo è nato per affrontare l’emergenza e ha un termine, che sono le prossime elezioni. Tutti conosciamo bene le qualità di Monti ma è inutile tirarlo per la giacca. Dopo aver guidato un esecutivo di larghe intese, dopo aver governato con il sostegno di due partiti alternativi, non potrà guidare una delle due parti. Nel 2013 si torna alla fisiologia democratica, progressisti contro conservatori, sinistra contro destra».
Parla di sinistra? Ma il Pd non vuole aprire ai moderati?
«Ma proprio perché abbiamo in mente un’alleanza tra progressisti e moderati non dobbiamo limitarci al nostro campo tradizionale».
Cosa intende dire?
«Nella prossima legislatura andranno realizzate riforme profonde e questo non si potrà fare, sia per ragioni elettorali che per ragioni più sostanziali, con un campo limitato numericamente e socialmente. Servirà un’alleanza aperta a pezzi di centro. Ma questo non è in alternativa e anzi è complementare alla necessità di non lasciare incustodita o nelle mani di altri una vera e propria prateria alla nostra sinistra. Dai sondaggi risulta che Sel e Idv insieme arrivano al 15%. Se si aggiungono altre sigle, il fenomeno Grillo e l’astensionismo per scelta si arriva attorno al 20-25%. Non ha senso immaginare che un grande partito progressista possa avere alla sua sinistra uno spazio così grande». Dice che il Pd può parlare a quegli elettori?
«Dico che il Pd deve parlare a quegli elettori. Conosco tutto il peso che in Italia deriva da un’eredità della storia. Ma non si può immaginare che un grande partito come il nostro, partendo dai valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale, non cerchi di occupare uno spazio a sinistra e portare una parte di quegli elettori che sono su posizioni di pura protesta, di conservazione, sulle posizioni di una sinistra moderna, di governo». Parlare a quell’elettorato, dice, e però il Pd non ha partecipato alla manifestazione della Fiom...
«Primo, quella manifestazione era contro il governo che noi abbiamo voluto e sosteniamo. Secondo, una sinistra moderna è quella che non ha paura delle sfide del cambiamento. In Italia c’è un pezzo di sinistra che è contro ogni innovazione, che ha paura della Tav, di una riforma del mercato del lavoro. Sta a noi recuperare a sinistra, tenendo fermi i valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale e affrontando le sfide della modernità». I partiti stanno discutendo un modello elettorale proporzionale che, dice tra gli altri Bindi, può portare a un sistema “multipolare”. Timori fondati? «Dobbiamo chiarirci le idee: non si può essere contemporaneamente contro la vocazione maggioritaria, contro l’alleanza con l’Udc e contro la foto di Vasto, perché altrimenti non ci presentiamo alle elezioni. L’Italia deve restare bipolare, su questo siamo tutti d’accordo. E il bipolarismo è garantito, indipendentemente dalla legge elettorale, dall’alternatività tra PdePdl.SiccomenéilPdnéilPdl sono autosufficienti, attorno a loro si costruiranno delle alleanze. Però serve una legge elettorale che non obblighi ad alleanze forzose, eterogenee. Ci si deve poter alleare sulla base di una condivisione programmatica, non per prendere un voto in più. Il sistema proporzionale non significa la fine del bipolarismo ma l’uscita dallo schema delle alleanze coatte che abbiamo visto quanti danni ha provocato negli ultimi anni sia nel nostro campo che in quello avverso».
Per il vostro campo sarà Bersani il candidato premier?
«Se si va verso un sistema più proporzionale, nel quale scompaiono le coalizioni, è naturale che ogni partito candidi il proprio leader».
E se invece prevalesse ancora il modello basato sulle alleanze?
«È altrettanto logico che il partito più grande esprima la premiership. Ci possono essere delle eccezioni, ma la norma resta questa».
Sabato Bersani firmerà a Parigi insieme a Hollande e Gabriel una piattaforma programmatica comune: lei è tra quanti temono che passando per l’Europa si punti a fare del Pd un partito socialdemocratico?
«Guardi, il nodo in Europa è già stato chiarito con la nascita del gruppo dei
Socialisti e dei democratici. È stato detto che non basta il campo socialista, che ci vuole un campo più ampio, progressista, con i socialisti dentro. L’iniziativa di Bersani va in questa direzione. E dirò di più, ad aprile faremo un seminario con molti dei gruppi parlamentari progressisti europei e di altre parti del mondo. Lì si capirà con chiarezza che se si esce dalla paura per le sigle stiamo tutti, socialisti e non socialisti, nello stesso fronte».

l’Unità 12.3.12
Il videogame del 2013
La lettura della crisi. Manca un’analisi delle ragioni della sconfitta della destra. Il Pd si batta per la riforma elettorale
di Giuseppe Vacca


La nascita del governo Monti ha generato molta confusione fra i commentatori. Penso che una delle cause sia il lungo digiuno di analisi politica dei nostri organi di informazione. Se avessero analizzato la crisi del governo Berlusconi per quella che è stata, dalle elezioni regionali del 2010 in poi, molte affabulazioni non sarebbero state montate.
Mi riferisco a espressioni come «stato d’eccezione», la «sospensione della democrazia», il «commissariamento» europeo dell’Italia e cose simili.
La natura del governo Monti mi pare del tutto evidente: si tratta di un governo di grande coalizione nell’unico modo in cui poteva essere concepito in Italia, dove il sistema dei partiti e le regole del gioco della Seconda Repubblica sono stati costruiti, e soprattutto raccontati, in modo tale da escludere per principio la possibilità della grande coalizione. Quindi non può sorprendere che a una convergenza parlamentare delle principali forze politiche, dettata da un’emergenza nazionale, non abbiamo corrisposto una compagine di governo dello stesso segno.
Prima o poi si dovrà fare l’analisi del modo in cui la destra è stata sconfitta, di quali ne sono stati i protagonisti e quali le ragioni: sarebbe un esercizio utile per favorire le discriminazioni e le convergenze sull’agenda politica attuale. Ad ogni modo, ancor più sorprendente è il videogioco inscenato sul dopo Monti. E qui non si tratta più di carenze di analisi politica, quanto di irresponsabilità di chi dirige gli organi di informazione. Il videogioco è comparso allo scadere dei «cento giorni» del governo Monti e, al di là delle intenzioni, è un gioco di corrosione dello stesso governo che pure si afferma di voler confermare nella prossima legislatura.
Fingendo di ignorare che fra poco più di un anno dovremo tornare a votare, si manipola il consenso dei cittadini al governo facendo credere che esso potrebbe scavalcare il passaggio elettorale o indurre i partiti a piegarlo non si vede come alla sua riconferma. E così da un lato si accresce la delegittimazione dei partiti, sminuendo il ruolo che svolgono per sostenere il governo, e dall’altro si stravolge la lettura della crisi del sistema politico, presentando un governo d’emergenza come l’unica formula possibile e auspicabile anche per gli anni a venire. Il paradosso è che per far crescere questa idea si dovrebbe aiutare il governo attuale a fare meglio e di più nel breve tempo di cui dispone, mentre continuando a screditare i partiti che lo sorreggono gli si rende la navigazione più incerta e difficile.
Si arriva così a fingere come realistica la possibilità che nel 2013 i partiti che sostengono il governo lo ripropongano tutti insieme agli elettori come il miglior governo possibile in quano «tecnico», volgendo la propria funzione alla definitiva delegittimazione di se stessi. E c’è persino qualche grande giornale e terrazza televisiva che presenta sondaggi sul «partito dei tecnici» per dimostrare che questa sarebbe l’opinione prevalente fra i cittadini: agli albori della Seconda Repubblica si facevano simulazioni analoghe con «il partito che non c’è»!
Come spesso accade dietro la farsa c’è il lato serio della questione, che mi pare si possa enunciare nel modo seguente. La crisi della leadership di Berlusconi ha messo nuovamente a nudo il problema storico della destra italiana: un problema che si trascina da circa un secolo e consiste nell’incapacità della destra di dar vita a un partito di governo di rango europeo. Non è questo il luogo per ripercorrere argomentativamente la vicenda. Fermando all’oggi, mi sembra del tutto evidente che questo sia l’assillo principale dei grandi organi di informazioni, i quali, non sapendo o non volendo fornire risorse strategiche, proposte politiche sensate e in materia grigia alla soluzione della crisi della destra, si esercitano in simulazioni più utili a far incancrenire il problema che non a risolverlo.
Invece io credo che farebbero meglio ad aiutare i partiti che ci sono ad affrontarlo insieme, approfittando della «vacanza» che ad essi assicura la presenza di un governo d’emergenza nazionale che nessuno di loro potrebbe far cadere a cuor leggero. Farebbero meglio a favorire una riforma delle leggi elettorali che aiuti la destra a rimodulare la sue forze e la sua compagine. Farebbero meglio a sostenere la necessità del riconoscimento reciproco della legittimazione a governare fra tutte le forze in campo, passando dallo stato di necessità in cui esse oggi lo fanno di fatto a un patto politico sulle regole del gioco che finora è mancato. Il sistema dei partiti è interdipendente: la configurazione della destra condiziona quella della sinsitra e viceversa. Riuscire nell’impresa della riforma elettorale non è responsabilità solo dei partiti, ma anche degli organi dell’opinione pubblica che li condizionano e li illuminano. Nel 2013 torneremo comunque a votare, e il governo che succederà a quello attuale nascerà dalle urne. Perché non adoperarsi per far sì che origini da una situazione politica migliore di quelle in cui si sono svolge le elezioni negli ultimi diciotto anni?
Per l’interdipendenza dei sistemi politici che ho appena evocato, questi argomenti dovrebbero illuminare il dibattito sul dopo Monti e sulla legge elettorale anche nelle file del Pd. Invece vedo prevalere una eccessiva autoreferenzialità, come se una legge elettorale sia buona o cattiva secondo che favorisca o ostacoli le nostre probabilità di vittoria. Non capisco questo modo di ragionare. Negli ultimi due anni il Pd si è venuto stabilizzando e ha conquistato una posizione centrale nell’arena politica (è divenuto un partito dal quale non si può prescindere nel disegnare uno sbocco alla crisi della Seconda Repubblica) fino a divenire il partito di maggiore consenso perché per dirla con le parole più frequenti sulle labbra di Bersani cerchiamo di partire sempre dai problemi dell’Italia, di anteporre l’Italia all’interesse di partito, cioè di assolvere una funzione nazionale che si affina e si aggiorna nel corso stesso della lotta. Perché non dovremmo ragionare allo stesso modo quando discutiamo di leggi elettorali?
Il problema non è quale legge offra i maggiori vantaggi a noi, ma quali riforme elettorali possono favorire una rimodulazione del sistema dei partiti più aderente alla storia, alle correnti ideali e al futuro della nazione italiana al volgere di una nuova epoca dell’Unione europea e del mondo multipolare.
Penso che se il nostro dibattito assumesse questa ispirazione anche le simulazioni sul dopo Monti in cui si esercitano i mezzi di informazione potrebbero diventare meno disinvolte e più utili.

Corriere della Sera 12.3.12
Il sì di Camusso alla Tav divide la sinistra
di Fabrizio Massaro


MILANO — «La nostra posizione favorevole alla Tav l'abbiamo espressa al congresso: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti. Dopodiché sarebbe meglio avere regole su come si decide. E comunque va ricostruito il dialogo: è impensabile fare i lavori per anni con la valle contro». Sono bastate poche parole al segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, per conquistarsi con l'intervista di ieri al Corriere della sera gli apprezzamenti del leghista Roberto Cota, governatore del Piemonte, e la presa di distanza di Maurizio Landini, il leader della Fiom che alla manifestazione di venerdì a Roma ha ospitato sul palco esponenti No Tav. «Apprezzo che, di fronte a situazioni difficili, si lascino da parte le ideologie e si guardi al merito delle cose: il Piemonte ha bisogno di investimenti», ha commentato Cota. Landini non polemizza ma sottolinea la distanza: «La Fiom ha un punto di vista diverso», ma è d'accordo sul fatto che «non si può scavare contro il parere di chi vive in quel territorio».
E sul sì alla Tav torna a dividersi la sinistra, a cominciare dal Pd. Debora Serracchiani parla di parole «chiare e utili» perché «rafforzano la capacità di dialogo con la popolazione». Di opposto parere Roberto della Seta e Francesco Ferrante (Pd, area Ecodem): è «archeologia» dire che «la grande opera va realizzata non perché serve come infrastruttura ma perché porta lavoro». E Felice Belisario, Idv: se il sì alla Tav prevede di rivedere il progetto «siamo d'accordo», ma non se è solo per creare occupazione.
Anche la rete, via Twitter, si è scatenata. Molti i commenti contro Camusso, ma non mancano voci a favore. I tweet contrari sono espliciti: «La Tav porta lavoro? sì, come l'Eternit» (scrive Enrica Bendini); «Le cooperative hanno bisogno di Tav» (Adelplanetaria); «Se serve a dare lavoro, non si poteva investire sui collegamenti Nord-Sud?» (Ulissevietato). Altrettanto chiari quelli a favore: «Si è diversificata da Landini e ha dato una bella lezione a molti» (Antonello Paciolla). Sul sito dell'Unità il sostegno è più marcato: «Gente che ha nel proprio profilo la foto di Placido Rizzotto sputa fango sulla Cgil, come se poi dipendesse dalla Cgil o dalla Fiom decidere se non fare o se fare la Tav» (Mario Ridulfo). E un certo Michele chiosa: «Smettiamola col bloccare qualsiasi opera perché porta danaro alla malavita. Combattiamo la malavita, non l'opera pubblica».

La Stampa 12.3.12
E la Bindi è tentata dalla conta nel Pd sulla legge elettorale
No al sistema tedesco, “decida l’Assemblea”
di Carlo Bertini


Rosy Bindi, critica verso la virata proporzionalista del partito sulla legge elettorale

Da giorni Rosy Bindi lo va dicendo nei suoi conversari privati con l’enfasi che le è propria ed usando altri termini, ma il succo dei suoi strali è questo: l’inciucio sulla legge elettorale, come lo definisce Calderoli, porterà come sbocco inevitabile a un Monti bis, che tutti mettono in conto pur senza volerlo ammettere. Compresi quelli che nel suo partito si affannano a negare un simile approdo e a sbandierare il sicuro ritorno dello schema «centrosinistra contro centrodestra». Perché una legge proporzionale che non tuteli il bipolarismo, può essere un viatico per una nuova chiamata corale di Monti e a «larghe intese» dopo il voto; nel caso in cui i partiti grandi o medi non siano in grado di trovare un accordo per costruire una larga maggioranza. Tanto per esser chiari, malgrado D’Alema abbia detto che nel 2013 tornerà il primato della politica e Veltroni abbia bocciato «le coalizioni confuse e la prosecuzione di un’alleanza come quella che sostiene Monti», ieri la Bindi ha voluto intanto ribadire in tv su Sky il suo «no a un Monti bis». Anche perché il titolo dell’ultima intervista di Bersani a Repubblica, «Un Monti bis non lo escludo», divergeva con la linea ufficiale destando una certa confusione.
Quello che la Bindi non ha voluto ripetere pubblicamente è che su questo punto controverso, capace di infiammare i conciliaboli dentro e fuori il Palazzo, sta pensando di chiamare alla conta il partito. Vorrebbe che fosse non solo la Direzione a fine mese, ma anche l’Assemblea congressuale, di cui proprio lei è presidente, a esprimersi sulla nuova proposta di legge elettorale che annulla e sostituisce la precedente. Votata solennemente, come ama ricordare un altro spirito critico come Parisi, proprio dal “parlamentino” del Pd, che si compattò sull’ipotesi di doppio turno maggioritario prima di avviare le trattative con «i nemici» del Pdl e gli «amici» del Terzo Polo. Proposta totalmente stravolta da questo nuovo teorema del sistema tedesco, corretto o no che sia, che darebbe vantaggi ai grandi partiti pur togliendo il premio di maggioranza. E che dovrebbe in teoria restituire la scelta degli eletti ai cittadini introducendo i collegi uninominali.
La pasionaria Bindi è convinta che malgrado Bersani, Letta, Franceschini, Veltroni e D’Alema siano uniti nel rigettare l’obbligo di fissare le alleanze prima delle elezioni, molti nel suo partito non la pensino così. Perché gran parte della base gradirebbe sapere prima e non dopo quali coalizioni governeranno in caso di vittoria e con quali programmi. E non va trascurato il clima di veleni che domina il partito in periferia, dove è ancora più forte il timore che non cambi nulla: nelle varie correnti infatti permane il sospetto che gli uomini del segretario sul territorio non disprezzino quel Porcellum che dà al leader potere assoluto sulle liste elettorali.
Insomma, così come Parisi, anche la Bindi vuole fare chiarezza. E riunirà nel fine settimana la sua corrente, «Democratici Davvero», per cominciare a tastare il polso dei suoi fedelissimi. Senza per questo voler contestare la premiership di Bersani nel 2013: a precisa domanda di Maria Latella su Sky, garantisce che «ci sono tutte le condizioni perché Bersani possa candidarsi a guidare il governo del paese». Ma dentro il Pd la partita per la premiership è molto più complessa e labirintica. Si articola in un gioco di specchi in cui allo stato ognuno dei leader non contesta questo diritto di Bersani garantito dallo statuto. Ma con una nuova legge elettorale senza l’indicazione del premier sulla scheda, il problema sarà risolto a urne chiuse dai partiti vincitori: che potranno pure provare a spartirsi tutte le poltrone che contano, da Palazzo Chigi al Quirinale, passando per le due Camere...

l’Unità 12.3.12
Il ministro Passera: «Non ci sono i tempi per una nuova governance prima delle nomine»
Pesa il veto del Pdl. Orfini: il Parlamento legiferi in fretta, non parteciperemo alla scelta del Cda
Rai, la riforma non s’ha da fare
Il Pd attacca: noi non ci stiamo
Il governo ha ceduto al veto del Pdl e di Berlusconi, archiviando la riforma della governance Rai, pur annunciata da Monti a gennaio. Ma il Pd non fa marcia indietro e non intende partecipare alle nomine del Cda
di Natalia Lombardo


