l’Unità 5.2.12
Bersani vuol mantenere i «toni bassi» ma si aspetta mutamenti nella linea dell’esecutivo
Fassina: «Monti ha espresso posizioni sbilanciate verso il Pdl, serve maggiore equilibrio»
Lavoro, il Pd incalza il premier «Vanno ascoltate le parti sociali»
Preoccupazione nel Pd per le esternazioni di Monti sull’articolo 18. Fassina: «Molto sbilanciato verso il Pdl, serve maggiore equilibrio». Tensione anche su liberalizzazioni, Rai e giustizia.
di Simone Collini
Sulla riforma del mercato del lavoro Monti si è sbilanciato troppo verso le posizioni del Pdl, ora ritrovi il necessario equilibrio e ascolti le parti sociali altrimenti tutto si complica. È questo il ragionamento che si fa ai vertici del Pd dopo le
ultime uscite del presidente del Consiglio sull’articolo 18 e anche del ministro del Lavoro Elsa Fornero sulla «flessibilità buona».
TONI BASSI MA LA PREOCCUPAZIONE C’È
Pier Luigi Bersani ha suggerito ai suoi di tenere bassi i toni: «È il momento del silenzio, ora lasciamo lavorare governo e parti sociali». Ma la preoccupazione per esternazioni che rischiano di far partire con il piede sbagliato il confronto c’è. E nel Pd qualcuno già dice che senza un accordo con i sindacati verranno presentati in Parlamento precisi emendamenti, altrimenti non ci potrà essere un voto favorevole. Per
questo lo stesso leader dei Democratici ha preventivamente consegnato a Monti alla cena dell’altra sera a Palazzo Chigi con anche Alfano e Casini ma non solo un paio di messaggi piuttosto chiari. Il primo: «Si ascoltino le parti sociali perché cambiamento e coesione devono andare insieme, altrimenti il Paese non si salva». Il secondo: «Il problema è co-
me dare lavoro e non come licenziare, ci sono le nostre proposte e dimostrano che si può innovare senza toccare l’articolo 18» (il riferimento è al documento approvato all’ultima riunione del Forum lavoro del Pd, che prevede un contratto prevalente d’ingresso che può durare da sei mesi a tre anni dopo il quale scatterebbe il tempo indeterminato con tutte le tutele oggi esistenti, compreso l’articolo 18).
MONTI SBILANCIATO
Ovviamente nel Pd nessuno pensa sia ipotizzabile far cadere il governo (sulla riforma del lavoro o su altro), e poi nel partito c’è una buona fetta di dirigenti e parlamentari (da Pietro Ichino a Walter Veltroni al vicesegretario Enrico Letta) che vede di buon occhio il modello di “flexicurity” a cui più di una volta ha fatto riferimento Monti. E nessuno aspira a provocare lacerazioni interne. Ma le ultime esternazioni del presidente del Consiglio preoccupano.
«Monti sta esprimendo posizioni molto sbilanciate verso il Pdl e questo è un problema perché noi abbiamo idee diametralmente opposte a quelle della destra», dice Stefano Fassina. Il responsabile Economia e lavoro del Pd auspica «maggiore equilibrio» nelle parole, anche se è vero che è soprattutto nei fatti che ci si aspetta una correzione di rotta. È per questo che Bersani evita di commentare pubblicamente le esternazioni governative e insiste nel dire che quel che conta è quanto succederà al tavolo tra esecutivo e parti sociali, con l’auspicio che il governo ascolti i sindacati. «Altrimenti esplicita Fassina se arriva in Parlamento un documento non condiviso sarà molto molto complicato».
GLI ALTRI FRONTI APERTI
Ma non è solo sul fronte del mercato del lavoro che il Pd teme cedimenti verso il Pdl, che per Bersani si sta muovendo in modo «non leale». Anche sulle liberalizzazioni pesa il tentativo di frenata in atto nel centrodestra rispetto al testo uscito dal Consiglio dei ministri di due settimane fa. E non sono affatto piaciute ai Democratici le nomine Rai decise dai consiglieri Pdl-Lega: «Il governo è azionista della Rai e ha il diritto e il dovere di liberarla dai partiti e di garantirne il funzionamento», dice il responsabile Cultura del Pd Matteo Orfini rispondendo a Maurizio Gasparri.
Per non parlare di quanto avvenuto alla Camera sulla norma che riguarda la responsabilità civile dei giudici, su cui il governo aveva espresso parere contrario e che invece è stata approvata con i voti di Pdl e Lega. Dice Anna Finocchiaro in vista della votazione al Senato: «Chiediamo a chi sostiene questo governo un comportamento politico responsabile. Il tempo della propaganda è finito. Non è solo sulle spalle di qualcuno la sostenibilità di un quadro politico che deve aiutare il nostro Paese ad uscire da una difficoltà enorme».
l’Unità 5.2.12
Senza accordo i democratici devono votare no
di Sergio D’Antoni
È un'occasione imperdibile quella offerta dalla riconquistata unità del fronte sociale. Una opportunità che il governo Monti deve saper cogliere fino in fondo, dando il via a un confronto concertativo che abbia l'ambizione di riformare i pilastri del nostro welfare e di portare a compimento il lavoro iniziato con il decreto salva Italia. Significa cooperare per ridefinire dalle fondamenta il sistema di ammortizzatori sociali, garantendo tutela a tutte le tipologie contrattuali. Significa onorare il lavoro iniziato a dicembre con la riforma del sistema pensionistico e porre le basi di un grande patto generazionale a favore delle giovani leve.
Con coraggio e responsabilità il Partito democratico ha approvato quel provvedimento, che è il più coerente che si trovi in Europa. Il governo deve ora fare il passo decisivo, portando a compimento un tavolo di reale cooperazione su obiettivi strategici comuni. In poco tempo si può fare molto. Basta puntare i riflettori sui problemi giusti. Mantenere lo sguardo sui reali obiettivi strategici ed evitare di perdere tempo con sterili referendum sull'articolo 18 e sul posto fisso. Un falso problema vecchio di venti anni. Nel mare in tempesta in cui si trova l’Italia l’ultima cosa che dobbiamo fare è ascoltare il canto delle sirene neoliberiste. Sirene che, c'è da dirlo, abitano anche nel nostro partito.
La sfida, oggi, non è quella di rivedere le regole che tutelano i lavoratori. Non si tratta di tagliare, ma anzi di allargare i diritti del lavoro, trovando il modo di coniugare questo allargamento al necessario aumento della produttività e della competitività.
Un'utopia? Niente affatto. Non in Germania, almeno, dove si sono registrati nel 2011 livelli di occupazione record dalla riunificazione del 1990. Guardare a Berlino significa ispirarsi ai due principali cardini del suo sviluppo: integrazione e democrazia economica, che rispondono rispettivamente all'esigenza della crescita e della competitività.
Sul versante dell'integrazione socio-economica è sufficiente rievocare un dato: la locomotiva d'Europa ha investito (bene) nelle zone deboli dell'Est l'equivalente odierno di oltre 1500 miliardi di euro. Circa 75 miliardi l'anno, poco meno del 5 per cento del suo Pil annuo. L'Italia ha invece speso (male) nel Mezzogiorno 360 miliardi in 60 anni. Meno dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo.
Quello di cui il Paese ha bisogno è un grande patto per la crescita e la coesione nazionale. Un accordo che ponga come obiettivo strategico della politica di sviluppo nazionale una più equa distribuzione delle risorse tra aree geografiche e ceti sociali.
Bisogna avere il coraggio di ridisegnare i pilastri di un welfare e di un capitalismo più solidali, stabili e responsabili. mettere sul tavolo alcuni dei più importanti capitoli che compongono il nostro attuale modello di sviluppo.
In tema di relazioni industriali va assolutamente colta l'opportunità di introdurre la questione della partecipazione dei lavoratori alle decisioni strategiche d'impresa.
Significa aprire un cantiere sulla democrazia economica e su un modello industriale che preveda strumenti di reale cogestione da parte del mondo del lavoro. Dobbiamo muoverci verso un paradigma italo-tedesco che coniughi la nostra tradizione concertativa e la grande forza del nostro corpo sociale a un modello istituzionale stabile, capace di affrancare il rapporto tra capitale e lavoro dalla mera logica dei rapporti di forza.
È questo il momento di agire insieme, in un contesto di responsabile cooperazione e di totale rispetto della autonomia delle parti sociali. Per questo, in materia di riforma delle regole e del mercato del lavoro, è necessario che la politica e le istituzioni riconoscano la massima sovranità decisionale delle rappresentanze, rimettendosi al frutto della trattativa secondo il faro dell'accordo interconfederale del 28 giugno.
Ecco perché il Partito democratico deve impegnarsi in questa fase a votare solo una riforma pienamente condivisa dalle parti sociali. In caso contrario, a mio giudizio, non bisogna esitare, e votare contro.
il Fatto 5.2.12
“Il rischio è barattare diritti con denaro”
Luciano Gallino commenta le ipotesi e le forme di riforma del lavoro
di Salvatore Cannavò
Sulla riforma del mercato del lavoro quando si arriva al nodo della licenziabilità scoccano le scintille. Ieri se ne sono viste alcune tra Susanna Camusso, segretario della Cgil e Elsa Fornero, ministro del Lavoro. La prima ha infatti accusato, sia pure velatamente, la seconda di voler favorire i licenziamenti. Eppure il ministro, in un'intervista a SkyTg24 aveva lavorato a ripulire l'immagine del governo invitando a “non demonizzare il posto fisso”, giudicando “infelici” le dichiarazioni del suo sottosegretario Martone sui “laureati sfigati” e soprattutto chiedendo alle imprese di “pagare di più” la flessibilità del lavoro per favorire una flessibilità “capace di generare occupazione e stabilizzare dalla precarietà”. “Non è ottimale che un lavoratore sia stretto all'impresa a tutti i costi – ha detto Elsa Fornero ribadendo che “il divieto del licenziamento discriminatorio è un atto di civiltà e come tale va tutelato”. Immediata la replica stizzita di Camusso: “Si vuole facilitare la licenziabilità? Non è assolutamente questo il tema da affrontare e non lo è tanto meno adesso in una fase di recessione”.
In realtà, il ministro Fornero ha semplicemente chiarito le ipotesi di modifica che circolano in queste ore e di cui abbiamo parlato con il professor Luciano Gallino che sui temi della lotta alla precarietà si è cimentato moltissimo.
Art. 18 e licenziamenti
Su articolo 18 e licenziabilità esistono ormai due ipotesi molto chiare. Pur salvaguardando il divieto del licenziamento discriminatorio avanza l'idea di sostituire il diritto di reintegro per il lavoratore ingiustamente licenziato con un'indennità economica oppure con l'ipotesi di far scattare anche per il licenziamento individuale le condizioni della mobilità stabilite dalla legge 223 del 1991 che fissa a un minimo di 5 i dipendenti per cui l'impresa può accedere al licenziamento in cambio della messa in mobilità e dopo aver concordato la procedura con i sindacati. “C'è però una grande differenza – dice Gallino - tra una legge che dice “non puoi licenziare per ingiusta causa” e una ipotesi di monetizzazione. Scambiare denaro con diritti significativi è un pessimo baratto. Bocciata anche l'estensione della mobilità: “Sarebbe solo un baratto collettivo”.
Arbitrato e processo
Qualche novità ci può essere, afferma Gallino, sulla velocizzazione del processo, un “processo breve” per l'articolo 18 in modo da rendere più celeri e certe le cause tra imprese e dipendenti. “Ma solo se non è un trucco per rendere inagibile il processo. Le cause del lavoro sono lunghe perché mancano i magistrati”. Poi c'è il ruolo dell'arbitrato ipotizzato per sottrarre al magistrato il giudizio finale. “Anche questo rischia di essere un trucco per rendere meno attraenti i ricorsi al tribunale” perché la preferenza per l'arbitrato, sottoposta al dipendente al momento dell'assunzione, ha evidenti risvolti di ricatto.
La flessibilità “buona”
Nel dibattito è stato introdotto il tema della flessibilità “buona”. “Ma in Italia di flessibilità ce n'è già troppa. Dal 2005 a oggi oltre il 70 per cento di nuove assunzioni è avvenuto con contratti di durata inferiore all'anno. E sono quelli che più interessano le imprese perché le solleva dall'obbligo di licenziare qualcuno”. Questo aspetto finora è stato recepito nelle proposte di nuovo contratto – Unico, di Ingresso, di Inserimento - con la possibilità di prevedere diritti ridotti per i primi tre-quattro anni (e forse più). “Ma se ora un contratto dura tre-sei-nove mesi domani durerebbe due anni e 11 mesi. L'impresa avrebbe tutto il tempo di licenziare il lavoratore e poi magari riassumerlo”. Per questo, aggiunge il professore “occorre vedere se i contratti di apprendistato non diventino l'anticamera di una precarietà trasferita da un bacino all'altro”. L'apprendistato oggi dura tre anni e prevede riduzioni di qualifiche, di stipendio e sgravi contributivi per le imprese prorogabili di 12-24 mesi dopo lo scadere del contratto stesso. “Ma ci sono mansioni che richiedono solo una settimana o un mese per essere apprese e altre, più complesse, per le quali esiste già la formazione scolastica”.
La flessibilità “cattiva”
Accanto ad alcune forme considerate positive di contratto flessibile – apprendistato, lavoro interinale, stagionale, contratto “di inserimento” – il ministro Fornero vorrebbe penalizzare la flessibilità “cattiva”: Co.co.pro., partite Iva, contratti a tempo determinato. “Non c'è dubbio che una grandissima quota di questi contratti sono stati utilizzati per mascherare rapporti dipendenti. Se fossero ricondotti alla loro effettiva natura verrebbero soppressi al 90%. Ma non si vedono ancora le ricette avanzate”.
Il “modello danese”
L'ultimo miraggio che ogni tanto si intravede nel dibattito di questi giorni – Monti ne ha parlato negli studi di Matrix – è quello del “modello danese” conosciuto come Flexsecurity. “Quel modello si fonda su un equivoco e un'opacità consistenti: non è vero che la “sicurezza” danese ha ridotto drasticamente la disoccupazione. Ad esempio coloro che seguono un programma di riqualificazione mentre percepiscono un'indennità non sono conteggiati. In qualunque paese sarebbero considerati disoccupati. Sono almeno 5 punti di differenza nel tasso di disoccupazione”.
il Fatto 5.2.12
Intervista a Matteo Orfini (Pd)
“Governo liberista, avrà le piazze contro”
di Fabrizio d’Esposito
Metamorfosi da articolo 18: il governo tecnico sta diventando di destra, una sorta di mostro a due teste di nome “Berlusmonti”? Matteo Orfini è responsabile cultura e informazione del Pd e fa parte della segreteria di Pier Luigi Bersani. Ha meno di quarant’anni.
Il Pd dona sangue ai tecnici, il Pdl si tiene le mani libere e detta legge. Strana creatura il Berlusmonti.
Il problema è più complesso. Diciamo che questo governo si reggeva su due pilastri. Il primo era il grande senso di responsabilità di Monti, con l’obiettivo di unire più che di dividere. Il secondo era l’enorme senso di responsabilità di tutte le forze politiche per evitare di strumentalizzare i sacrifici davanti ai propri elettorati.
Lei parla al passato.
La cronaca di questi giorni preoccupa. Il buon senso del governo si è appannato.
Troppo di destra, appunto.
Diciamo che il trio Monti-Passera-Fornero si sta distinguendo per dichiarazioni molto liberiste, facendo appello a quelle ricette che ci hanno portato alla crisi. È un dato che riscontro però più nelle parole che negli atti, per il momento.
L’articolo 18 sarà letale per il governo? Nel Pdl c’è chi sogna la caduta di Monti dando la colpa al Pd sulla riforma del lavoro.
Alle provocazioni di Berlusconi, che ha commissariato Alfa-no nel Pdl, rispondiamo quotidianamente. Adesso stanno sfasciando la Rai. Piuttosto ci preoccupa quello che farà Monti. Spero che ritorni quello di una volta, quando ha detto che l’articolo 18 non si tocca.
Per il Pd non si tocca?
