lunedì 20 febbraio 2012

Primarie Pd
Prime stime sull’affluenza: oltre 110mila votanti nel Lazio

“Oggi, domenica 19 febbraio 2012, oltre110mila persone hanno votato nei 563 seggi aperti in tutta la regione per le Primarie per la segreteria regionale del Pd Lazio. Secondo le prime stime, nella città di Roma i votanti sono stati oltre 40mila. Nella provincia di Roma, i votanti sono stati circa 38mila. Nella provincia di Frosinone, circa 13mila. In provincia di Viterbo, circa 10mila. Nella provincia di Latina, circa 8mila. Nella provincia di Rieti, circa 2500. Le cifre definitive verranno diffuse nelle prossime ore. Entro 48 ore, le commissioni provinciali per il Congresso certificheranno i dati”. Lo rende noto Francesco D’Ausilio, coordinatore della Commissione regionale per il Congresso del Pd Lazio.
Numeri «importanti» ma comunque assai distanti dalla performance registrata nel 2009, quando in 200mila si recarono a votare
da pdlazio.it

l’Unità 20.2.12
Per il segretario Cgil sono molti i nodi irrisolti della trattativa. Oggi nuovo incontro al ministero
Camusso teme sorprese al tavolo
«L’articolo 18 norma di civiltà»
Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ieri è intervenuta alla trasmissione “Che tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio ed ha difeso la cassa integrazione e l’articolo 18 («Una norma di civiltà»).
di Giuseppe Caruso


«Una norma di civlità». Non ha dubbi Susanna Camusso, intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa, quando parla di articolo 18. Il segretario della Cgil ha espresso il suo parere ieri, il giorno prima di un nuovo incontro al tavolo aperto dal governo per discutere di mercato del lavoro. Questo pomeriggio infatti sindacati ed esecutivo riprenderanno a cercare un punto di intesa. Anche se a riguardo la Camusso si è mostrata molto prudente: «È un po’ presto per dire che siamo vicini».
TEMPO
Il segretario della Cgil ieri da Fazio ha illustrato le sue idee su lavoro, governo e ruolo dei sindacati. Ricordando per esempio come l’articolo 18 sia «esistito per tanti anni, anche di crescita, e nessuno aveva mai sollevato il problema. Che ci sia in questo momento un carico del tutto ideologico nella questione, è fuori discussione, ma non si può cambiare l'articolo 18 nella sua sostanza, perché non si può licenziare se non c'è un giustificato motivo».
Secondo il segretario Cgil si tratta di «una norma di civiltà ma soprattutto una norma deterrente, visto che il contenzioso giudiziario sull'articolo 18 è basso, non ha numeri infiniti. Questa norma non si può indebolire, perché il messaggio che verrebbe ricavato non è di una maggiore efficacia economica ma piuttosto un “potete fare quello che volete” che porterebbe ad una forma di servitù. Bisognerebbe cambiare qualcosa d’altro: un procedimento giudiziario per un licenziamento dura sei anni, questa è un'incertezza eccessiva sia per il lavoratore che per l'impresa. In questo caso il problema non è cambiare l'articolo 18 ma trovare procedure per risolvere contenziosi in tempi più rapidi».
La Camusso si è nuovamente espressa anche in difesa della cassa integrazione: «Quando la ministra del lavoro, Elsa Fornero, dice con troppa scioltezza che la Cigs si può eliminare, dice una cosa non vera. I sussidi non bastano, perché l'indennità di disoccupazione ha due fondamentali difetti: dura 8/10 mesi per il 60% dell'ultima retribuzione. quindi molto meno della cassa integrazione. Non è uno strumento universale e dura di meno».
SERVONO RISORSE
«Se bisogna trovarlo, questo strumento universale» ha continuato la Camusso «servono le risorse. Dove le troviamo? In parte dalla contribuzione, in parte dalla cassa retribuzione in deroga, in parte bisogna servirsi delle risorse che sono state utilizzate per gli ammortizzatori straordinari. In tal senso si potrebbe pensare poi ad un'imposta patrimoniale progressiva, alla lotta all'evasione. I soldi si può e bisogna trovarli».
Per quanto riguarda poi l’incontro di oggi con il governo, la Camusso si è detta convinta della «necessità che il Paese abbia un intervento sul mercato del lavoro e credo sia necessario farlo con il contributo delle parti sociali. Ma per dire che siamo vicini, è un pò presto».
Quindi una proposta: «Penso che le pensioni e le retribuzioni sopra un certo reddito, per una quota, dovrebbero essere pagate in titoli di stato. Questo vuol dire riportare il debito nel nostro Paese, non darlo alla speculazione e dire alle banche di investire i soldi che hanno nell'economia reale. Io vedo soprattutto una cosa da fare in questa fase: sollecitare le banche a dare credito alle imprese e alle famiglie».
LE REAZIONI
La presenza del segretario della Cgil alla trasmissione di Fabio Fazio, non è piaciuta a tutti. La Cisl, che oggi siederà accanto alla Cgil al tavolo, su Twitter ha attaccato Fabio Fazio per la scelta di invitare la Camusso ed al contempo per «l' esclusione scientifica e reiterata del nostro sindacato. Fabio Fazio è il conduttore più pagato e più settario della Rai».
Il segretario della Cisl però ieri, nelle sue dichiarazioni, è apparso piuttosto vicino alla collega della Cgil: «Parlare di rimuovere i sostegni, come la cassa integrazione, significa buttare un cerino in un bidone di benzina. Il Paese aspetta una rassicurazione su questo ed inoltre il governo deve capire che se per il lavoro è importante la riforma, la cosa più importante è come si lavora. Senza una buona economia non c'è lavoro».
«Non vorrei» ha aggiunto Bonanni «che tutto ciò nascondesse l'intenzione di rimuovere la Cassa in deroga per risparmiare. Noi possiamo anche essere disposti ad incontrare il governo a mezza strada, ma il governo deve incontrare a mezza strada no. Ci vuole buona volontà da parte di tutte le parti in causa».

l’Unità 20.2.12
L’ex segretario Pd apre al governo sul mercato del lavoro. «Non regaliamo Monti alla destra»
«Basta tabù sull’articolo 18»
Veltroni apre la sfida nel Pd
Fioroni: «Da irresponsabili mettere ostacoli al nuovo Patto sociale»
Fassina: «Nel partito è stata votata un’altra posizione».
Caro Walter, così ci arrendiamo al pensiero unico
di Stefano Fassina


Caro Walter, ti scrivo dopo aver letto la tua intervista oggi a Repubblica, senza alcuno spirito polemico, soltanto nel tentativo di evitare valutazioni politiche fact free.
Primo, «la patrimoniale» esiste soltanto nel linguaggio dei media. Al Lingotto non fu proposta una imposta patrimoniale ordinaria universale (su tutte le famiglie) ad aliquota minima e finalizzata a ridurre l’indebitamento netto, come le imposte patrimoniali introdotte dal governo Monti (...). Al Lingotto fu proposta, seppur in termini generici, un’imposta patrimoniale straordinaria, ad aliquota elevata, sul famoso 10% più ricco delle famiglie italiane, finalizzata ad abbattere il debito pubblico di decine di punti percentuali di Pil (...). La corrispondenza tra quanto approvato dal Parlamento a dicembre scorso è come tra il giorno e la notte. Perché il Lingotto viene, ancora una volta, presentato come precursore dell'intervento di Monti? (...) Secondo, le imposte patrimoniali ordinarie universali introdotte dal governo Monti e da te particolarmente apprezzate consistono sostanzialmente di Ici (ora denominata Imu). Dei circa 12 miliardi all’anno raccolti dalle imposte patrimoniali ordinarie approvate, oltre 11 derivano dall’Ici, ossia imposte sulla casa, su tutte le case(...) Sicuro che un governo progressista non avrebbe potuto fare meglio?
In generale, caro Walter, per valutare il tasso di riformismo del governo Monti, dovremmo ricordare che il Decreto «Salva Italia», oltre al brutale ed iniquo intervento sulle pensioni di anzianità, in particolare delle donne, ha introdotto maggiori imposte per circa 40 miliardi all’anno. Oltre all’Ici, si tratta di imposte sui consumi (Iva e accise), Tarsu ed addizionali regionali all’Irpef, le quali, come noto, sono proporzionali, non progressive, sulle relative basi imponibili, quindi colpiscono in misura più consistente i redditi più bassi e medi. A Varese, all’assemblea nazionale di ottobre 2010, all’unanimità abbiamo votato le proposte della segreteria del Pd che, in quanto progressive (e progressiste), vanno in direzione opposta. A proposito, di riforma della politica, la prima regola per un dirigente nazionale sarebbe quella di affermare la posizione del partito di cui è parte. La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art.18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito (...).
Infine, senza nulla togliere alla funzione positiva finora svolta dal governo, gli esempi da te ricordati soltanto in Italia sono considerati «riformisti». In qualunque altro Paese civile, la lotta all’evasione, la ricostruzione di un decente servizio pubblico radiotelevisivo, l’applicazione senza distorsioni dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale delle chiese, sono denominatore comune dell’arco costituzionale. Se il programma del governo Monti è l’orizzonte di una forza progressista come il Pd, allora delle due l’una: o il PdL, che insieme a noi sostiene il governo Monti, è diventato un partito progressista, oppure la tua valutazione è sbagliata. Se fosse giusta, dovremmo essere conseguenti. Alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al PdL, oltre che al Terzo Polo: una sorta di partito unico del pensiero unico. La fine della politica, non solo della democrazia dell’alternanza.