La pietra tombale su una riforma della Rai che possa allentare la dipendenza dei partiti l’ha posta Corrado Passera: «Alle nomine del nuovo consiglio, essendo tra un mese, si arriverà con la governance attuale», perché, spiega il ministro dello Sviluppo al Sole24ore di ieri, «non ci sono né i tempi, né i modi» per cambiare i criteri di nomina dei vertici secondo la legge Gasparri.
Il Cda di viale Mazzini scade il 28 marzo, ma può reggere per l’ordinaria amministrazione fino all’approvazione del bilancio entro giugno (che però il governo sembra voglia accelerare). L’ipotesi di una proroga sarebbe la (non) soluzione più facile ma meno dignitosa, tanto più dopo le dimissioni di Rizzo Nervo.
LE MINACCE
Se Monti emanasse un decreto, questo dovrebbe essere poi convertito in legge dal Parlamento, e il premier non ha alcuna intenzione di rischiare tensioni a causa del cavallo di viale Mazzini. Cede così al ricatto di Berlusconi, del Pdl e della Lega (che sulla Rai ragiona come vecchia maggioranza): la materia televisione deve essere un tabù anche per il governo dei «tecnici».
Le parole di Passera confermano la sostanziale marcia indietro, perché la «pratica Rai» era sul tavolo di Palazzo Chigi, studiata solo dal ministro e dal premier, almeno per una mini-riforma che riducesse il consiglio a 5. La brusca frenata si è materializzata col rifiuto di Alfano a partecipare al vertice con Bersani e Casini la settimana scorsa, in parallelo con le minacce di licenziamenti poste dal presidente Mediaset Confalonieri sull’ asta delle frequenze.
Eppure Mario Monti l’8 gennaio a Chetempochefa di Fabio Fazio annunciò modifiche alla governance: «La Rai è una forza nel panorama culturale e civile italiano, una forza che credo abbia bisogno di ulteriori
passi in avanti. Mi dia ancora qualche settimana e vedrà». Parole incoraggianti per il presidente Rai, Paolo Garimberti, che il 6 dicembre nell’anticamera di Porta a Porta aveva sollecitato al premier l’urgenza di cambiare le regole di un’azienda ingovernabile. Monti era interessato, infatti poi tra i due ci fu un incontro istituzionale a Palazzo Chigi il 14 febbraio.
Una bolla di sapone. La situazione però si sta incartando. Il segretario Pd, Pier Luigi Bersani non fa passi indietro rispetto al proposito di non partecipare alle nomine con i criteri della Gasparri: «Da più di un anno chiediamo di discutere della governance Rai in Parlamento», commenta Matteo Orfini, responsabile cultura e informazione del Pd, che ricorda come la proposta democratica potrebbe «trovare rapidissima approvazione» se fosse posta su una delle possibili «corsie preferenziali» in commissione, se «non si vuole subire il veto e l’ostruzionismo del Pdl».
Se invece non cambierà nulla «non parteciperemo» alle nomine in commissione di Vigilanza, è la linea del Pd che punta, come si dice, a far esplodere le contraddizioni in seno al governo se davvero venisse fuori un Cda monocolore votato da Pdl e Lega (che pure è all’opposizione e Maroni reclama la presidenza Rai).
Vista la barriera che il Pdl ha piazzato su un qualunque cambiamento delle regole, Monti si sarebbe convinto che è più facile cambiare i nomi, puntando così a figure a cui fare riferimento a viale Mazzini (si parla di Claudio Cappon, Giancarlo Leone si tira sempre fuori, tornano i nome di Mieli o Anselmi per la presidenza).
I NUMERI IN VIGILANZA
Il Tesoro, in quanto azionista, nomina un consigliere (ora è Petroni), e indica il direttore generale (votato dal Cda) e il presidente, la cui nomina dopo il sì del consiglio deve avere il parere favorevole dalla maggioranza dei due terzi della Vigilanza, per la legge Gasparri. E qui si vedranno le mosse del Terzo Polo, perché ormai anche a Palazzo San Macuto la maggioranza non c’è, i numeri sono 20 a 20 tra Pdl, Lega e cespugli da una parte, e Pd (11), Idv (2) e i 5 del Terzo Polo (Udc, Fli, Api) dall’altra. Se a tirarsi fuori fossero solo il Pd e l’Idv si arriverebbe a 13, quindi i due terzi (2627 voti) ci sarebbero per un presidente «zoppo». Senza i voti del Terzo Polo il rinnovo salterebbe.
Con un simile Cda «la responsabilità sarebbe del governo», prosegue Orfini, «e non può essere indifferente, perché la vita della tv pubblica interessa ai cittadini, e già il non fare nulla è occuparsi di Rai». Insomma, forse Monti pensa che il Pd non arrivi fino in fondo, ma per Bersani è un punto di principio irrinunciabile. Lo è anche per Berlusconi, il cui conflitto di interessi pesa sempre come un macigno. Sulle frequenze tv Passera ha ripetuto che non vuole «cedere a titolo gratuito» beni dello Stato, ma forse più che aprire il mercato tv un’eventuale asta sarà allargata al mondo delle telecomunicazioni «nei prossimi 3-5 anni». «Certo sembrano più rispettosi di Mediaset di quanto non lo siano stati con i pensionati», commenta Orfini.

l’Unità 12.3.12
Se il governo cede al ricatto di Berlusconi
di Francesco Cundari


Di fronte al moltiplicarsi dei segnali che annunciano il cedimento del governo Monti al ricatto berlusconiano su giustizia, tv e informazione, come conferma per la sua parte anche l’intervista del ministro Passera sul Sole 24 ore di ieri, la prima impressione è che non ci sia voluto poi molto. Considerando la fermezza dimostrata dall’esecutivo con lavoratori e pensionati, si stenta a credere che al Pdl sia bastato così poco: un vertice a Palazzo Chigi annullato, una lettera di protesta un po’ minacciosa per la battuta fuori luogo di un ministro, qualche facile affondo sulla tecnica imperizia dimostrata dal governo nelle gravi vicende indiane e nigeriane. Appena due o tre giorni di tensione in tutto. Ai tassisti, per dire, ne sono occorsi molti di più.
La seconda impressione suscitata da questa vicenda è che il governo Monti stia incorrendo in un drammatico errore di sottovalutazione dei problemi politici. Una tendenza che appare piuttosto spiccata in gran parte della compagine ministeriale, e che temiamo sia alla radice di molti dei più gravi infortuni di questi mesi. Sembra quasi che a Palazzo Chigi non appaia chiaro il significato del messaggio che lo stesso governo si appresta a inviare a tutti gli italiani, ritirandosi ufficialmente dal campo delle riforme della Rai e della giustizia. Ma quel messaggio apparirà chiarissimo al Paese: il governo Monti riconosce che in materia di giustizia, tv e informazione, ancora oggi, l’ultima parola spetta a Silvio Berlusconi. Riconosce cioè che gli interessi personali del padrone di Mediaset, che li ha sempre anteposti non solo all’interesse nazionale, ma persino all’interesse di partito e di coalizione, non sono meno vincolanti per il governo dei tecnici. In altre parole, che non è cambiato niente. O che è cambiato poco. E di sicuro, comunque, non abbastanza.
Più in generale, da tutte le diverse vicende che negli ultimi giorni hanno reso più difficile la navigazione del governo sembra venire una lezione sulle competenze della politica, nel duplice significato di ciò che alla politica compete e di ciò di cui il fare politica consiste.
In questi anni una cattiva propaganda ha accreditato invece l’idea di un’inconsistenza dei problemi politici in quanto tali, puntando a corrodere il vincolo della rappresentanza agli occhi dei cittadini, per affermare la necessità di una soluzione oligarchica alla crisi italiana. È la stessa cattiva propaganda che vent’anni fa ha spianato la strada alla discesa in campo del Cavaliere. Ma prima o poi la realtà s’incarica sempre di smentire queste rappresentazioni di comodo, e così oggi presenta al Paese il conto drammatico dei suoi problemi irrisolti. Il primato degli interessi personali di Berlusconi su ogni altra esigenza non è l’ultimo di tali problemi, ed è anzi il vero “vincolo esterno” che ci ha tenuti bloccati nell’infuriare della crisi, mentre tutto precipitava intorno a noi. Peccato che ora gli stessi commentatori che hanno passato gli ultimi quindici anni ad accusare il centrosinistra di non aver fatto la legge sul conflitto di interessi, come fosse cosa facilissima, contestano persino la semplice richiesta del Pd che non sia ancora il conflitto d’interessi a dettare le leggi in materia di giustizia e informazione.
Nel pieno della trattativa sul mercato del lavoro, non c’è bisogno di una spiccata sensibilità politica per prevedere il corto circuito che il governo Monti rischia di innescare. Solo degli agitatori accecati dai propri pregiudizi potrebbero consigliare al presidente del Consiglio di varare una riforma che renda più facile il licenziamento dei lavoratori, contro i sindacati e contro tutti i partiti del centrosinistra, e contemporaneamente spiegare che bisogna andarci piano con le norme anticorruzione, o sull’asta delle frequenze, o sul controllo della Rai, per non fare arrabbiare il miliardario di Arcore. Chiunque abbia a cuore le sorti del governo Monti dovrebbe metterlo in guardia da un simile pericolo, per il suo bene e per il nostro. Vogliamo sperare ancora che non ceda al ricatto.

l’Unità 12.3.12
Intervista a Nino Di Matteo
«Irresponsabile l’attacco al concorso esterno»
Il sostituto procuratore di Palermo: «Respingiamo la vulgata che le mafie non abbiano complici nella politica, nelle istituzioni, nelle professioni liberali»
di Nicola Biondo


Dottore Di Matteo da tempo lei indaga alla procura di Palermo sulle collusioni tra mafia e colletti bianchi: davvero il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato che non esiste come è stato detto dal Pg della Cassazione?
«È’ un’affermazione gravissima e irreponsabile. Chi dice che si tratta di un reato inventato mente sapendo di mentire. I primi magistrati che lo contestarono furono Falcone e Borsellino. I destinatari di quelle accuse erano i cugini Salvo e Vito Ciancimino, i colletti bianchi per antonomasia della mafia siciliana. La stessa Cassazione ha più volte ribadito la doverosità di configurare questo reato in presenza di certi requisiti». Perché la ritiene un’affermazione irresponsabile?
«Così si delegittimano centinaia di indagini, processi in corso e perfino condanne definitive di colletti bianchi che hanno permesso alle organizzazioni mafiose di acquisire la potenza che oggi hanno».
È in corso un’operazione di delegittimazione verso i magistrati antimafia e le loro inchieste? Non crede che una parola di chiarezza sia necessaria da parte del Csm o del Ministro di Giustizia?
«In un passato anche recente il Csm si è occupato di valutare condotte e affermazioni dei magistrati in maniera molto solerte. Cos’è inopportuno? Che un magistrato difenda la Costituzione sulla quale ha giurato o che definisca un reato previsto dal Codice e consacrato in più sentenze “un reato in cui non crede più nessuno”? Noi crediamo in quel reato, perchè non accettiamo la vulgata che le mafie non abbiano complici all’interno della politica, dello Stato, dell’economia, delle professioni liberali. Nutro molti dubbi sul fatto che, su questa vicenda, il Csm o il ministro prendano posizione. Sono consapevole, e le reazioni scomposte di molti esponenti politici sulla vicenda Dell’Utri rafforzano il mio convincimento, che c’è una consistente parte del mondo politico che vuole ridimensionare la magistratura, ridurla ad un ruolo servente. Questo progetto riprenderà vigore in futuro».
Quindi il progetto della “grande riforma” del governo Berlusconi, nonostante tutto, potrebbe continuare? «Una parte importante e per certi versi trasversale della politica continua ad auspicare una giustizia a due velocità: dura con la criminalità comune e timida ed inefficiente nei confronti delle classi dirigenti. Attendiamo segnali di discontinuità che ancora non cogliamo».
A cosa si riferisce?
«Si mette in dubbio la legittimità dell’arma più importante per punire le collusioni tra mafia e potere, e si continua a non fare nulla per arginare i fenomeni corruttivi. Dal 1999 l’Italia deve ancora ratificare la Convenzione Europea di Strasburgo sulla corruzione, la Grecia e il Portogallo lo hanno già fatto. Mi riferisco al reato del “traffico d’influenza” che sanziona l’uso illegale che un politico o un esponente di una lobby possono fare del proprio potere, in cambio di denaro, case e regalie di ogni genere, come i più recenti casi di mercimonio della cosa pubblica hanno dimostrato».
Insomma, siccome non si può più dire che la mafia non esiste, si dice che non esiste il rapporto con la politica? «È una visione limitata e antistorica delle mafie. Secondo alcuni si tratta solo di mera criminalità che regola con la violenza le proprie dinamiche interne, il racket delle estorsioni e il traffico della droga. Qualcuno crede che i “successi” delle mafie siano dovuti solo al "genio criminale" dei suoi associati o piuttosto anche dalle fondamentali alleanze che stringono al di fuori dei propri confini? Come nel passato, in certi settori della magistratura, credo possa penetrare quella voglia di assecondare centri di potere che non sopportano che il reale controllo di legalità riguardi anche loro». Sono passati vent’anni dalle morti di Falcone e Borsellino, un appello chiede i funerali di stato per Placido Rizzotto ucciso 64 anni fa dai corleonesi. Sui simboli c’è unanimità ma non sugli strumenti per combattere le mafie «La memoria e i simboli, sono importanti. Ma il mio auspicio è che la politica, i sindacati, la stampa, recuperino il senso di una azione antimafia che non vada a rimorchio delle indagini della magistratura ma che si nutra di denunce, prese di posizione, di un certo senso patriottico come ai tempi di Pio La Torre e di Placido Rizzotto, che si assumevano, ancora prima di magistrati e poliziotti, la responsabilità di affrontare certe realtà».
Ma poi c’è un Italia che tributa applausi a Dell’Utri in un’assemblea del suo partito
«Il Senatore non è stato assolto. Le sue amicizie trentennali con assassini, trafficanti e boss mafiosi sono un fatto provato. Vorrei ricordare Paolo Borsellino che diceva che certe responsabilità politiche devono essere giudicate ben prima che arrivi il giudizio penale. D’altronde ognuno di noi ha gli eroi che si sceglie e per qualcuno il comportamento di Vittorio Mangano è stato eroico. Anche queste sono scelte».

l’Unità 12.3.12
Intervista a Felice Casson
«Strumento prezioso, ma va riformato»
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»
di Andrea Carugati


Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

La Stampa 12.3.12
Intervista
“Dell’Utri? C’è tempo per ripetere l’Appello”
Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, risponde alle polemiche dopo il giudizio
di Francesco Grignetti


In prima linea. Antonio Ingroia è procuratore aggiunto a Palermo e da molti anni si occupa dei rapporti tra Cosa nostra e la politica
Sa di essere nel mirino dei polemisti di destra, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Prova a prenderla con ironia. «Qualcuno dice che parlo troppo... e forse non ha torto». Ma se gli si chiede che ne pensa del dibattito che s’è infiammato su mafia & politica, ovvero se sia ancora attuale il reato di «concorso esterno», lo strumento penale che fu l’elaborazione più alta di Falcone e Borsellino, e incidentalmente il reato di cui risponde il senatore Marcello Dell’Utri, ecco che Ingroia torna serio: «Mi permetta di dire che il problema qui non è il reato, ma l’imputato. Certo tipo di imputati. Quando si toccano i potenti, vedo che le polemiche tornano incandescenti».
Procuratore Ingroia, intende forse dire che non ha visto altrettanto accaloramento per altri casi di «concorso esterno»?
«Mi limito a dire che a Palermo abbiamo processato diverse persone per “concorso esterno” all’associazione mafiosa. In carcere con condanna definitiva ci sono politici di rango locale, piccoli amministratori, professionisti. E certo non s’è determinato nella politica nazionale questo dubbio atroce».
Luciano Violante su questo giornale ha sostenuto che il problema esiste, che il pm fa bene a chiedere chiarezza e che ora spetta al Parlamento e al governo fare la sua parte. È quanto dicono anche il presidente del Senato, Renato Schifani, e tanti altri politici.
«Guardi, dopo decenni di applicazione, innumerevoli sentenze, e due fondamentali pronunce della Cassazione a sezioni unite, una originata dal caso Carnevale, l’altra dal caso Mannino, ormai esistono paletti molto precisi. Dopodiché è ovvio che nei casi più complessi, penso al processo Dell’Utri, ma anche al processo Contrada, si può discutere dell’applicazione dei principi fissati dalla Cassazione. Discutere, ripeto. Tutti i provvedimenti giudiziari possono e devono essere soggetti a critiche, che sono legittime quando sono argomentate, e non si può dire la stessa cosa degli insulti».
Lei pensa che sia tutto abbastanza chiaro e che non occorra alcun intervento della politica. È così?
«Credo che le cose cambierebbero poco. Non è questo il problema principale. So bene che in passato ci sono state alcune proposte avanzate da commissioni ministeriali come la Grosso o la Fiandaca. Io stesso sarei favorevole ad avere un punto di riferimento legislativo. Quantomeno potrebbe sgombrare il campo dalle polemiche sullo strapotere interpretativo dei giudici... ».
Però non ci crede.
«La verità è che questa è materia incandescente. Come dicevo, il problema non è il reato, ma l’imputato. Nel caso Andreotti, il reato non era il “concorso esterno”, ma l’associazione mafiosa vera e propria, e non è che le polemiche siano venute meno. E poi, premesso che con l’attuale governo si vive finalmente in un clima di maggior serenità, e che certi scontri si sono leggermente acquietati, come si vede, non appena si torna a toccare certi nomi la polemica è garantita. Sarei facile profeta nell’immaginare che se il Parlamento dovesse aprire il dibattito, addio clima sereno e costruttivo... ».
Fin qui, la politica. Anche la magistratura, però, è divisa al suo interno sull’uso del «concorso esterno». A prescindere dalle parole demolitorie udite in Cassazione, tra voi avete discusso spesso se non fosse il caso di puntare a qualche altro reato, magari meno d’effetto, ma più concreto.
«È noto che ci sono stati dibattiti, pure accesi, anche dentro la procura di Palermo. Sul caso Cuffaro, ad esempio. Ma quella era una vicenda molto peculiare. In astratto erano percorribili due strade, il “favoreggiamento” e il “concorso esterno”. Io ero per il “concorso esterno”. Altri colleghi, e il capo dell’ufficio dell’epoca, la pensarono diversamente. Alla fine la loro scelta è stata premiata. Ora, a parte che non c’è controprova su come sarebbe andata se si fosse seguita la mia impostazione, ripeto che quella vicenda era molto specifica e non è trasferibile ad altri altri casi. Nel processo Dell’Utri, per essere espliciti, non ci sono le condotte del favoreggiamento. Il senatore non è accusato di aver favorito l’impunità di qualcuno, ma di essersi adoperato a favore dell’organizzazione mafiosa. Nel suo caso noi avevamo davanti un altro tipo di scelta: se procedere oppure no. Secondo la procura, il gip di Palermo, la corte di primo grado, e anche la corte d’appello, i motivi per procedere c’erano».
Ma la Cassazione ha annullato l’ultima sentenza e ordinato di ripetere l’appello. Si farà in tempo prima che intervenga la prescrizione?
«Il reato cadrà in prescrizione nel 2014. I tempi ci sono. Se si vuole, si può».