No, la nostra posizione è chiara. La proposta Ichino è stata archiviata per sempre. La linea, venuta fuori dal forum di lavoro di Fassina, è quella di contratti di apprendistato rafforzato a diritti crescenti. Ma al di là degli aspetti tecnici, c’è soprattutto un punto politico.
Quale?
Non è pensabile che una riforma del lavoro si faccia senza il consenso delle parti sociali. Altrimenti il governo rischia di trovarsi contro le piazze piene. Vede, il narcisismo delle continue dichiarazioni dei tecnici dimostra che questo esecutivo non ha un rapporto consapevole con il mondo del lavoro, mentre invece ce l’ha con altri poteri.
Sarà un febbraio decisivo.
Vediamo gli atti, più che le parole.
Sulla giustizia è risorta la vecchia maggioranza per punire i magistrati con l’emendamento Pini sulla responsabilità civile. Ci sono stati franchi tiratori anche nel Pd.
La logica punitiva è inaccettabile. La questione è seria ma dubito che questo Parlamento possa fare qualcosa per riformare la giustizia.
Eppure Luciano Violante parla da giorni di dialogo in merito.
Violante è un esponente importante del Pd, ma il responsabile giustizia è Andrea Orlando. Con il Pdl è impossibile mettersi d’accordo su questa materia. Per loro la giustizia sono solo le leggi ad personam per Berlusconi.
Chiusura netta.
Ripeto, con questo Pdl non c’è dialogo sulla giustizia. Senza dimenticare che anche per questa riforma vale il principio della concertazione. Bisogna farla con l’accordo dei magistrati.
Da Penati a Lusi, c’è una questione morale nel Pd?
No e poi sono due cose diverse. La vicenda di Lusi precede il Pd e lui è stato reo confesso. Un fatto gravissimo da approfondire per verificare se ci sono altre responsabilità. Penati invece si è dichiarato innocente.
Però il flusso di denaro verso i partiti non si ferma mai, anche in tempi di crisi.
Noi abbiamo già chiesto la Maastricht dei costi della politica, con l’allineamento alla media europea. E sottoscrivo pure la proposta di legge di Travaglio sui finanziamenti pubblici. Lui faccia lo stesso con quella di iniziativa popolare dei giovani democratici, fatta un anno fa con criteri uguali.
La foto di Vasto in che stato è?
Le alleanze politiche si forgiano nel fuoco di esperienze come queste, in cui si è chiamati a salvare l’Italia. Se una parte di questa alleanza, come l’Italia dei valori, decide di stare fuori e di attaccarci è spiacevole. Sarà molto difficile tornare insieme.
Corriere della Sera 5.2.12
Cresce il disagio pd sul governo: basta con gli ultimatum al tavolo
di Maria Teresa Meli
ROMA — Per rendersene conto bastava uno sguardo all'Unità di ieri. In prima pagina, un titolo a caratteri cubitali, «I cattivisti», con le foto del premier e del ministro Fornero. Dentro, un'intervista a Rosy Bindi dal titolo più che esplicito: «Monti stia attento, sosteniamo il governo ma non a qualsiasi costo». Quindi, di nuovo in prima, un commento il cui tenore è evidente in questo passaggio: «Se dovessimo accorgerci un giorno che la riforma dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali non era che un altro nome per il ridimensionamento del ruolo delle rappresentanze sociali, la conclusione potrebbe essere che non c'era bisogno di chiamare in servizio la bravissima professoressa Fornero. Poteva bastare il ministro Sacconi».
Che sta succedendo nel Pd? Cos'è questo disagio palpabile che emerge negli ultimi giorni anche da alcune mosse di Bersani? Il segretario ha raccomandato a tutti i suoi «il silenzio», perché «la fase è difficile». È preoccupato per «la tenuta politica del Pdl». Non certo perché abbia a cuore le sorti del partito di Berlusconi, ma perché teme che il governo, per continuare ad avere l'assenso del centrodestra, sposti il timone da quella parte. Un banco di prova importante, in questo senso, sarà quello della riforma del mercato del lavoro. «Senza coesione sociale — è il convincimento di Bersani — il Paese non si salva». Per questo è importante che l'esecutivo non tenti ulteriori strappi con i sindacati.
Avverte Cesare Damiano: «La riforma senza accordo di Cgil, Cisl e Uil potrebbe avere conseguenze politiche». E Beppe Fioroni osserva: «Ogni volta che tra le parti sociali si fa un passo avanti, il governo sembra voler far saltare il tavolo, come se il vero obiettivo fosse quello più che la riforma dell'articolo 18. Non mi preoccupo della rozzezza di certi apprezzamenti sul posto fisso, piuttosto del fatto che si voglia andare avanti senza concertazione. Così si danneggia il Paese e si azzoppa il governo stesso». Insomma, è questo il clima nel Pd, tranne alcune eccezioni. Veltroni, per esempio, che ripete le parole di Monti: «Tra garantiti e precari c'è l'apartheid».
È ovvio che Bersani, nonostante il titolo dell'intervista dell'Unità a Bindi, non pensa neanche lontanamente di far cadere Monti. Anzi, il segretario si gioca la sua partita proprio al tavolo del governo, dimostrando che il Pd è l'alleato più leale e responsabile. Però gli ultimi accadimenti non gli sono piaciuti: il voto sulla responsabilità civile dei magistrati, certe dichiarazioni di Monti e Fornero, l'immobilismo nei confronti della Rai. Ora il leghista Calderoli sembra voler mettere un'altra mina. Annuncia una risoluzione parlamentare in difesa dell'articolo 18. Non che al Pd siano preoccupati per quella che considerano una «provocazione» (peraltro Calderoli presentò già in Senato una mozione a riguardo, all'epoca dell'insediamento del governo Monti e i «Democrat» votarono contro). Però anche questa mossa della Lega viene vista come un altro elemento del clima politico attuale.
La revisione dell'articolo 18 e quella delle pensioni sono provvedimenti per cui il Partito democratico rischia di pagare un prezzo elettorale salato. Il Pd ritiene di «aver già dato» con il via libera alla manovra e alla riforma previdenziale. Tutto si può fare, persino lasciar passare provvedimenti che non convincono «al cento per cento», ripete ai suoi Bersani, a patto che «in Parlamento non si facciano rivivere vecchie maggioranze».
Corriere della Sera 5.2.12
Fiducia nei partiti, dopo il caso Lusi crolla all'8% E il 56% degli elettori vuole cambiamenti radicali
di Renato Mannheimer
L'appropriazione truffaldina dei fondi della Margherita da parte del tesoriere del partito ha ulteriormente fatto crollare la stima degli italiani nelle forze politiche. Non ci si limita infatti a ritenere riprovevole il comportamento del senatore Lusi, ma si allarga la critica all'intero sistema dei partiti. Ad esempio, molti intervistati giungono a domandarsi perché questi ultimi — persino quelli scomparsi dallo scenario politico — possano disporre di così ingenti somme di denaro, tali da essere stornate o, come è successo per la Lega, investite pericolosamente in paradisi fiscali. Trattandosi di soldi pubblici lo stupore e l'indignazione sono comprensibili, specie in un periodo in cui tutti sono chiamati a fare sacrifici.
Anche — ma non solo — a causa di questo episodio, la percentuale di chi esprime fiducia nei confronti dei partiti, già molto bassa nei mesi scorsi, è ulteriormente diminuita sino a scendere oggi sotto l'8%. Era il 12% nell'ottobre scorso e il 17% a luglio del 2011. Dunque, in questo momento più del 90% della popolazione manifesta uno scarso credito verso le forze politiche. Le espressioni maggiori di disistima provengono dai più giovani, da chi è in cerca di prima occupazione, da chi vota per l'Idv di Di Pietro e, in misura ancora maggiore, dai molti che si dichiarano orientati verso l'astensione dal voto. Il risultato è che i partiti costituiscono oggi in Italia l'istituzione meno stimata in assoluto. Ma anche il Parlamento, che pure ottiene un livello di apprezzamento maggiore, ha subito un drastico calo di consensi negli ultimi mesi: era stimato dal 35% dei cittadini a luglio, dal 22% a ottobre e oggi si colloca sotto il 18%. Viceversa si assegna la massima fiducia al presidente della Repubblica (78%) e al presidente del Consiglio (58%) che vede, anzi, una crescita proprio nelle ultime settimane.
Tutto ciò vuol dire che gli italiani desiderano una società priva di partiti? Non è così. La popolazione appare convinta della necessità dell'esistenza delle forze politiche, considerate un fattore necessario per il funzionamento della democrazia. Ma auspica fortemente un mutamento di quelle attuali: solo poco più dell'1% dell'elettorato (con una accentuazione tra i più anziani e coloro che posseggono un basso titolo di studio) afferma che i partiti politici «vanno bene così». Ciò non significa però necessariamente che quelli odierni debbano scomparire per far posto a forze politiche nuove: esprime questo desiderio solamente una minoranza — anche se molto consistente, più di un italiano su cinque — della popolazione, con una particolare enfasi da parte dei più giovani, di chi si astiene e, in generale, di chi si rifiuta (e sono numerosi) di collocarsi in una qualche posizione sul continuum sinistra-destra.
Ancora meno diffusa (18%) è la richiesta di un mero ricambio dei vertici attuali dei partiti (auspicata comunque in misura relativamente maggiore dai laureati e dagli elettori del Pd). Non basta sostituire le persone: la netta maggioranza (56%) dell'elettorato domanda un più consistente e generale mutamento nel modo stesso di far politica da parte dei leader e delle loro organizzazioni: è una richiesta proveniente in misura ancora maggiore da chi risiede nei grossi centri urbani e dagli elettori del Terzo polo di centro.
Secondo molti osservatori, al termine del governo presieduto da Mario Monti, quando si faranno nuove elezioni, non ci troveremo di fronte ai partiti attuali, ma all'esito di un processo — di cui già si percepiscono le avvisaglie — di rimescolamento di quelli oggi esistenti. È ciò che in parte auspica anche l'elettorato. Tuttavia, come si è visto, quest'ultimo non si limita a desiderare solo una riallocazione o un mutamento di facciata delle forze politiche che oggi conosciamo. Si richiede invece una vera e profonda revisione nei comportamenti e negli atteggiamenti verso lo Stato e i cittadini. Pena l'ulteriore crescita della disaffezione dalla politica e della astensione potenziale che, come si sa, oggi coinvolge addirittura quasi metà degli elettori.
l’Unità 5.2.12
Il post viola: Fornero, conflitto d’interesse per la figlia
Posto fisso? Giovani precari? Il “popolo viola” muove un affondo contro il governo dei tecnici e in particolare contro il ministro del Lavoro Elsa Fornero, rilanciando il caso della figlia Silvia. Il suo «curriculum» è riportato sul post del “Popolo viola”: «Ricercatrice in genetica medica, professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino, il medesimo ateneo in cui insegnano, ad Economia, i suoi illustri genitori, mamma Elsa e papà Mario Deaglio... Ma non è finita: la figlia della Fornero è anche responsabile unità di ricerca, ruolo assegnatole dalla HuGeF,
fondazione che ha come mission la ricerca di eccellenza e la formazione avanzata nel campo della genetica, genomica e proteomica umana». Ma anche a questo proposito il post viola solleva una sorta di conflitto d’interesse: «La HuGeF è un’istituzione creata e finanziata dalla Compagnia di San Paolo, ente del quale la Fornero è stata vicepresidente dal 2008 al 2010 e per conto della quale è stata designata alla vicepresidenza della banca Intesa, carica lasciata solo dopo aver ricevuto la nomina ministeriale».
Corriere della Sera 5.2.12
«Il palazzo di Conti? Io ingenuo, ma avrei perso 7 milioni»
Il presidente Enpap: «Avevo dato la prima tranche, solo al rogito ho saputo i costi sostenuti dal senatore Sbaglia chi pensa che ci siamo divisi quei soldi»
di Lorenzo Salvia
ROMA — «Sono rimasto allibito quando ho visto il prezzo al quale aveva comprato il senatore». Perché ha firmato, allora? «Volevo andare via, mi stavo per alzare. Poi mi sono fermato, avremmo perso i 7 milioni di euro già versati con il preliminare». L'attuale sede dell'Ente di previdenza degli psicologi non è affatto male. Villino liberty, mille metri quadri, due magnifiche terrazze tra i pini di Roma oggi coperti di neve, zona tranquilla. «Volevamo andare in centro, a due passi dal potere, vicino al Parlamento... magari non ci fosse venuto in mente», dice Angelo Arcicasa, presidente dell'Enpap che pure dovrebbe sapere da psicologo che i rimpianti intasano il cervello e fermano l'azione.
La storia è lo scandalo B di questi giorni, il nuovo capitolo nel fortunato romanzo sulle case della politica. Il suo ente, l'Enpap, ha comprato un palazzo vicino a Fontana di Trevi dal senatore del Pdl Riccardo Conti, che lo stesso giorno lo aveva preso quasi alla metà: 44,5 milioni di euro contro 26,5. La Procura di Roma ha aperto un'inchiesta, gli psicologi di tutta Italia sono imbufaliti visto che gli euro sono i loro, il senatore Conti parla di «fango ad orologeria». «Sbaglia chi pensa che ci siamo messi d'accordo e spartiti i soldi», dice Arcicasa sopportando pure un cognome che in questa storia sembra uno sberleffo. «Forse non eravamo preparati per un'operazione del genere, forse siamo stati ingenui, ma niente di più». Magari fessi, ma non ladri, ecco la linea difensiva.
L'offerta per il palazzo vicino a Fontana di Trevi arriva nell'ottobre del 2010. «All'inizio — racconta Arcicasa — non sapevo che quella società, la "Estate due", fosse del senatore Conti. Lui si è presentato quando abbiamo detto che eravamo interessati. E io mi sono detto, bene, c'è un senatore, un motivo in più per fidarsi. Non ci possono mica fregare». Il 31 gennaio dell'anno scorso l'Enpap firma il preliminare con la società del senatore, che poche ore prima ha comprato da un'altra società, la Fimit. E versa la prima tranche, 7 milioni. Non le è sembrata strana quella coincidenza di date? «Sì, e ho chiesto chiarimenti a Conti. Ma lui è stato sbrigativo, ha detto che non c'era nulla di strano, o facevamo così oppure niente». E Arcicasa non fa altre domande, nemmeno sul prezzo. Possibile? «Io del prezzo vengo a sapere solo quando facciamo il rogito, tre mesi dopo. E lì mi cadono le braccia». Perché? «Il notaio legge una clausola, dice che il compratore è a conoscenza delle condizioni alle quali l'immobile è stato acquistato in precedenza. E no, fermi, io non le conosco quelle condizioni». Ci vuole un po' di tempo per trovare il contratto: «Ho dovuto insistere un po'. E quando ho visto che lui aveva comprato a 18 milioni di meno stavo per andare via». Alla fine Arcicasa decide di firmare perché l'Enpap perderebbe quei 7 milioni già pagati. «Non potevo più tornare indietro». Sta dicendo che vi hanno incastrato? «Se avessi saputo prima avrei lasciato perdere». Ma se a marzo avete scritto ai vostri soci che avevate «colto un'importante occasione»? «Quel prezzo comprendeva anche la ristrutturazione. Ed era giusto, come ci dicono l'Agenzia per il Territorio e le due perizie che abbiamo fatto fare. Non so se lo stesso discorso possa valere per l'operazione precedente, quando il senatore compra dalla Fimit di Massimo Caputi».
Il mercato delle case è fermo. Enti come l'Enpap — che raccoglie i contributi di 40 mila iscritti e li deve far fruttare — sono tra i pochi ad avere denaro da investire: «E infatti non avete idea di quanti squali ci girano intorno. Quando abbiamo pubblicato il bando per la nuova sede ci sono arrivate più di 100 offerte». Dice di voler tornare al suo lavoro, Arcicasa, perché «curo i vecchietti, i poteri romani mi fanno paura, e da questa storia spero di uscire al più presto». Rivendete quel palazzo, allora. «E chi se lo prende più dopo tutto quello che è successo? Ci toccherà traslocare. Tra due o tre mesi i lavori dovrebbero essere finiti, mancano i tramezzi e poco altro. Speriamo bene». Anche perché il cantiere è in mano proprio alla società del senatore.