Repubblica 20.2.12
La partita Pd per la premiership spunta la corrente dei "montiani"
Casini difende Veltroni. Tensione anche nel Pdl
L’eventuale corsa di "SuperMario" sul tavolo del vertice dei berlusconiani a Villa Gernetto
di Francesco Bei


ROMA - C´è qualcuno che già lavora per candidare Monti nel 2013? Ecco, siamo di nuovo lì. A quella prima pagina del Manifesto del ‘95, governo Dini, quando la sinistra si chiedeva «Baciamo il rospo?». Quindici anni dopo c´è Mario Monti a dividere il campo, a destra ma soprattutto a sinistra. Il Pd è attraversato da sospetti, acuiti dall´intervista rilasciata ieri da Walter Veltroni a Repubblica. Il governo ha un profilo «riformista» e sarebbe «un grave errore» regalare Monti alla destra, ha detto l´ex segretario. Attirandosi una violenta scomunica di Stefano Fassina, membro della segreteria e vicino alle posizioni della Cgil. Eppure Veltroni tocca un nervo scoperto. «Ha messo il dito nella piega - ha commentato Casini con i suoi dopo aver letto l´intervista - anche se è più facile parlare quando sei un battitore libero: Bersani, da segretario, deve conciliare le due anime del partito».
Che sia questa - Monti o non Monti nel 2013 - la questione centrale lo dimostra del resto la dichiarazione di sostegno arrivata da Enrico Letta, un altro sponsor del Professore: «Berlusconi tenta di berlusconizzare Monti? Chissà. Nel dubbio fa bene Veltroni a ribadire che non dobbiamo cedere Monti alla destra». Il Pd è chiamato a scegliere, tanto che inizia a farsi strada l´ipotesi di anticipare il congresso - previsto nell´autunno 2013 - a una data più ravvicinata, per sciogliere il nodo delle alleanze e dell´identità del partito. Certo l´ala bersaniana inizia a vivere con una crescente insofferenza la posizione troppo montiana dei veltroniani. Fassina si rivolge a Veltroni senza diplomazia: «Se la tua valutazione fosse giusta alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al Pdl, oltre che al Terzo Polo». Dalla segreteria di Bersani anche Roberta Agostini dà voce ai sospetti su Veltroni. Baciare il rospo? «Noi - dice Agostini - siamo con Monti ma oltre Monti. Non penso che il Pd possa candidarlo e, se qualcuno lo pensa, sbaglia i propri conti. Sarebbe una scelta suicida. Fassina interpreta un sentimento di malessere che c´è nel paese per i sacrifici non sempre equi imposti da Monti».
Bersani e l´ala sinistra del Pd temono anche la concorrenza sempre più aggressiva di Sinistra e Libertà. Domani a Roma Nichi Vendola aprirà la direzione di Sel in una settimana decisiva per la trattativa sul lavoro. E le premesse vanno tutte in una direzione, tanto che il presidente della Puglia ha già minacciato una «reazione durissima» se il governo intendesse «stracciare il fondamento della civiltà del lavoro» rappresentato dall´articolo 18. Di fronte a una probabile manifestazione targata Fiom-Sel contro il governo cosa faranno nel Pd?
Ma la verità è che la possibile candidatura di Mario Monti e la sua investitura a premier oltre il 2013 minacciano di far saltare anche gli equilibri dentro il Pdl. «Quel che dice Veltroni - ammette Osvaldo Napoli - ha una sua logica. Ma anche nel centrodestra c´è paura che Monti se lo prenda la sinistra. La realtà è che hanno tutti paura di lui». E allora, con Pd e Pdl bloccati, ad avvantaggiarsene potrebbe essere il terzo incomodo. «Non vorrei - osserva infatti Veltroni - che Casini, mettendosi nella scia di Monti, facesse un grande partito di centro, prendendosi anche un pezzo del Pdl e diventando a quel punto il primo polo. A noi ci schiaccerebbero nella foto di Vasto e faremmo la fine della macchina da guerra del ‘94».
Se il Pd può almeno consolarsi con sondaggi positivi, nel Pdl la questione «Monti sì-Monti no» s´intreccia invece con l´incubo della piena in arrivo con le amministrative di maggio. Che potrebbero far deflagrare definitivamente il partito. L´allarme rosso suonerà stasera alla cena organizzata a villa Gernetto da Berlusconi. Il Cavaliere è il primo a rendersi conto che la situazione è difficile, tanto da non aver ancora programmato alcun comizio in giro per l´Italia proprio per non firmare con il suo nome una sconfitta. Nei suoi piani, oltre alla presentazione di liste civiche, è tornata persino la vecchia idea di recuperare il simbolo di «Forza Italia» per le prossime politiche. Con buona pace dei mal di pancia che questo potrebbe provocare negli ex An.

Corriere della Sera 20.2.12
Quel duello su come attirare i cattolici
di Dario Di Vico


Per la gioia dell'editore Carmine Donzelli, il libro di Stefano Fassina («Il lavoro prima di tutto») non è ancora approdato in libreria ma già fa discutere. Nel testo anticipato dal Corriere sabato 18, il responsabile economico del Pd, bersaniano doc e neolaburista, per rinnovare la sinistra propone di puntare sul cattolicesimo sociale e sui testi di papa Ratzinger e del cardinale Bagnasco, giudicati il miglior antidoto contro ogni riproposizione del liberismo individualista e americaneggiante. Proprio mentre la congiuntura mette il Pd di fronte a scelte difficili sull'articolo 18, il gruppo dirigente spinge lo sguardo più in là e cerca un posizionamento vincente (anche elettorale). E che questa sia una delle chiavi per interpretare le riflessioni di Fassina lo dimostra lo spazio che ieri l'Unità ha riservato a un articolo del teologo Gianni Gennari («Pensiero cattolico contro liberismo? Al Pd serve eccome»). Secondo Gennari i democratici hanno bisogno dei cattolici non solo per combattere la battaglia di civiltà contro il liberismo ma «per vincere» tout court e così «realizzare un disegno politico più giusto per l'Italia». Insomma, se il Pd si muove bene, può pescare ampiamente dal voto cattolico che a Gennari risulta essere «in evidente disagio con tutti i partiti». La svolta fassiniana, sia essa centrata sul medio o sul breve termine, non è piaciuta però a tutti nel Pd. A stroncarla ci ha pensato sul quotidiano Europa il politologo Stefano Ceccanti che contesta filologicamente la stessa interpretazione data dall'autore del libro all'enciclica papale. «Nella "Caritas in veritate" non c'è quella lotta senza quartiere al liberismo che sostiene Fassina. Così come non c'era nella "Centesimus annus". È vero che nel mondo cattolico esistono posizioni di quel tipo ma sono di settori fortemente minoritari». Secondo Ceccanti, poi, quando il pensiero cattolico ha incontrato in Europa il laburismo ciò è avvenuto su posizioni simil-blairiane e favorevoli alla riforma del welfare, non estreme e ideologiche. «E anche quando si sostiene, come fa Gennari, che in Italia in nome della lotta al liberismo si possono guadagnare voti cattolici, si fa della fantapolitica. I cattolici praticanti negli ultimi anni hanno votato per Berlusconi e voglio vedere come fa il Pd con una piattaforma alla Fassina a intercettare il voto bianco del Veneto! Anche da un punto di vista sociologico è un'ipotesi che non sta in piedi».