La Stampa 12.3.12
Senza “concorso” Mafia più potente
Ildebolire il “concorso esterno” sarebbe sbagliato e un pessimo segnale
di Carlo Federico Grosso


L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.
La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.
Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?
Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.
In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.
Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?
La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?
Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).
Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave. "Il rischio è quello di rendere meno forte l’attività di contrasto del fenomeno mafioso"

Repubblica 12.3.12
Questione morale ultimo atto
di Stefano Rodotà


LO STILLICIDIO delle informazioni sui fatti di corruzione, quasi un quotidiano bollettino di guerra, rende sempre più insopportabile l'attesa di qualche nuova norma che consenta di opporsi in modo un po' più efficace ad un fenomeno dilagante.
Le cronache confermano che la corruzione è ormai una struttura della società italiana, è penetrata ovunque, come testimonia la presenza tra i corrotti di politici e amministratori, imprenditori e primari medici, poliziotti e vigili urbani.
Ogni ritardo del Parlamento diventa un aiuto a questo nuovo ceto sociale. E proprio la "disattenzione" politica spiega perché, a vent'anni da Mani pulite e dalle speranze allora suscitate, la corruzione sia divenuta sempre più diffusa.
Ricordiamo quel che disse il cardinale Tettamanzi, lasciando la diocesi di Milano: "Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d'attualità". Ma vi è un documento recentissimo che descrive con spudoratezza una condizione della politica. È la memoria difensiva di un politico calabrese accusato di rapporti con ambienti criminali, dov'è scritto: "La mentalità elettoralistico-clientelare è diventata cultura, costume e inevitabilmente anche modo di governare" e quindi, per il politico che "vive ed opera in questo difficilissimo ambiente, mettersi a disposizione è quasi d'obbligo, senza grandi possibilità di crearsi una difesa che lo garantisca da immorali e infedeli strumentalizzazioni. Il mettersi a disposizione è condizione quali fisiologica dell'attività politica svolta in Calabria, con la conseguenza di affidarsi supinamente alla lealtà dell'interlocutore". Questa richiesta di una "assoluzione sociologica" riguarda i rapporti con ambienti criminali, ma descrive una più generale regola di comportamento dove il "mettersi a disposizione" s'intreccia con le pratiche corruttive alle quali, peraltro, proprio i poteri criminali ricorrono sempre più ampiamente. Siamo oltre il "mostruoso connubio" tra politica e amministrazione denunciato nell'Ottocento da Silvio Spaventa. Conosciamo altri connubi: tra politica e affari, tra politica e criminalità, che tutti insieme hanno provocato un connubio obbligato tra politica e malapolitica, con quest'ultima che corrode l'intera società. Proprio per questo è necessario guardare alla dimensione politica, pur sapendo, ovviamente, che non è soltanto questa ad essere il luogo della corruzione e che i politici corrotti sono una minoranza. Ma quando la corruzione si insedia nel ceto politico, e da questo non è adeguatamente contrastata, essa finisce con l'assumere una particolare natura, diventa fatto istituzionale, modo di governo della cosa pubblica. Proprio per questo è grandissima la responsabilità dei politici onesti, che non possono chiamarsi fuori in nome della loro personale integrità, poiché hanno l'obbligo di ricostruire le condizioni anche istituzionali per il ritorno dell'etica pubblica.
Finora non è avvenuto. Si è ceduto al patriottismo di partito, si sono cercate misere scorciatoie, si sono coltivate illusioni politico-istituzionali. Spicca, tra queste ultime, la tesi secondo la quale la corruzione era figlia di un sistema bloccato sì che, una volta approdati ad una democrazia dell'alternanza, la corruzione si sarebbe automaticamente ridotta. Non è andata così. L'alternanza tra diverse forze politiche nel governo centrale e in quelli locali ha coinciso con l'espansione della corruzione. Questa, da modalità di esercizio del potere, si è fatta potere essa stessa, ha prodotto le sue istituzioni, le sue reti formali e informali, le sue aree di influenza, una sua economia. Non più fenomeno selvaggio, ma forte e autonomo potere corruttivo.
Non lo scopriamo oggi, nessun politico può invocare l'attenuante della mancanza di informazione. Da anni in Italia sono state prodotte eccellenti ricerche sul tema, sono state fatte proposte dettagliate. Se questa buona cultura è rimasta senza echi, è perché era stata imboccata una diversa via istituzionale. Discutendo delle differenze tra il tempo di Mani pulite e il tempo nostro, bisogna ricordare le diverse linee istituzionali che proprio in Tangentopoli trovarono il loro spartiacque. Per anni la politica difese le pratiche corruttive senza toccare sostanzialmente il sistema generale delle regole, alle quali ci si sottraeva attraverso una robusta rete di protezione. Si negava la messa in stato d'accusa di ministri (unica eccezione il caso Lockheed, ma questa falla fu prontamente chiusa). Si negavano le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari sospetti di corruzione. Si portavano inchieste scottanti nel "porto delle nebbie" della Procura di Roma, che provvedeva ad insabbiarle. Si rifiutava di prendere atto di clamorose responsabilità politiche, con l'argomento che qualsiasi sanzione poteva scattare solo dopo una definitiva sentenza di condanna (e così si allontanava nel tempo ogni iniziativa). Questa rete si smaglia con l'arrivo delle inchieste del febbraio 1992. Si cancella una immunità parlamentare di cui si era abusato. La magistratura, che aveva assicurato protezione, ritrova il suo ruolo di garante della legalità. Questo provoca sconcerto, e per qualche tempo si spera che un tempo nuovo sia davvero cominciato. Ma le vecchie resistenze erano tutt'altro che sconfitte, come subito dimostrarono le difficoltà nel riformare la legge sugli appalti.
Una nuova strategia era alle porte, e trovò nel berlusconismo il clima propizio. Una diversa rete di protezione è stata costruita, cambiando le stesse regole di base. È storia nota, quella delle leggi sulla prescrizione e sul falso in bilancio, delle norme sulla Protezione civile. Il mutamento è radicale. L'intero sistema istituzionale viene configurato come "contenitore" della corruzione.
Di fronte a questa reale emergenza è pura ipocrisia rifiutare interventi immediati dicendo che si tratta di materia estranea al programma di governo e che nuove norme sulla corruzione devono far parte di un più largo "pacchetto" di riforme della giustizia.
La questione morale, evocata dal cardinale Tettamanzi e che richiama l'intuizione lungimirante di Enrico Berlinguer, è tema ineludibile della politica di oggi.
Ma non è solo affare di leggi. Bisogna tornare alla responsabilità politica, rifiutando la scappatoia del "non è un comportamento penalmente rilevante". L'etica pubblica non ha il suo fondamento solo nel codice penale. Lo dice bene l'articolo 54 della Costituzione, affermando che le funzioni pubbliche devono essere adempiute con "onore" e "disciplina". Questo significa che, anche se verranno nuove norme, la partita non è chiusa. Oltre le leggi vi è la ricostruzione della moralità pubblica, il dovere della politica d'essere inflessibile con se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini. Una domanda, per intenderci. Le frequentazioni mafiose possono essere considerate penalmente non rilevanti e consentire a Dell'Utri l'assoluzione. Ma sono compatibili con l'onore e la disciplina richiesti dalla Costituzione? Per i candidati alle future elezioni dovrebbe essere obbligatoria la lettura del Viaggio elettorale raccontato da Francesco De Sanctis nel 1875, che così parlava ai cittadini: "Avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti!".

Repubblica 12.3.12
Libertà e Giustizia rilancia "Partiti più aperti e ripuliti"
Zagrebelsky spiega l'appello. Saviano sul palco
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Una serata per spiegare che «Dipende da noi». Che la politica deve rifondarsi, e rioccupare il suo campo. Che i partiti devono decontaminarsi, da autoreferenzialità e corruzione.
E poi aprirsi, finalmente: all'aria nuova, a volti nuovi. Libertà e Giustizia ci riprova stasera alle otto e mezza al teatro Smeraldo di Milano. Non sarà una manifestazione "di piazza" come quelle del Palasharp o dell'Arco della pace. L'orario non lo consente, il momento è diverso. Quello che si chiede oggi è di non perdere una possibilità. I momenti di crisi - economica, politica, sociale - servono a cambiare. Deve farlo il Paese, devono farlo coloro che aspirano a rappresentarlo.
Sul palco ci saranno Gustavo Zagrebelsky e Roberto Saviano, il costituzionalista e lo scrittore.
Il primo spiegherà il senso del manifesto che ha già superato le 35mila firme. Il secondo ricorderà che, per "rifondare" l'Italia, bisognerà cominciare ad affrontare in modo nuovo, e forte, la corruzione. Ad aprire l'incontro sarà la presidente di Libertà e Giustizia Sandra Bonsanti, a condurlo Concita De Gregorio.
Insieme a loro, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, Umberto Eco, Lella Costa. Ci saranno anche collegamenti con la trasmissione di Gad Lerner L'infedele.
Diretta streaming su RepubblicaTv e a Radio Popolare.
«C'è stato un tentativo di spingerci nell'angolo dell'antipolitica cui vogliamo reagire - dice Sandra Bonsanti -. La nostra associazione si batte per la "buona politica", che è cosa diversa».
Dissociarsi per riconciliarci è lo slogan dell'iniziativa, «ci rivolgiamo ai partiti perché pensiamo che facciano ancora in tempo a cambiare, non come dice D'Alema però. Non chiudendosi ancora, e di più». I promotori vogliono parlare a chi non trova spazio, a chi si sente ripetere sempre che il suo momento non è arrivato. «Il desiderio è che Bersani, Di Pietro, colgano l'esigenza del rinnovamento». Il manifesto parte dal momento che il Paese sta vivendo, «tempi di debolezza della politica e d'inettitudine dei partiti politici». E parla di un governo tecnico da «accettare come pharmakon», anche se «la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide». «La ratio - spiega Zagrebelsky - è che questo governo è benvenuto per il momento in cui è stato formato, poiché si dovevano affrontare argomenti che il sistema dei partiti non era in grado di affrontare. Non si può però immaginare che la tecnica sostituisca stabilmente la politica». Il presidente emerito della Consulta si chiede quel che tutto questo significhi «per l'avvenire della politica e della democrazia». Ed esorta: «I partiti si rendano conto che non possono - se non tradendo il loro compito - stare a balia troppo a lungo di un potere tutelare. Devono stabilire, e subito, un contatto nuovo con quel che è fuori da loro».

Repubblica 12.3.12
Salute mentale a rischio per 400.000 bambini
di Mario Pirani


Anche i Tg nazionali hanno riportato le immagini del "funerale" simbolico dello storico istituto di Psichiatria infantile di via dei Sabelli a Roma, fondato negli anni Sessanta da Giovanni Bollea, scienziato di fama internazionale, la cui opera è stata proseguita dall'attuale primario, Gabriel Levi. Ai tempi delle grandi riforme, da quella Basaglia alla legge Falcucci, indimenticata ministra dc della PI, che sancì l'integrazione dei minori con disabilità, nella scuola di tutti gli altri bambini e ragazzi, il riformismo si realizzava nei fatti. Per via dei Sabelli si puntava ad un percorso autonomo dell'Istituto per arrivare ad un grande centro nazionale in rapporto con i centri europei e Usa, che studiasse e raccogliesse una casistica assai variegata e ad un tempo sperimentasse le possibilità e gli esiti terapeutici sui minori in cura per le crisi psicotiche precoci, per l'autismo e le disabilità di apprendimento, le malatttie neurologiche rare. Il tutto inquadrato nell'Ospedale Diurno, come modello prioritario di diagnosi e cura per i bambini e gli adolescenti inventato da Bollea. I successi sul campo, però, sono andati di pari passo con la frustrazione del modello strategico. Oggi l'Istituto segue 5200 bambini e adolescenti ogni anno, premessa a una presa in carico sovente superiore ai 10 anni. Un risultato considerevole se non fosse insidiato dalla crisi generale del sistema sanitario e dell'università. Basta riferirsi a due contraddizioni aperte e non risolte. La prima riguarda l'università che nel calderone della riorganizzazione per dipartimenti ha staccato la neuropsichiatria infantile dal Dipartimento di Psichiatria per accorparla con la Pediatria, a differenza di tutto il resto del mondo. Gioca l'arretratezza culturale di una parte importante del mondo medico che si limita a catalogare i piccoli disabili, tranne i casi acuti proclamati, affidandoli a lungo termine quasi solo alle pur preziose maestre di sostegno. Il buco tra Sanità e Scuola si è aggravato con la crisi del Ssn e con l'orientamento, in sé giusto, di trasformare l'ospedale nel luogo dove si affrontano soltanto le acuzie della malattia. Dove cascano a questo punto i minori affetti dai vari disturbi di sviluppo e di disabilità ? Non hanno soltanto crisi acute che necessitino di ricovero e d'altra parte la loro diagnosi e cura, una volta individuate, abbisognano, invece, di terapie lunghe , a largo spettro, condotte da un personale di alta specializzazione. Non serve soltanto l'ospedale per acuti né basta la medicina del territorio. Come avviene da noi, intanto, si è proceduto ai tagli dei letti (che colpisce l'Ospedale Diurno e le degenze di via dei Sabelli) e del personale, ridotto nello stesso Istituto, da 120 ad 80 dipendenti. Su scala nazionalei dati epidemiologici sono impressionanti. I Servizi di neuropsichiatria dell'età evolutiva seguono dai 350.000 ai 400.000 soggetti nella fascia da 0 a 18 anni; quanti quelli dai Centri per i adulti. Un dato catastrofico che costituisce la chiave di volta per tutto questo dibattito: come far sì che un bambino-ragazzo a rischio non si trasformi in un adulto profondamente minorato? Di qui la richiesta urgente di una Legge sulla Salute mentale dell'età evolutiva, non per un ennesimo inquadramento corporativo del personale addetto ma per integrare gli interventi sanitari con quelli educativi, senza frammentare la popolazione dei bambini e dei ragazzi in tante piccole casistiche.Tutti i bambini anche con lieve disturbo neuro psichiatrico sottovalutato, soprattutto quelli con disturbi dello spettro autistico hanno un'altissima probabilità di subire da adulti gravi problemi psicopatologici e sociali.
Affrontati in tempo questi problemi possono essere contenutie ridotti.Con conseguenze gravi, in caso di inazione, sulla spesa pubblica che si troverebbe di fronte a difficoltà crescenti per sostenere individui ormai con scarsissime possibilità di recupero. Si è calcolato, allo stato delle cose, l'aumento all' anno di almeno un punto di Pil, 16 miliardi di euro. Un trend spaventoso.

l’Unità 12.3.12
Lettera aperta sull’Europa
«Inefficaci le scelte anticrisi ripartire da equità e lavoro»
Settanta economisti fra i firmatari del documento promosso dal Forum Cgil «Serve uno sguardo di lungo periodo per ritrovare la strada della ripresa»
di Marco Ventimiglia