Corriere della Sera 5.2.12
«Mani Pulite? Non è servita Centrodestra e centrosinistra uniti nell'ostacolare i processi»
Davigo: l'inchiesta partì solo perché erano finiti i soldi
di Paolo Foschini
Nostalgia?
«Neanche un po'. La situazione dell'Italia vent'anni fa era indegna di un Paese civile».
Eppure lei stesso dice...
«Che girano più tangenti oggi di allora, certo. Mani Pulite poteva essere una svolta, invece è stata tentata una restaurazione».
E dunque?
«Dunque la Seconda Repubblica è semplicemente figlia della Prima. Ma la madre non era meglio: il debito pubblico che tuttora scontiamo continua a essere il frutto prodotto in quarant'anni da quel sistema là».
È questa la sintesi dell'allora pm e oggi giudice di Cassazione Piercamillo Davigo, vent'anni dopo l'arresto di Mario Chiesa che il 17 febbraio 1992 innescò un domino da quattromila inquisiti, la scoperta di tangenti per migliaia di miliardi in una rete sterminata di conti esteri, l'azzeramento di cinque partiti: e per riassumere il resto ci vorrebbe un libro.
Con che risultato?
«Direi duplice. Da una parte non c'è dubbio che dall'evento di Mani Pulite è derivata una cesura netta nelle dinamiche politiche del Paese. Determinata dall'elettorato, tengo a ricordare, non dai magistrati. Il cui ruolo è stato solo quello di portare a galla dei fatti».
E l'altra parte è stata Berlusconi?
«No. L'altra parte è stata che il potere politico, tutto, di centrodestra e centrosinistra, a fronte del quadro devastante emerso dalle indagini non si è affatto preoccupato di prendere provvedimenti per contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi».
Anche il centrosinistra?
«Il centrodestra lo ha fatto in modo talmente spudorato da risultare vergognoso: rendere il falso in bilancio perseguibile solo su querela degli azionisti (di fatto di maggioranza) è come perseguire un furto su querela del ladro, dal momento che, se estranei, cambierebbero gli amministratori. Ma il centrosinistra ha dimostrato abilità più sottili, per esempio con la riforma dell'abuso d'ufficio e la precedente introduzione della "modica quantità" nell'annotazione di fatture per operazioni inesistenti: cose passate in silenzio, senza il clamore delle leggi ad personam, ma che hanno reso più difficile contrastare i fenomeni».
Adesso la responsabilità civile dei magistrati.
«Che è comunque demagogica, la sua estensione comporterebbe solo un maggior premio assicurativo da pagare. Ma a quel punto si porrebbe un problema di tutela sindacale visto che, per esempio, l'assicurazione per la responsabilità civile sui veicoli dello Stato è pagata dallo Stato e non dagli autisti: perché l'assicurazione per i processi la dovrebbero pagare i magistrati?».
Solo una questione di soldi?
«Naturalmente no, la citazione diretta di un magistrato avrebbe come conseguenza anche il suo obbligo di astenersi e nel procedimento penale ciò implica la rinnovazione degli atti compiuti: il che può far saltare il sistema».
Vi hanno detto mille volte: se la corruzione c'era da una vita voi dov'eravate prima del '92?
«È una delle tante scempiaggini che si ripetono da vent'anni. Eravamo lì, ma la corruzione è come la mafia: non è come un omicidio, dove trovi un cadavere e fai le indagini. È un reato che si regge su un patto segreto tra chi lo compie: finché non viene uno a raccontartelo non lo sai».
E perché nel '92 vengono a dirvelo?
«L'ho ripetuto in mille convegni, ogni volta in cui qualcuno rispolverava l'altra scempiaggine del complotto: Mani Pulite è partita banalmente perché il sistema aveva finito i soldi. Finché il costo delle tangenti poteva essere caricato sul prezzo degli appalti, e le amministrazioni pagavano, gli imprenditori erano ben contenti di corrompere i partiti. Altro che vittime. Poi, quando hanno cominciato a non veder più saldati i lavori per cui prima avevano pagato le tangenti, allora si sono arrabbiati e sono venuti da noi. Tutto qui».
Altre scempiaggini?
«Certo, e ancora più dannose perché a forza di ripeterle sono entrate nel pensiero comune. La prima è stata la giustificazione addotta per anni da chi veniva beccato a rubare: "Ma rubano anche gli altri, perché prendete me?". Come se un ladro d'auto pretendesse di essere processato solo dopo che sono stati presi tutti gli altri».
A nessuno piace essere processato.
«Ci mancherebbe. Ma la cosa grave è che in questo Paese è diventato "normale" pensare di potersi difendere negando la legittimità del proprio giudice. Pretendendo di fondare le sempre più numerose istanze di ricusazione non sulla contestazione di atti specifici ma sul fatto che un magistrato abbia, per esempio, un orientamento politico».
Se è opposto al mio, e deve giudicare me, può darmi fastidio.
«Ma lui deve motivare per iscritto ogni decisione che prende, e lei può impugnarla nel merito! In un Paese anglosassone il giudice ti condanna semplicemente "poiché la giuria ti ha ritenuto colpevole", punto: facciamo cambio? E se un imputato di terrorismo islamico chiedesse di ricusare un giudice perché va a messa? Dovrà smettere di andarci? Però allora potrebbe non piacere a un imputato cattolico: dovrà fare la comunione di nascosto?».
Nel '92 dicevate: noi non facciamo politica. Qualcuno vi disse: sarà la politica a risucchiare voi. Gerardo D'Ambrosio è diventato senatore e Antonio Di Pietro ha fondato un partito.
«I magistrati non devono fare politica nell'esercizio delle loro funzioni. D'Ambrosio e Di Pietro non sono più magistrati e non hanno più tale vincolo».
Esiste un tasso di corruzione fisiologico?
«Tutto sta a intendersi sul quanto. In Italia ci sono meno condanne per corruzione che in Finlandia, che però Transparency International considera il Paese meno corrotto del mondo. Noi siamo a fondo classifica. È l'altra scempiaggine di quanti ripetono che la corruzione è il costo della democrazia: balle. Così la democrazia ce l'hanno rubata».
Al netto delle tangenti lievitate, in cosa la Seconda Repubblica è diversa dalla Prima?
«Per esempio nel fatto di aver lacerato il velo dell'ipocrisia, che per certi versi è considerata un difetto ma è anche la tassa che il vizio paga alla virtù: prima ci si mascherava da buoni perché essere cattivi era considerato brutto, adesso non c'è neanche più la maschera».
Gli italiani hanno i politici che meritano? Siamo condannati all'illegalità?
«Per niente, anzi. Non credo affatto a un Dna delle tangenti, non siamo un popolo sbagliato: siamo solo uno Stato con leggi sbagliate e più facili da aggirare. Pensare il contrario è il più pericoloso e qualunquista degli alibi».
In che senso?
«L'ho detto anche l'altro giorno agli studenti di un liceo di Milano, per me è la cosa più insopportabile di tutte: è quando sento qualcuno dire che "rubano tutti". Allora ogni volta gli chiedo "Scusi, lei ruba? No? Ecco, neanche io: siamo già in due". Ripartiamo da qui».
Corriere della Sera 5.2.12
«Risarcimenti? L'Italia non cercò i criminali nazisti»
di Paolo Fallai
ROMA — «La Germania ha fatto la sua parte. Senza entrare nel merito giuridico che non mi appartiene, sono d'accordo con i giudici dell'Aja. Perché se l'Italia fosse stata condannata per i danni prodotti dal fascismo, e ne produsse a iosa, noi ci saremmo giustamente infuriati». È una voce che non ti aspetti due giorni dopo che è stato accolto il ricorso della Germania contro l'Italia per ottenere il blocco delle indennità alle vittime dei crimini nazisti. Franco Giustolisi, giornalista e scrittore, è forse l'uomo a cui dobbiamo maggiore riconoscenza per avere raccontato la storia dell'Armadio della vergogna, i fascicoli delle inchieste aperte nel dopoguerra sulle stragi nazifasciste. Ma dopo aver assolto i giudici dell'Aja, Giustolisi attacca duramente l'Italia. «Non ha fatto la sua parte. Alla fine del 2010 gli ergastolani nazisti condannati, con sentenze definitive, per le stragi compiute in Italia erano 21. Nessuno li ha mai cercati. I magistrati militari dopo la scrittura delle sentenze esecutive hanno attivato l'Interpol. Tutto inutile». Per due volte il procuratore generale militare della Corte d'appello, Fabrizio Fabretti, alle inaugurazioni dell'Anno giudiziario l'11 febbraio 2009 e il 18 febbraio 2010 si è rivolto al governo chiedendo di intervenire: «Inascoltato — ricorda Giustolisi — in pratica deriso dai ministri della Giustizia, degli Esteri, della Difesa, che sembravano avere altro da fare».
Eppure le vicende di cui parlano quei processi sanguinano ancora, a distanza di tanti anni: fra il 1943 e il 1945 decine di migliaia di civili, tra loro bambini, donne, vecchi, vennero uccisi nel corso di 2.273 stragi compiute dai nazisti e dai fascisti, in una geografia dell'orrore che non risparmia un angolo d'Italia.
Sarebbero sedici i condannati all'ergastolo ancora vivi: otto dei condannati per Sant'Anna di Stazzema (560 vittime), tre per Marzabotto (980), uno per Civitella, Cornia e San Pancrazio (244), uno per Branzolino e San Tomè (10), uno per la Certosa di Farneta (oltre 60 morti). E molti processi sono tuttora in corso: quello per la strage di Fivizzano (500 morti), quella del Padule di Fucecchio (184) o di Monchio, dove tra le 196 vittime c'è anche un bambino di tre anni lanciato in aria e usato come bersaglio. E si sta aprendo il processo per la strage di Borgo Ticino, a pochi chilometri da Malpensa, dove il 13 agosto 1943 i nazisti uccisero dodici innocenti. E dove i repubblichini della X-Mas si fecero dare dalle popolazioni terrorizzate 300.000 lire, una somma enorme per l'epoca, facendo credere che così avrebbero salvato gli ostaggi. «Come si può dimenticare tutto questo?», continua Franco Giustolisi. «L'Italia non ha fatto giustizia e non ha memoria: ha permesso che i fascicoli fossero nascosti, che i processi si aprissero con 50 anni di ritardo, che le condanne non vengano eseguite, senza che nessuno intervenga, nel silenzio dei partiti, del governo, delle istituzioni».
La Stampa 5.2.12
Mariafrancesca Garritano
“Licenziata dalla Scala ma la battaglia continua”
La ballerina rimasta senza lavoro: “L’anoressia è un problema e se ne deve parlare, ma il mio non era un attacco personale”
di Sergio Trombetta
Digerire un licenziamento, probabilmente, è come elaborare un lutto. Ci vuole tempo. Mariafrancesca Garritano, in questi giorni che seguono al licenziamento dal corpo di ballo della Scala di Milano, se ne sta nel suo appartamento milanese e fa una vita normale: «Proseguo gli allenamenti - spiega - e poi continuo ad occuparmi dell’Associazione “Mi Nutro Di Vita” (che lotta contro l’anoressia ndr) che mi ha nominata socio Onorario, dopo gli eventi di dicembre. Il 15 marzo a Genova sarà presentata la 1ª giornata nazionale del disturbo alimentare detta “Giornata del Fiocchetto Lillà” e si continuerà a fare informazione e prevenzione in tutti gli ambienti dove è necessario sensibilizzare. Siamo gente normale che fa una cosa in cui crede perché l’ha vissuta sulla propria pelle».
Riassunto delle precedenti puntate: Mariafrancesca Garritano ha 33 anni, è stata sino a pochi giorni fa ballerina della Scala ed è stata nominata solista «sul campo» dopo una replica, in Polonia, del balletto Jewels di Balanchine in cui aveva dimostrato le sue doti. Mariafrancesca ha scritto un libro La verità, vi prego sulla danza! in cui racconta tutte le sue esperienze da quando ha iniziato a fare danza, in particolare il problema dell’anoressia che colpisce molte allieve di danza e ballerine. Ma non soltanto loro, in realtà è una vera emergenza sociale. A dicembre, durante gli «eventi» di cui parla sopra, è uscita una sua intervista molto dura sul giornale inglese The Observer. Il giornale riportava affermazioni e denunce pesanti. Che una ballerina su cinque alla Scala soffre di anoressia, che molte non riescono ad avere figli, che nei corpi di ballo dilagano «storie di corruzione, di minacce e di compromessi, per mantenere il proprio posto sul palco».
Affermazioni generali o contro il teatro milanese? Il problema sta tutto lì. La direzione del teatro l’ha considerata un attacco diretto. E poiché se un ballerino dipendente (Mariafrancesca aveva un contatto a tempo indeterminato) attacca il proprio teatro viene meno il rapporto di fiducia, nei giorni scorsi è partita la lettera di licenziamento. Intanto l’assessore al Benessere del Comune di Milano, Chiara Bisconti, ha chiesto rassicurazioni alla Scala sull’argomento.
Mariafrancesca, il giorno dopo il suo licenziamento come si sente?
«Sono davvero costernata perché mi dispiace che la mia battaglia di sensibilizzazione sia stata presa come una cosa personale».
Essere senza lavoro di questi tempi, brutta storia.
«Potrei risponderle che è un bel momento? ».
Rimettersi in gioco a trentatré anni: è una età critica per una ballerina?
«Oggi è un’età critica per tutti nel mondo del lavoro».
Ha pensato al suo futuro professionale?
«Ci sto pensando».
Oltre alla pagina di appoggio su Facebook ha ricevuto altri attestati di solidarietà dal mondo della danza?
«Ho ricevuto e ricevo ogni momento messaggi di solidarietà. I ballerini si esprimono in privato ma sono tantissimi, le reazioni di negazione assoluta si commentano da sole invece, perché è evidente che c’è poca predisposizione a capire il vero messaggio delle mie parole».
Alla luce di quanto è successo rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«C’è un detto che dice: se nasci tondo non puoi morire quadrato.
«Non pensa, come ha dichiarato Eleonora Abbagnato, première danseuse all’Opéra di Parigi, che sarebbe stato più opportuno fermarsi prima?
«Io parlo di un argomento che è una realtà sociale e per cui c’è gente che soffre davvero, addirittura chi muore di disturbi alimentari, non posso credere che ci sia del male nel sostenere questa battaglia con il proprio vissuto».
In autunno, insieme a altre due colleghe ha inviato una lettera al sindaco Pisapia contro la direzione del ballo per il balletto «Raimonda», non pensa che abbia pesato magri anche di più nella decisione del teatro?
«Le dimostrazioni di amore verso il teatro e la nostra arte non sono state colte e me ne rammarico. Mi scuso se i modi non sono stati consoni alla forma che questa istituzione richiede».
Non crede che la Scala abbia preferito tagliare la testa al toro piuttosto di ritrovarsi una compagnia in stato di agitazione permanente come negli anni 90?
«No comment».
Abbagnato la accusa di aver voluto farsi pubblicità, come le risponde?
«So che Eleonora è appena diventata mamma e che ha altro a cui pensare in questo momento, anzi le faccio i miei auguri sinceri».
Si opporrà per vie legali al licenziamento?
«Al momento sono i miei avvocati ad occuparsi di tutto».
l’Unità 5.2.12
Undici mesi di negoziati cancellati nel giorno del massacro più cruento
Il ruolo dell’Onu «esce indebolito»: dice il segretario generale Ban Ki-moon
In Siria altri 300 morti Veto di Russia e Cina blocca la risoluzione
Mentre a Homs si consuma la più feroce carneficina dall’inizio della rivolta in Siria, al Palazzo di Vetro la Cina e la Russia pongono il veto ad una risoluzione di condanna del regime di Bashar al-Assad.
di Umberto De Giovannangeli
Una mattanza pianificata. La più devastante dall’inizio della rivolta. Una città sottoposta al bombardamento dell’artiglieria pesante. Un inferno. L’inferno di Homs. Oltre 330 morti e oltre 1.300 feriti. È il bilancio dell’offensiva scatenata dall’esercito di Bashar al-Assad nella città simbolo dell’insurrezione contro il regime baathista. «Qualche altra notte come questa e Homs verrà cancellata dalla mappa geografica. Siamo massacrati, cosa sta aspettando il Consiglio di Sicurezza?», denuncia Ammar, un residente del quartiere cittadino di Bab Tadmur, tra i più bersagliati dai cannoni di Assad.