l’Unità 20.2.12
Intervista a Piero Fassino
«Il Pd è l’unico partito che può dare risposte alla crisi della politica»
Il sindaco di Torino: «La lista civica nazionale? È una strada. Ma sarebbe
un errore enfatizzare ed esaltare tutto ciò che ai cittadini appare antipolitica»
di Simone Collini


È evidente che in una fase di crisi della politica molti pensano di poter colmare lo spazio che si apre tra partiti e cittadini. Qualcuno potrà farlo in chiave esplicitamente antipolitica, qualcun altro più in chiave civica. Spetta ai partiti non essere passivi e inerti. E soprattutto il Pd deve sentire la responsabilità di riformare radicalmente il modo di essere dei partiti e della politica. Allora anche un’eventuale lista civica nazionale assumerebbe un altro significato». Piero Fassino è l’esempio di come possano essere deboli certe letture sulla delegittimazione della classe politica, sul primato della società civile o sulla rottamazione. L’ex segretario Ds e ex ministro ha vinto le primarie e poi al primo turno le comunali di Torino. E oggi non si soprende né della tentazione di alcuni sindaci di dar vita a una lista civica nazionale per le prossime politiche né di quanto accaduto alle primarie di Genova. Dove, dice il primo cittadino del capoluogo piemontese, «a pesare nel giudizio degli elettori è stata la credibilità dei candidati, non il loro numero».
Emiliano, De Magistris e altri suoi colleghi stanno lavorando a una lista civica nazionale per raccogliere consensi tra quel 40 per cento di indecisi registrati dai sondaggi: che ne pensa sindaco Fassino?
«Che ci sia un rapporto critico tra cittadini e politica, e in particolare tra cittadini e partiti, è sotto gli occhi di tutti. Ad alimentare la disaffezione c’è anche un uso demagogico del tema della “casta” e il modo di rappresentare tutta la politica con un’immagine deformata. Tuttavia sarebbe sciocco, di fronte a questo, alzare semplicemente le spalle. Se i cittadini manifestano un disagio, un malessere, una delusione nei confronti della politica e dei partiti, occorre chiedersi perché e dare delle risposte».
E la lista civica nazionale è la risposta giusta?
«È una delle risposte, ma non l’unica e neanche la principale. Sarebbe un errore pensare di uscire dalla crisi della politica delegittimando i partiti. Ma naturalmente questa strada può essere evitata soltanto se i partiti escono dalla loro autoreferenzialità, si aprono alla società, cambiano radicalmente la loro organizzazione e il loro linguaggio. Viviamo una fase in cui formalmente i partiti continuano a pensarsi come si pensavano nel 900, mentre nei fatti viviamo in una società molto diversa. Quelli che erano fattori di forza nel rapporto tra partiti e società si sono oggi molto indeboliti. In questa epoca le forze politiche hanno una capacità di rappresentanza più ridotta rispetto al secolo scorso. E anche la capacità di elaborazione e di avanzare proposte è largamente inadeguata. Sono questi i nodi da sciogliere. E questo è un compito che non va delegato ad altri, come se i partiti fossero irriformabili e quindi non resti che affidarsi a qualcosa d’altro. Ed è naturale che questo compito lo debba svolgere innanzitutto il Pd».
Perché è il partito che più avrebbe da perdere se entra in campo “qualcosa d’altro”?
«Perché è l’unico vero grande partito in questo momento in campo. Il Pdl è in profonda crisi. È nato, vissuto, si è rappresentato avendo come unico elemento costitutivo l’identità del suo leader, Berlusconi. Nel momento in cui esce di scena, e qualunque cosa dichiari Berlusconi è ormai fuori scena, il Pdl deve ritrovare una ragione di identità che oggi non ha. Non è azzardato pensare che nei prossimi mesi assisteremo a dei fenomeni sia di implosione che di disarticolazione e frammentazione su quel fronte, mentre il Pd si sta dimostrando una forza dall’identità chiara, riformista, progressista, di centrosinistra, con un radicamento sociale ed elettorale reale, che ha responsabilità di governo locale diffusissimo e che costituisce il punto di forza vero dell’attuale governo. Per questo spetta in primo luogo al Pd affrontare il tema della crisi dei partiti e offrire ai cittadini un’idea della politica credibile e convincente».
Il messaggio è rivolto a Bersani?
«Cambiare il modo di essere della politica richiede certamente segnali forti e anche atti di rottura da parte del gruppo dirigente nazionale. Ma c’è una responsabilità non meno rilevante dei dirigenti locali. Se in questo o quel territorio il Pd si presenta agli occhi dei cittadini come un partito chiuso, rissoso, lontano dalla società, quell’immagine pesa molto di più di quanto possa incidere l’immagine e l’iniziativa del partito a livello nazionale».
Viene in mente il nome di una città: Genova...
«In queste settimane si sono svolte primarie non solo a Genova e in mol-
ti casi con più di un candidato del Pd. D’altra parte le primarie per definizione sono aperte e non sono una competizione tra partiti, come finirebbe per essere se ogni forza politica si presentasse con un solo candidato. Quel che conta non è il numero dei candidati, né la loro singola appartenenza, ma la loro credibilità. Perché quando gli elettori partecipano alle primarie scelgono il candidato che gli appare più in grado di ricoprire il ruolo a cui sarà chiamato. Il problema perciò è come candidati e forze politiche si mettono in sintonia con le aspettative e le esigenze di una comunità, che si tratti di una città, una regione o del paese intero». Questo cosa dice a proposito del rapporto tra Pd e un’eventuale lista civica nazionale, per tornare al tema di partenza?
«Che se il Pd mette in campo iniziative, proposte, candidati credibili, non è un problema se gli si affianca una lista civica nazionale. Sarebbe un supporto in più, per il campo progressista. Se invece la lista civica nazionale rimanesse la sola proposta di apertura alla società, presentata come alternativa ai partiti, avrebbe un significato profondamente diverso, e non è neanche detto che raccoglierebbe il consenso necessario per vincere. Come sempre il destino di ciascuno di noi dipende da noi stessi, non da altri. E questo vale anche per il Pd».
Il Pd, nel momento di massima crisi di Berlusconi, non ha spinto sulle elezioni e ha lavorato per la formazione del governo Monti.
«E ha fatto la scelta giusta, perché questo ha consentito di superare definitivamente Berlusconi e soprattutto ha dato al paese un governo che sta mettendo mano a riforme che ci consentono di non essere travolti dalla crisi e di recuperare la credibilità internazionale, come si è visto con la visita di Monti a Obama, l’accoglienza al Parlamento europeo e il protagonismo che il presidente del Consiglio e l’Italia hanno nel difficilissimo dibattito in seno all’Unione. Naturalmente, nel sostenere il governo, il Pd mantiene un suo profilo, esprimendo anche valutazioni che possono essere talvolta differenti sulle singole misure. Ma la sintonia col governo rimane perché abbiamo l’obiettivo comune della rinascita del paese».

l’Unità 20.2.12
Il Pd resta primo partito
Ma l’area del non voto batte tutte le coalizioni
Dal 2008 il Pdl ha perso oltre 14 punti, Democratici in testa col 27 per cento Ma c’è un calo di consensi alle principali forze politiche che non si compensa all’interno dello stesso schieramento né si orienta sul campo opposto
di Carlo Buttaroni, Presidente Tecné


Asentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro. E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné.
Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008.
In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.
Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.
Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica.
Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso. Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.
I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.
Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.