Il titolo, “Lettera aperta sulla crisi dell’Europa”, lascia intendere che siamo di fronte ad un documento di largo respiro. E in effetti i circa settanta economisti, che lo hanno messo a punto e firmato per primi, hanno cercato di sviluppare il ragionamento dal punto di vista più elevato possibile, operazione indispensabile se l’intento è quello di «sconfiggere la recessione, cambiare strada finché c’è ancora tempo». Promossa dal Forum Cgil dell’economia, la Lettera è indirizzata alle massime istituzioni europee ed italiane.
Una linea sbagliata. «Nel quinto anno della crisi globale più grave da quella del 1929 è l’analisi che apre la Lettera una drammatica prospettiva di recessione incombe sull’Europa mettendone a rischio non solo l’Euro ma anche il modello sociale e l’ideale della “piena e buona occupazione”. In tale ambito si è scelta la linea dell’austerità, del rigore di bilancio, con l’idea di contrarre il perimetro statale continuando a sperare che i privati aumentino investimenti e consumi, sulla base della fiducia indotta dalle immissioni di liquidità nel circuito bancario, a sua volta “sollecitato” ad acquistare titoli di stato europei». Insomma, «si è nuovamente scelta una politica monetarista e liberista».
Senonché questa scelta appare inadeguata: «Non basta scommettere sulle aspettative dei mercati finanziari, degli investitori privati, delle banche, dei consumatori. Non è sufficiente puntare sulla “credibilità” dei governi. In Europa si sottolinea nel documento ne sono cambiati ben cinque in 18 mesi (Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia), addirittura con due governi tecnici sostenuti da larghe maggioranze. Ma la crisi dei governi nazionali è solo una delle tre crisi che si sovrappongono: restano da affrontare la crisi delle economie nazionali e la crisi dell’economia sovranazionale». In quest’ambito «le principali fonti statistiche istituzionali prefigurano per il 2012 un’Europa divisa fra Paesi in stagnazione e Paesi in recessione, senza alcuna ripresa dell’occupazione. Questa è una crisi di modello e occorre una riforma del modello per ritrovare la ripresa. Bisogna assumere uno sguardo più vasto, una prospettiva di lungo periodo. Nemmeno i Paesi europei in avanzo commerciale, nei prossimi anni, potranno contare su una “locomotiva” americana o cinese, tanto meno sulla capacità di assorbimento degli altri paesi europei».
Per i firmatari della Lettera non c’è dunque molto da salvare delle attuali politiche anticrisi: «L’Europa non è stabile e non cresce. Il Patto di Stabilità e Crescita è certamente fallito, non perché non sia stato ben applicato, semplicemente perché non poteva funzionare. Il Patto di stabilità andrebbe non rafforzato, ma cambiato. Invece del solo indebitamento pubblico, i parametri vincolanti di riferimento dovrebbero comprendere il debito totale somma del debito pubblico e privato il debito sull’estero e il saldo della bilancia dei pagamenti di ciascun Paese». Più in generale, «il nodo che oggi si pone in Europa sta nel decidere se il riequilibrio inevitabile avverrà attraverso la “depressione” (con una ricaduta regressiva e democraticamente pericolosa) oppure con lungimiranti scelte di cooperazione, rilanciando l’originaria spinta europeista».
Da qui la proposta di «un nuovo modello in cui lo Stato e le istituzioni sovranazionali orientino i risparmi, gli investimenti e lo sviluppo. È necessario un programma di riforme appoggiato su una nuova politica economica, ispirata da una nuova idea di sostenibilità di lungo periodo, economica, sociale, ambientale e intergenerazionale. L’equità è la frontiera su cui orientare le scelte politiche nazionali e internazionali. Ridurre le disuguaglianze vuol dire crescere e crescere bene. Per questo, all’interno di un progetto di armonizzazione fiscale europea, ci vuole un riequilibrio dei singoli sistemi fiscali nazionali per aumentare la tassazione sulle grandi concentrazioni di reddito e di rendita, tassare le grandi ricchezze parassitarie e liberare le risorse private tenute imprigionate, aumentare la spesa e gli investimenti pubblici».
Il gruppo degli economisti sottolinea infine come «bisogna ripartire dal lavoro. Bisogna realizzare piani di spesa pubblica per il lavoro e per gli investimenti a partire da quelli verdi, infrastrutturali, ad alta intensità tecnologica e di conoscenza finanziati con una tassazione ad hoc e anche in disavanzo, se necessario, tenendo insieme domanda e offerta».

l’Unità 12.3.12
Il ruolo della politica nell’epoca della crisi e delle «passioni tristi»
La nuova malattia sociale è la malinconia: la scienza e la tecnologia non aiutano a ritrovare la bussola. È un periodo difficile
Rischiamo un progressivo distacco dai valori e dal senso stesso della democrazia
di Carlo Buttaroni


Nella società che non attende e non si affida, sembra crescere una nuova e diffusa forma di malattia sociale: la malinconia. I pensieri si fanno sempre più disordinati, appiattiti nella superficialità di un’esistenza spogliata da valori e orientamenti. I rapporti si fanno anonimi, privi di coinvolgimento, e cresce un sentimento d’infelicità e di tristezza, come per una promessa tradita che da corpo alla sensazione di vivere ai confini di una realtà incerta, abbandonati all’insicurezza d’indefinibili orizzonti.
Eppure per molto tempo si è creduto che il cammino dell’uomo sarebbe stato un progresso inarrestabile, che non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni. Il futuro avrebbe accumulato nuove conquiste, non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche, sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire e Turgot e nell’Ottocento l’idea di un progresso ascendente ha costituito il centro del pensiero di filosofi come Hegel, Comte e Marx.
Discutere faccia a faccia con il creatore: era questa la promessa che l’umanità aveva fatto a se stessa. Una promessa mancata visto che, oggi, prevale un clima di pessimismo che evoca un domani molto meno positivo, dove la positività pura si trasforma in negatività, e la stessa promessa si è trasformata in minaccia. Certo, le conoscenze si sono sviluppate in modo incredibile ma, sembrano incapaci di alleviare la sofferenza umana, gettandoci contemporaneamente in una forma d’ignoranza molto diversa dal passato, ma forse più pericolosa, che ci rende impotenti di fronte alle nostre infelicità e ai problemi che ci minacciano. E non perché la scienza non sia abbastanza evoluta e perfezionata, ma perché la promessa di un “mondo nuovo” e di un “uomo nuovo”, finalmente libero dalla sofferenza, non è stata mantenuta e l’uomo si è scoperto indifeso di fronte alla constatazione che in mancanza della felicità, come scriveva Freud, bisogna accontentarsi di evitare l’infelicità.
La sconfitta dell’ottimismo ci lascia senza promesse future e con il timore che, oggi, persino evitare l’infelicità sia un obiettivo troppo arduo. Sembra un paradosso: la scienza fa progressi incredibili nella conoscenza del reale, ma la nostra è la prima grande società dell’ignoranza, perché il rapporto che abbiamo con le scienze e con le tecniche che le governano è di estraneità assoluta. La nostra società è la prima che possiede delle tecniche evolute e ne è, al tempo stesso, posseduta. Ci limitiamo a premere pulsanti, ignorando quali meccanismi attivino. E talune volte comprendiamo solo genericamente anche gli effetti. Un’ignoranza che produce una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo stabilizzato della tecnica. Per dirla con Spinoza e con i due grandi psicanalisti Benasayang e Schmit viviamo l’epoca delle passioni tristi, dell’impotenza e della disgregazione delle antiche certezze.
Come scriveva Hursell nei momenti di disperazione dell’esistenza la scienza non ha nulla da offrire, e le questioni che elude, per principio, sono proprio quelle scottanti di un’umanità abbandonata a se stessa nella ricerca del senso della vita, nel momento stesso in cui la scienza insegue l’immortalità.
Resta, però, la speranza che questo stato di cose si può superare. E che forse il pessimismo di oggi è esasperato quanto l’ottimismo di ieri. La crisi della certezza ci espone al rischio di suggestioni assolutiste nel momento in cui sembra avverarsi la profezia di Spengler, che all’inizio del Novecento sosteneva che le civiltà così come nascono e crescono, allo stesso modo invecchiano e muoiono; e quando una civiltà declina, i valori che l’hanno ispirata, si dissolvono. All’anima subentra un razionalismo deviato, la democrazia trasforma il popolo in una massa senza forma, la politica non dirige più l’economia ma è subordinata a essa, il denaro diventa la suprema potenza della società.
È innegabile il fascino che può suscitare il pensiero spengleriano, nel momento in cui sembra descrivere l’attuale crisi, interpretandola come l’ultimo atto del declino della nostra civiltà.
Ma è lo stesso fascino pericoloso che ha ispirato la nascita dei regimi totalitari del secolo scorso, facendo leva proprio su quel sentimento di antipolitica che sembra segnare anche la nostra epoca. L’analisi di Spengler è stata bocciata dalla storia e dal pensiero democratico che si è affermato in seguito, proprio da quel fallimento. E la crisi del nostro tempo è iscritta in un periodo troppo breve perché rappresenti la prova a posteriori della validità delle tesi spengleriane. D’altronde l’unità di misura della storia sono i secoli, ed è evidente che, rispetto a cento o duecento anni fa, per non andare a epoche ancora precedenti, le condizioni di vita degli individui sono notevolmente migliorate, sotto tutti i punti di vista.
Si può dire, al contrario, che l’affermazione della democrazia ha rappresentato il motore di un progresso civile che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Ma se oggi il rischio non è più quello della nascita di regimi autoritari, si pone comunque il problema del diffondersi, prevalentemente in ambiti socialmente marginali ed esposti al disagio, di risposte orientate alla ricerca di una purezza originaria che alimenta forme di estremismo e integralismo. Non solo religioso, ma anche sociale e politico. Sottovalutare queste spinte sarebbe sbagliato, così come sarebbe sbagliato non rendersi conto che la civiltà occidentale, e in particolare quella europea, sta vivendo una crisi che non è limitata all’economia e alla finanza, ma investe quei valori e quei principi che la democrazia stessa ha sempre cercato di proteggere. Per questo motivo la crisi investe anche la politica. Il rischio è di un progressivo distacco dai valori fondanti, il rinchiudersi in se stessi, rinunciando a integrarsi reciprocamente.
La politica deve sottrarsi alla tentazione di occupare solo il presente e non svolgere più quella funzione di senso e di orientamento verso il futuro che gli è stato affidato dalla democrazia. Ed è questo l’altro grande rischio della crisi della nostra epoca: che la politica si ritiri dalla storia, intesa come un processo lineare di sviluppo, rifugiandosi in una curva del tempo all’interno della quale tentare il ritorno a una mitica età dell’oro.

Repubblica 12.3.12
La Repubblica fondata sull'insicurezza
di Ilvo Diamanti


È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase.
L'articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L'ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù) ».
Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l'interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce "frequentemente" preoccupata - per sé e i propri familiari - di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D'altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell'ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.
Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell'occupazione.
Un problema comune al resto d'Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.
L'85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.
Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l'incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell'incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.
Anzi, nell'incertezza del futuro, semplicemente. D'altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro - incerto, precario e perduto - alimenta l'insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell'insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all'incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una "materia scarsa", quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione - cruda e disincantata - di Luigi Meneghello, in "Libera nos a Malo": «C'è invece l'espressione 'bisogna', nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la 'dòna', per 'el me òmo', per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.
Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre.... ». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.
A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che "lavorare bisogna" occorre aggiungere: "Se possibile". Ma soprattutto "senza certezze e senza continuità". Il che scardina il fondamento stesso della nostra società "laburista". Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.
Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori "dipendenti" e "autonomi".
Non è un problema di "lavoro fisso", ma di "lavoro certo". E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.
Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano "liquidi" (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali, i valori e, a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell'insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani. I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell'età lavorano.
Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all'in-certezza. All'assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.
Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia - finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un'idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L'angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.
E l'idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all'altra. E sul lavoro - e il suo complemento: lo sviluppo, anch'esso sinonimo di futuro.
Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza "previdenza". Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).
Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista "tecnico". Ma non dal punto di vista"politico". E dal punto di vista "personale" mi inquieta molto.

Repubblica 12.3.12
Il filosofo tedesco contro le politiche di Angela Merkel. Tiepide verso una maggiore integrazione. Arroganti con i popoli. Succubi degli speculatori
L’Europa dei cittadini. Più democrazia meno mercati finanziari
di Jürgen Habermas


Nel processo dell'integrazione europea vanno distinti due piani. L'integrazione degli stati affronta il problema di come ripartire competenze tra l'Unione da un lato e gli stati membri dall'altra. Questa integrazione riguarda dunque l'ampliamento di potere delle istituzioni europee. Invece l'integrazione dei cittadini riguarda la qualità democratica di questo crescente potere, ossia la misura in cui i cittadini possono partecipare a decidere i problemi dell'Europa. Per la prima volta dall'istituzione del Parlamento europeo, il cosidetto «fiscal compact» che si sta varando in queste settimane (per una parte dell'Unione) serve a far crescere l'integrazione statale senza una corrispondente crescita dell'integrazione civica dei cittadini. (...) La tesi che vorrei difendere in questa sede è presto detta. Solo una discussione democratica che affronti a trecentosessanta gradi il futuro comune della nostra cittadinanza europea potrebbe produrre decisioni politicamente credibili, capaci cioè di imporsi ai mercati finanziari e agli speculatori che puntano sulla bancarotta degli stati. (...) Finora, pur cercando di armonizzare accortamente (quanto meno nell'eurozona) le loro politiche fiscali ed economiche, gli stati membri non sono andati al di là di retoriche proclamazioni. L'integrazione degli stati diventerà credibile solo quando potrà appoggiarsi a una integrazione dei cittadini in cui si manifestino maggioranze dichiaratamente pro-europee. In caso contrario, la politica non riguadagnerà più la sua autonomia di contro alle agenzie di rating, grandi banche ed hedgefounds. (...) Dal mio punto di vista, sul piano della politica europea, il governo tedesco sta facendo poche cose giuste e molte cose sbagliate. Lo slogan Più Europa è la risposta giusta a una crisi dovuta a un difetto di costruzione della comunità monetaria. La politica non riesce più a compensare gli squilibri economici che ne sono nati. Sul lungo periodo, il riassetto dei divergenti sviluppi economico-nazionali è realizzabile solo in termini di collaborazione, nel quadro di una responsabilità democraticamente organizzata e condivisa, capace di legittimare anche un certo grado di redistribuzione che oltrepassi le frontiere nazionali.
Da questo punto di vista, il «fiscal compact» è certamente un passo nella direzione giusta. Fin dalla sua definizione ufficiale - trattato «per la stabilità, l'armonizzazione e la governance» - si vede come questo patto sia costituito da due diversi elementi. Esso obbliga i governi per un verso a rispettare le discipline di bilancio nazionali, per l'altro verso a istituzionalizzare una governance di politica economica avente per obbiettivo di eliminare gli scompensi economici (quanto meno nell'eurozona).
Come mai però Angela Merkel festeggia solo la prima parte del patto, quella mirante a penalizzare le infrazioni di bilancio, mentre non spende una parola sulla seconda parte, mirante a una concertazione politica della governance economica? (...) Il governo tedesco, pur riconoscendo a parole il bisogno di una integrazione ulteriore, di fatto contribuisce a lasciar marcire la crisi. A questo riguardo mi limito a quattro brevi considerazioni. In primo luogo non occorre farla lunga, in termini di politica economica, per capire che una unilaterale politica restrittiva, come quella caldeggiata nella Ue dal governo tedesco, spinge nella deflazione i paesi più sofferenti. Ove non si integrino le politiche restrittive con politiche di sviluppo, la pace sociale delle nazioni poste sotto tutela finirà per essere disturbata non soltanto dai pacifici e ordinati cortei dei sindacati.
In secondo luogo, la politica restrittiva risponde all'idea sbagliata secondo cui tutto si risolverà nel momento in cui gli stati membri sapranno accettare questo nuovo patto di stabilità e crescita. Di qui la fissazione di Angela Merkel nel voler imporre sanzioni: una postura minacciosa assolutamente superflua nel momento in cui si riuscissea inserire nella legislazione ordinaria della Ue una governance economica condivisa. Continua invece a imperversare l'idea per cui basterebbe istituire una «giusta» costituzione economica - dunque «regole» sovratemporali - per risparmiarci le fatiche di una concertazione politico-economica nonché i costi derivanti da una legittimazione democratica dei programmi di redistribuzione.
In terzo luogo, Merkel e Sarkozy operano sostanzialmente sul piano di una politica intergovernativa, mirando a spingere avanti, senza troppo rumore, l'integrazione degli stati e non quella dei cittadini. I capi di governo dei 17 paesi rappresentati nel Consiglio dei ministri dovrebbero tenere in pugno il bastone di comando. Sennonché, una volta dotati delle competenze di governance economica, essi svuoterebbero la sovranità economica dei parlamenti nazionali. La conseguenza sarebbe un rafforzamento postdemocratico degli esecutivi dalle conseguenze imprevedibili. Allora, l'inevitabile protesta dei parlamenti spodestati avrebbe almeno il vantaggio di portare in luce quel deficit di legittimazione che solo una riforma democratica degli organi di governo comunitari potrà colmare. In quarto luogo, le parole d'ordine del governo tedesco in fatto di bilancio suscitano all'estero il sospetto che la Germania federale persegua mire nazionalistiche. «Nessuna solidarietà, se prima non si garantisce stabilità». La proposta lanciata da Berlino di mandare un commissario plenipotenziario ad Atene - dove già ci sono, con analoghe funzioni di controllo, tre commissari appena giunti dalla Germania- dimostra un'incredibile insensibilità nei confronti di un paese in cui non si è ancora spento il ricordo delle efferatezze compiute dalle Ss e dalla Wehrmacht. Helmut Schmidt, in un appassionato discorso, ha deplorato che il governo attuale stia dilapidando il prezioso capitale di fiducia che la Germania si era guadagnata presso i vicini nel corso degli ultimi cinquant'anni.
L'impressione generale - che si ricava da questa sciocca arroganza, per un verso, e dalla troppo timida risposta al ricatto dei mercati finanziari, per l'altro - è che la politica europea non abbia ancora raggiunto il livello di una vera «politica interna». (...) Queste prudenze non sono neppure giustificabili dal vecchio argomento secondo cui l'integrazione è destinata a fallire per mancanza di un popolo europeo e di una sfera pubblica europea. Nelle idee di «nazione»e di «popolo» avevamo a che fare con fantastici soggetti omogenei: ideali che solo nel corso dell'Ottocento, canalizzati dalle scuole pubbliche e dai mass media, si erano impadroniti dell'immaginario popolare. Sennonché le catastrofi del ventesimo secolo non hanno lasciato indenni le ideologie storiografiche dei vari nazionalismi. Oggi l'Europa deve fare i conti non tanto con popoli illusoriamente omogenei, quanto piuttosto con stati-nazione concreti, con una pluralità di lingue e di sfere pubbliche.
Pur associandosi sempre più strettamente sul piano europeo, gli stati nazionali conservano funzioni specifiche. Essi non devono affatto dissolversi in uno stato federale d'Europa, ma conservare un ruolo di garanzia per i livelli di democrazia e di libertà fortunatamente già raggiunti. Ciascuno di noi unisce in petto due ruoli: quello di cittadino del proprio stato e quello di cittadino dell'Unione. E nella misura in cui i cittadini dell'Unione capiranno quanto profondamente le decisioni europee modificano la loro vita, tanto più si sentiranno coinvolti in una politica europea che può anche chiedere di spartire sacrifici. (...) Si dice che la repubblica di Weimar sia fallita perché i suoi difensori democratici erano troppo pochi. Fallirà l'Unione europea per i troppi sostenitori troppo tiepidi? Traduzione di Leonardo Ceppa e Walter Privitera

Repubblica 12.3.12
"Israele, non colpire Teheran"
Perché dico no alla guerra con l’Iran
di David Grossman