MATTANZA
La tv panaraba Al Arabiya manda in onda le prime immagini giunte da Homs. Immagini raccapriccianti di un massacro in atto. In uno dei video, alcuni amatoriali diffusi da residenti e pubblicati su Youtube, si vedono cadaveri adagiati a terra e immersi in pozze di sangue o su letti di quel che sembra essere una clinica o un ospedale. In un altro filmato, girato all'esterno e durante la notte, un uomo grida «stanno bombardando! stanno bombardando!» mentre si odono boati di esplosioni. Un terzo video, girato sempre di notte, mostra un edificio in fiamme e l'incendio illumina l'area circostante. «Questi non sono animali, questi sono esseri umani. Questi sono esseri umani bombardati. E nessuno sta facendo nulla»: è la drammatica testimonianza di «Danny», un attivista per i dirit-
ti umani, che arriva da Homs. In serata, Al Arabiya aggiorna il bilancio della mattanza: i morti accertati sono 337.
COMPLICI
Barack Obama «condanna» Damasco per il «terribile attacco» contro la gente di Homs. Assad deve «lasciare subito e consentire una transizione democratica», afferma il presidente Usa in una nota ufficiale. «Trenta anni dopo che suo padre ha massacrato decine di migliaia di innocenti a Hama, Bashar al-Assad ha dimostrato un analogo disprezzo per la vita umana e la dignità», aggiunge Obama.
I morti di Homs non schiodano Mosca e Pechino dal loro sostegno al regime baathista. Nel Consiglio di Sicurezza, Cina e Russia pongono il veto ad una risoluzione sulla Siria. A favore della risoluzione votano 13 dei 15 Paesi dell'organo esecutivo del Palazzo di Vetro. Il progetto di risoluzione puntava a condannare il regime siriano, ma escludeva esplicitamente un intervento armato. È la seconda volta che Mosca e Pechino bloccano un testo sulla Siria. «È un giorno triste per la Siria e la democrazia» afferma l'ambasciatore francese all'Onu, Gerard Araud, nel dibattito pubblico dopo il voto.
Gli Stati Uniti sono «disgustati», gli fa eco l'ambasciatrice americana all' Onu, Susan Rice, dopo il veto. L'ambasciatore britannico all'Onu, Mark Lyall Grant, spiega dal canto suo che la Gran Bretagna è «sconvolta».
CAPORETTO DIPLOMATICA
«Sono dieci mesi» che si lavora e «non c'era nulla nella risoluzione che potesse innescare un veto. La verità è che Russia e Cina hanno fatto una scelta». «È una pessima notizia» il veto di Mosca e Pechino al progetto di risoluzione Onu sulla Siria. Così il ministro degli Esteri Giulio Terzi, informa la Farnesina. Il progetto di risoluzione sulla Siria era «squilibrato», ribatte l'ambasciatore russo all'Onu, Vitaly Ciurkin, sottolineando che la Russia ha cercato di raggiungere una soluzione, ma che non ha avuto scelta e ha opposto il veto insieme con la Cina. È scontro frontale: Ciurkin accusa gli occidentali di voler solo ottenere «una cambio di regime (in Siria) spingendo l'opposizione al potere».
«È spiacevole che le nostre indicazioni non siano state prese in considerazione», aggiunge l'ambasciatore cinese all'Onu, Li Bandong. Per l’opposizione siriana, il veto di Mosca e Pechino equivale ad una «licenza di massacro» fornita ad Assad. Quel doppio veto è un «vile e sconcertante tradimento nei confronti della popolazione siriana», denuncia Amnesty International.
«Il mancato accordo sulla risoluzione per la Siria, per mettere fine alle violenze «dispiace profondamente. È una grande delusione per il popolo siriano e per il Medio Oriente. E indebolisce il ruolo dell'Onu e della comunità internazionale», rimarca in serata il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.
«Dopo undici mesi di violenze, migliaia e migliaia di persone uccise, imprigionate e torturate, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha fallito ancora, non rispettando il suo mandato e venendo meno al suo compito di protezione della pace e sicurezza mondiale. Questo è uno scandalo», insorge Peter Wittig, ambasciatore tedesco all'Onu. Uno scandalo impunito.
Repubblica 5.2.12
I protettori di Assad
di Renzo Guolo
La "regola di Hama" diventa la "regola di Homs". Nella repubblica ereditaria siriana la coazione a ripetere pare drammaticamente ineludibile.
Nel 1982, durante la sollevazione guidata dai Fratelli Musulmani, Assad padre rase al suolo la città sull´acqua, mietendo circa ventimila vittime. Il figlio Hafez, che giustifica il bombardamento nell´intento di colpire i "terroristi", è avviato sulla medesima strada: quattrocento vittime, in una notte nel solo quartiere di Khaldiyè. Una scelta che rivela la disperazione di un regime che non riesce a venire a capo di una rivolta estesa ormai alla periferia di Damasco. E che punta, oltre che sulla repressione, sull´impossibilità della comunità internazionale di replicare un intervento in stile libico.
Come dimostra il veto esercitato al Palazzo di Vetro da Russia e Cina, che hanno bloccato per la seconda volta in pochi mesi, una risoluzione Onu, modellata sul piano della Lega araba. Testo che chiedeva le dimissioni di Assad e una tregua in quella che ha ormai assunto i caratteri di una guerra civile. Tra fautori del mutamento e continuisti di regime, tra maggioranza sunnita e coalizione delle minoranze etniche e religiose, alawiti, drusi, cristiani, che temono l´avvento del potere della prima. Guerra civile ormai estesa anche i militari. La nascita di un esercito di liberazione siriano, guidato da un generale dissidente e appoggiato dai turchi, ha cambiato la natura del conflitto. Ora Assad deve far fronte a una rivolta che assume i caratteri dell´insurrezione armata e teme la diserzione in massa dei soldati sunniti. Del resto, i massacri di regime hanno reso impossibile qualsiasi soluzione negoziata. Quello in corso non è un gioco a somma zero: qualcuno deve perdere l´intera posta. Da qui la decisione di tirare a alzo zero sugli oppositori. Contando sulla complicità attiva di Mosca e Pechino.
I russi temono che il successo della primavera siriana significhi il loro autunno mediterraneo: perdere Damasco significa perdere Tartous, importante base della loro flotta in Siria; oltre che un cliente importante nelle commesse militari. Vedere Mosca rinchiusa nel Mar Nero mentre il Mediterraneo rischia di diventare incandescente nel caso di un conflitto tra Israele e Iran, sarebbe un duro colpo per il rinato nazionalismo granderusso. Il Cremlino mira a riacquistare, se non gli spazi geopolitici di un tempo, almeno una rilevante influenza nella regione. Quanto ai cinesi, ritengono che l´America, ripiegata all´interno dalla crisi economica e dalla recessione globale prima ancora che dalle scelte di Obama, sia ora, davvero, quella "tigre di carta" di cui parlava Mao. I pragmatici post-denghisti non ne fanno una questione ideologica ma solo di potenza e perseguono in ogni occasione l´assalto al cielo del potere mondiale.
L´impasse dell´Onu fotografa la situazione. Così solo il diffondersi della rivolta potrebbe indurre il clan Assad a mollare. Si tratta di capire quanto, e in che modo, spingeranno ora Turchia e Arabia Saudita: Riad punta a interrompere l´arco sciita teso tra Teheran e Beirut proprio a Damasco. Nel frattempo tuonano i cannoni.
il Fatto 5.2.12
Propaganda alla ricerca di un nuovo Saddam
L’attacco all’Iran? Serve una bufala
di Robert Fisk
Beirut Nel caso in cui Israele attaccase l’Iran nel corso del 2012 si rivelerrebbe – insieme agli americani – più folle di quanto pensano i suoi nemici. Non v’è dubbio che Mahmoud Ahmadinejad è fuori di testa, ma altrettanto suonato è Avigdor Lieberman, sedicente ministro degli Esteri di Israele. Forse i due vogliono scambiarsi un favore. Ma per quale dannata ragione gli israeliani vogliono bombardare l’Iran con l’effetto di scatenare la rabbia dei libanesi di Hezbollah e dei palestinesi di Hamas? Per non parlare della Siria, ovviamente. E una simile avventata iniziativa finirebbe per risucchiare tutto l’Occidente – Europa e Stati Uniti – nel-l’ennesimo, inutile conflitto.
Sarà perché vivo in Medio Oriente da 36 anni, ma la puzza di bruciato la sento subito. Leon Panetta, mica un passante ma il ministro della Difesa degli Stati Uniti, ci avverte che Israele potrebbe anche decidere di attaccare. E lo stesso fa la Cnn – nessuno puzza di bruciato più di questa emittente!! – e si aggiunge al coro anche il vecchio David Ignatius, che non fa il corrispondente in Medio Oriente da dieci o venti anni, ma continua ad essere preso sul serio quando, recitando il solito copione, parla delle sue ”fonti israeliane”.
Mi aspettavo tutto questo quando la settimana passata ho dato una scorsa al New York Times Magazine e ho letto un pezzo tutto preoccupato di un ”analista” israeliano (sto ancora cercando di capire cosa diavolo è un ”analista”), un certo Ronen Bergman, del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth.
Ecco le sue parole che sembrano il solito ciarpame propagandistico: “Dopo aver parlato con molti (sic) leader e capi (ancora sic) di primo piano dei servizi segreti e delle forze armate israeliani, sono giunto alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran prima della fine del 2012. Forse utilizzando la piccola finestra ancora disponibile, gli Stati Uniti decideranno di intervenire, ma a sentire gli israeliani le speranze di un intervento militare americano sono poche. C’è invece quel caratteristico cocktail israeliano di paura e tenacia, di coraggiosa fermezza, giusta o sbagliata che sia, di convinzione che in ultima analisi solo gli israeliani possono difendersi”.
Tanto per cominciare, un giornalista che prevede un attacco di Israele contro l’Iran sta mettendo la testa su un ceppo pronto a farsela mozzare. Comunque sia qualunque giornalista con un po’ di sale in zucca – e in Israele sono moltissimi i bravi giornalisti – si porrebbe una domanda: per chi lavoro? Per il mio giornale? O per il mio governo?
LEON Panetta, sì proprio quello che mentì alle forze armate americane in Iraq affermando che si trovavano in quel Paese a causa degli attentati dell’11 settembre, dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che sta scherzando col fuoco. E lo stesso dicasi per la Cnn. Ignatius lasciamolo da parte. Ma di cosa stiamo parlando? A nove anni dall’invasione dell’Iraq causata dal fatto che Saddam Hussein aveva una arsenale di “armi di distruzione di amassa” (e non era così), ci apprestiamo a battere le mani a Israele che bombarda l’Iran con il medesimo ancora più indimostrabile pretesto delle “armi di distruzione di massa”. Non ho il benché minimo dubbio sul fatto che a pochi secondi dalla notizia, i grotteschi individui che scrivono i discorsi a Barack Obama sarebbero già all’opera per trovare le parole giuste per giustificare l’attacco israeliano. Se Obama, al solo scopo di essere rieletto, può gettare alle ortiche la libertà dei palestinesi e il sogno di uno Stato palestinese indipendente, ovviamente può appoggiare l’aggressione isrealiana nella speranza di conservare il posto alla Casa Bianca.
Tuttavia se i missili iraniani cominceranno a colpire le navi da guerra americane nel Golfo Persico – per non parlare delle basi Usa in Afghanistan – il lavoro di quelli che scrivono i discorsi ad Obama potrebbe farsi ancora più difficile. Ma per piacere lasciamo fuori da questa storia britannici e francesi.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
l’Unità 5.2.12
A meno venti. Nuova marcia dell’opposizione a Mosca «per elezioni libere»
Manifestazione dei putiniani: per la polizia hanno vinto la guerra dei numeri
Centoventimila nel gelo contro Putin, sfida di cifre con la piazza del regime
Con il termometro a -20 sfila la protesta anti-Putin a Mosca: 120mila secondo gli organizzatori per chiedere «elezioni libere». Meno alla contro-manifestazione del regime, che però vince sui media la guerra dei numeri.
di Marina Mastroluca
«Tu il solito burocrate, non sei né lo zar né Dio». Ci sono anche loro sul palco, a venti gradi sotto zero, i veterani delle truppe avio-trasportate rione Akademicheskaya di Mosca, gruppo rock in grigio-verde che su ru.net canta la sua ballata contro Putin. Da quando è stata postata su YouTube, il 26 gennaio scorso, è stata vista un milione di volte. Ieri la replica in piazza Bolotnaja, davanti a migliaia di manifestanti. Se doveva essere una prova della tenuta dell’opposizione, la marcia per una «Russia senza Putin» è stata un successo. Nonostante il freddo polare, la contro-manifestazione organizzata dal regime e degli ultra-nazionalisti di Zhirinovsky e uno spezzone separato di dissidenti, la piazza era paragonabile alle grandi manifestazioni del dicembre scorso. Centoventimila secondo gli organizzatori, un po’ meno per la stampa indipendente, appena 34.000 per la polizia che invece supervaluta la marcia dei pro-putiniani: 138.000 per le autorità, non più di 15-20.000 per i giornalisti presenti. La tv mostra immagini da entrambe le piazze per dire che erano di più i putiniani.
FOTO STRAPPATA
Un volo di palloncini bianchi, candidi come i nastrini portati sul bavero quelli che Putin, con disprezzo, ha paragonato a dei preservativi. È bianco come la neve di Mosca il colore scelto dall’opposizione per denunciare i brogli delle scorse politiche e i guasti dell’intero sistema elettorale, che ammette solo i candidati graditi al regime e lascia fuori gli altri. Per la prima volta si sfila in spezzoni: prima la società civile, poi i liberali, quindi i nazionalisti e infine la sinistra. «Per libere elezioni», è questo il filo conduttore che tiene insieme le diverse anime. Dai nazionalisti alla Navalny, il popolarissimo blogger che ha animato le prime proteste e che oggi dice: «In un sistema corretto, mi candiderei alla presidenza». Ai liberal di vecchia data alla Grigori Yavlinsky, il fondatore di Yabloko, escluso anche stavolta dalle elezioni. Sale anche lui sul palco. «La battaglia non finirà dopo le elezioni presidenziali, stiamo difendendo il futuro del nostro Paese», dice. Al suo fianco Sergei Udaltsov, capo del Fronte di sinistra, strappa una foto di Putin: «A chi assomiglia? A un ladro e a un truffatore», grida.
Annullamento delle politiche, riforme, nuove elezioni senza trucchi, la testa del capo della Commissione elettorale centrale e libertà per i detenuti politici, incluso l’ex magnate della Yukos Oil, Mikhail Khodorkovsky, che dal carcere nei giorni scorsi ha invitato a non boicottare le presidenziali del 4 marzo, cercando piuttosto di costringere Putin al ballottaggio: data per scontata la rielezione, un secondo turno avrebbe un sapore decisamente amaro per l’uomo che da 12 nni è lo zar di Russia.
Al Parco della Vittoria c’è invece un’altra piazza e altri slogan. Contro l’Occidente che «vuole mettere le sue mani sulla Russia», contro le rivoluzioni colorate, contro gli arancioni prezzolati dallo straniero. I pro-putiniani presidiano il campo, per evitare di lasciare alla sola opposizione l’iniziativa politica. «La maggioranza dei dimostranti a Poklonnaya Gora non sa dire perché è venuta. Uno ha detto che è venuto per denaro», racconta la reporter del quotidiano Kommersant, Uliana Malashenko. Anche Vedomosti descrive una manifestazione «inerte». La stampa ha scritto di compensi tra gli 800 e i 1700 rubli, diverse persone hanno segnalato di essere state precettate dal datore di lavoro: per fare numero.