Repubblica 20.2.12
Una terza Repubblica contro i partiti?
di Ilvo Diamanti


Non è facile prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un´ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L´esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche – soprattutto – delle alleanze e delle coalizioni precedenti.
Oggi, d´altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D´altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di "tecnici". Segno dell´incapacità dei partiti di assumere responsabilità – di governo ma anche di opposizione – di fronte agli elettori.
Da ciò deriva la "popolarità" di questo governo (una settimana fa l´Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni "impopolari". Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico – oppure vi si oppongono – al "coperto". Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di "sospensione" ne accentua le difficoltà.
Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare quel che sta succedendo nei principali partiti – Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province – sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio) – dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni – non sempre lecite – di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare – e minacciare – che «non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro».
D´altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati – per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le "primarie". Le quali continuano ad essere utilizzate "à la carte". Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, "mito fondativo del Pd", secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti – alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.
Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell´attuale maggioranza, solo l´Udc e il Terzo Polo appaiono "organici" al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione "necessaria", quasi "coatta". Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.
Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha "scalzato" il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte – dalle pensioni al mercato del lavoro e all´art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono "sfidati" dai loro tradizionali alleati – la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.
Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.
1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L´unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti – intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.
2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.
3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione "coatta".
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall´appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.
4. In altri termini, l´esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, "distinzione". Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri – oggi all´opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.
Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati – oggi all´opposizione – con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti – di maggioranza e opposizione – non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero – potranno – riprendere la guida del Paese. Andare oltre l´emergenza.
Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d´opinione. Allora fra un anno diverrebbe un "soggetto politico" forte. E potrebbe coltivare l´idea di proseguire l´esperienza "in proprio". Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l´eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell´attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent´anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata "da" e "su", ma "contro" i partiti.

Repubblica 20.2.12
I difetti di un mercato che privilegia l’uomo
di Chiara Saraceno


Investire nelle donne converrebbe alla società, dal punto di vista dello sviluppo economico, del bilancio fiscale, dell´utilizzo pieno di tutte le risorse umane disponibili. Ma per investire nelle donne e favorirne una partecipazione al mercato del lavoro adeguata alle loro capacità e competenze, sono molte le cose che dovrebbero cambiare nell´organizzazione del mercato del lavoro, nell´offerta di servizi e nella divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia. Gran parte del benessere familiare è infatti a carico del lavoro gratuito delle donne.
E l´assenza di servizi di cura, non solo per i bambini, ma per le persone non autosufficienti, è compensata solo dal lavoro gratuito di mogli, madri, figlie, nuore, nonne.
Già ora le donne stanno salvando, se non l´Italia, gli italiani, tramite il loro lavoro gratuito quotidiano - che non viene meno neppure quando hanno un lavoro per il mercato e che la crisi ha in molti casi intensificato. Senza questo lavoro gratuito, le famiglie sarebbero molto più povere e molti bisogni di cura rimarrebbero insoddisfatti. Esso andrebbe meglio e più equamente ridistribuito, tra uomini e donne, tra famiglia e società. E l´organizzazione del mercato del lavoro dovrebbe meglio riconoscerne la necessità, per le donne e per gli uomini.
Come è stato ricordato di recente agli Stati generali sul lavoro delle donne organizzati presso il Cnel, le lavoratrici italiane che hanno una famiglia lavorano complessivamente, tra lavoro pagato e non pagato, oltre un´ora in più al giorno dei loro compagni. Tuttavia guadagnano sostanziosamente meno dei loro colleghi; perciò accumulano anche una minore ricchezza pensionistica. La loro capacità di guadagno, infatti, è compressa due volte. La mancata condivisione del lavoro familiare da parte degli uomini, unita ad una bassa offerta di servizi di cura accessibili e di buona qualità, vincola il tempo che possono dedicare al lavoro remunerato.
A ciò si aggiungono le discriminazioni nel mercato del lavoro - nelle possibilità di carriera e nelle retribuzioni orarie, a parità di qualifiche - che, come segnalano anche i dati di Almalaurea per quanto riguarda le giovani laureate, iniziano prima ancora che le donne formino una famiglia. Se poi sono lavoratrici "flessibili", si trovano spesso costrette a considerare una possibile gravidanza come un rischio professionale che non possono permettersi.
Molte donne ancora oggi abbandonano il lavoro per motivi familiari, perché non ce la fanno a tenere il ritmo del doppio lavoro, spesso accompagnato da pressioni e vessazioni più o meno sottili sia in casa (perché "trascurano la famiglia") sia sul lavoro (perché "hanno la testa altrove"). Soprattutto se sono a bassa qualifica e vivono al Sud, la maggior parte delle donne, anche giovani, non entra neppure nel mercato del lavoro, o viene scoraggiata presto dal presentarsi. Costituiscono la stragrande maggioranza dei "Neet": dei giovani che né studiano né lavorano per il mercato.
Costituiscono anche la grande maggioranza sia dei lavoratori scoraggiati sia dei disoccupati invisibili: di coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano più, e di coloro che, pur dichiarandosi non forze di lavoro, di fatto si arrabattano tra un lavoretto e l´altro. Un rapporto Svimez uscito in questi giorni stima che queste due figure coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, portando il tasso di disoccupazione femminile effettivo al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
L´Italia è uno dei paesi sviluppati con un divario di genere tra i più alti a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nella presenza nei luoghi di presa di decisione, quindi nel potere, nella divisione del lavoro familiare.
È un divario aggravato dalle disuguaglianze sia territoriali che di istruzione. Anche questo è uno spread di cui ci si dovrebbe preoccupare ai fini non solo dell´equità, ma dello sviluppo. Credo che i suoi effetti negativi siano almeno altrettanto gravi, se non peggiori e con effetti di più lungo periodo, di quelli dello spread con i bond tedeschi.

Repubblica 20.2.12
Perché conviene investire sulle donne
di Cinzia Sasso


Da Bankitalia all´Ocse il coro è unanime: il lavoro femminile è un "tesoretto" da scoprire e sfruttare Una ricerca del Mulino rivela: se le occupate fossero sei su dieci il nostro Pil aumenterebbe del 7 per cento. E contro la crisi c´è chi fa un appello ai governi: è il momento di lanciare un "pink new deal"
Dopo anni di conquiste, la marcia verso la parità sembra essersi arrestata
Il part time, nato come aiuto, si è trasformato in una trappola che blocca le carriere
"Crescerebbero le entrate fiscali e previdenziali, e si stimolerebbe la domanda interna"

L´uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni - prima fra tutte la Banca d´Italia - ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà, in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri.
L´ultimo, a Roma, quello dell´associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l´inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua - autorevoli studiose di economia e demografia - a confezionare l´ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all´America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell´occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà delle famiglie. Insomma, l´uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell´obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell´Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell´università di Leeds, invece, se c´è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità che l´impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all´appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà a 3.
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d´Europa, l´Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi.
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l´aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità e dell´istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d´infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo - salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia - è l´equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L´unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell´istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent´anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c´è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall´altra c´è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c´è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all´Università di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare. Dall´indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall´incentivare l´offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand´era governatore della Banca d´Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità in un´occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all´investire - e non tagliare - nei servizi di cura per i bambini.
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità è un costo irrisorio e che quindi non c´è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all´imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità. Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l´Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».

La Stampa 20.2.12
Mamme tunisine in cerca dei loro desaparecidos
Sono 800 i migranti scomparsi dopo essersi imbarcati per l’Italia
di Laura Aniello


Sono detective a caccia di fantasmi. E quei fantasmi sono i loro figli, nipoti, fratelli. «Il mio Mohamad, 19 anni, è partito a marzo dopo essere stato colpito da una pallottola a una gamba durante la rivoluzione. I suoi cugini in Germania l’hanno riconosciuto in un filmato televisivo a Lampedusa», dice Mahrzia Raufi mostrando la foto di un ragazzo sorridente. Il velo bagnato dall’acqua che viene giù dal cielo, gli occhi fissi sul portone del consolato tunisino di Palermo, al collo l’appello alle autorità: «Aiutateci a trovarli».