Benjamin Netanyahu sta tenendo molti discorsi in questi giorni. Dinanzi ai nostri occhi infiamma i suoi ascoltatori, e anche se stesso, con ricorrenti riferimenti alla Shoah, al destino degli ebrei e delle generazioni future. Di fronte a questa retorica catastrofistica e apocalittica ci si può chiedere se Netanyahu distingua i pericoli reali che Israele deve affrontare dagli echi e dalle ombre dei traumi del passato. Questa è una domanda importante, cruciale, perché una confusione fra le due cose potrebbe condannare Israele a rivivere quegli echi e quelle ombre.
Ovviamente se tutto questo - il pathos, il grande mantice della Shoah - non è che un espediente destinato a indurre il mondo a esercitare pressione sull'Iran, e se l'espediente funzionerà senza che Israele sferri un attacco, allora ammetteremo con gioia che il primo ministro ha compiuto un ottimo lavoro e merita tanti complimenti. Ma se Netanyahu pensa e agisce secondo una visione del mondo ermetica, che oscilla tra i poli della tragedia e della salvezza, ecco che ci troviamo in un ambito di discussione completamente diverso.
Anziché tradurre in maniera monodimensionale l'Israele del 2012 nella Shoah degli ebrei d'Europa dovremmo porci un'altra domanda: è opportuno che Israele, di propria iniziativa, scateni una guerra contro un paese come l'Iran (una guerra dalle conseguenze imprevedibili) per prevenire uno scenario futuro, indubbiamente pericoloso, ma che nessuno è sicuro che si realizzi? In altre parole: Israele dovrebbe rischiare una catastrofe certa nel presente per impedirne una futura? (segue dalla copertina) Èdifficilissimo prendere una decisione oculata in una situazione simile. Sarebbe difficile per qualsiasi leader israeliano e senza dubbio lo sarà per Netanyahu, sul quale agiscono con forza il trauma del passato e quello possibile del futuro. Potrà Netanyahu, nel groviglio di pressioni da lui stesso create e fomentate, trovare un punto di appoggio in un presente ragionevole, lucido e pragmatico? Un presente che non sia parte di un mito tragico e apocalittico che sembra volere ripetersi per noi in ogni generazione? Anche questa è infatti la realtà del presente: già oggi tra Israele e Iran esiste un equiliIran" brio del terrore. Gli iraniani proclamano che centinaia di loro missili sono puntati verso le città israeliane, ed è ipotizzabile che Israele non rimanga a braccia conserte davanti a un simile pericolo. Questo equilibrio del terrore, che a detta degli esperti comprende armi non convenzionali, chimiche e biologiche, finora non è stato violato e nessuno può stabilire con certezza se sarà mantenuto in futuro. Nessuno può nemmeno sapere se armi o capacità nucleari "filtreranno" dall'Iran a gruppi terroristici o se l'attuale regime iraniano sarà sostituito da uno più moderato. Anche il capo del governo, il ministro della Difesa e i membri del gabinetto di sicurezza israeliani che dovranno votare a favore o contro un attacco all'Iran operano, nell'attuale dilemma, sulla base di '' ,, supposizioni, timori, congetture e ansie. Senza sottovalutare l'importanza di congetture e di ansie possiamo ritenere che siano una base solida per un'azione che potremmo rimpiangere per generazioni? Nessuno in Israele è assolutamente certo che tutto il potenziale nucleare iraniano verrà distrutto da un attacco israeliano. Nessuno sa neppure con esattezza quale livello di morte e distruzione una reazione iraniana seminerà nelle città di Israele. Non è superfluo ricordare la sicurezza e l'illusione di conoscenza e di informazioni precise con le quali lo stato maggiore dell'esercito e il governo israeliani affrontarono lo scoppio della seconda guerra del Libano, né il fallimento delle previsioni della prima guerra del Libano a seguito della quale Israele si ritrovò invischiata in un'occupazione di 18 anni. E ci sono altri innumerevoli esempi.
Inoltre, anche se le infrastrutture del potenziale nucleare dell'Iran verranno distrutte, non si potranno cancellare le conoscenze accumulate. Queste conoscenze, e i loro depositari, si risolleveranno dalla polvere e creeranno nuove infrastrutture e questa volta, insieme all'intero popolo iraniano, bruceranno di offesa, di odio sfrenato e di sete di vendetta per la profonda umiliazione subita.
L'Iran, come si sa, non è solo un paese fondamentalista ed estremista. Ampie fasce della sua popolazione sono laiche, colte e progredite. Numerosi rappresentanti del suo vasto ceto medio hanno manifestato con coraggio e a rischio della propria vita contro un regime religioso e tirannico che detestano. Non sto dicendo che una parte del popolo iraniano provi simpatia per Israele ma un giorno, in futuro, queste persone potrebbero governare l'Iran ed essere forse più propense a Israele. Una tale possibilità sfumerebbe tuttavia se Israele attaccasse l'Iran raffigurandosi come una nazione arrogante e megalomane, un nemico storico contro il quale lottare strenuamente, anche agli occhi dei moderati iraniani. Questa eventualità è più o meno pericolosa di un Iran nucleare? E cosa farà Israele se a un certo punto anche l'Arabia Saudita deciderà di volere armi nucleari e le otterrà? Sferrerà un altro attacco? E se anche l'Egitto, sotto il nuovo governo, sceglierà questa strada? Israele lo bombarderà? E rimarrà per sempre l'unico paese della regione autorizzato ad avere armi nucleari? Sebbene questi interrogativi siano già noti e risaputi occorre ripeterli costantemente un attimo prima che le orecchie si otturino nella foga della battaglia: una guerra porterà un vantaggio concreto? Un vantaggio tale da assicurare a Israele una vita tranquilla per molti anni futuri? Un vantaggio tale da far sì che un giorno, forse lontano, lo stato ebraico verrà accettato come legittimo vicino e partner così che l'intera questione delle armi nucleari, israeliane e di altri paesi, risulti superflua? Una risposta legittima a questi interrogativi, difficile da digerire ma che vale la pena di discutere pubblicamente, è che se le sanzioni economiche non indurranno l'Iran a interrompere la produzione di uranio arricchito, e se gli Stati Uniti, per motivi loro, non attaccheranno l'Iran, Israele farebbe meglio a non sferrare un attacco, anche se questo significherà doversi rassegnare, a denti stretti, a un Iran nucleare.
Questa possibilità sarebbe estremamente dura da accettare e la nostra speranza è che le pressioni internazionali la vanifichino. L'eventualità di un attacco israeliano potrebbe però essere altrettanto dura e amara. E siccome non c'è modo di stabilire con certezza se un Iran dotato di armi nucleari attaccherà Israele, Israele non dovrà attaccare l'Iran.
Un simile attacco sarebbe azzardato, sconsiderato, precipitoso e potrebbe cambiare completamente il nostro futuro, non oso nemmeno immaginare come. Anzi, no: lo posso immaginare, ma la mano si rifiuta di scriverlo.
Non invidio il capo del governo, il ministro della Difesa e i membri del gabinetto. Sulle loro spalle pesa una responsabilità indescrivibile. Penso al fatto che in una situazione tanto ambigua e controversa l'unica cosa certa talvolta è la paura. Sarebbe allettante aggrapparvisi, consentirle di consigliarci e guidarci, percepire il palpito familiare che noi israeliani riconosciamo. Sono sicuro che chi è a favore di un attacco all'Iran lo giustifica sostenendo che in questo modo si eviterà la possibilità di un incubo peggiore in futuro. Ma chi ha il diritto di condannare a morte così tante persone solo in nome di un timore che potrebbe non concretizzarsi mai? (Traduzione di Alessandra Shomroni)

l’Unità 12.3.12
Kandahar Il militare ha ucciso, casa per casa, 16 civili: tra questi nove bambini e alcuni anziani
Le reazioni Karzai: «Crimine intenzionale, la Nato chiarisca». Obama: «Incidente spaventoso»
«Massacrati e bruciati» La strage del soldato Usa sconvolge l’Afghanistan
Un marine. Entra di casa in casa. Spara e uccide. Poi butta benzina e appicca il fuoco. 11 marzo 2012: la data di ieri potrebbe essere ricordata come l’inizio della fine. La fine della pacificazione del Paese
di Gabriel Bertinetto


In piena notte un soldato esce dalla base. Veste la divisa, ha con sé gli strumenti del mestiere. Questa volta la missione se l’è scelta da solo.
La meta è vicina: un villaggio a poco più di un chilometro. L’obiettivo è facile: civili disarmati, donne e bambini che a quell’ora sono sicuramente addormentati. Il sergente X (il nome non viene per ora rivelato) fa il suo ingresso in Belandi, un villaggio nel distretto di Panjway, presso Kandahar. Gira di casa in casa, con la metodica cura di un pattugliamento meticoloso. Ma ogni volta che entra, preme il grilletto e uccide. Incurante delle urla atterrite, butta benzina sui corpi e appicca il fuoco. E passa all’abitazione accanto .Alla fine si conteranno sedici cadaveri, compresi bambini e bambine.
Afghanistan, 11 marzo 2012. Una data che forse sarà ricordata in futuro come l’inizio della fine. La fine di una missione iniziata nel 2001 per liberare il Paese dai talebani e dai seguaci di Al Qaeda loro ospiti. Proseguita attraverso il sostegno politico economico e militare ad uno Stato che cercava con scarso successo di dimostrarsi democratico ed efficiente. Conclusasi nell’affannoso tentativo di rimediare ai troppi errori commessi. Così che oggi appare un miraggio, più che un traguardo, quella scadenza del 2014 in cui non soltanto le truppe straniere dovrebbero essere ritirate, ma l’Afghanistan dovrebbe risultare pacificato, magari attraverso la riconciliazione con gli stessi nemici talebani.
Episodi come quello accaduto ieri a Belandi sono il miglior argomento a sostegno di chi rifiuta il negoziato. Così come lo è stato il rogo di alcune copie del Corano nella base di Bagram. E prima ancora l’oltraggio ai cadaveri dei guerriglieri, ricoperti di urina dai marines uccisori. Se i colloqui preliminari appena iniziati in Qatar fra rappresentanti di Washington, di Kabul e del mullah Omar, erano appesi a un filo, ora il filo è logoro, e forse già si è spezzato.
Le testimonianze da Belandi sono atroci. Haji Samad, un anziano, si è salvato perché in quel momento era fuori. Ma al ritorno ha trovato i corpi senza vita di undici familiari, compresi figli e nipotini, devastati dai proiettili e dalle fiamme. Qualcuno racconta di «soldati ubriachi che ridevano e sparavano all’impazzata». L’odiosa violenza di un branco allora? Ma le autorità statunitensi insistono che il criminale è uno solo, si è già consegnato, ed è sottoposto a interrogatorio. Il comandante del contingente Usa e Nato in Afghanistan, generale John Allen, si dice «sconvolto e addolorato». Promette un’inchiesta «rapida e approfondita» e la punizione dei responsabili. Obama capisce evidentemente che la situazione può andare fuori controllo. Si dice «profondamente rattristato» per «un episodio tragico e sconvolgente che non è rappresentativo dell’eccezionale carattere dei nostri militari e del rispetto che gli Stati Uniti hanno per il popolo afghano». Ora, aggiunge, dobbiamo «accertare i fatti e assicurare, nel tempo più breve possibile, i responsabili alla giustizia».
Per tragica ironia della sorte Hamid Karzai ha saputo del massacro proprio mentre teneva un discorso per illustrare il cammino della transizione. Che solo venerdì sembrava avere fatto chissà quale passo avanti con l’accordo per la graduale consegna alle forze afghane degli insorti prigionieri attualmente detenuti nelle prigioni americane. È una delle condizioni poste da Karzai in vista di un’intesa globale di partnership con gli Usa che garantirebbe in qualche modo una presenza militare statunitense anche dopo il ritiro del 2014. Sperare che nelle trattative in Qatar i talebani dicessero sì a una prospettiva simile, era arduo prima dello scoppio di proteste popolari per le copie del Corano, ed è ora decisamente utopistico, nel clima di rabbia che scatenerà inevitabilmente il delitto di Belandi. Già ieri una prima manifestazione di protesta si è svolta davanti alla base del soldato assassino.
LA CONDANNA DI KABUL
Karzai ha ricordato come il suo governo abbia «a più riprese condannato le operazioni di guerra al terrorismo che causano perdite fra i civili». Ma questo è peggio ancora, sono «omicidi intenzionali», sono azioni «imperdonabili». In piccolo, ammesso che si possa quantificare l’orrore, la strage di Belandi ricorda l’atroce mattanza del 16 marzo 1968 a My Lai, in Vietnam: centinaia di civili, per lo più donne e bambini, massacrati dai marines americani per vendicare i commilitoni uccisi dai vietcong. A sparare furono ventisette membri di una compagnia che si era data un nome sbarazzino, Charlie. Tutti assolti, tranne uno che pagò per tutti, il tenente William Calley. Ma se la cavò con tre anni di arresti domiciliari. «Non c’è un giorno in cui non senta rimorso – disse nel 2009 -. Ma se mi chiedete perché l’ho fatto, avevo degli ordini e li ho stupidamente eseguiti». Il sergente omicida di Kandahar invece, a quanto pare obbediva a se stesso.

Corriere della Sera 12.3.12
Una guerra troppo lunga in un Paese mai domato
di Guido Olimpio


Il Pentagono sta studiando una nuova strategia per l’Afghanistan. Già prima di questo massacro era chiaro che il conflitto è durato troppo e che è venuto il momento di allontanarsi da un Paese che nessuno ha mai domato.
Il Consiglio di guerra si è svolto pochi giorni fa a Tampa, sede del Socom, il comando delle forze speciali statunitensi. Insieme all'ammiraglio William McRaven, l'uomo che ha eliminato Bin Laden, i più alti gradi del Pentagono. Tema: cosa fare nei prossimi mesi in Afghanistan. E anche senza prendere decisioni dirette — non era previsto — gli ufficiali hanno concordato sulla necessità di accelerare il «piano Obama». Un programma che ridisegna la strategia Usa e dovrà garantire la sicurezza a Kabul anche dopo il previsto ritiro del 2014. Tenendo conto delle richieste del presidente e delle valutazioni di un esercito di esperti, il Pentagono ha indicato alcune linee.
Primo. Le operazioni ricadranno sulle spalle delle forze speciali, assistite da reparti per la logistica e dirette da una catena di comando ad hoc. Crescerà la collaborazione — è una promessa — con la Cia, anche se i generali, sempre molto gelosi delle loro prerogative, hanno ribadito: non saremo subordinati agli 007. L'intento è quello di creare una forza d'urto rapida e agile che mantenga la pressione sull'asse talebano-qaedista. All'interno dei confini afghani saranno i commandos di McRaven, nell'area tribale pachistana la missione toccherà ai velivoli senza pilota. I droni sono la presenza insostituibile e il simbolo della «guerra di Obama». A costo anche di sfidare l'opposizione degli ambienti liberal e le proteste dei pachistani.
Secondo. Potenziamento della «strike force» afghana, unità scelta locale alla quale affidare missioni delicate. McRaven vuole anche affidare al reparto i raid notturni mirati alla cattura o uccisione dei terroristi. Karzai ha spesso contestato queste operazioni perché creano frizioni con la popolazione e a volte finiscono per coinvolgere degli innocenti. Ma il Pentagono non vuole rinunciarvi in quanto hanno portato risultati. E allora saranno gli afghani a doverli condurre.
Terzo. Addestramento di soldati e agenti locali. Saranno questi uomini a pattugliare città e villaggi, a loro spetterà vegliare sulla transizione come sul dopo. La Nato ha investito molto nel progetto con risultati alterni. Ricercatori di centri studi e analisti dell'intelligence non lasciano spazio a troppe speranze. Uno degli ultimi rapporti non ha nascosto un pessimismo nero sulla capacità dei governativi di tenere. La cosa è piaciuta poco al Pentagono, ma è la verità. Resa ancora più indigesta dalle notizie su corruzione e traffici d'ogni tipo. Le ultime hanno denunciato il contrabbando di droga su aerei militari afghani.
Quarto. Le iniziative militari si incrociano con quelle diplomatiche. L'obiettivo è quello di arrivare al negoziato con i talebani. In queste ore si sono registrati alcuni progressi attraverso il canale aperto nel Qatar. Coinvolgere gli insorti — quelli «buoni» o tutti — è il tentativo di evitare che il governo sia spazzato via una volta che il contingente abbia tolto le tende. Oppure il solo modo per «vendere» alle opinioni pubbliche l'idea che ce ne possiamo andare tranquilli. Appesi a questi quattro «uncini», gli alleati provano a tirarsi fuori dall'Afghanistan. E certamente episodi come il massacro di Kandahar bruciano le scarse riserve di fiducia. Ma al tempo stesso rendono chiaro che il conflitto è durato troppo e che è venuto il momento di allontanarsi da un Paese che nessuno ha mai domato.