«Quella di Putin al Cremlino non sarà un’elezione ma una nomina», dice il blogger Navalny delle presidenziali di marzo prossimo. Cinque i candidati in gara, nessuno con la forza né la proposta politica per infastidire Putin, che nei sondaggi è appena sotto al 50% è un abisso rispetto alle vette di qualche anno fa, ma sufficiente a riportarlo al Cremlino. L’opposizione promette di dare battaglia comunque e non sembra preoccuparsi troppo dello scarso seguito che la giornata di denuncia di ieri ha avuto fuori Mosca 91 cortei in 63 regioni per un totale di 230mila partecipanti. «L’importante è che la protesta prosegua nella capitale dove c’è il cuore del potere. E dove Putin, senza l’abuso delle risorse amministrative, non riuscirebbe a radunare nemmeno mille persone». Il 26 febbraio si replica.
Repubblica 5.2.12
In piazza contro Putin Mosca sfida il gelo "Vogliamo un altro futuro"
In 120mila per strada. Flop del corteo pro-governo
di Nicola Lombardozzi
Mosca - Ci sono di nuovo tutti, sono perfino aumentati. In centoventimila sfilano allegri e colorati, a venti gradi sotto zero, tra cupole d´oro e stucchi zaristi del centro di Mosca gridando "Rossija bez Putina", "Una Russia senza Putin". E questa volta non sono più un "nuovo fenomeno da analizzare" per giornali e politologi ma sono, più familiarmente, "quelli contro il governo", diventati ormai un appuntamento fisso. Da salutare dalle finestre, da immortalare con i telefonini, applaudire fragorosamente quando ti passano sotto casa. Lo vedi nella faccia compiaciuta di Aleksej Navalnyj, il blogger anticorruzione, che guida la fila dalla statua di Lenin di piazza Octjabrvskaja insieme agli altri volti sempre più noti: l´ecologista Evgenija Cirikhova, l´ex vicepremier Boris Nemtsov. lo scacchista Garry Kasparov. Si beano della folla che li segue ma ancor di più dell´attenzione degli altri, di quegli "indifferenti" che cominciano a tifare per loro.
Cominciata, per rabbia e senso di impotenza, la notte del 4 dicembre subito dopo il voto per la Duma, la protesta resiste e si allarga. A poco servono le contromisure strategiche prese dallo staff governativo. Come la manifestazione alternativa pro Putin organizzata in contemporanea sotto all´arco di trionfo della Prospettiva Kutuzovskij.
I due popoli si erano incontrati e incrociati al mattino sulle scale mobili della metropolitana Kievskaja. Scendevano i "dissidenti", giovani con l´iPad in bella vista, pensionati comunisti con logore bandiere rosse, ragazze con il nastrino bianco sul cappello e lo smartphone in pugno, famiglie intere con bambini imbacuccati e con l´adesivo "voglio crescere libero". Salivano invece, volti seri di impiegati, militari in licenza, giovanotti infreddoliti arrivati apposta dalla provincia. Nessuna tensione. Al massimo qualche sguardo duro, più da pre-partita calcistico che da scontro ideologico.
Le punzecchiature semmai, sono arrivate dopo quando i blogger hanno diffuso su Internet le immagini dei pulmini di Stato che reclutavano "putiniani" d´emergenza davanti agli uffici pubblici o che documentavano l´afflusso mediocre al raduno governativo: non più di trentamila persone, poliziotti compresi.
Gli oppositori hanno vinto la battaglia dei numeri e lanciato un altro segnale al governo che continua a tacere. Ma hanno anche realizzato un efficacissimo spot promozionale per il prossimo appuntamento del 26 febbraio, un tormentone che continuerà anche dopo la scontata vittoria di Putin alle presidenziali del 4 marzo. Inseguendo il corteo dalla coda fino al palco di arrivo sulla piazza Bolotnaja si poteva infatti distinguere tutte le sfumature culturali, sociali e cromatiche degli indignati di Russia. Il rosso dei comunisti con i loro cartelli un po´ retrò come: "Cambiamo il futuro del nostro Paese". Il verde degli ecologisti con i disegni infantili di alberi e animali. L´arancione di Solidarnost che copia lo slogan delle prime rivoluzioni colorate: "Se restiamo uniti vinceremo!". Il rossonero dei nazionalisti "cattivi", quelli tatuati e rasati, che preferiscono le allusioni sessuali con una gigantesca caricatura effeminata di Medvedev che dice a Putin: "Cambiamo, ora stai sopra tu". Il giallo degli automobilisti organizzati che non hanno studiato molto gli slogan e continuano a ripetere semplicemente: "Putin in galera". E poi il giallonero dei nazionalisti cristiani che urlano come se pregassero: "Dio, salva la Russia". Il verde e oro degli ex parà, corpulenti e accigliati, che sanno bene a chi stanno parlando quando dicono "Ti manderemo a casa".
Fino agli ultimi trecento metri bombardati dalle note solenni sparate a mille dagli amplificatori montati su un autocarro. E´ l´overture di "Spartacus", il balletto amato da Breznev, ma anche da Stanley Kubrick, che il musicista Khacaturjan dedicò alla mitica rivolta dei gladiatori. Scelta azzeccata per combattere il freddo e darsi un contegno, arrivando alla fine danzando come pinguini ma con l´animo da rivoluzionari. E urlare tutti insieme: «Torneremo presto».
Repubblica 5.2.12
La rivoluzione in stivali di feltro
Noi, in piazza a Mosca per liberarci di San Putin
Non abbiamo bisogno di ghigliottine. Ma il regime ci è venuto definitivamente a noia
di Victor Erofeev
Se nella vostra macchina una ruota comincia a fare uno strano rumore, dopo qualche tempo bisogna sostituirla, altrimenti la macchina non va più. È quel che è successo negli ultimi tempi a Vladimir Putin: ha cominciato a dare segni di cedimento. In altre parole, si chiama desacralizzazione.
E se è vero che per me non è mai esistito San Putin, le decine di migliaia di persone che sono scese in piazza l´hanno fatto proprio per desacralizzare Putin nella coscienza dell´opinione pubblica russa.
A Mosca ieri faceva un freddo cane. Con un tempo simile i bambini si tengono a casa. Tutti si riuniscono intorno alla tavola con la tradizionale bottiglia di vodka. Ma, imbacuccati in sciarpe, guantoni da sci artici e stivali di feltro campagnoli, i moscoviti sono usciti nelle strade con bandiere e cartelli satirici che si facevano beffe di Putin e maledicevano la sua "autocrazia".
Sembrava di vivere contemporaneamente in due dimensioni diverse. Percepivamo l´atmosfera della rivoluzione russa del 1905, quella che costrinse lo zar a concedere la libertà di parola e di riunione, e che aprì la strada al primo libero parlamento russo. E nello stesso tempo, così mi è sembrato, qui a Mosca ci siamo avvicinati alla rivoluzione studentesca parigina del 1968, perché quella che manifestava nelle strade era gente allegra e ironica.
Io mi sono unito al corteo nella colonna di Michail Prokhorov, oligarca e candidato alla presidenza, che marciava con una giacca a vento che sarebbe stata perfetta per la stazione sciistica di Courchevel. Lo circondavano artisti, giornalisti, e anche persone venute da altre città della Russia. Ma questo era solo uno dei "fiumi" fra gli altri "fiumi" umani che alla fine si sono raccolti vicino al Cremlino in piazza Bolotnaja: quella che probabilmente in futuro sarà chiamata piazza della Rivoluzione. Oltre alla colonna di Prokhorov, lungo via Jakimanka davanti all´ambasciata francese marciavano i sostenitori di Javlinskij, i comunisti, i nazionalisti e i rappresentanti del nucleo ormai costituito della Lega degli elettori, che sotto la guida di Ryzhkov, Nemtsov, Navalnyj e di altri radicali si sta affermando come una nuova realtà politica.
La polizia guardava la manifestazione con un certo rispetto. Non poteva capire da dove saltasse fuori una simile massa di gente. Finalmente siamo arrivati in piazza Bolotnaja, vicino al Cremlino, dove da una tribuna si lanciavano appelli di contenuto anti-putiniano. Dopo la prima e la seconda manifestazione di dicembre, il corteo di ieri è stato molto più libero, direi che la gente somigliava a una tranquilla folla domenicale che avesse deciso di farsi una pattinata sul ghiaccio. Non c´era paura. C´era l´eccitazione del cambiamento.
Qualunque cosa accada nel futuro della Russia, questa manifestazione segnerà un momento storico: la scelta della Russia progressista, filoeuropea, contro il potere attuale. È una rivoluzione pacifica. Che non si ferma qui. Se il gelo non ha impedito ai manifestanti di uscire in strada, è chiaro che in primavera usciranno ancora, e ancora. Ormai si sono conosciuti, hanno capito che cosa vogliono. Vogliono la libertà. Sono contro la corruzione. Sono per la repubblica, contro l´autocrazia putiniana.
Putin deve fare la sua scelta. O dichiarare che tutta questa moltitudine è costituita da nemici della Russia e dare il via alle repressioni, o riconoscere di avere torto. In qualunque caso, è ormai un re detronizzato. Non abbiamo bisogno di ghigliottine rivoluzionarie. Ma anche il regime putiniano ci è venuto definitivamente a noia. La gente in stivali di feltro ha detto la sua parola decisiva. E poi se n´è tornata a casa, a riscaldarsi con la vodka e a giocare con i figli. È così che adesso si fa la rivoluzione da noi. Seguite la prossima puntata!
(Traduzione di Emanuela Guercetti)
Repubblica 5.2.12
La scrittrice Ulitskaja "Superato ogni limite è un dovere essere qui"
MOSCA - Ljudmila Ulitskaja ha l´aria soddisfatta di una bambina che ha superato il primo esame: «Ho sempre snobbato la politica, ma sentivo che dovevo venire qui, metterci la faccia, e parlare alla gente». La scrittrice russa più letta in Italia con "Daniel Stein, traduttore" e "Sinceramente vostro, Surik", ha scoperto a 68 anni la voglia di scendere in piazza: «Perché ogni limite è stato superato».
Cosa l´ha convinta a partecipare alla protesta?
«Quando ho visto che perfino i nostalgici del comunismo avevano ragione».
Addirittura?
«Sì perché quel regime, che continuo ad odiare con tutte le mie forze, faceva comunque funzionare le industrie, le scuole, gli ospedali e ci dava un senso di protezione, di garanzia».
E adesso?
«Adesso è tutto fermo, corrotto, inefficiente. Del vecchio regime funziona solo lo stile bolscevico e da polizia segreta che tanto piace ai nostri capi».
Pensa veramente che le cose possano cambiare?
«Quando il massimo leader del Paese suscita tanta ripugnanza, perfino fisica, a una così gran parte di persone, il cambiamento è inevitabile. Questione di tempo».
Adesso l´accuseranno di cercare pubblicità facile?
«Certamente. E´ appunto nello stile di questo potere. Ma la verità è che qui sta nascendo la società civile russa. E io voglio esserci. E´ il mio dovere».
n.l.
Repubblica 5.2.12
"Io sono Dio", e getta nel Tevere il figlio di 16 mesi
Orrore a Roma, l´uomo aveva litigato con la compagna. Inutili le ricerche dei sommozzatori
Un poliziotto ha tentato di fermarlo ma è arrivato troppo tardi
di Massimo Lugli, Emilio Orlando
ROMA - I sommozzatori si sono arresi poco prima delle 17, dopo undici ore di immersioni nelle acque gelide del Tevere: niente da fare, il corpicino non si trova. Il cadavere di Claudio, 16 mesi, scaraventato nel fiume dal padre in preda a un attacco di follia, probabilmente ha superato le rapide ed è già arrivato alla foce. Una tragedia allucinante, che si è consumata poco dopo le 6 del mattino in una Roma prostrata dalla neve e quasi completamente deserta. «Io sono Dio» ha urlato Patrizio Franceschelli, 25 anni, davanti agli occhi atterriti di un agente della polizia penitenziaria, prima di scagliare il figlioletto in acqua dal parapetto di ponte Mazzini, vicino al carcere di Regina Coeli. Poi la fuga, a piedi, verso ponte Testaccio dove l´uomo è stato intercettato da una gazzella dei carabinieri. Nell´ufficio del colonnello Mauro Conte, comandante del nucleo radiomobile, il venticinquenne si è chiuso in un mutismo glaciale. Qualche piccolo precedente, disoccupato, Franceschelli non risulta tossicodipendente (ha ammesso solo di fumare qualche spinello) e non è mai stato in cura per disagi psichici. Il dramma è l´epilogo di una lunga serie di litigi tra l´uomo e la sua compagna (ricoverata al Santo Spirito, da venerdì´ scorso, per un tentativo di suicidio) per l´affidamento e la custodia del bambino.
L´assassino vive a Corviale e le separazioni con la mamma del piccolo Claudio sono, da sempre, abbastanza frequenti. Nei periodi di burrasca, la donna si trasferiva in casa della madre, Rita, che vive con l´altra figlia, Manuela (incinta al nono mese) in via Orti d´Alibert 27, a Trastevere. «La nonna è sempre stata molto premurosa col nipotino» raccontano i vicini «lui non si vedeva mai da queste parti». Ieri notte, con le strade impraticabili per la neve alta, Patrizio Franceschelli si è incamminato verso l´abitazione della suocera. «Verso le 5,30 abbiamo sentito delle urla - racconta un´inquilina - siamo scesi e abbiamo visto quest´uomo fuori di se che stringeva il bambino con violenza e urlava cose come: perché vi preoccupate? Io sono buono... Abbiamo tentato di farlo smettere ma non c´è stato verso... Abbiamo chiamato polizia e carabinieri ma sono arrivati solo un´ora dopo».
Il venticinquenne si è precipitato in strada col bambino stretto al petto e, poco dopo, si è trovato faccia a faccia con l´agente della penitenziaria. Il poliziotto ha tentato di fermarlo ma, all´improvviso, Franceschelli si è affacciato al parapetto e ha lanciato il bambino nel fiume. Pochi istanti dopo, sul posto sono arrivate, disperate, la nonna e la zia del piccolo Claudio. Le ricerche del bimbo sono iniziate poco più tardi ma è stato chiaro fin dall´inizio che per il piccolo Claudio non c´era alcuna speranza. I sommozzatori, protetti dalla muta stagna, si sono dati il turno per tutta la giornata fino a quando hanno dovuto dare forfait.
Bloccato dai carabinieri poche centinaia di metri più avanti, l´assassino non ha opposto resistenza ed è rimasto per ore imbambolato, lo sguardo fisso nel vuoto, nell´attesa di essere portato in carcere. A Regina Coeli l´uomo viene tenuto in isolamento e sorvegliato: la legge dei detenuti, per chi uccide un bambino, non perdona.
l’Unità 5.2.12
«Quaderno 32», il mistero c’è
La polemica sui manoscritti di Gramsci dal carcere. Franco Lo Piparo è autore di un saggio, nel quale si sostiene la tesi che un quaderno fu sottratto da Togliatti. Gianni Francioni, su l’Unità, ha contestato questa ricostruzione
di Franco Lo Piparo
Gianni Francioni scrive: «La tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento». Francioni ha una lunga frequentazione dei manoscritti gramsciani avendone curato l’edizione anastatica. Andiamo alla questione avendo cura di separare i fatti dalle interpretazioni.
Nella numerazione ufficiale il numero XXXII è attribuito al Quaderno 18 di Gerratana. Non è quindi di Tatiana. Secondo la mia ipotesi l’attribuzione nasce dal bisogno di colmare il salto che i numeri di Tatiana, così come li conosciamo, presentano passando dal Quaderno XXXI al XXXIII.
UNA DOMANDA LECITA
Esaminiamo il Quaderno. Al centro della copertina campeggia una etichetta dove è scritto a caratteri grandi un «N. 4». Non esistono spiegazioni di questo numero e nemmeno noi riusciamo a trovarne una convincente. In alto, in inchiostro blu si legge un «(34)». Fin qui i fatti. I Quaderni che conosciamo sono 33. Da dove salta fuori il numero 34? Mi sembra una domanda lecita.