Sono i nuovi desaparecidos, inghiottiti nel vortice delle rivolte arabe, delle migrazioni, degli assembramenti sui barconi, dei respingimenti in mare. Tutti partiti l’anno scorso, la gran parte spariti tra gennaio e marzo. I fantasmi del Mediterraneo: finiti in un Cie, in un carcere, in un bassifondo di qualche città o - peggio - negli abissi di quel grande cimitero che è il canale tra la Sicilia e il Maghreb. O forse ancora nascosti da una nuova identità (etiope, eritrea, palestinese) dichiarata per ottenere il permesso d’asilo. In Tunisia ne mancano all’appello 800 - trecento dei quali solo nella capitale - quasi la metà dei 1.500 partiti dal Nord Africa che anche l’Alto commissariato delle Nazioni unite qualifica come «missing».

Perduti, scomparsi nel nulla. Sei di quelle famiglie che protestano laggiù da mesi sono venute a Palermo con le fotografie dei loro ragazzi nelle mani per poi bussare alle porte dell’ufficio migrazioni di Agrigento - quello da cui dipende Lampedusa - e per andare infine a Roma, dove domani saranno ricevute al nostro ministero degli Interni. Tutti aggrappati a una voce smozzicata sentita sopra a un barcone - «Mamma, sono partito, ci sentiamo quando arrivo, evviva la libertà» - al fotogramma confuso di qualche tv, alle immagini pubblicate dai giornali. «Non c’è dubbio, guardate - dice Mahrzia - quello è sicuramente mio figlio, non si può sbagliare. Magari non può telefonare, non ha i soldi, è prigioniero. Non sa che sua madre è qua e che non si rassegnerà mai». Accanto a lei c’è Imed Soltani, che cerca i suoi due nipoti, Slim e Belahsen. «Hanno pagato mille ciascuno per imbarcarsi, sono arrivati sicuramente in un gommone con 22 persone a Linosa il 2 marzo, lo hanno confermato i carabinieri» spiega Adel Laid, dell’associazione Arca, che segue da vicino il caso insieme con Zaher Darwish della Cgil immigrazione, l’anima dei senza diritti di Palermo. Noureddine M’Barki è qui per il figlio Karime, vent’anni. «Era su un barcone arrivato a Lampedusa insieme con tanti altri, ho la foto. È vivo». Chiedono, i genitori dei desaparecidos, un confronto tra impronte digitali: quelle impresse in Tunisia dai ragazzi al momento del rilascio delle carte d’identità, e quelle rilevate all’arrivo nei Centri di identificazione e di espulsione. Una petizione che ha raccolto oltre 1.500 firme e ottenuto un’interrogazione parlamentare di Livia Turco e Gianclaudio Bressa. Dopo giorni di silenzio, il governo tunisino ha battuto un colpo, aprendo uno spiraglio di dialogo. Ma restando irremovibile sulla chiusura dei cordoni della borsa per quel che riguarda le spese di ospitalità. «I primi giorni ha pagato l’albergo - racconta Zaher Darwish - poi hanno dormito in una moschea e nelle case di amici». Nadia Ajmi, che ha visto il figlio di 21 anni, Rami Ghrissi, vendere prima il computer e poi la moto per pagarsi il biglietto per Lampedusa. Lì, in Tunisia, adesso spera come Sameh, che l’ultima volta ha sentito la voce di suo figlio già in mare: «Mamma, siamo partiti da un’ora, chiamami domani», e poi per giorni, per mesi, è impazzita dietro al messaggio automatico del telefono staccato. Nessuno vuole pensare a tutti quelli che sono partiti senza mai arrivare, alle tombe dei senza nome a Lampedusa, se tomba è una gettata di calce bianca con la scritta: extracomunitario. Nessuno vuole pensare ai naufragi che si susseguono anche in questi giorni. Perché a poche miglia di distanza da quell’isola dove i migranti sono al centro della campagna elettorale per il nuovo sindaco, si muore ancora. Il 14 gennaio - racconta Fortress Europe, il blog che tiene la conta delle vittime quattro imbarcazioni sono salpate dalla costa a est di Tripoli, due sono state salvate dalla guardia costiera maltese, una dai militari italiani. La quarta, che era partita carica di 55 uomini, è stata ritrovata alla deriva con un solo passeggero a bordo. Morto. «L’altro giorno - racconta Darwish - a un anziano in Tunisia è arrivata la notizia che suo figlio fosse tra le vittime. Lui non ha retto al dolore ed è morto sul colpo. L’indomani abbiamo saputo che il ragazzo era vivo».

La Stampa 20.2.12
“Ma per molti di loro non c’è speranza“
Intervista a Fulvio Vassallo
di L. An.


Non creiamo false aspettative, credo che gran parte degli ottocento migranti che mancano all’appello siano finiti in fondo al mare, a marzo 2011 ci furono almeno tre naufragi di barconi partiti dalla Tunisia». Non è ottimista Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo all’Università di Palermo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e rappresentante del Forum antirazzista di Palermo.
Ma alcuni di questi genitori sostengono di avere le prove dell’arrivo in Sicilia dei loro figli…
«E questa è l’altra storia. Che è l’esito dell’assoluta situazione di incertezze che si determinò perché i migranti non venivano identificati immediatamente con le impronte digitali: questo avveniva più tardi, a Lampedusa o nei Cie dove venivano successivamente portati. Aggiunga pure che i primi sbarchi avvennero il 7 febbraio, ma la richiesta di protezione internazionale fu accordata dall’Italia soltanto il 5 aprile. Molti fuggirono dai Centri senza neanche essere ancora stati identificati».
Perché non chiamare a casa per dire: sono vivo?
«Qualcuno può avere dato false generalità e può essere stato arrestato. In questo caso ha paura di scoprirsi, di rischiare un’altra condanna o di essere rimpatriato, anche perché - dopo la caduta di Ben Alì - il trattamento per chi è emigrato clandestinamente non è molto sereno. Il periodo di detenzione in Italia, per quelli trovati senza documenti, nella maggioranza dei Paesi europei è da sei mesi a un anno: quindi aspettano di uscire».
Perché non avviare il confronto delle impronte, di fronte all’ansia di centinaia di madri?
«Il canale di dialogo si è appena aperto, ma è ancora tutta da verificare la disponibilità della Tunisia. Le autorità italiane, dal canto loro, si erano dette disponibili a verificare le impronte che avrebbe ricevuto, ma intanto nel frattempo non ha neanche fatto un controllo negli archivi del Paese».
Con la primavera, si aprirà una nuova stagione di sbarchi?
«Ne dubito fortemente. La Libia vive una situazione di controllo tribale: chi ha la pelle nera, se non ha un libico che garantisca per lui, è un uomo morto. È diventata un tappo per i migranti africani, tanto che adesso abbiamo notizia di somali in Ucraina, di eritrei bloccati in Sinai, in mano a predoni e trafficanti di organi. Per quel che riguarda la Tunisia, la situazione è fluida, e anche questa storia dei desaparecidos è stata utilizzata per dire: avete visto che succede se fate partire i vostri figli? Non c’è la guerra, non si vedono chiaramente le opportunità della partenza. Potranno arrivare nell’ordine di tre o quattromila, ma l’esodo dei 60 mila dell’anno scorso non lo vedremo».

Corriere della Sera 20.2.12
Il fornaio Khader digiuna in cella. L'ira dei palestinesi
Il jihadista ha perso 30 chili
di F. Bat.