Corriere della Sera 12.3.12
Quei 31 mila «psicolabili» rimandati a casa
Dal 2001 a oggi, record di militari affetti da disordini della personalità
di Michele Farina


A chi assomiglia l'assassino? Come sarà il suo processo? Potrebbe avere l'aria tranquilla del soldato Steven Green, condannato all'ergastolo un paio di anni fa per aver violentato una quattordicenne irachena e bruciato la sua famiglia nel 2006. Ha il grado di sergente, lo stesso di Frank Wuterich, l'unico militare americano finito a processo per il massacro di Haditha nel 2005, forse il più famigerato di tutta la guerra in Iraq: 24 civili uccisi nelle loro case, alla luce del giorno, una rappresaglia in seguito alla morte «fresca» di un commilitone saltato su una bomba.
Wuterich è stato condannato un mese fa (altri indagati e superiori hanno evitato il processo). Pena: un taglio in busta paga. Giustizia lieve, non è una novità: per le 320 stragi di civili commesse durante la guerra in Vietnam da soldati Usa (e riconosciute dal Pentagono) 203 soldati sono stati indagati, 57 processati, 23 condannati.
«Sono un veterano del Vietnam e so per esperienza che queste cose succedono — scrive Jim da Austin, commentando l'articolo del New York Times sull'ultima strage in Afghanistan — Questo soldato ha bisogno di sostegno psicologico non di prigione». Forse ne avrebbe avuto bisogno prima. Oltre che di trombettisti che suonino il silenzio per le cerimonie funebri, l'esercito Usa manca anche di psichiatri: ce ne sono solo 400, a fronte di 400 mila militari che soffrono di problemi psicologici. Più o meno uno su cinque: gli americani che si sono fatti almeno un «turno» in Iraq o in Afghanistan superano i 2 milioni. Veterani, soldati in servizio, professionisti, riservisti, membri della Guardia Nazionale (i cosiddetti «soldati del weekend»). Un esercito in ordine sparso bisognoso di cure: nei giorni più duri dell'Iraq, non sapendo più chi chiamare in soccorso, gli alti comandi avevano spedito al fronte cani da compagnia, mascotte, simpatici labrador per allietare i militari stressati. In Afghanistan pochi possono godere di questa «pet therapy». I cani sono tutti impegnati a sniffare le bombe dei talebani.
E anche quando poi i G.I se Dio vuole ritornano a casa, in licenza o per fine missione, gli incubi restano nello zaino. Dal 2000 al 2006 i veterani che soffrono di Ptsd (disordine da stress post-traumatico) sono raddoppiati fino a raggiungere la cifra record di 260 mila. Tra i malati, i veterani nuovi si sono aggiunti ai reduci del Vietnam (che ancora nel 2006 costituivano il 70% di quelli in cura per Ptsd). Gente come Michael Kern, carrista della Quarta Divisione di Fanteria, che da Bagdad si è portato negli Stati Uniti — alla base di Fort Hood in Texas — il ricordo tormentato dei «sette iracheni che ho ucciso», tra cui un bambino di sei anni «che correva verso casa dopo un'esplosione». Dal 2003 al 2009 almeno 90 militari della sua base si sono suicidati. Nella vicina cittadina di Killeen, dove vivono molte famiglie di soldati, dal 2001 il tasso di violenza domestica è aumentato del 75%. Il 25% degli homeless negli Usa (secondo un rapporto del 2007) è composto da veterani. Abbandonati a loro stessi. Michael Kern, che soffre di insonnia e incubi notturni, ha raccontato a le Monde di aver chiesto aiuto al centro specializzato di Fort Hood, il Resiliency Center. Ma ottenere ascolto e riconoscimento per il proprio malessere è diventato (paradossalmente) più difficile oggi rispetto a qualche anno fa: sarà la crisi economica, sarà il numero dei veterani, o la stanchezza un po' infastidita con cui l'America guarda ai reduci di questo decennio di conflitti lontani. Sta di fatto che la «consegna» non scritta per gli ufficiali medici è quella di ridurre il numero di soldati a cui è riconosciuta la sindrome da stress. Il bonus finanziario per ognuno è di circa 1,5 milioni di dollari, spalmati nell'arco di una vita (mentre il costo di un soldato «attivo» per ogni anno di guerra è di circa un milione). Così anche si spiega il numero di militari costretti a lasciare la divisa con la diagnosi di «disordini della personalità» (che diversamente dalla diagnosi Ptsd non costano nulla): almeno 31 mila dal 2001 a oggi. In questa lista, purtroppo, non c'era il sergente che ha ammazzato 19 civili domenica notte.

Repubblica 12.3.12
Il Vietnam che ritorna
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON AVEVAMO già visto tutto.
Un soldato ubriaco, o un gruppo di soldati americani, imbraccia un fucile automaticoe fa strage di afgani, bambini compresi. Si deve inorridire, ma non ci si può stupire.
WASHINGTON DOPO quasi undici anni di una occupazione e di una guerriglia inconcludente quanto crudele, di inutili incrementi di truppe e di ritiri annunciati, di armi intelligenti, di «danni collaterali», di agguati, deve semmai stupire se eventi come questo non siano stati molto più frequenti. Alla fine, il solo vincitore certo è «the horror».
Quanto è accaduto nei villaggi di Balandi e Alkozi, nel cuore della terra dei Taliban, non è la eccezione, è la normalità della «nuova guerra» combattuta contro nemici senza uniforme, senza reparti, senza linee di demarcazione territoriale, intrise di reciproco disprezzo razziale e religioso in una continua e reciproca «jihad». Quelle guerre che sembrano tanto intelligenti, chirurgiche, bene intenzionate, addirittura «giuste» quando sono teorizzate da chi non le combatterà, sempre, inevitabilmente, degenerano nelle atrocità che vedemmo a My Lai in Vietnam, a Sarajevo, nel Kossovo, in Palestina, in Libano, in Iraq, in Ruanda.
Puoi avere l'esercito meglio addestrato, armato e motivato del mondo, come i generali americani ripetono, ed è certamente vero, e credere di avere le più nobili motivazioni e intenzioni. La tua causa è giusta, la vendetta per un altro massacro di innocenti, in quell'11 settembre.
Puoi dotare le basi avanzate di televisione satellitare, Internet, friggitorie di fast food, spacci, ospedali da campo attrezzatissimi, come avviene per alleviare la quotidianità del servizio. Ma alla fine del tunnel c'è sempre e soltanto un uomo aggrappato al suo unico vero amico, il proprio fucile, come gridava alle reclute il sergente istruttore di «Full Metal Jacket», nella solitudine un oceano di alieni che si somigliano tutti, amici e nemici, maschi e femmine, vecchie bambini, nel qualei più fragili annegano.
Le eleganti premesse geopolitiche (ricordate il «Nuovo secolo americano» profetizzato da quei Neocon che intossicarono la presidenza del debole Bush?) si corrompono nella scoperta che niente è come te l'avevano descritto.
L'edificio psicologico costruito nei soldati dall'addestramentoe dall'indottrinamento, puntellato dalla retorica del «siamo tutti con le nostre truppe», si sbriciola al primo contatto con la realtà.
Resta soltanto quella domanda che proprio George W Bush pose a se stesso più volte: «Ma perchè ci odiano tanto? » alla quale il soldato non ha spesso altra risposta che odiare a propria volta. E quindi urinare sui cadaveri. Bruciare libri sacri.
Sparare sugli inermi. Fare agli altri quello che hanno fatto o che vorrebbero fare a te.
Si piange su vecchi, donne, bambini, civili di ogni età caduti, come se da decenni essi non fossero affatto il «danno collaterale», «l'errore» del quale scusarsi, ma l'obbiettivo principale degli attacchi. E tutti lo sanno.
Non esisteva nessuna ragione tattica per radere al suolo Coventry o Dresda, per incenerire Hiroshima e Nagasaki, città di retrovia, per demolire casa per casa una Berlino già morta nell'aprile del 1945. La motivazione strategica, da quando l'aviazione è divenuta un'arma fondamentale, era far strage di civili per spezzare il morale del combattenti.
Perché dunque il soldato americano che è entrato imbracciando il suo «unico amico», il fucile automatico, nelle case del Kandahar e ha «innaffiato» di proiettili chiunque fosse a tiro, dovrebbe provare più inibizioni dei generali che ordinano i bombardamenti a tappeto e le salve di missili dagli elicotteri, dai droni, dagli aerei? Perché mai il sottotenente William Calley della 23esima divisione di fanteria, avrebbe dovuto risparmiare la vita dei 500 abitanti di My Lay, nel 1969, che lui personalmente e gli uomini del suo plotone abbatterono per «bonificare» quella zona dai Vietcong? I suoi superiori non avrebbero esitato un istante a ordinare una pioggia di napalm sulle stesse capanne, se avessero - come lui - sospettato gli abitanti di connivenzae simpatia con il nemico. Nelle guerre fra razze, religioni, culture, tutti i nemici sono uguali e tutti disumanizzati nel linguaggio, i giapponesi sono tutti «giap», i vietnamiti sono tutti «gooks», «charlie», «slope», gli arabi, anche quando non sono affatto arabi come gli afgani, diventato tutti «raghead», teste di stracci o «camel fucker», amanti di cammelli.
Nelle sue memorie dal Vietnam, Gene Dark, recluta spedita a 19 anni a combattere oltre oceano, ha raccontato in «Atrocità di Guerra» il risucchio irresistibile nel gorgo dell'orrore e la morte dello spirito, nella confusione della paura. Anche il bambino che ti vende il chewing gum per strada forse fa la piccola vedetta per un terrorista, la donna che sembra sorriderti sotto il burqa nasconde esplosivi, il vecchio afgano inturbantato che allunga la mano per un dollaro forse sa esattamente dove sia collocata la mina. Il cosiddetto «soldato» regolare, è una quinta colonna.
«Il tuo universo si restringe e si rapprende nel gruppetto immediato dei tuoi camerati, e tutto quello che sta oltre è il male da uccidere». Il ritiro totale delle forze Nato e Americane avverrà entro il 2014, è stato ormai deciso. La democrazia non c'è, resta l'orrore. Ci sono - lo scrive la Cnn - ancora 400 donne afgane in carcere per «crimini sessuali» e i Taliban si preparano a riprendere il mano il Paese. Niente di nuovo sul Fronte Orientale.

La Stampa 12.3.12
Colloquio
Il blogger Navalny “Putin ha paura di fare la fine di Gheddafi”
Il leader della piazza: “La protesta non farà che crescere”
di Mark Franchetti


Il declino della protesta La manifestazione di sabato ha raccolto meno adesioni
Il giro di vite Lunedì scorso la polizia ha fermato Navalny dopo il comizio

Il più famoso attivista anticorruzione e blogger della Russia ha subito alcuni colpi pesanti. La sua nemesi, Vladimir Putin, ha conquistato facilmente un terzo mandato record per la presidenza, la manifestazione anti-Cremlino convocata per protestare contro il risultato elettorale ha avuto scarsa adesione, e lui stesso è stato fermato per poche ore da poliziotti armati di manganelli.
Ma Alexei Navalny, 35 anni, uno dei leader del movimento di protesta dietro alle più massicce manifestazione di opposizione negli ultimi vent’anni, aveva un atteggiamento di sfida quando l’ho incontrato nel suo ufficio poche ore dopo essere stato rilasciato. Vestito casual, maglietta bianca e scarpe da ginnastica, promette di aumentare la pressione sul Cremlino. Si siede accanto a una grande foto di Putin che stringe la mano a Gheddafi. Gli è stata regalata da un ricco imprenditore che aveva appoggiato Putin, ma ora si è ribellato. «Non sono demoralizzato, tutt’altro. Alzeremo la posta», dice. «Io sono pronto a una corsa lunga. Ho sempre saputo che rimuovere Putin non sarebbe stato facile. Finora abbiamo organizzato manifestazioni permesse ufficialmente dalle autorità, ma il Cremlino non ci ha chiesto il permesso di truccare le elezioni. Perciò ora chiamiamo la gente in piazza, non per un paio d’ore, ma per restarci. Questo è solo l’inizio».
Questa sfida sicuramente aumenterebbe la tensione e provocherebbe la reazione della polizia. Manifestazioni non autorizzate vengono sempre fatte disperdere, e i manifestanti fermati con violenza. Il Cremlino andrebbe giù pesante con attivisti che cerchino di organizzare una protesta permanente. Putin, che governa la Russia con pugno di ferro dal 2000, per due mandati come presidente e negli ultimi quattro anni come primo ministro, ha conquistato una settimana fa il terzo mandato al Cremlino con circa il 64% dei voti. In seguito a modifiche costituzionali, potrebbe fare due mandati di sei anni e occupare il Cremlino fino al 2024, quando a 72 anni si ritirirebbe con il record del leader russo più longevo dopo Stalin. La sua voce tremava quando, la sera delle elezioni, è apparso di fronte a decine di migliaia di sostenitori radunati sotto le mura del Cremlino. Era così commosso che, per la prima volta, ha pianto in pubblico. Poi ha detto che le lacrime gli erano spuntate a causa del vento gelido.
L’opposizione ha denunciato i brogli elettorali. Gli osservatori internazionali hanno definito il voto viziato da violazioni e la campagna come «palesemente a favore di Putin», ma non hanno dichiararato il risultato non valido. Citando osservatori indipendenti, un giornale d’opposizione ha scritto che almeno il 15% dei voti a Putin sono stati aggiunti con frodi, per risparmiargli un ballottaggio.
Le massicce manifestazioni anti Cremlino con la gente che gridava «Putin ladro» e «Russia senza Putin» sono iniziate a dicembre, dopo le diffuse testimonianze di brogli a favore del partito di governo nelle parlamentari. ««Mi aspettavo qualche broglio questa volta, ma considerata la pressione alla quale il Cremlino era sottoposto dopo essere stato colto con le mani nel sacco a dicembre, non avrei pensato che avrebbero truccato così spudoratamente anche le presidenziali», dice Navalny, carismatico avvocato che un anno fa ha lanciato un sito per indagare sui sospetti concorsi statali gonfiati da burocrati corrotti. «Non dubito che se il voto fosse stato libero e onesto Putin non avrebbe vinto al primo turno», continua: «Non è possibile riconoscere queste elezioni».
Navalny, accusato dai sostenitori del Cremlino di essere colluso con gli Usa, dice di aver ricevuto di recente telefonate con minacce nel cuore della notte, e di venire spiato dall’Fsb, l’ex Kgb. Ritiene che anche sua moglie venga pedinata. Per sicurezza, ha smesso di guidare ed evita di restare solo. Alto, con gli occhi blu, sicuro di se e abile oratore, è visto da molti come la figura politica più interessante emersa nella Russia di Putin. AlcPer alcuni è addirittura il futuro presidente. Più di un milione di persone ogni mese leggono il suo blog. Altri però sono molto diffidenti riguardo alle sue idee nazionaliste e la posizione dura verso gli immigrati.
Famoso per il suo umorismo sardonico, questo padre di due figli che abita in un appartamento modesto in una periferia-dormitorio di Mosca, è stato il primo a descrivere i putiniani di Russia Unita come «il partito dei ladri e dei cialtroni», definizione ormai diffusissima. La settimana scorsa ha promesso di combattere la propaganda della tv di Stato con un’aggressiva campagna nei media e su Internet, per svelare le ricchezze dell’entourage di Putin.
I sondaggi avevano pronosticato la vittoria di Putin al primo turno e perfino i suoi critici più duri riconoscono che avrebbe vinto facilmente qualunque ballottaggio, anche perché a nessun reale candidato d’opposizione è stato permesso di sfidarlo. Pochi però contestano che il voto sia stato inquinato dai brogli, soprattutto a Mosca e Pietroburgo, dove è meno popolare. Osservatori indipendenti hanno riferito di impiegati statali costretti a votare per Putn, e anche delle diffuse «giostre», con gruppi di elettori caricati su pullman per girare i seggi e votare più volte. Ma, nonostante l’indignazione diffusa, solo 25 mila persone hanno partecipato al comizio antiputiniano lunedì, alla fine del quale Navalny è stato fermato per qualche ora, molto meno rispetto alle volte precedenti. Anche la manifestazione di sabato scorso, alla quale Navalny ha partecipato, ma senza parlare, non ha visto un’adesione massiccia. Si pensa che sarà l’ultimo raduno, almeno per qualche tempo, ma gli esperti ritengono che, per quando l’onda di protesta di strada stia scemando, l’onda invece dello scontento, soprattutto tra il ceto medio moscovita colto e internettizzato, continuerà a salire.
«Se Putin pensa che questo movimento di protesta sia passeggero, si sbaglia di grosso», dice Navalny. «Forse abbiamo sopravalutato l’impatto che abbiamo avuto negli ultimi tre mesi, ma ci renderà più determinati. La temperatura non farà che salire». Indicando la foto con Gheddafi, aggiunge: «La storia di questo tipo fa impazzire Putin. Pensa che l’unico modo per lui di restare vivo, vegeto e ricco, è di rimanere presidente. E per noi è un grosso problema. Questo tipo è in trappola».

Corriere della Sera 12.3.12
Slovacchia, ampia maggioranza alla sinistra


BRATISLAVA — Il partito socialdemocratico Smer dell'ex premier Robert Fico ha vinto le elezioni parlamentari in Slovacchia con una larga maggioranza e per la prima volta dalla caduta del comunismo nel 1989 il potere potrebbe essere affidato a un unico partito. Lo Smer ha chiuso al 44,4% dei voti, ottenendo 83 seggi su 150. La coalizione di governo uscente, composta da quattro partiti e guidata dalla premier Iveta Radicova (Unione cristiano- democratica), non è andata oltre i 51 seggi. Sul risultato pesa lo scandalo di corruzione che ha coinvolto l'esecutivo: tra 2005 e 2006 un gruppo finanziario privato avrebbe pagato politici del governo e dell'opposizione per ottenere accordi di privatizzazione redditizi. Fico, 47 anni, avvocato, si è detto disponibile alla collaborazione con i partiti di centro-destra, ma questi hanno già anticipato che andranno all'opposizione. «Il nostro programma è filoeuropeo», ha dichiarato il leader socialdemocratico aggiungendo che il primo tema di discussione con gli altri partiti sarà il comportamento rispetto alle sfide dell'Unione europea: «Siamo per la salvaguardia della Ue e della moneta europea forte».

l’Unità 12.3.12
Cina: 26% in più per la ricerca
di Pietro Greco


Le parole di Wen Jaobao, lo scorso 5 marzo, hanno colto tutti di sorpresa. Anche a Pechino. Intervenendo all’annuale Congresso del Popolo, il Primo Ministro cinese ha annunciato che il governo aumenterà nel 2012 gli investimenti del governo in ricerca scientifica di base o, come si dice oggi, curiosity-driven, portandoli a 5,16 miliardi di dollari: il 26% in più rispetto al 2011. Con questi nuovi fondi il governo centrale porterà il suo contributo complessivo alla spesa in ricerca e sviluppo a 36,23 miliardi di dollari: oltre il 12% dell’intera spesa cinese in R&S.
L’annuncio ha colto di sorpresa gli osservatori per due motivi. Il primo è che la crescita dell’economia cinese rallenterà quest’anno: sarà appena del 7,5%. E anche l’aumento della spesa pubblica sarà limato. Inoltre è noto che la gran parte della spesa cinese in R&S è più verso lo sviluppo economico che non verso la ricerca di base. Wen Jaobao ha voluto smentire, però, le facili previsioni. Dando una concreta dimostrazione che la Cina intende costruire sulla ricerca – su una solida ricerca – il suo futuro, non lontano, di prima potenza economica mondiale.
SUPERATI GLI USA
In termini di risorse umane ha già superato gli Stati Uniti: la Cina conta ormai 1,5 milioni di ricercatori e laurea la metà dei nuovi ingegneri di tutto il mondo. E secondo il R&D Magazine il paese asiatico supererà il paese americano anche in termini di risorse economiche investite in ricerca entro il 2022: tra appena dieci anni. Ma la Cina è la grossa punta emergente dell’iceberg asiatico. I suoi investimenti in R&S sono aumentati al ritmo del 22% annuo tra il 1996 e il 2007. Ma la Malaysia (18%), la Thailandia e Singapore (col 14,5%), Taiwan (11%), Corea del Sud (10%) e India (9%) hanno realizzato performance al cospetto delle quali quelli dell’Europa (6,5%) e degli Stati Uniti (6,0%) scompaiono. Con questi numeri, sostiene il R&D Magazine, l’Asia continentale è diventata il motore della ricerca planetaria.