Nell’edizione anastatica Francioni spiega: «La cifra potrebbe alludere al numero complessivo dei quaderni effettivamente utilizzati da Gramsci, più il quaderno compilato da Tatiana come indice generale delle note». Non è l’argomento usato nell’articolo per confutare la mia ipotesi. Si trattava, infatti, di spiegazione debole. Se così fosse stato, il numero 34 avremmo dovuto trovarlo sul quaderno di indice. Quaderno che, tra l’altro, ha una numerazione a parte. È la stessa Tatiana che scrive sulla copertina del proprio quaderno: «I di Tania». La spiegazione data nell’articolo è altra.
A partire dal Quaderno XXIX Tatiana si sarebbe accorta di avere fatto degli errori nella numerazione e, per correggerli, incolla, nei Quaderni 12 e 13 di Gerratana, su precedenti etichette nuove etichette con la numerazione che conosciamo. Quali potrebbero essere stati questi errori? Difficile dirlo dal momento che la numerazione di Tatiana non ubbidisce a nessun criterio e appare del tutto casuale.
Francioni mi fa notare un dato importante a cui non avevo prestato attenzione. Lo ringrazio. Riporo le sue parole: «L’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza. “Incompleto|dap.1a26| XXXII”». Quindi esiste (è esistita) una etichetta di un Quaderno XXXII critto per 26 pagine. Dove cercare il Quaderno XXXII? Non può essere il 18 di Gerratana (che ha sulla copertina il numero 34 e a cui viene attribuito arbitrariamente il numero di Tania XXXII) dal momento che questo quaderno è scritto solo per due pagine e mezzo. È un dato che Francioni potrebbe aiutarci a capire.
La giustificazione dell’attribuzione posticcia del numero XXXII al Quaderno 18 Francioni la presenta al condizionale: «Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, (Tatiana) dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio (34): cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali è inutile dilungarsi con ipotesi». Perché mai sarebbe inutile? Una ipotesi può essere sbagliata ma mai inutile. Il Quaderno col numero 34 e il salto, nella numerazione di Tatiana, da XXXI a XXXIII rimangono in questo modo senza spiegazione.
ALCUNI ELEMENTI IMPORTANTI
Questi ragionamenti sui numeri il lettore probabilmente fa fatica a seguirli. Sarebbero puro esercizio calcolistico se non si inserissero in un contesto di dati non univoci. Ne parlo nel libro. Ne ripeto alcuni.
(1) Nella lettera che Giulia e Eugenia Schucht scrivono nel 1940 a Stalin per dissuaderlo dall’affidare a Togliatti la cura dei manoscritti si parla di «30 quaderni, attualmente in nostro possesso». Dal conteggio vengono esclusi i 4 quaderni che contengono esercizi di traduzione. Noi di Quaderni teorici e storici ne conosciamo 29. Esiste un trentesimo Quaderno?
(2) In un appunto dattiloscritto, trovato da Gerratana in una cartella di Felice Platone, viene programmata «un’edizione diplomatica di 30 quaderni, secondo un rigido criterio cronologico e di fedeltà al testo manoscritto».
(3) Sraffa racconta di avere risposto, in una lettera del maggio 1937, «dettagliatamente alla richiesta di Togliatti» di essere informato sui manoscritti di Gramsci. La lettera conteneva «una descrizione dei temi e della stesura dei quaderni così come Gramsci la fece a lui, mostrandoglieli nella clinica “Quisisana”». Quella lettera non si trova e Togliatti non la cita mai. Non è strano? Mi pare che ci siano abbastanza elementi perché uno studioso senza pregiudizi indaghi e faccia ipotesi.
Corriere della Sera 5.2.12
Quei 100 miliardi di uomini che sono vissuti prima di noi
di Giulio Giorello
Con estrapolazioni audaci (in particolare sull'avventura dell'Homo sapiens, che appare assai lacunosa sotto il profilo demografico) si è arrivati alla conclusione, ora pubblicata dal Bbc Magazine, che, per stabilire il numero totale degli abitanti della Terra, occorre aggiungere agli attuali sette miliardi il totale dei nostri antenati: si tratta di più di 100 miliardi di persone che affrontando una miriade di peripezie, epoca dopo epoca, hanno «affollato» il pianeta prima di noi, a cominciare da quell'esodo dall'Africa.
Circa cinquantamila anni fa il nostro globo era popolato da specie differenti del genere Homo, disperse tra Africa e Eurasia, quando piccoli gruppi appartenenti alla nostra specie, Homo sapiens, uscirono dall'Africa e cominciarono a colonizzare vecchi e nuovi mondi. Come si sia imposto il nostro «progresso prepotente», come lo chiama il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, a scapito di tutti gli altri «umani», è ancora un mistero da sciogliere. Fatto sta che da quegli sparuti gruppi di pionieri è discesa una popolazione globale che, come le Nazioni Unite hanno ufficialmente decretato, nell'ottobre del 2011 avrebbe superato i sette miliardi. Tra sismi ed eruzioni, mutamenti di clima, per non dire di epidemie e guerre, non era garantito che le cose andassero davvero così «su questo pianeta instabile e nonostante tutto accogliente», come mostra il filosofo Telmo Pievani nel suo La vita inaspettata (Raffaello Cortina, Milano). Abitualmente siamo impressionati dalla crescita, talvolta prospettandoci un mondo sovrappopolato degno dei peggiori incubi del reverendo Thomas Robert Malthus (1766-1834); un modo differente di vedere le cose ci è ora prospettato dal Population Reference Bureau di Washington i cui ricercatori si interrogano invece non tanto su vivi e nascituri, bensì sui trapassati. Con estrapolazioni audaci (poiché l'avventura di Homo sapiens ci appare assai lacunosa sotto il profilo demografico) si è arrivati alla conclusione, ora pubblicata su Bbc Magazine, che gli attuali sette miliardi sembrerebbero pochi rispetto al totale dei nostri antenati: a partire dai Flintstones stile Hanna & Barbera si tratta di 107 miliardi di persone che affrontando una miriade di peripezie hanno «affollato» la Terra prima di noi, a cominciare da quell'esodo dall'Africa.
Però qualcosa del genere avevano già intuito quelle antiche culture che immaginarono carceri infernali per i loro defunti, sorvegliate da demoni che non lasciavano più scappare indietro nessuno, così da impedire appunto che «il morto sovrasti il vivo», come minaccia in un accesso di collera la dea Išhtar nell'Epopea di Gilgamesh. Abbastanza curiosamente, al cauto pessimismo della sapienza mesopotamica si contrappone oggi una concezione scientifica dell'esistenza che sempre più si allontana dal mito ingenuo delle «magnifiche sorti e progressive». Non ci riteniamo più il vertice di natura e storia; semmai, ci riconosciamo come figli di un'evoluzione che non ci assicurava affatto una crescita tanto impetuosa. Proprio per questo, come già intuiva Charles Robert Darwin (1809-1882) nelle pagine finali del suo L'origine delle specie, ci sentiamo nobilitati quando ci ritroviamo «discendenti in linea diretta dei pochi esseri che vissero molto tempo fa» nella cosiddetta preistoria.
C'è sempre qualcosa di commovente negli alberi genealogici che ricostruiscono una stirpe a partire da qualche antenato, un po' come fa per la famiglia dei Paperi l'artista disneyano Don Rosa: la genealogia, dagli antichi scozzesi tipo Bambaluc de' Paperoni, porta, attraverso il marinaio Paperinocchio Codacorta, sino alle Americhe dei pirati dei Caraibi e dei coloni puritani stile Cornelius Coot, fondatore di Paperopoli. Ma l'immagine dell'albero può essere fuorviante, specie in tempi come questi, in cui troppo si fa appello a radici più o meno identitarie. L'essere umano non è una pianta, bensì un animale, particolarmente abile nello sfruttare l'arte del camminare. Né si deve dimenticare che quest'arte si è sviluppata insieme alla capacità di adattarsi agli ambienti più disparati, o di cercarne di nuovi una volta che quelli vecchi si fossero rivelati ostili, esigui o altrimenti inadatti. Per di più, in tutto questo viaggiare, l'Homo sapiens ha saputo modulare sia le capacità progettuali della tecnica sia la forza trasformatrice della comunicazione musicale, e poi linguistica. Come scrisse Bruce Chatwin (1940-1989): «Gli uomini del tempo antico andarono a caccia, mangiarono, fecero l'amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica, avvolgendo il mondo intero in una rete di canto».
Corriere della Sera 5.2.12
American Power
L'immaginario a stelle e strisce. Nella collezione Guggenheim il Dna dell'arte contemporanea
di Lauretta Colonnelli
Mai si era vista una retrospettiva delle avanguardie artistiche americane così nitida, agevole e al tempo stesso spettacolare. C'è riuscito il Palaexpo, offrendo in un percorso completo e veloce la storia dei principali movimenti, dall'espressionismo astratto del secondo dopoguerra al fotorealismo degli anni Ottanta. «Dopo il successo delle esposizioni sul realismo sovietico, Deineka e Rodcenko, vogliamo far conoscere l'arte statunitense, convinti che lo scambio culturale sia l'unico strumento per consentire un dialogo tra le classi sociali, le nazioni e le fedi religiose diverse», dice Emmanuele Emanuele, presidente del Palaexpo. Curata da Lauren Hinkson, la mostra presenta una cinquantina di artisti e sessanta opere, distribuite nelle sette sale del museo secondo un ordine cronologico e tematico. Ed è quasi un miracolo, come fa notare il direttore del Palaexpo, Mario De Simoni, che uno spazio non dotato di una propria collezione riesca a ottenere prestiti dai maggiori musei del mondo.
Passando da una sala all'altra, bBasta un colpo d'occhio per cogliere la diversità tra le varie correnti. E per capire il percorso evolutivo della Fondazione Guggenheim — che ha prestato tutte le opere — da piccola vetrina concentrata sulla pittura astratta europea a centro di riferimento per l'arte contemporanea. Si comincia con i primi artisti che confluirono nella galleria-museo aperta nel 1942 a New York da Peggy Guggenheim. Da una parte gli esponenti dell'avanguardia europea fuggiti a New York durante la guerra, come Yves Tanguy e Sebastian Matta; dall'altra la nuova generazione di pittori americani che includeva nomi come Mark Rothko, Jackson Pollock, Alexander Calder. Nasce con loro la New York School, che dà vita all'espressionismo astratto o action painting, dove si percepisce sia l'influenza di surrealisti, cubisti e simbolisti, sia il nuovo interesse per i murales messicani e l'arte dei nativi americani. Nelle prime due sale del Palaexpo ecco la Costellazione di Calder, uno «stabile» realizzato nel 1943 con forme astratte in legno intagliate e levigate, poiché il metallo laminato che l'artista usava di solito per questi lavori scarseggiava durante la guerra. Ci sono le opere di Rothko che passa in quegli anni dalle figure archetipe alle celebri campiture con sovrapposizioni di colore puro. E quelle di Pollock che alterna le pennellate istintive alle famose gocciolature. Ci sono le composizioni di Willem de Kooning; la monumentale tela di Robert Motherwell che commemora la guerra civile spagnola con immense ombre nere; il dipinto di Arshile Gorky, in cui le unità astratte fluttuanti sullo sfondo indefinito fanno riferimento a Mirò e al tempo stesso anticipano i temi dell'espressionismo.
Nella terza sala si volta di colpo pagina. Il groviglio delle pennellate e il concerto dei toni fangosi lasciano il posto a un'esplosione di colori puri e alla nettezza geometrica della composizione. Avanzano gli anni Sessanta e questa nuova tendenza di arte astratta sembra nascere da una ventata gioiosa e piena di energia. Risplendono le monocromie di Ellsworth Kelly, le Stripes di Morris Louis, i poligoni irregolari di Frank Stella, la Canzone d'aprile di Kenneth Noland, la Lunga Marcia di Jack Youngerman. Ed è subito pop art. La cultura del consumo, rinvigorita dalla rapida crescita economica, entra nell'immaginario degli artisti, che cercano ispirazione nell'universo iconografico della pubblicità, della televisione, del fumetto. Nel salone centrale del Palaexpo ecco il cane ringhiante di Roy Lichtenstein, l'Orange Disaster in cui Andy Warhol replica per quindici volte l'immagine della sedia elettrica, il pannello lungo dieci metri di Robert Rauschenberg, con la chiatta che trasporta camion e nuvole, atleti e zanzare, radar e autostrade e la Venere allo specchio di Velázquez.
Parallelamente all'universo ridondante della pop art si sviluppano quelli del minimalismo, del post-minimalismo e dell'arte concettuale, contraddistinti da forme geometriche elementari ottenute da materiali industriali. Come le gomme vulcanizzate di Richard Serra, gli allumini anodizzati di Donald Judd, le lastre di rame di Carl Andre, i feltri di Robert Morris, le luci al neon di Dan Flavin. Nell'ultima sala appare la pittura fotorealista, una delle eredità più importanti della pop art, che però non trasmette messaggi ironici o dissacranti, ma accentua la neutralità meccanica della ripresa fotografica. Come Chuck Close, presente in mostra con il suo celebre Stanley, dove trasforma la foto di un uomo incontrato sulla spiaggia in un dipinto monumentale, composto da una rete di punti colorati che evocano Klimt, studiato da Close a metà anni Sessanta in occasione di una borsa di studio a Vienna.
Repubblica 5.2.12
Truffaut, le mie prigioni
Si arruola per una donna, diserta per un´altra donna Il diario dal carcere del regista da giovane
di Mario Serenellini
Non ancora ventenne il futuro autore di "Jules e Jim" si arruola per una delusione d´amore e per una sbandata d´amore diserta Finisce in carcere dove legge, prende appunti e riflette su Orson Welles, Bresson e Balzac . A ottant´anni dalla nascita, ecco i suoi pensieri inediti
François Truffaut viene arrestato per diserzione il 28 luglio 1951. Ha diciannove anni. «Mi hanno ricondotto in Germania in manette, mi hanno rapato a zero - confiderà - Sono stato in prigione, rinchiuso a due riprese nel manicomio di Andernach. Alla fine, hanno accettato di riformarmi con una motivazione non troppo onorevole per me: instabilità caratteriale». Tutto parte, come sempre nella vita o nel cinema di Truffaut, da un´impennata sanguigna, densa d´imprevisti: la decisione avventata per una delusione amorosa di anticipare di due anni, al 1950, il servizio di leva. Nato il 6 febbraio 1932, ottant´anni fa, è soltanto un diciottenne. «Volevo arruolarmi solo per due anni. Ma c´era la guerra d´Indocina, che andava così male che gli arruolamenti erano stati portati a un minimo di tre anni. E sono partito volontario per tre anni: il 27 dicembre», dirà poi in un´intervista.
T ruffaut pianifica la nuova tappa biografica: «Ho scelto la data della partenza in modo da trascorrere il veglione di Natale tra i civili e quello di Capodanno tra i militari, per un confronto: sono risultati entrambi sinistri». Anche il debutto sotto le armi è un tragico paradosso: «Avevo chiesto di entrare nel servizio cinematografico dell´esercito: mi sono ritrovato in un reggimento d´artiglieria nel nord della Germania». Un inizio-farsa, una Servitù e grandezza militare di Alfred de Vigny versione Antoine Doinel, l´alter ego in pellicola di Truffaut, il "doppio" spesso ironico della sua vita spericolata. «Lì, da artigliere, mi sono rovinato le orecchie, già danneggiate dall´infanzia: dopo, non potevo più sopportare la stereofonia, i locali notturni, i rumori troppo forti». Fin qui, tran tran: sei mesi di car, un po´ di manovre in Germania. Partenza per l´Indocina fissata per il 14 luglio 1951. Ma la Francia belligerante commette un primo errore con il suo "soldato Ryan": dopo avergli inflitto ogni vaccinazione possibile per l´Estremo Oriente, alla vigilia lo manda in Francia, per un´ultima esercitazione nel campo di Fréjus.