GERUSALEMME — Il Bobby Sands della Palestina, oggi, sarà al giorno 65 di sciopero della fame. 30 chili di meno. Ammanettato a un letto d'ospedale. Descritto senza capelli e coi muscoli atrofizzati: «In pericolo di vita». Adnan Khader riceve familiari, deputati e Croce Rossa, ma non molla: ha rifiutato le cure a base di potassio, non vuole esami del sangue e dell'urina. Accetta solo zuccheri e sali, in minime dosi che lui decide. Se gl'israeliani non annullano la sua «ingiusta detenzione», se la Corte Suprema giovedì non lo lascerà uscire, a 33 anni Adnan promette di diventare il primo martire per fame della storia palestinese. Come l'uomo dell'Ira che trent'anni fa si consumò in un carcere inglese. Gli manca poco: dopo 66 giorni, Bobby Sands morì.
Se nei proverbi palestinesi è febbraio il più crudele dei mesi, quella di Khader è la più cruda delle proteste. Colpisce Israele al suo tallone d'Achille giudiziario, le «detenzioni amministrative» che consentono d'infliggere semestri di carcere per semplici sospetti, spesso senz'accuse specifiche o interrogatori di garanzia. Il panettiere di Kabatia fu arrestato a Jenin il 17 dicembre.
Portavoce di Jihad islamica, movimento che vuole la distruzione d'Israele, è dal '99 che entra ed esce di prigione, dove ha già fatto sei anni. Stavolta ha deciso d'opporsi all'«umiliazione cui sono sottoposti centinaia di palestinesi»: 310 per l'esattezza, uno dei quali detenuto da oltre 5 anni, una ventina imprigionati da più di due. La sua battaglia sta scaldando le piazze: da Gaza, sono stati lanciati i Qassam; altri detenuti hanno cominciato lo sciopero della fame; 5 mila persone hanno manifestato a Jenin; ci sono stati disordini sulla Spianata delle moschee. Per Khader ha lanciato un appello Catherine Ashton, responsabile esteri dell'Ue. E un funzionario dell'Onu l'ha detto chiaro: «Se quest'uomo muore, rischiamo la terza intifada». Le autorità di polizia non vogliono cedere, per evitare un precedente: la Corte suprema stabilì già nel 2002 che queste carcerazioni preventive, teoricamente rinnovabili all'infinito, rispettano le convenzioni internazionali. Scrive un giornale vicino al premier Netanyahu: «Questa Guantanamo non piace a nessuno. Ma dobbiamo anche ricordarci che cos'è la Jihad». Aggiungendo che, per evitare un nuovo Bobby Sands, l'unica è l'alimentazione forzata: «Perché in Israele non abbiamo un'Iron Lady».

Arrestati i due marò Tensione India-Italia
Roma: atto unilaterale. Delhi: li processiamo. Rischiano la pena capitale
l’Unità 20.2.12
Il gigante indiano che oggi alza la voce
di Ugo Papi


L’uccisione dei pescatori indiani da parte di militari italiani riaccende i riflettori su una delle nuove potenze mondiali. I tassi di crescita straordinari hanno imposto da anni l’India alla ribalta internazionale e ci si interroga sul peso che il sub continente indiano avrà nei nuovi scenari della geopolitica e dell’economia globale.
A seguito delle liberalizzazioni degli anni Novanta, nell’ultimo decennio il tasso di crescita è stato vicino all’8%, facendo rientrare a pieno titolo l’elefante indiano nel novero delle potenze in rapida crescita, a fianco del gigante cinese. Questo sviluppo impetuoso, oltre che maggiore ricchezza, ha anche messo in luce le forti criticità del sistema economico indiano e le enormi disparità sociali. Nell’arretrato settore agricolo è ancora impiegato il 50% della forza lavoro. Il settore industriale rappresenta solo il 16 % dell’economia. È cresciuto il terziario, dove a fianco dei ben pagati ingegneri informatici si annida anche una sacca di lavoro informale,senza protezione sociale. Ma il confronto con il Dragone cinese non è certo lusinghiero se si guarda alle aspettative di vita, alla mortalità infantile e all’alfabetizzazione, senza parlare del peso ancora importante delle differenze di casta.
Sul piano internazionale l’India non sembra ancora pronta a giocare un ruolo globale, ma la sua sfera di interesse si allarga progressivamente. Rispetto alla autoritaria Cina, l’India gode di una straordinaria immagine positiva che deriva dall’essere la culla di importanti tradizioni religiose e oggi la più grande democrazia del mondo. La preoccupazione prima della politica estera indiana resta il Pakistan e la minaccia che rappresenta nel conteso Kashmir. Tre guerre e continue crisi di frontiera non hanno risolto il problema. Per questo negli anni passati, i due Paesi si sono dotati di armi nucleari. A complicare le cose ci sono i ripetuti attentati terroristici in India, spesso compiuti da gruppi legati al Pakistan, ma anche i tentativi indiani di allargare la propria influenza in Afghanistan.
La seconda direttrice della politica estera indiana è la relazione con l’America, sempre più buona dopo gli anni della guerra fredda. Dopo il 2005 sono stati siglati importanti accordi nel campo della difesa e degli armamenti. Gli Usa hanno perdonato all’India la dotazione nucleare, facendola di fatto entrare nel club dei grandi, sperando così di portare il gigante indiano ad un accordo strategico. Ma l’India vuole tenersi le mani libere. La terza preoccupazione di Delhi sono infatti i rapporti con Pechino. L’espansione economica e politica della Cina nei paesi del sub continente indiano, dal Pakistan alla Birmania, fanno del Dragone un avversario strategico dell’India che aspira, per ora, ad essere solo una grande potenza regionale.

l’Unità 20.2.12
Non sapevamo chi siamo, e adesso?
La scomparsa del «capo» e l’«italianità» perduta. In un libro ebook sette studiosi si confrontano sul tema urgente dell’identità nazionale
e sui cambiamenti profondi del nostro Paese, la crisi e la forza dell’Italia
di Enrico Pozzi, psicologo


Orfani di un «patriarca» che ha dato mille facce al Sistema Paese
La sfida. Uscire dall’eternità magica e entrare nella storia, collettivamente

Il volume da oggi scaricabile gratuitamente
Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta, Aa.Vv. , A cura di Giulia Cogoli e Vittorio Meloni pagine 144
Oggi si presenta «Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta» (perFiducia, Intesa Sanpaolo), un libro che raccoglie le riflessioni di Aime, Dalla Zuanna, De Biase, Diamanti, Natoli, Pozzi e Zoja: sette studiosi si confrontano sull’identità degli italiani, i cambiamenti profondi del nostro paese, la crisi e la forza dell’Italia dei nostri giorni. Scarcabile gratis su www.perfiducia.com