Repubblica 12.3.12
Cina
Pechino ruba a Londra i segreti degli F-35 "Li usa per costruire il super-jet invisibile"
di A. T.


BERLINO - Noi italiani, e gli altri paesi Nato, litighiamo ogni giorno, se sia necessario o no comprare il caccia invisibile Usa F35. Intanto i cinesi lo hanno già copiato. La notizia diffusa dal Sunday Times dà la dimensione dello spostamento di forze.
Con un colpo del suo intelligence la Cina si è procurata nel Regno Unito i piani dello F35. E li usa per sviluppare il suo potentissimo aereo invisibile, lo J20 "Dragone poderoso". L'aviazione di liberazione popolare, già terza al mondo, potrà produrre molti più J20 di quanti jet invisibili avrà mai il mondo libero.

Corriere della Sera 12.3.12
La mente e la coscienza
Quanto è libero il nostro cervello
Si apre oggi la Settimana mondiale del cervello, organizzata in Italia dalla Società di neurologia. «Mente, Psiche, Coscienza: quanto è libero il cervello?» è il tema di un incontro, oggi alle 18 al Teatro Franco Parenti di Milano, con lo stesso Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Giancarlo Comi e Simona Argentieri
di Edoardo Boncinelli

qui
http://www.scribd.com/doc/85012643

La Stampa 6.3.12
Preti sul lettino dello psicoanalista
di Marco Tosatti
qui
http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=196&ID_articolo=1556&ID_sezione=396

Corriere della Sera 12.3.12
In volo sui tesori di Villa Adriana minacciati da una discarica
Lo stoccaggio dei rifiuti previsto a 800 metri dal sito
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


Non bastasse il pattume cementizio che l'assedia, Villa Adriana sarà investita dal puzzo fetido di una discarica? Guai a voi, ha mandato a dire l'Unesco. Paventando addirittura la revoca del prezioso sigillo di «patrimonio mondiale dell'umanità».
Ma come hanno avuto un'idea così scellerata? Questo ti chiedi, dall'alto di un piccolo aereo ultraleggero che sbanda nel vento, vedendo i pochi metri che separano la discarica dalla dimora dell'imperatore Adriano. «Ottocento metri o anche meno — accusa il professor Cairoli Fulvio Giuliani, che è ordinario di Topografia antica e proprio a Tivoli vive —. Non conosciamo neppure i perimetri esatti della villa».
Poche centinaia di metri sottovento. Avete presente il Ponentino, quel «venterello» cantato tra gli altri da Cesare Pascarella, che porta «quer freschetto fino fino»? Adriano la volle lì, la sua villa, proprio perché anche nelle più afose canicole estive arrivava dal mare quel refolo rinfrescante. Bene: se la fanno (Dio ci scampi), la discarica sarà proprio lì, sul tragitto della brezza. La quale, dopo un paio di millenni di fragranze di pini marittimi e fiori e rosmarino che segnavano l'agro romano cantato dai viaggiatori del Gran Tour, porterà tra le Grandi Terme e i Portici, il Teatro Marittimo e il Ninfeo, folate di fetore. Col risultato, potete scommetterci, di ridurre ancor più le presenze dei visitatori paganti. Erano 187 mila l'anno, nel 2000: sono precipitati nel 2010, con un crollo del 42%, a 108 mila. Un ventesimo di quelli che ogni anno visitano Efeso, in Turchia.
Uno spreco pazzesco, per quella che è considerata una delle meraviglie archeologiche mondiali. Sottoposta per secoli ad un tale saccheggio che un po' tutti i grandi musei del pianeta sono pieni di statue e mosaici e reperti rubati lì, a Villa Adriana. Stuprata prima da nobili e cardinali ingordi di marmi e sculture, poi da un'assatanata espansione edilizia che ha ridotto la bucolica campagna attraversata dalla via Tiburtina a un informe impasto di cave e capannoni, villette e condomini, sottopassi e sovrappassi, baracche e ipermercati.
Un orrore. Solcato a passo d'uomo da un traffico infernale che ingombra in un caos di clacson l'antica via consolare. Un'ora e un quarto ci vuole, se va bene, in treno o in autobus per fare poco più di 25 chilometri in linea d'aria dal Colosseo. Più la fatica di orientarsi fra indicazioni stradali che se ne fottono di informare. Tutti ostacoli che, indegni di un paese turistico, impongono ai turisti un certo spirito d'adattamento. Se non proprio d'avventura.
E' proprio lì, a Corcolle, ai confini tra il Comune di Roma e quello di Tivoli, che l'esondazione cementizia tracimata dalla capitale pare finalmente fermarsi. È lì che ancora ritrovi, miracolosamente, quella campagna che scavalla su per i colli verso i Monti Tiburtini. La campagna descritta in estasi ad esempio da Charles Coleman, «il bardo errante dell'Agro». Le pecore al pascolo. La fattoria «Ena» dove ancora fanno le caciotte profumate come secoli fa. Il laghetto. L'antica Porta ricolma di vegetazione. I resti dei quattro acquedotti che portavano nella città dei cesari le acque appenniniche. Castelli e castelletti. Come quello duecentesco che domina la grande cava che dovrebbe accogliere la discarica.
Come potrebbero quelli dell'Unesco non preoccuparsi? Messi al corrente del rischio, vogliono vederci chiaro. Lo ha scritto a Carlo Ripa di Meana la signora Petya Totcharova, capo area del World Heritage center: «Riguardo il progetto di discarica nei pressi di questo Patrimonio dell'Umanità, si fa presente che è stata già espressa preoccupazione allo Stato membro e si è in attesa di una relazione». Ne discuteranno a San Pietroburgo il 24 giugno. Auguri. Una revoca del prezioso «bollino Unesco», Dio non voglia, è possibile. E sarebbe, per la nostra immagine mondiale, un disastro. E la riprova che non basta possedere un tesoro come questa villa e accogliere i visitatori con la statua della scrittrice Marguerite Yourcenair, che qui scrisse «Memorie di Adriano»: ci vuole cura, decoro, amore. Sentimenti che non possono fermarsi, come mille volte ha scritto Salvatore Settis, «un millimetro più in là del perimetro dei siti archeologici, oltre il quale può esserci l'inferno».
Ma se anche non ci fosse la Villa, dicono gli oppositori, ci sono aspetti che sconsiglierebbero comunque una discarica qui. E l'hanno scritto in una memoria alla base del ricorso al Tar e di una denuncia penale da cui è nata un'inchiesta. Memoria che contesta il rapporto dei tecnici che il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, nominato mesi fa commissario ai rifiuti, aveva incaricato di esaminare i pro e i contro di sette possibili siti individuati dalla Regione dopo che era apparso chiaro che la storica discarica di Malagrotta, dopo avere accolto 36 milioni di tonnellate di spazzatura e dopo una litania di rinvii, sarebbe stata stavolta davvero chiusa.
Ricordano dunque gli abitanti del posto che a pochi metri dalla zona individuata per lo sversamento dei rifiuti passa la condotta che porta l'acqua potabile a tutta la zona est di Roma. Di più, i tecnici incaricati di alcuni accertamenti (tecnici elogiati per «il buon lavoro» dalla governatrice Renata Polverini in un dispaccio Ansa del novembre scorso) non si sarebbero accorti, stando ai rilievi, che l'area scelta confina con un fiumiciattolo che i vecchi del posto ricordano per rare ma devastanti piene torrentizie. Per non parlare delle falde acquifere che buttano, in un'area altamente permeabile, appena pochi metri sotto la superficie: «Che succederebbe dell'acqua potabile di Roma se venisse contaminata dai liquami?»
Tutte cose che dovrebbero pesare. Se non ci fosse una misteriosa volontà di portare avanti il progetto a tutti i costi. Volontà tradita da un dettaglio che dice tutto. Sapete come viene definito nella relazione degli esperti prefettizi il maniero medievale che domina svetta sulla discarica? «Manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Sic... Una definizione così furbetta da mettere in allarme il ministero dei Beni culturali: parere negativo.
Per capire cosa è successo bisogna partire da qui. Dal Castello del XII secolo riadattato in villa settecentesca al centro di un'azienda agricola con agriturismo. Il suo proprietario si chiama Giuseppe Piccioni ed è anche il socio al 50% della «Ecologia Corcolle», che si era candidata a gestire la discarica. Uno che vuol prendersi i rifiuti di Roma sotto casa non può essere che matto, penserete. Ma è ancora più curioso il seguito: dopo aver fatto la società per gestire i rifiuti nel suo giardino, ha fatto ricorso al Tar contro l'immondezzaio.
Come mai? Gli atti della commissione d'inchiesta sulle ecomafie presieduta dal pidiellino Gaetano Pecorella sono illuminanti. Tutto comincia quando iniziano a circolare le voci che a Corcolle si farà una discarica. Alla commissione Piccioni spiega di essersi spaventato, ma di aver poi realizzato che essendo la cosa inevitabile, tanto valeva gestirla. Di qui l'idea di una società, la Ecologia Corcolle, fifty-fifty con i due figli di Claudio Botticelli, un signore che già gestisce una discarica a Lanuvio e che per i rifiuti ha avuto qualche grana giudiziaria. Dice anzi che fu Botticelli a proporgli l'affare. Quando però il presidente della Commissione gli chiede di spiegare perché ha fatto ricorso al Tar, si impappina.
Dice che è sempre stato convinto che si dovesse trattare di una discarica di materiali inerti e non pericolosi... Pecorella gli fa notare l'«oggetto sociale della società». Dov'è previsto il trattamento di «rifiuti solidi urbani di qualunque oggetto considerato rifiuto, sia classificato speciale non pericoloso, sia speciale e pericoloso, compresi i rifiuti ospedalieri». «Lei capisce che siamo un po' perplessi... », incalza la commissione. E Piccioni: «Non pensavo fosse una cosa così grande... Io non volevo questa discarica... Mia moglie non vuole venire più in campagna, a causa di questa discarica!»
Il resto, le contraddizioni, le ambiguità, le società dai profili oscuri con sede nei Grigioni, le strane alleanze e gli scontri politici, il ruolo sullo sfondo di Manlio Cerroni, l'anziano «Re della monnezza» padrone di Malagrotta e deciso a quanto pare a non uscire dal giro della spazzatura (dal quale avrebbe ricavato somme enormi) ve lo risparmiamo. La sintesi di tutto è nella risposta che Vespasiano avrebbe dato a chi gli rinfacciava di aver messo una tassa sulle latrine gestite dai privati: «Pecunia non olet». Il denaro non puzza.
Tranne, si capisce, per quelli che, se dovesse passare la discarica di Corcolle (della quale proprio oggi si occuperà il ministro dell'ambiente Corrado Clini) si sentiranno soffiare addosso il fetore portato da un Ponentino non più amico...

Repubblica 12.3.12
Fra liti, sprechi e degrado Ravello lascia morire l'Auditorium di Niemeyer
Dall'inaugurazione, due anni fa, è praticamente chiuso
di Giovanni Valentini


QUESTA è una storia - al limite dell'inverosimile - di straordinario malcostume meridionale. Di sprechi finanziari a carico dell'Unione europea. Di degrado culturale e ambientale, a danno di una comunità locale e dell'intera economia nazionale. Un paradigma, insomma, di quell'Italia dissoluta che - in particolare al Sud - non funziona e fa di tutto per non funzionare. Parliamo dell'Auditorium di Ravello, la "perla" della Costiera amalfitana, città della musica e sede di un Festival internazionale che d'estate richiama turisti e appassionati da tutto il mondo. Un'opera architettonica spettacolare, realizzata su progetto del celebre architetto brasiliano Oscar Niemeyer che volle donarlo al Comune, in virtù dell'amicizia personale con il sociologo Domenico De Masi, da lui stesso delegato a supervisionare e controllare il complesso come tutore morale del suo "stato di manutenzione e di estetica". Destinato nelle intenzioni a prolungare la stagione musicale e turistica oltre i mesi estivi; inaugurato ufficialmente il 29 gennaio 2010, con un concerto dell'orchestra e del coro del Teatro San Carlo di Napoli, da allora però l'Auditorium è rimasto praticamente chiuso. Ormai è ridotto a ospitare sporadicamente concerti bandistici, spettacoli di modesta qualità e nel fine settimana addirittura un cinematografo. Il suo stato di abbandono e degrado è visibile anche dall'esterno. E per sovrappiù, intorno all'opera infuria adesso una nuova faida: la Fondazione presieduta dall'ex ministro Renato Brunetta, che qui ha una casa di vacanze e qui s'è sposato nel luglio scorso, pretenderebbe di acquisire la strutturaa titolo gratuito - e quindi illegalmente - dal Comune di Ravello che ne ha la proprietà e per legge non può alienarla. La costruzione dell'Auditorium, finanziata dalla Regione Campania con fondi europei pari a 18,5 milioni di euro. I lavori cominciarono con sei anni di ritardo, in seguito a una serie di ricorsi al Tar - orchestrati dall'opposizione politica locale - che spaccarono perfino il fronte ambientalista: a favore Legambiente, Wwf, Fai e Verdi; contro Italia Nostra. Superati tutti gli intoppi giuridici e burocratici, finalmente i lavori iniziarono nell'ottobre 2006 per terminarea tempo di record, dopo circa tre anni.
Nel 2002, anche per gestire l'intero complesso architettonico e gli eventi culturali, la Regione, la Provincia, il Comune e il Monte dei Paschi di Siena costituirono la Fondazione, sotto la presidenza del professor De Masi. E fu proprio questa, in attesa di aprire le porte dell'Auditorium, a rilanciare il Festival estivo a livello internazionale, a vigilare sulla realizzazione del progetto, a creare una Scuola di management culturale per preparare un gruppo di giovani neolaureati: gli allievi, arrivati da tutta la Campania e anche dall'estero, sono stati più di cento.
Ma, come spesso avviene in Italia, purtroppo la politica - o meglio, la bassa politica - s'è messa di mezzo. La Regione e la Provincia sono passate da un governo di sinistra (Bassolino a Napoli e Andria a Salerno) a uno di destra (rispettivamente, Caldoro e Cirielli). A Ravello, nel 2006 l'ex opposizione conquistò la maggioranza trovandosi così a gestire proprio quel capolavoro che aveva sempre osteggiato. E contemporaneamente, nel segno del peggiore trasformismo meridionale, l'ex sindaco Secondo Amalfitano - già leader locale della Margherita e aderente al Pd - s'è trasferito armi e bagagli nel Pdl, sotto l'ala protettrice di Brunetta che l'ha ricambiato generosamente con la nomina a presidente del Formez.
Di fronte a un tale terremoto, e al tentativo palese di politicizzare la Fondazione, il 6 maggio 2010 De Masi comunicava perciò ai Soci l'intenzione di lasciare la presidenza. E il 19 luglio di quello stesso anno, anche il Monte dei Paschi di Siena usciva dalla Fondazione Ravello. Poi la Regione e la Provincia, con l'astensione del Comune, hanno conferito la presidenza a Brunetta che di fatto la esercita attraverso il suo "factotum" Amalfitano, il quale gode anche di un secondo stipendio in qualità di dipendente della Fondazione medesima. Con la delega "morale" di Niemeyer in mano, De Masi ha provato più voltea denunciare al Comune lo stato di abbandono dell'Auditorium che nel frattempo si sta progressivamente degradando per scarsa manutenzione. E lui stesso aggiunge: «Ho chiesto almeno che facesse rispettare i divieti di sosta, punendo i parcheggiatori abusivi che scempiano con le loro auto la bellezza del capolavoro. Non ho mai ottenuto nulla. Ora penso di creare un comitato internazionale di grandi intellettuali e architetti, che rafforzino con il loro prestigio le mie proteste».
L'Auditorium di Ravello, come occupazione diretta, potrebbe offrire un lavoro stabile a una quindicina di persone. Ma ipotizzando l'arrivo di 500 turisti a settimana per concerti e convegni, con una spesa di circa 250 euro a testa, si può calcolare che agli introiti del Festival estivo si aggiungerebbero almeno quattro milioni di euro all'anno. Con buona pace di un ex collega dell'ex ministro Brunetta, dunque, a volte anche la cultura si mangia.