E Truffaut, strapentito del colpo di testa, docilmente sviato da un fortuito incontro tutto baci nello scompartimento del treno, non prende la coincidenza a Strasburgo, lasciandosi cullare in grembo alla nuova conquista, una tedeschina di nome Charlotte, fino a Parigi, «con soldi in tasca e, di nuovo, tanti film da vedere e nessuna voglia di rientrare». E infatti non rientra. Renitente, lo riprendono. Evade. Da renitente, diventa disertore. Dopo una settimana allo sbando, si rifugia da André Bazin, fondatore nell´aprile 1951 dei Cahiers du Cinéma e suo padre spirituale, che lo convince a uscire dalla clandestinità e a consegnarsi, il 28 luglio, alle autorità militari. Sarà lo stesso Bazin, con l´aiuto di amici comuni, Rivette e Genet, a smuovere mare e monti per salvare il giovane Truffaut da una spirale autodistruttiva: dopo l´immediata prigionia nella caserma Dupleix, il ricovero d´urgenza il 3 agosto per una crisi di sifilide all´Hôpital Villemin, una nuova diserzione, il 3 settembre, quando viene dimesso con l´ordine di raggiungere entro ventiquattr´ore il reggimento in Germania, un tentativo di suicidio e il viavai tra ospedale psichiatrico, carcere e caserme.
È all´Hôpital Villemin che Truffaut comincia a tenere un diario di prigionia (finora inedito, di cui vengono qui tradotti per la prima volta i primi appunti) che continuerà a redigere per tutto il 1951. L´«instabilità caratteriale» che lo fa finalmente riformare il 20 febbraio 1952 s´appiccicherà, nell´abituale staffetta vita-schermo, al suo "doppio" Jean-Pierre Léaud, reduce da mesi di carcere militare nel terzo film della saga Antoine Doinel, Baci rubati (1968). Ma è in Antoine et Colette, episodio de L´amore a vent´anni, realizzato cinquant´anni fa, all´indomani dell´uscita di Jules e Jim, che Truffaut svela la sventurata molla sentimentale all´origine della voragine militare: l´amore platonico per Liliane Litvin (più volte evocata nel diario di prigionia) divenuta Colette (l´allora diciassettenne Marie-France Pisier), incontrata alla Cinémathèque (sala concerti nel film) e ostinatamente assediata da un impacciato Truffaut (Léaud nel film).
È lei l´incolpevole responsabile della leva anticipata del suo corteggiatore, demoralizzato dall´inefficacia d´acrobatici trucchetti, come la goffa trovata - ricca però di premonizioni cinematografiche, da La finestra sul cortile a La signora della porta accanto - di affittare una stanza dirimpetto alla famiglia dell´amata. La reclusione non diventa digiuno dalle altre due passioni di Truffaut: la letteratura e il cinema. Non potendo vedere film, si concentra sulle letture, anche occasionali, riacceso d´entusiasmo per il «suo» Balzac o per Genet, nuovo amico, da cui ottiene l´abbonamento alle Série noire Gallimard.
Fin dai primi giorni, la camerata, subito trasformata in biblioteca di fortuna, si fa laboratorio letterario, esercizio delle armi della critica. Ma intanto il cinema lievita in quei giorni di libertà impedita, di visioni negate. È quel cinema, ancora invisibile, ma presto prorompente, che avrà come costante situazioni di prigionia (I 400 colpi), di libertà esule (Fahrenheit 451) o autoreclusa (L´ultimo metró): il cinema di Truffaut.
Repubblica 5.2.12
Sono nei guai per dei baci rubati"
di François Truffaut
Martedì 21 agosto 1951
Louis Jouvet è morto. Non lo amavo, perché non amava il cinema. Il cinema gli dava da vivere, eppure lui lo disprezzava; nelle sue interviste non perdeva mai occasione di dire che accettava di recitare nei film solo per risanare il disavanzo del suo teatro. La morte di Thilda Thamar mi colpirebbe di più. Genet, dopo Le serve, non voleva più dare una delle sue pièces a Jouvet e me lo immagino, beffardo, a guardare la sepoltura dalla finestra della sua camera del Terrass-Hôtel, che dà proprio sul cimitero di Montmartre. Ho appena letto Ursule Mirouët, uno dei Balzac più belli, lo metto alla pari de Il giglio della valle e de La duchessa di Langeais. Ho pianto più volte durante la lettura ed ero arrabbiato con Gide, così condiscendente con questo libro nel suo Diario limitandosi a far notare una contraddizione: «Savinien aveva dei begli occhi neri» e qualche pagina dopo: «Gli occhi azzurri di Savinien scintillavano».
Si tratta di quello che nel cinema si chiama «errore di raccordo» e prova semplicemente che Balzac lavorava velocemente come fa un regista. Nei suoi libri, Genet canta il male e lo esalta; descrive la bellezza del male più assoluto seguendo più o meno questa progressione: il furto, il furto abbietto, il delitto, il delitto a scopo di rapina, la pederastia, la prostituzione omosessuale, il tradimento degli amici, l´amore per gli sbirri (è l´"apice" de Il diario del ladro). Genet capovolge la società come un budino alla crema. Però è evidente che i traditori di Genet non sono gli individui peggiori del creato, a confronto delle carogne che perseguitano Ursule Mirouët.
Ursule Mirouët è una ragazza dolce e buona, adottata da un medico che le lascia in eredità tutto il suo patrimonio, ma la famiglia del defunto le porta via tutto approfittando del suo dolore. Fidanzata, vive in una stanza aspettando il suo matrimonio, ma uno dei parenti del dottore, quello che ha trafugato i titoli bancari ecc., fa in modo di costringerla a lasciare la città scrivendo sui muri di Nemours, la notte, delle calunnie che portano Ursule sull´orlo della morte. Gli eredi, coalizzati fra loro, sono i personaggi più ripugnanti che abbia mai incontrato in un libro, e Genet non riuscirebbe a farceli amare. I suoi personaggi si mettono ai margini della società e si insediano nella solitudine morale, quelli di Balzac apparentemente sono rispettabili: notai, commercianti, borghesi.
Mercoledì 22 agosto 1951
Ricevo una lettera da Charlotte, una giovane tedesca; l´ho conosciuta il mese scorso sul treno notturno. Venivo da Coblenza e avrei dovuto cambiare a Strasburgo, per dirigermi al campo di addestramento di Fréjus. Ho preferito dormire fra le sue braccia fino a Parigi, che non aveva mai visto. Purtroppo ho dovuto accompagnarla dalla Gare de l´Est alla Gare Saint-Lazare, perché l´aspettavano a Rouen. Ci siamo solamente baciati, lo scompartimento era buio ma pieno, baciati molto.
Non ho nulla da leggere, ho preso quello che ho trovato nella camerata, due libri recenti divertenti, ma che non avrebbero dovuto superare le duecento pagine ciascuno: Mon taxi et moi, di Alexandre Breffort, e Elle et lui di Jean Duché.
Ho scritto a Genet per chiedergli se conosce un buon avvocato e un buono psichiatra, ai Bazin che hanno lasciato Parigi per Venezia e a Liliane, senza la quale non mi sarei messo nei pasticci dopo tanti mesi.
Giovedì 23 agosto 1951
Un vecchio numero della Petite Illustration Théâtrale. Mio nonno e mia nonna hanno lavorato a lungo all´Illustration, non so che cosa facessero. Questo numero è dedicato a una pièce di Jerome K. Jerome, l´autore di Tre uomini in barca. Si intitola Il passagio nel retro del terzo piano: non sono riuscito ad appassionarmi.
Il festival di Venezia comincia oggi. La Francia presenta Barbablù di Christian Jacque, Ragazzo selvaggio di Delannoy (fosco intrallazzo e polemiche) e La nuit est mon royaume di Georges Lacombe. Selezione discutibile. I film francesi migliori saranno solo invitati: il documentario di Marc Allégret su Gide e soprattutto Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson.
C´è un film di Renoir girato in India, Il fiume, e un altro di Orson Welles girato in Marocco, Otello.
Ho letto senza molto trasporto Tutti gli uomini sono mortali di Simone de Beauvoir.
Nella via assolata, un cieco con la fisarmonica ha cantato una canzone in voga, molto graziosa: «Domino, Dominou/ le printemps chante en moi Dominique/ Domino, Dominou/ j´ai le cœur comme une boîte à musique» [Domino, Dominou/ la primavera canta in me, Dominique/ Domino, Dominou/ ho il cuore come una scatola musicale].
Siamo quattordici nella camerata e questo ha prodotto un effetto straordinario su tutti noi, una sensazione di euforia sentimentale e poi un rafforzamento della tristezza di essere rinchiusi.
Venerdì 24 agosto 1951
Dall´altro lato della strada, una ragazza che abbiamo notato. Ieri sera, un ragazzo la chiama dalla strada; lei scende e restano mezz´ora sotto il portico a fare non si sa bene cosa, poi lei risale in camera (avevamo spento la luce nella camerata, lei non sapeva che la stavamo guardando) e hop, si passa velocemente un fazzoletto sotto il vestito, tra le gambe, e poi si mette a dormire. Stamattina le abbiamo parlato, la guardia ci lasciava fare; si chiama Mado, ha diciassette anni e mezzo.
Ci ripromettiamo tutti di andarla a trovare quando usciremo.
Hearst, il magnate della stampa americana, è morto: è l´uomo che Orson Welles usò come modello per Quarto potere e che riuscì a bloccare il film e poi a boicottarlo. La sua ultima stravaganza: una bara a forma di cassaforte. Per me è come fosse una strizzata d´occhio a Welles: «Eh, di´ la verità! A questo non ci avevi pensato!».
Domenica 26 agosto 1951
Ho già letto i romanzi della Série noire [collana di romanzi polizieschi pubblicata da Gallimard, ndr]. Il migliore è A colpo sicuro di Paul Cain. Due pistolettate a ogni pagina, cadaveri ovunque. La fine è molto bella, inverosimile, molto complicata, mi fa pensare a un Cocteau, La bella e la bestia. Il gangster appoggia il revolver sulla schiena del suo avversario, ma nel frattempo una ragazza ubriaca gli pianta un rompighiaccio tra le scapole. Continuando a tenere il revolver puntato verso il suo rivale, l´eroe si toglie da solo il rompighiaccio con l´altra mano, facendo una «leggera smorfia», poi ammazza la ragazza a tallonate in faccia, rianima la donna che ama e che era svenuta di fronte a tanto orrore, preme il grilletto e uccide il suo avversario.
Quindi prende la donna per il braccio, arrivano alla macchina, lei prende il volante, si accorge che lui si sta dissanguando e va a sbattere contro un albero. Rimane uccisa sul colpo; lui guarda tutto questo, gira un po´ intorno alla macchina e muore un´ora più tardi. È molto lirico.
Il mio amico Niko è venuto a trovarmi. Non l´hanno lasciato entrare, ma ha lasciato il secondo tomo delle Opere di Genet e il libricino de Il giovane criminale, che mi è molto caro per via della dedica: «Per François Truffaut ecc».
Questa sera c´erano quattro ragazze da Mado, hanno ballato fra di loro e questo ci ha eccitati da morire; mi riprometto di fare grandi bagordi e rimpiango le occasioni che mi sono perso: Gisèle, la ragazza della Porte des Ternes, Odette C., che mi aveva scritto lettere allettanti, e soprattutto Geneviève, con cui mi sarei dovuto impegnare molto di più. Penso a lei costantemente e in questo modo evito di essere ossessionato da Liliane, che se ne frega altamente di me.
Ma sono tutti pensieri da carcerato, magari sarò castissimo.
Lunedì 27 agosto 1951
Una cartolina da Rivette. Leggo il secondo tomo di Genet, Nostra signora dei fiori, che mi piace molto, più che alla prima lettura.
Faccio credere al sottufficiale delle guardie che la mia ambizione era di entrare nella gendarmeria; lui mi dice che il mio livello di istruzione dovrebbe essere sufficiente.
Mercoledì 29 agosto 1951
Ho scritto oggi a Rivette, Aimée Alexandre, Geneviève, Genet e Bazin. Ho riletto con piacere ed emozione Il miracolo della rosa, e ho scritto subito a Genet per smentire le cose negative che avevo detto al riguardo. Per fortuna che se ne sbatte.
Ho letto anche un vecchio libro degli anni Trenta, Il terrore di Maurice Level. Facile ma ingegnoso. Un giornalista, testimone involontario di un omicidio, immagina di addossarsene la colpa per fare un reportage sensazionale sulle ultime ore di un criminale, ripercorre il suo arresto, il suo processo ecc. All´ultimo momento, pochi minuti prima che cali la ghigliottina, la verità esce fuori e tutto si sistema.
Sono scocciato perché l´altro sottufficiale, intrigato dalla copertina, mi ha preso Il giovane criminale e non me lo vuole restituire.
Giovedì 30 agosto 1951
Mi sono già stufato di tenere questo diario, ma continuo. Una lettera di Bazin, preoccupato perché non aveva mie notizie; gli ho risposto abbastanza sgarbatamente di non occuparsi più di me. Mi sono già pentito di questo malumore, del tutto ingiusto.
Ho recuperato Il giovane criminale. Ho letto Pompe funebri tutto di filato e sono rimasto molto deluso da questa prima lettura. Ho molto amato invece la pièce di T. S. Eliot Assassinio nella cattedrale. Ho gli occhi stanchi. Non sono più agli arresti, ma consegnato: visite la domenica.
Venerdì 31 agosto 1951
Una lettera di Genet, parte per la Germania e ironizza un po´: «L´esercito comincia a capire la cantonata che ha preso quando l´ha accettata…». Mi farà portare qualche altro libro da qualcuno della Gallimard, e in particolare le Situazioni. Sento che vorrebbe farmi amare Sartre, che lui ammira molto: «Pensavo che i libri della Série noire le sarebbero piaciuti. Tanto meglio che non le siano piaciuti: significa che non è un intellettuale che si atteggia».
Ho letto un libro abbastanza anonimo, Piccola storia degli ebrei, di Jérôme e Jean Tharaud. Ho tentato di scrivere un piccolo testo a proposito di una madre e di un figlio che a turno, e naturalmente senza mettersi d´accordo, rubano dei soldi dalle tasche del padre (e del marito). I sospetti fra di loro, niente di più.
Domenica 2 settembre 1951
Liliane è venuta a trovarmi, purtroppo in contemporanea con Rivette e Malandry, che non hanno fatto altro che parlare di film e rimbalzarsi nomi, e date e titoli. Non si rendevano conto che mi sto allontanando da tutto questo e che il cinema mi interessa sempre di meno.
Traduzione Fabio Galimberti
© Laura Truffaut, Eva Truffaut, Joséphine Truffaut
Repubblica 5.2.12
L’incontro
Roberto Herlitzka
di Rodolfo Di Giammarco
Nel rapporto con l´età mi sono coniato un motto: il passato è presente, il presente è assente, il futuro è passato
In quel cognome che è una sfida alla popolarità ci sono le sue origini ceche ed ebraiche, e quel suo modo severo di fare teatro (da Ronconi a Stein) e cinema (da Montaldo a Bellocchio) "È vero, in effetti ho una inclinazione al tormento, bilanciata però da una caustica voglia di divertirmi". Talvolta bevendo, scrivendo racconti scabrosi o facendo il verso a se stesso in tv
È messo splendidamente a nudo, nel vero senso del termine, dal bellissimo film d´autore (quasi muto, ma con immagini che parlano) Sette opere di misericordia dei gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio, quell´attore raro, geniale, austero e pungente che a teatro e nel cinema è Roberto Herlitzka accetta anche di buon grado di spogliare fino alla più irta e impronunciabile radice il suo cognome (che si pronuncia con l´accento sulla "i"), ricavandone un´epopea biografica. Il ritratto comincia da qui. «Sa che nella città d´origine della mia famiglia, a Brno, la versione originale cecoslovacca del nome prevedeva una sola vocale, e si scriveva Hrdlcka? Fu poi austriacizzata perché la Boemia faceva parte dell´impero austriaco. Ed è un cognome che è un diminutivo di allodola o tortora e che può essere ebraico e non esserlo e nel mio caso lo è. Mio padre e mia madre (lei era cattolica) si sono separati di comune accordo poco dopo la mia nascita anche perché lui nel 1938 è dovuto scappare da Torino per via del nome e dell´identità a seguito delle leggi razziali, e io e mamma ci siamo nel frattempo coperti dietro il cognome di lei, Berruti, finendo come sfollati a Cogne e riacquistando il cognome Herlitzka solo dopo la guerra. Più tardi papà è tornato dall´Argentina, con una nuova moglie e con una bambina, Laura, mia sorella, mantenendo sempre un ottimo rapporto con mia madre. E dato che c´era stato anche un annullamento della Sacra Rota lei si è risposata dopo che io a diciotto anni sono venuto via da Torino per frequentare l´Accademia nazionale d´arte drammatica "Silvio D´Amico" a Roma, ospite di mio padre. E questa bella, affettuosa saga famigliare allargata è venuta meno solo con le scomparse di lei, ventidue anni fa, e di lui, tredici anni fa».