Esistono due problemi diversi collegati all’identità. Il primo è il paradosso costitutivo dell’identità quando essa si applica ad attori dinamici, e soprattutto a soggetti viventi. Il secondo è: cosa sta avvenendo alla identità italiana in questo momento e quale rapporto intercorre tra le difficoltà identitarie percepite dai soggetti collettivi e individuali nel nostro paese e la crisi della leadership carismatica che stiamo vivendo? (...)
Dalla fine degli anni Ottanta, per una serie di motivi, la società italiana è entrata in una crisi anomica accentuata, in una perdita crescente di elementi vitali della sua coesione sociale che hanno prodotto un’angoscia talvolta evidente in alcuni segnali statistici, talvolta più incerta e sfuggente. Il nostro sistema sociale è entrato in un panico anomico, prima strisciante poi esplosivo, che si è tradotto in una domanda altrettanto panica di coesione magica del Sistema Paese. Qui il richiamo è a Max Weber: l’anelito al ripristino della coesione si è espresso in una domanda diffusa di leadership carismatica. Le pagine straordinarie di Weber sul carisma e sul potere carismatico stanno in parti diverse del postumo Economia e società. Occorre leggerle tutte per capire la ricchezza multidimensionale del tipo ideale che propone. Un aspetto le accomuna: la indifferenza di Weber per la dimensione psicologica. Salvo che in un punto: caratteristica del capo carismatico è il possedere qualità straordinarie, ma come mai la gente pensa che un determinato individuo abbia effettivamente delle qualità straordinarie? Questa frasetta pone il problema cruciale del consenso al carisma. La principale risposta è da ricercare, secondo me, nel panico anomico, e nella sofferenza psichica che l’anomia grave genera nell’io e nella identità dei membri di un gruppo sociale (nazione, organizzazione, famiglia ecc.).
Ma cosa c’entra il carisma con la coesione sociale? In che senso può agire come una «cura» per l’anomia? Osserviamo il frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes. Si tratta di una straordinaria visualizzazione della funzione coesiva della leadership carismatica o del corpo del sovrano. Riportando questa immagine al momento in cui è stato scritto il testo una guerra civie, il massimo dell’anomia e dell’homo homini lupus -, abbiamo il Re a mezzobusto nella pienezza dei suoi regalia (spada, globo ecc.) collocato sullo sfondo di un paesaggio che condensa il suo regno fisico. Ma il corpo de Re è fatto dalle teste dei suoi sudditi. Corpo metonimico, al tempo stesso individuale e collettivo, che contiene nel suo Body Natural il suo Body Politic, secondo il modello classico di Ernst Kantorowicz. Nel corpo fisico/ politico del Re, necessariamente tutt’uno come ogni corpo vivente, si ricompone magicamente il corpo lacerato del sociale. Nella persona mixta del sovrano si ripristina la coesione sociale perduta o minacciata, si placa l’angoscia anomica e trova risposta la domanda sociale di coesione del Noi, che è anche domanda di coesione dell’io e della identità individuale. In Hobbes sta la risposta alla domandina di Weber, cioè il modello di base del consenso al potere carismatico.
L’analisi freudiana del rapporto capo-folla traduce tutto questo in una dinamica direttamente psicologica. Nella sua ipotesi, il capo diventa il modello interiorizzato comune a ciascuno dei membri del gruppo: nella folla, ognuno si mette dentro, come parte della propria identità, il pezzetto di immagine di capo che è conforme ai suoi bisogni, aspettative o terrori. Lo stesso individuo il Capo è uno, nessuno e centomila, e raccoglie in sé quei seguaci che, ciascuno a proprio modo, si rispecchiano in lui. Il Capo come collante coesivo psichico del Noi, denominatore comune condiviso dagli individui del gruppo che lo riconosce come capo.
Il Berlusconi trionfante l’imprenditore, il presidente operaio, lo sportivo, il cabarettista, il ricco, Priapo, il presunto vincitore del Certamen capitolinum, il guaritore ecc. tra il ’94 e il ’96 si è presentato come le mille facce del Sistema Paese in cui ognuno poteva riconoscersi, identificarsi e sentirsi compreso, ma nel senso fisico: compreso nel corpo del sovrano, nel corpo metaforico di Berlusconi. Quel Berlusconi ha rappresentato la risposta transitoriamente adeguata, da un lato a un panico sociale duraturo, alla domanda angosciata
di una coesione sociale antianomica; dall’altro, a una domanda di semplificazione cognitiva di una realtà percepita come eccessivamente complessa. Il capo carismatico come un riduttore di complessità: invece del caos locale e globale, il riordinamento del mondo nella semplicità cognitivamente accessibile di un individuo. Una persona come mediatore e traduttore delle troppe cose che accadono intorno a me, la complessità riassunta e sussunta in lui, in una dimensione personale che io pover’uomo sento di poter ancora capire. Ma da anni ormai il Body Natural del leader carismatico sta chiedendo il conto al suo Body Politic. Le virtù straordinarie del carisma non trovano più nelle cose e nella sua persona quella continua prova di verità e verifica alla quale il capo carismatico è tenuto.
La funzione coesiva si è progressivamente indebolita, la terapia antinomica di tipo magico che il capo carismatico incarnava perde efficacia, il panico anomico collettivo e individuale riprende lentamente, poi sempre più in fretta, il sopravvento.
Non senza contraccolpi, il consenso si sfalda, e l’angoscia sociale cerca nuove risposte: talvolta, poveramente, nuovi capi; talaltra, in modo più maturo ma pur sempre incerto, nuove procedure e modalità di esercizio della sovranità.
Gabriel García Márquez ha scritto, con L’autunno del patriarca, una delle più potenti rappresentazioni narrative delle logiche, delle grandezze e delle molte miserie del potere carismatico in salsa sudamericana. Poi un giorno il dittatore muore, e c’è la chiusa bellissima del libro: ... perché noi sapevamo chi eravamo mentre lui restò senza saperlo per sempre col dolce sibilo della sua ernia di morto vecchio, troncato di netto dalla stangata della morte, (...) estraneo ai clamori delle folle frenetiche che scendevano nelle strade cantando gli inni di gaudio della notizia gaudiosa della sua morte ed estraneo per sempre alle musiche di liberazione e ai razzi di gioia e alle campane di giubilo che annunciarono al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell’eternità era finalmente terminato.
La società italiana, in tutte le sue articolazioni, trova adesso davanti a sé l’opportunità di uscire dalla eternità magica del sole carismatico e di entrare di nuovo nella storia, nella collaborazione, nel compromesso, nel difficile negoziato tra le diversità: in altri termini, nella realtà e nel progetto di una identità collettiva tornata a essere dinamica, forse. La stessa opportunità si offre parallelamente alle identità individuali, sottratte allo «io sono come sono» della paura di vivere. Nessuno può dirsi certo che questa doppia opportunità venga colta, e che non si preferisca invece tornare nei porti tranquilli e mortiferi della regressione, del pensiero paranoico e delle aspettative magiche.

Corriere della Sera 20.2.12
Segreti e bugie del cervello
di Chiara Lalli


Il costo complessivo di una racchetta e una pallina da ping-pong è di un euro e 10 centesimi. Se la racchetta costa un euro più della pallina, quanto costa quest'ultima? Siete convinti della risposta che v'è venuta in mente? Come mai siamo così sicuri delle nostre testimonianze oculari, nonostante siano fallaci (l'analisi del Dna ha scagionato centinaia di persone condannate negli Stati Uniti)? E ancora, perché cadiamo tanto facilmente nelle trappole dei rimpianti e delle occasioni perdute, cioè in una ricetta quasi perfetta per l'infelicità?
Sono solo alcune delle questioni che Massimo Piattelli Palmarini raccoglie in Chi crediamo di essere (Mondadori, pp. 216, 18), domande che la nostra mente può trasformare in veri e propri rompicapo, in cul de sac cognitivi di cui faremmo meglio ad essere consapevoli. Spesso gli errori e gli inganni mentali causano imprecisioni, pronunce sbagliate, inferenze funamboliche — magari una figuraccia, ma nulla di catastrofico. A volte però le conseguenze sono ben più gravi: come nei casi in cui le interpretazioni unilaterali e viziate portano a uccidere il presunto fedifrago o a scatenare una guerra. L'ostinata e cieca gelosia, fomentata per confermare i nostri sospetti (Otello è l'esempio letterario più celebre, ma quanti veri drammi della gelosia potremmo elencare?), o la guerra in Iraq iniziata in nome della necessità di difendersi da armi di distruzione di massa. Non tutte le menzogne sono intenzionali o completamente tali, esistono sincere promesse di qualcosa che non manterremo mai, convinzioni fallaci ma apparentemente credibili e intuitive. Tanto più pericolose quanto più verosimili e facilmente comprensibili.
Piattelli Palmarini offre ai lettori — come scrive nell'introduzione, il libro è destinato ai non esperti — uno spiraglio attraverso il quale sbirciare nell'affascinante mondo delle neuroscienze e delle scienze cognitive. La nostra mente è un terreno ancora in gran parte misterioso. Rispetto ad alcuni anni fa abbiamo acquisito molte informazioni, ma gli enigmi della nostra coscienza, della correlazione tra mente e cervello e della sovradeterminazione causale non sono affatto risolti.
Autoinganni, controfattuali miopi e realtà alternative popolano la nostra vita. Alcuni di questi sono estremamente seduttivi: la donna che avremmo potuto incontrare sarebbe più soave di quella con cui viviamo, il libro che avremmo potuto scrivere più bello di quello appena pubblicato, e la vita che avremmo condotto più avventurosa e felice di quella che stiamo vivendo. Se solo quella volta avessimo cambiato strada...
Uno degli avvertimenti più utili è quello che riguarda l'autorità e la gregarietà: siamo irrimediabilmente portati a fidarci di chi ricopre posti di potere, di chi insegna, di chi scrive o è autorevole in qualche campo del sapere. È facile confondere l'autorevolezza con l'autorità e impedirsi di mettere in dubbio qualche affermazione in base a chi l'ha fatta. Alcune storpiature linguistiche sono talmente assurde da far ridere: Piattelli Palmarini ricorda il caso dei cartelloni pubblicitari Alitalia. A lettere cubitali affermavano: «The time has flown», con un articolo di troppo e senza essersi curati di consultare un dizionario o una persona madrelingua.
Un'altra tentazione molto umana è quella di attribuire un senso dove non c'è che una serie di avvenimenti slegati. La tendenza a disegnare finalità e a cercare una volontà superiore per fatti che non siamo in grado di giustificare: il destino è un'illusione che molti preferiscono al peso della casualità. L'invito di Piattelli Palmarini potrebbe essere sintetizzato così: attenzione alle giustificazioni e alle argomentazioni che ascoltiamo — o che scegliamo di usare —, «soppesare sempre il significato dei dati forniti, porsi sensati problemi e cercare altri dati, cosa oggi molto agevole via Internet, è compito civile doveroso». Con la consapevolezza che il nostro sapere è fallibile, limitato e minacciato da infinite trappole cognitive. A proposito: la pallina da ping-pong non costa 10 centesimi — come molti tendono a rispondere — perché la racchetta dovrebbe costare un euro e 10 centesimi, quindi il costo complessivo sarebbe di un euro e 20.