La Stampa 12.3.12
Wodehouse, autogol nel campo nazista
Da una nuova biografia dello scrittore, l’infortunio in cui incorse nel 1940 quando, quasi sessantenne, era prigioniero di guerra dei tedeschi
di Masolino D’Amico


Un grosso tomo pieno di materiale interessante P. G. Wodehouse, A Life in Letters (Hutchinson), eccellentemente curato da Sophie Ratcliffe fa ancora una volta il punto, tra molto altro, sull’episodio più traumatico della lunga e altrimenti tranquilla esistenza del creatore di Bertie Wooster. Tutto cominciò quando l’agente letterario americano Paul Reynolds ricevette con sollievo una cartolina scritta a stampatello da uno dei suoi clienti più illustri che era scomparso, prelevato dai tedeschi nella Francia occupata. La cartolina, datata 21 ottobre 1940, riportava la dicitura «Kriegsgefangenenpost», posta prigionieri di guerra, e diceva: «Dio sa quando riceverai questa. Mandami un pacco da cinque libbre, una di tabacco Prince Albert, il resto cioccolata con noccioline ripeto, ogni mese. Qui sto benone e ho pensato a un nuovo romanzo, spero di poterlo scrivere. Quando sono stato internato avevo finito un romanzo di Jeeves tranne quattro capitoli, anche due racconti. Tuo P. G. Wodehouse. Sul pacco scrivi Kriegsgefangenenpost».
Il messaggio proveniva da Tost, nella Slesia Superiore, dove lo scrittore era stato internato. In seguito avrebbe scritto: «Dei giovani all’inizio della vita mi hanno spesso domandato, “Se voglio diventare un internato, come faccio? ”. Be’, ci sono molti metodi. Il mio è stato di comprarmi una villa a Le Touquet sulla costa francese e restarci fino all’arrivo dei tedeschi. Questo è probabilmente il sistema migliore e il più semplice. Tu compri la villa e i tedeschi fanno il resto».
L’internamento che Wodehouse, cittadino britannico, aveva subito in quanto non aveva ancora sessant’anni, età che glielo avrebbe evitato (quando li compì ebbe il permesso di trasferirsi in albergo a Berlino, e di farsi raggiungere dalla moglie) l’internamento, si diceva, fu un bel progresso per il nostro dopo le peregrinazioni cui era stato costretto nei primi tempi successivi all’arresto. Nelle sistemazioni precarie in Belgio e altrove era arrivato a perdere 30 chili, come mostra una foto dove è l’ombra dell’omone che si conosceva. Giunto finalmente a Tost, in un ex manicomio, trovò altri detenuti che parlavano la sua lingua e una routine che gli ricordò l’atmosfera dei collegi inglesi dov’era stato educato. Ebbe così modo di riprendere l’unica attività che conosceva, quella di scrivere, scrivere incessantemente, di quel mondo e quel tempo mai esistiti se non nella sua fantasia il castello di Blandings, la spensierata età edoardiana dominata da zie e maggiordomi. Oltre a un romanzo con Jeeves ( La gioia è col mattino, che molti considerano il capolavoro supremo della serie), scrisse altri tre libri e vari racconti, e collaborò al giornalino del campo con spiritose descrizioni della vita lì dentro, da una delle quali viene il brano succitato.
Ma questa volta l’Arcadia che Wodehouse aveva creato per sé e per i suoi lettori entrò in duro conflitto con la realtà. Quando Reynolds rassicurò gli americani sulla buona salute del popolarissimo autore, molti fan gli scrissero mandando auguri e manifestando preoccupazione. Commosso da tanto interesse, lo scrittore accettò volentieri l’offerta che astutamente i suoi anfitrioni gli fecero, di rispondere loro via radio, leggendo quelle facete cronache della vitarella nel campo di internamento. Wodehouse trovò la cosa perfettamente in linea col suo tipo di umorismo, che proprio dai college inglesi nasceva e che consisteva nell’affrontare le difficoltà minimizzandole e scherzandoci sopra. La circostanza gli aveva suggerito pagine tra le sue più leggere e divertenti. Ma mal gliene incolse. Il fatto stesso della sua disponibilità a servirsi delle onde radio del Reich per rivolgersi agli americani che non erano ancora entrati in guerra, nonché ai suoi connazionali, cui naturalmente quelle trasmissioni furono inoltrate, fu accolto con orrore, e il suo nome fu infamato come quello di un Pound o di un «Lord Haw-Haw».
Non era la prima volta che nella sua astrazione Wodehouse commetteva un autogol clamoroso. Anni prima, mentre era a Hollywood profumatamente pagato dalla Metro, aveva candidamente ammesso in una intervista che fino a quel momento gli avevano dato esattamente 104.000 dollari per non fare nulla, se non abbronzarsi e migliorare il suo golf. Lo studio non apprezzò e si guardò bene dal rinnovargli il contratto.
Adesso, quando dopo anni di operosa semireclusione in Germania riuscì a tornare in patria, cadde dalle nuvole scoprendosi attaccato furiosamente da giornalisti e uomini politici, e bollato di traditore malgrado la difesa di un intellettuale obbiettivo come Orwell. Gli americani lo perdonarono più facilmente, ma l’Inghilterra la lasciò senza rimetterci più piede se non beninteso in quella Inghilterra onirica che si era inventato neanche quando, molto tardivamente, la regina Elisabetta lo fece Sir. Già dal 1947 la Corona aveva rinunciato a perseguirlo, ma solo nel 1965 si decise a comunicargli ufficialmente che non era più persona non grata e quindi, se avesse voluto, sarebbe potuto rientrare. E il risultato dell’inchiesta che lo scagionava fu reso pubblico solo nel 1980, quando Sir P. G. era morto da cinque anni.

Repubblica 12.3.12
Manlio Rossi-Doria
Esce una raccolta di dialoghi epistolari dell'economista e studioso dei problemi meridionali nel corso di sessant'anni Fra gli interlocutori, Dorso, Salvemini, Einaudi, Spinelli E le soluzioni per il Sud nascono dal confronto con le esperienze internazionali
di Francesco Erbani


Una vita per il Sud s'intitola la raccolta di lettere, quasi tutte inedite, che Manlio Rossi-Doria scrisse o ricevette fra il 1930, quando un tribunale fascista lo condannò a 15 anni di carcere, e il 1987, poco prima di morire (la raccoltaè pubblicata ora da Donzelli, a cura di Emanuele Bernardi, con una prefazione di Michele De Benedictis). E se c'è uno spazio fisico in cui, lungo tutta l'esistenza, questo economista agrario e intellettuale poliedrico e fuori dagli schemi, riversò ogni passione conoscitiva e politica, e che raccontò con la sua scrittura fattuale eppure limpida e flessuosa, come fosse lo strumento di una grande letteratura di viaggio, questo è proprio il Mezzogiorno d'Italia.
Rossi-Doria non è meridionale (è nato a Roma nel 1905), come non lo sono alcuni frai più insigni intellettuali che in maniere diverse si iscrivono al partito dei meridionalisti (il piemontese Umberto ZanottiBianco, il valtellinese Pasquale Saraceno, il lombardo Eugenio Azimonti, fino al torinese Carlo Levi o al triestino Danilo Dolci).
Ma il Mezzogiorno è lo spazio concreto in cui, dagli studi universitari alla morte, Rossi-Doria esercita la "politica del mestiere", così la chiama, che sta a indicare un equilibrio continuamente aggiornato fra il sapere fatto di competenze, analisi, sperimentazione, obbligo di verifica, e lo slancio ideale, non ideologico, che sintetizza nell'immagine di un Sud riscattato dal "muro della miseria".
Rossi-Doria, dopo essere stato comunista, si muove nel recinto del socialismo liberale ed è senza appartenenze. Per otto anni, dal '68 al '76, è senatore socialista. La sua militanza, però, è in quello schieramento minoritario, politico e culturale, che eredita dall'azionismo tensione morale e spirito di servizio. In più ci aggiunge un'attitudine alla concretezza che non è mai pragmatismo. Gli interlocutori che compaiono in questa raccolta di lettere danno la misura di una maglia spessa di rapporti, una rete che avvolge Guido Dorso e Ferruccio Parri, Luigi Einaudi ed Emilio Sereni, Lelio Basso, e poi Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti-Bianco, Altiero Spinelli, Albert Hirschman, Arrigo Serpieri, il poeta-sindaco Rocco Scotellaro, Francesco Compagna, Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, Claudio Napoleoni, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo. E quindi Norberto Bobbio. Maestri, compagni di strada, amici: con loro intreccia un dialogo mai convenzionale, dal quale si aspetta molto, perché è il dialogo che consente di accertare la bontà di un'idea, quanto essa sia realizzabile.
Dalle lettere a Salvemini, in cui prevede la sconfitta del 18 aprile 1948 («La lotta elettorale nel Mezzogiorno è impostata sulla demagogia e l'inconsistenza più pacchiane»), fino allo sfogo amaro eppure mai disperato dei messaggi a Bobbio, pochi mesi prima di morire («Ci basta continuare a restare al servizio delle giuste cose che abbiamo servito da giovani e, ognuno a modo suo, nel corso della nostra vita»), Rossi-Doria somiglia sempre di più al ritratto che di lui disegna Carlo Levi nell' Orologio, dove compare negli abiti di Carmine Bianco: «Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l'altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in un'abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato». Il Mezzogiorno Rossi-Doria lo batte palmo a palmo, lo osserva nelle grandi estensioni di latifondo, nelle zone aride e montuose e in quelle della "polpa", dove l'agricoltura offre speranze. Custodisce nella memoria i paesaggi, decifra quanto di naturale essi contengano e quanto invece, molto di più, siano il frutto del lavoro degli uomini. Consulta dati e statistiche e poi attinge al racconto dei contadini. Ha studiato chimica e mineralogia, entomologia e microbiologia, ma quando percorre a piedi la Calabria, la Lucania o l'Abruzzo, è anche geografo.
Non si fida delle descrizioni uniformi, delle sintesi confortanti. Delle palingenesi totali. Invitaa distinguere i tanti tipi di agricoltura che convivono nelle regioni del Sud. Per realtà diverse invoca politiche diverse. Non c'è problema per il quale non si sforzi di immaginare una soluzione in positivo. Pensa, a dispetto di molti, che l'emigrazione sia un fenomeno da incoraggiare, perché sfoltisce la pressione su suoli che non possono dare benessere a tanti e perché assicura competenze e rimesse in danaro. Ma poi reagisce sdegnato di fronte alle storie degli emigranti abbandonati a se stessi, senza alcuna assistenza, a cominciare dai treni che li portano al Nord come fossero bestie.
Le lettere, attentamente selezionate e curate da Bernardi, offrono tanti materiali per approfondire i suoi giudizi sulla Dc e la Chiesa, sulla riforma agrariae la Cassa per il Mezzogiorno, sulla tutela idrogeologica dei versanti appenninici e sul nucleare (al quale si oppone fieramente). Ma molti materiali servono anche a documentare, oltre quel che già si sapeva, quanto Rossi-Doria consideri la "vita per il Sud" una vita che spazia da una dimensione locale, profondamente territoriale, fino ai più produttivi centri di ricerca europei e alle esperienze politiche e di studio che si compiono negli Stati Uniti. Il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie, una delle migliori eccellenze dell'accademia italiana, fondato a Portici nel 1959, ha il sostegno della Cassa per il Mezzogiorno, ma anche della Ford Foundation e dell'Università di California, dove RossiDoria ha soggiornato poco prima di dare avvio a quell'avventura. A Portici economisti, sociologi e antropologi americani avrebbero collaborato intensamente con i colleghi italiani, ha ricordato la storica Leandra D'Antone, che fu sua allieva.
L'attenzione per gli Stati Uniti è di vecchia data. «Hai ragione a pensare che Rossi-Doria sia uno degli uomini migliori dell'Italia di oggi», scrive Salvemini nel 1948 in una lettera ad Arthur McCall, alto funzionario del governo americano. «È un uomo di straordinaria intelligenza e di splendido carattere. Se si pensa che un tale uomo è stato messo fuori uso per il suo popolo con anni di prigione e di confino, si può capire quale disastro sia stato il fascismo per l'Italia». Nel 1951 Rossi-Doria, superando le diffidenze che gravano su di lui in quanto ex-comunista, compie il primo viaggio negli Usa.
Studia le bonifiche e i sistemi di assistenza pubblica all'agricoltura, sia tecnica che creditizia, prodotto del New Deal rooseveltiano. Si spinge fino alla Tennessee Valley. Alcuni di quei sistemi lo convincono, altri meno (come documenta D'Antone). Ma colpisce la sua disponibilità ad apprendere, a confrontare esperienze, rompendo lo schema bipolare imposto dalla Guerra Fredda, come segnala Bernardi in Riforme e democrazia, una biografia di Rossi-Doria uscita nel 2010. Rossi-Doria è attratto dall'America dei democratici, recepisce metodi di indagine, studia le tecniche dell'inchiesta sociale (di cui darà prova raccontando Scandale, piccolo comune del marchesato di Crotone e che gli servirà anche in un progetto abruzzese, insieme ad Angela Zucconi e Leonardo Benevolo). E quando si rilassa, eccolo abbandonarsi all'arte dell'osservazione e del resoconto narrativo: «Un mese dopo, con esperienza fatta più riccae profonda», scrivea Bob Brand nel dicembre 1951 (la lettera è citata da Leandra D'Antone), «seduto su una bella poltrona del mark Hopkins Hotela San Francisco, con la città stupenda sotto gli occhi, i ponti sospesi sulla baia, gli aeroplani nel cielo, il senso dell'oceano di fronte a quello del continente immenso alle spalle, guardando il volo dei gabbiani (...) mi sentivo come un vecchio rispetto ai giovani, cercando di capire e forse incapace del tutto di farlo».

Repubblica 12.3.12
Ecco l'uomo nel centomila d.C."Non ci estingueremo come i dinosauri"
di Enrico Franceschini


Sul New Scientist il futuro del Pianeta Terra: come saremo fisicamente, dove vivremo, come comunicheremo fra di noi "Il surriscaldamento ci costringerà al nomadismo, non raggiungeremo stelle lontane, troveremo nuove fonti di energia"

Pensare al futuro, per l'uomo d'oggi, generalmente significa prepararsi o preoccuparsi per quello che può accadere fra sei mesi (Israele attacca l'Iran per distruggere le centrali nucleari), fra due anni (l'economia mondiale ricomincia a crescere) o fra venti (la Cina è la nuova superpotenza planetaria). Ma nuovi studi stanno cercando di stabilire come sarà il nostro mondo non fra cinquant'anni e nemmeno tra un secolo o due, bensì fra 100mila anni: provando a immaginare, dati scientifici alla mano, che aspetto avremo, che lingua parleremo, dove vivremo, pressappoco nell'anno 102012.
Raramente ci azzardiamo a guardare così lontano, anche perché l'esercizio ci spaventa: fra cambiamento climatico, pericolo di pandemie provocate da nuovi virus, rischio che un asteroide gigante colpisca la terra, il catastrofismo è talmente diffuso che preferiamo non immaginare un domani troppo distante, nel timore che non ve ne sarebbe affatto uno.
Non per nulla la Global Catastrophic Risk Conference, tenuta a Oxford nel 2008, calcolava che gli esseri umani avevano solo il 19 per cento di probabilità di sopravvivere fino al 2100. Un simile pessimismo, avverte tuttavia il settimanale New Scientist, citando un crescente numero di pubblicazioni ed esperti, è prematuro, sbagliato.
La prima buona notizia, annunciata da scienziati della Long Now Foundation, creata a San Francisco con l'obiettivo di scrutare il futuro più remoto, è che fra 100mila anni ci saremo ancora.
Reperti fossili suggeriscono che i mammiferi possono sopravvivere un milione di anni, e alcune specie dieci volte più a lungo: perché il mammifero più intelligente, l'Homo Sapiens, non potrebbe essere fra queste? Sulla base dei 200mila anni di esistenza umana sulla terra, Richard Gott, astrofisico della Princeton University, stima che vivremo altri 7 milioni e mezzo di anni. Disastri provocati da noi stessi (guerre termonucleari), nuovi killer virus pandemici (ce ne sono stati quattro nell'ultimo secolo) o l'eruzione di un super vulcano (ogni circa 50mila anni ce n'è una), potrebbero fare gravi danni, ma difficilmente farebbero scomparire 7 miliardi di persone distribuite su ogni angolo del pianeta. Il pericolo più grave è che un asteroide gigante colpisca la terra, come accadde probabilmente 65 milioni di anni or sono, provocando l'estinzione dei dinosauri. Ma anche questo, secondo calcoli della Nasa, non provocherebbe la scomparsa dell'intera civiltà umana. Un rischio più concretoè il surriscaldamento del pianeta: se la temperatura crescerà nel prossimo secolo dai2 ai 10 gradi, New York, Londra e Tokyo verranno sommerse dall'innalzamento degli oceani, intere isole finiranno sott'acqua, le zone tropicali diventeranno invivibili. Altre zone, tuttavia, oggi aride o semi inaccessibili, diventeranno abitabili e perfino floride, dalla tundra siberiana all'Antartico. Parte dell'umanità sarà costretta a traslocare, su per giù nei prossimi tremila anni, ma non a soccombere.
Stabilito che ci saremo ancora ma dovremo cambiare residenza, resta da decidere che aspetto avremo. Un vecchio esperimento immaginava la possibilità di prendere un uomo del Cro-Magnon (30mila anni fa), rasarlo, vestirloe metterlo nel centro di New York: avrebbe riconosciuto i suoi simili? Sì, è la risposta degli antropologi, anche se non avrebbe riconosciuto nient'altro. Facciamo lo stesso gioco: prendiamo un uomo del 2012 e mettiamolo nel 102012: riconoscerebbe gli individui e le cose che ha intorno? Sì e no. Potrebbero esserci cyborg e robot di silicio non a nostra immagine e somiglianza; ma così come l'uomo della preistoria non ci risulterebbe una forma del tutto aliena, allo stesso modo l'uomo del 100mila dopo Cristo non avrà tre gambe e un solo occhio ma continuerà in qualche modo a somigliarci, afferma lo studioso Graham Lawton.
Comunicare potrebbe però essere più complicato. Oggi non comprendiamo l'inglese di mille anni fa, e solo chi ha fatto il liceo classico capisce il latino di Roma antica. Le lingue si evolvono più radicalmente di chi le parla: l'Oxford Dictionary aggiunge 2.500 nuove parole all'anno, le regole grammaticali mutano.
Ma forse dicendo "il mio nome è Mario" riusciremmo a farci capire anche nell'anno 100mila, sostiene il linguista Mark Pagel della Reading University. Cos'altro vedono gli indovini del futuro a lungo termine? Finiremo alcune risorse, come petrolio e gas, ma ne troveremo delle nuove, più in profondità e su altri pianeti. A proposito: esploreremo il nostro sistema solare, ma sembra improbabile che raggiungeremo le stelle (a 40 mila km orari, impiegheremmo 115 mila anni a raggiungere la più vicina, Alfa Centauri). Per cui è verosimile che noi terrestri continueremoa sentirci soli nell'universo: a meno che, nel frattempo, non venga a trovarci qualche specie più evoluta e più veloce della nostra.