Corriere della Sera 20.2.12
Ricerca trascurata, futuro a rischio
Un manifesto degli scienziati italiani
di Giovanni Caprara


Ci siamo dimenticati il valore dei «beni immateriali» frutto della scienza. Una protratta negligenza politica e culturale verso di essi costituirebbe uno dei peggiori segni di decadenza del Paese. Se la politica continua a trascurare la crescita di questi beni vuol dire che si tende consapevolmente ad un rovesciamento dei valori: superate le soglie di irreversibilità si cadrebbe nel sottosviluppo.
L'analisi emerge da un rinnovato appello contenuto in un manifesto diffuso da una delle istituzioni scientifiche italiane più antiche, la Società italiana per il progresso delle scienze (Sips). Fondata addirittura 172 anni fa, oggi è presieduta da due illustri scienziati, il fisico Carlo Bernardini e l'ingegnere nucleare Maurizio Cumo. L'Unità era ancora lontana e il Paese era tagliato dai confini e da interessi contrastanti ma i soci-scienziati avevano il coraggio di riunirsi per la prima volta a Pisa nel 1839 al fine di stimolare un futuro con radici nella scienza, considerandola indispensabile anche alla politica. Il seguito della storia ha prodotto alcuni risultati ed eccellenti cervelli, ma oggi non si può dire che lo spirito dei fondatori della Sips, dopo quasi due secoli, si sia concretizzato come avevano sognato.
La crisi economica in cui l'Occidente è precipitato non favorisce certo le scelte ma la Penisola brillava anche prima della grave contingenza per il suo distacco dalla ricerca, frutto di una cultura inadeguata e arretrata che influenza la politica quanto la vita civile in generale.
Bisogna reagire alla sommersa involuzione — invita giustamente il Manifesto — e il governo sostenga enti di ricerca e università affinché diventino centri di attrazione dei giovani arrestando la loro fuga. Con il rigore che la scienza stessa impone valutandone il lavoro e valorizzando le idee. Condividiamo qualche segnale positivo che l'Europa sta lanciando, salvaguardando anche una ricerca libera e non totalmente piegata ai piani delle finalità pubbliche. Un giusto equilibrio, insomma. Come ignorare l'appello se si ha a cuore un ragionevole futuro o, meglio, la sopravvivenza?

La Stampa 20.2.12
Intervista
“L’Orso d’oro ai carcerati li fa uscire dall’isolamento”
L’uomo che lavora con loro: “Il film corona un’esperienza unica”
di Fulvia Caprara


«CESARE DEVE MORIRE» «I Taviani folgorati dall’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia»

Dietro il film che ha riportato l’Italia sul palcoscenico del cinema internazionale, c’è «la testardaggine di due grandi autori», ma anche l’impegno appassionato di un regista che, nel carcere romano di Rebibbia, lavora da 10 anni, mettendo in scena classici di Dante, Pirandello, Skakespeare, perché, dice, «le parole creano la realtà, e la realtà diventa ricca se esse lo sono». Per Fabio Cavalli, genovese, 53 anni, l’Orso d’oro a Cesare deve morire è il coronamento di un’«esperienza straordinaria, di un progetto in cui non credeva nessuno. Il film non si riusciva a fare, sono anche andato in giro a cercare sponsor ma, appena sentivano la parola detenuti, fuggivano tutti». Poi è successo che i fratelli Taviani siano andati a vedere l’«Inferno» di Dante: «Li ha folgorati l’incontro tra quest’umanità reietta e l’altissimo valore della poesia».
Che cosa significa recitare, per i detenuti?
«Significa aprirsi finalmente al mondo, avvicinarsi a quella cultura che, sui banchi di scuola, avevano rifiutato, vivere una seconda possibilità, accostarsi al sapere attraverso il piacere dell’immaginazione, ma anche identificarsi nei personaggi che interpretano e capire meglio quello che sono. Pronunciare le battute di Macbeth, per una persona che ha commesso certi reati, è molto diverso che per un normale attore».
Lei come è entrato in contatto con questa realtà?
«Faccio il regista, un amico mi disse che c’erano dei detenuti che stavano tentando di mettere in scena Napoli milionaria, ma non ci riuscivano. Andai a vedere, mi ritrovai davanti a 20 attori che, in uno spazio di 7 metri per 5, provavano e riprovavano. Era una specie di caos organizzato, alla napoletana, quella volta ho perso la mia verginità di borghesuccio, e ho capito subito che bisognava solo regolare i toni, un po’ come i pulsantini di una consolle».
Oggi il teatro è diventato, in carcere, una presenza fissa, eppure se ne parla poco.
«A Rebibbia i detenuti coinvolti sono un centinaio, si sono formate tre compagnie, che si esibiscono in un teatro di 400 posti, perfettamente attrezzato, con una sua stagione, come tutti gli altri. Negli ultimi 5 anni abbiamo avuto 22mila spettatori, e ora stiamo per entrare nel curcuito ufficiale dei teatri di Roma».
Da chi è composto il vostro pubblico?
«Lavoriamo con gli assessorati, per lo più vengono studenti, minorenni, che dopo aver visto uno spettacolo, tornano sempre».
In carcere maschi e femmine sono separati, come si fa con le opere in cui sono presenti i due sessi?
«Abbiamo fatto una versione del Candelaio di Giordano Bruno en travesti, ma ci sono anche tante attrici che collaborano abitualmente con noi».
Il film mostra come, in certi particolari momenti, dirigere una compagnia di detenuti non sia affatto semplice. Che tipo di problemi le è capitato di affrontare?
«Lavorare con loro significa fare i conti con gente che sta male e soffre, la mancanza di libertà è terribile, chi non la prova, non può capire. Mi è successo di assistere alla notifica di una condanna di ergastolo, oppure di vedere la scena di un recluso a cui viene data la notizia inattesa della liberazione... Ho imparato, per esempio, che non posso mai fissare le prove nei giorni dei colloqui. Se l’incontro con un parente va male, nessun detenuto ha più voglia di recitare».
Che cosa ha imparato?
«In carcere bisogna dire sempre la verità, spesso si ha a che fare con persone abituate a comandare, se non sanno bene chi hanno davanti, non si affidano, non delegano».
Che cosa rappresenta, per tutta questa realtà, l’Orso d’oro della Berlinale?
«È il segno di un vento di rinnovamento, che riguarda tutto il Paese. In Gomorra si raccontava quello che accade prima, fuori dal carcere. Adesso è arrivato il tempo di parlare del dopo».