Non ci sono spiacevoli odissee domestiche, dietro quel volto scavato, quella maschera dura e pura, quella severità secca che hanno determinato la non commercialità di questo artista e, al contrario, le sue alte quotazioni nella scena e nel cinema dove contano le idee, con sodalizi tra cui quelli con Orazio Costa, Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Antonio Calenda, Peter Stein, Gabriele Lavia, Ruggero Cappuccio, Lina Wertmüller o Teresa Pedroni, ed esperienze in sempre più numerosi film con registi che vanno da Montaldo a Bellocchio. «In effetti ho una predisposizione al dolore, al tormento, ma è un´indole bilanciata da una caustica voglia di divertirmi, tanto che qualche volta arrivo a dire che sono un attore fondamentalmente comico. Ammetto, per esempio, che per molto tempo mi sono andato a cercare la piacevolezza della vita nel bere, perdendo i freni inibitori nell´ubriacatura, libertà che però non mi sono più permesso perché dopo era frequente che stessi male. In fondo, senza che io mi paragoni a lui, anche Kafka era un buontempone, e lo stesso Leopardi».
Classe 1937, Herlitzka a Torino aveva fatto quattro esami a Lettere, quando è colpito da un´operina del Settecento cui ha la ventura d´assistere. Soprattutto s´innamora della scena finale dei ringraziamenti degli attori («Io non ho mai saputo ringraziare bene, agli applausi») e gli scatta qualcosa dentro, vuole esercitarsi e diplomarsi in accademia, a Roma, meritandosi la stima totale di Orazio Costa, che lo avvia al palcoscenico: «Ero un pazzoide, e seguendo alla lettera il suo metodo mimico mi accorsi con imbarazzo che alla fine imitavo proprio lui, davvero un eccesso». Da allora a oggi ha lavorato sempre, per un traguardo di serietà più che di popolarità. Anche se... «Quando nel 1970 ho fatto per la televisione lo sceneggiato in sei puntate Un certo Harry Brent, avendo per antagonista Alberto Lupo ho conosciuto una gran notorietà, ricevevo lettere, telefonate, applausi al ristorante, e la cosa si è ripetuta per una serie sulla Guardia di finanza, con ragazzini e ragazzine che mi chiedevano l´autografo. Ma la cosa passò in fretta. Eppure confesso che a me fanno piacere queste cose. Tant´è che di recente la mia partecipazione a una puntata di Boris, dove faccio il grande attore cui irriferibilmente viene raccomandato di recitare "male", mi ha restituito il conforto d´un seguito giovanile che nemmeno l´Amleto. Io faccio l´attore per narcisismo, per comunicare e colpire. E malgrado tutto, a un certo punto ho avuto un dubbio, se lasciare la recitazione per la scrittura». Eccolo, l´Herlitzka intellettuale, contemplativo, letterato. «Ma sì, scrivere m´ha sempre attratto molto. In fondo avevo messo nero su bianco la mia fantasia fin da piccolo, buttando giù poesie e tutt´oggi compongo sonetti perché ho familiarità coi versi, le rime mi emozionano, mi fanno l´effetto di un alcolico. Nel 2001 mi sono deciso a pubblicare a mie spese un volume di poesie intitolato Voci? di cui mi sono rimaste un bel po´ di copie. Il contenuto è fatto di temi soggettivi, sensazioni, visioni, constatazioni. La vegetazione di prati e colline vista da un treno m´affascina come una festa che preluda a un disastro». S´è anche dedicato, per iscritto, a un tema scabroso. «Ho composto un unico racconto, Una fanciulla illibata, quando avevo appreso ciò che era avvenuto in qualche cimitero dove i becchini prima di seppellire certe giovani fanciulle morte ancora vergini le stupravano nel modo più macabro». Ma la scrittura ricorre, con Herlitzka, anche sul filo dei sogni. «La mia attività più costante, solo di recente un po´ venuta meno, è trascrivere subito i sogni che faccio di notte, ne ho già pubblicato un libro, Ipnodrammi». Non bastasse questa produzione, ci sono pure gli appunti personali. «Sì, ho dei quaderni, dei diari che ho smesso di compilare solo qualche anno fa, dove accumulavo gli sfoghi per amori infelici, per insoddisfazioni o frustrazioni subìte stando in compagnia di gente diversa da me, che non mi capiva». Un uomo di teatro come lui avrà quindi pure un teatro privato dell´esistenza, un teatro degli affetti, delle affinità sicure. «La persona che più sento vicina è mia moglie Chiara, siamo sposati dal 1968. Lei è anche il mio pubblico più dedito, le leggo sempre quello che scrivo e le dico quello che sto per recitare, e il suo parere è profondamente importante. Poi ci sono rari amici e amiche. Maria Teresa Bax, Paola Mannoni (la mia ragazza ai tempi dell´accademia), Stefano Santospago e altri che non vedo mai come Giorgio Pressburger, Ruggero Cappuccio, Nadia Baldi, Claudio Di Palma».
Come un autorevole e autoironico Re Lear del mondo dello spettacolo italiano compirà settantacinque anni a ottobre e viene naturale chiedere quale sia, anche in considerazione del nudo artistico, il suo rapporto con l´età e col corpo. «Non lo trovo né un limite né un privilegio. Mi sono coniato un motto: "il passato è presente, il presente è assente, il futuro è passato". Col fisico ho un rapporto di cura, faccio qualche esercizio, ho il terrore di un peggioramento estetico violento e le rughe che ho mi bastano e avanzano. Non è la prima volta che sul grande schermo appaio nudo: è già successo in È più facile per un cammello... di Valeria Bruni Tedeschi dove ero il padre di lei appena morto e in una scena tagliata di Aria di Valerio D´Annunzio». Un capitolo a parte sarebbe costituito dai transfert femminili del corpo di Herlitzka con lui donna in Lasciami andare, madre di Lina Wertmüller, nel mai uscito Grottesco di Rubino Rubini, ne La grazia umana di Antonio Nediani, o nelle sublimazioni di Ofelia in ExAmleto e di Desdemona in ExOtello, due lavori in cui dice da solo tutte le battute clou.
Ma più che preoccuparsi di gender e di fattezze anatomiche uno come lui ha a cuore il corpus culturale. «La cultura è stata colpita, fino a qualche tempo fa addirittura disprezzata dal governo. Non è detto che poi non sappia reagire, e comunque il pericolo maggiore è che venga costretta ad adeguarsi al potere». Sull´arte e sugli artisti ha idee chiare. «Esemplari per me erano Ricci, Randone, Salerno, Scaccia e naturalmente Gassman, per ricordare solo alcuni degli scomparsi. E oggi penso a Lavia e alla Degli Esposti». Certezze anche negli autori di riferimento. «Shakespeare, Cechov, Beckett, Bernhard, i tragici greci». Consigli per i drammaturghi di oggi? «Leggo molti copioni che mi mandano. Ho un´obiezione da fare: il testo è troppo spesso considerato narrazione, invece attraverso la parola si deve rappresentare anche la vita. Anche le pause sono parole».
Ha molto da fare col cinema adesso. «Parteciperò al film La bella addormentata di Bellocchio. C´è un progetto su Ferramonti, un campo di concentramento italiano dal volto umano. Lavorerò ne Il Rosso e il Blu di Giuseppe Piccioni. Per il teatro Ruggero Cappuccio sta abbozzando una riduzione del Soccombente di Bernhard». Lo scenario delle cose che lo disturbano è altrettanto fitto. «Le mancanze di rispetto, le ignoranze proterve, le volgarità, le stupidità, i fascismi, i razzismi. Invece non sono in dissidio ideologico con i personaggi sciagurati: se scritti bene».
Repubblica 5.2.12
Il critico d’arte, impostore di professione
Poco importa l’oggetto è la sua esposizione che lo fa esistere. Quest’arte fittizia mi ha allontanato dalla "professione"
Nell’antichità e fino al ‘700 vi erano giudici incaricati di verificare che le opere fossero conformi a precise norme iconografiche
di Jean Clair
rovo sempre un sentimento di disagio quando mi si applica la qualifica di "critico d´arte". L´origine del termine è tra le più incerte, il suo impiego è tra i più vaghi, la sua serietà tra le più contestate. Poiché requisito dell´arte è il silenzio – Poussin diceva che «la pittura concerne le cose mute» – il critico d´arte non potrà che esserne la protesi, una sorta di ventriloquo dell´arte. L´etimologia della parola sembra, in verità, suffragare questa interpretazione. È un termine che rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l´arte. In ogni caso è in questa prospettiva che l´attività "critica" acquista un senso.
Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un´origine medica e si riferirebbe a quel momento – krisis – dell´evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo. E critico è il medico che sa ravvisare quel momento, influenzando così la prognosi. La critica d´arte come attività specifica compare, in effetti, in un momento in cui, dopo tanto risplendere, l´arte comincia ad essere preda della malattia o di ciò che Manet – che ne fu uno spettatore consapevole – chiamerà la sua "decrepitudine". L´attività critica diventa un rimedio a questo male. Il critico è, dunque, una invenzione recente, che risale all´incirca al XVIII secolo. Non vi era crisi nell´arte arte antica, nell´arte d´Antico Regime. Non vi erano dei "critici" ma dei giudici, incaricati di verificare la conformità delle opere a dei canoni, a delle norme invariabili, a dei programmi iconografici precisi. Non si critica la muscolatura di un eroe la cui figura è conforme al canone di Policleto o di Vitruvio. Non si critica la rappresentazione di una Deposizione dipinta da un artista per un convento. Si verifica se esse siano conformi a dei programmi, dei trattati di proporzione, dei dogmi religiosi, dei paradigmi.
Credo che sia proprio nel momento in cui il corpo dell´arte si ammala, che il critico d´arte entra in scena. Pensiamo a Diderot e alle sue critiche dei Salons, scritte quando le opere d´arte non rispondono più a una committenza pubblica, religiosa o principesca, ma sono l´espressione di un gusto individuale in vista di un pubblico profano. È anche il momento in cui la nozione di "Belle Arti", rispondente a regole, canoni, teorie, paradigmi, scompare a profitto de "l´Arte" tout court, qualità propria ed inimitabile di un individuo che si vuole creatore e si crede un genio. È allora che, a partire dal 1750, in corrispondenza con questa scomparsa, nasce l´Estetica, una nuova scienza che si accinge a prendere in esame l´infinita varietà delle sensazioni e la diversità delle sensibilità corporee, senza più tener conto dei canoni antichi. Fintanto che l´arte era destinata agli Dei e ai Potenti, la valutazione critica – fenomeno umano, troppo umano – non aveva alcun senso. È quando l´arte diventa oggetto di diletto per dei privati che vediamo l´emergere di una critica privata e di quel bizzarro mestiere – a malapena un mestiere – a cui andrà il nome di critico d´arte.
Fin dalla sua origine, tuttavia, l´arte è sempre stata sottomessa alla parola. La formula di Cicerone, docere, delectare, movere, che definisce l´arte della parola, la retorica, verrà presto estesa all´arte plastica, l´arte delle forme e dei colori, anche essa capace di eloquenza e, dunque, di "ben dire". Nicolas Poussin – ancora lui! – farà propria la formula: docere et delectare. Colui che parla dell´arte, l´oratore, il critico, sarebbe, in fondo, la voce che spiega e che forse impartisce direttive alle voci del silenzio, alle voci delle Belle Arti. Non ci dimentichiamo che Fidia stesso fu un oratore e che, in musica, l´Offerta musicale di Bach viene composta sul filo della lettura dell´Istituzione oratoria di Quintiliano. Quel che bisogna conservare, e non criticare, è questo dialogo tra le arti – la pittura, la musica, l´architettura, la retorica – perché, pur rispondendo a discipline diverse, esse obbediscono tutte alla stessa armonia. Eppure il dialogo è venuto meno. Il tempo in cui un´unica e uguale armonia dettava le leggi di un quadro, di una composizione musicale, di un´architettura o di un corpo umano si è concluso. Nato da questo dialogo spezzato, un nuovo regime si instaura a partire dal momento in cui il critico d´arte si fa carico della responsabilità che fino ad allora era stata di pertinenza dello scrittore, del musicista, del poeta, per diventare il ventriloquo di un´arte che, privata del suo rigore retorico, è più muta e confusa che mai. E – peggio ancora – per imporsi come una sorta di spettro che viene ad abitare il corpo muto della pittura, fino a dirigerne dall´interno gesti e atti. Una critica d´arte? Piuttosto un magistero sconfinante con l´ossessione spiritica.
Se i programmi iconografici o le regole estetiche scompaiono è allora a profitto di programmi politici, presto chiamati manifesti. Il critico non può che mettersi al servizio di un programma, diventa un portavoce, meglio ancora un profeta che apre la via e che battezza: la sua missione non è più quella di difendere un canone ma una causa. Da consigliere delle corti e dei salotti a eminenza grigia del regime il passo sarà breve. Se la politica si è estetizzata, presto sarà l´estetica a politicizzarsi. I nuovi "critici" saranno Bottai o Lounatcharski, ma presto anche Jdanov o Goebbels (egli stesso scrittore), al servizio di despoti capaci di ridurvi al silenzio, all´ergastolo. La critica non ha più posto nella divulgazione di un´arte che è ridiventata un´arte ufficiale e di culto. Il fatto che ogni gesto sia codificato, ogni attitudine conforme, ogni sorriso sottoposto a verifica, ma anche ogni colore vagliato esclude l´intervento di qualsivoglia esercizio "critico". Questo va da sé. Ma, a rischio di apparire paradossali e provocatori, andiamo oltre, in direzione dell´arte "borghese" favorevole alla critica "formalista": quale critico avrebbe osato, negli anni ´30, criticare le forme dell´avanguardia, che nel frattempo erano diventate delle formule? Chi avrebbe osato criticare la doxa del cubismo, o le prescrizioni maniacali degli adepti dell´astrazione geometrica alla Mondrian? Una volta di più, il critico non era un compagno di strada, ma colui che forniva le formule, i programmi. Impone le parole d´ordine, le formule, i manifesti e all´artista di ubbidire. L´impostura si spingerà ancora più lontano quando, negli anni ´60, finito da tempo il programma utopico delle "avanguardie", si continuerà nondimeno a usare il termine "avanguardia", a servirsene come di un marchio di fabbrica, di uno slogan di cui il critico diventa allora l´uomo sandwich.
Più tardi, negli anni ´90, quando l´impostura divenne ancora più evidente, si inventò il termine di "arte contemporanea" per distinguere colui che nella attuale produzione emergeva munito di una qualità che lo rendeva – lui e lui solo – capace di garantire della qualità della "contemporaneità" come di un grado superiore di presenza al momento presente, e che fa sì che Jeff Koons sia più "contemporaneo" di Botero – quando in realtà sono entrambi ugualmente kitsch. Il critico ridiventò allora il personaggio centrale di questa manipolazione. C´era bisogno di una operazione singolare, di una sorta di catalisi perché la sua parola assumesse la forza di un dogma. La catalisi la si ottiene aggiungendo ai suoi lati due figure essenziali: lo storico d´arte e il mercante. Il mercante è quello che fornisce la mercanzia, lo storico d´arte colui che ne attesta la provenienza. Al critico non resterà più che autentificarne la qualità e tentare di descriverla con le sue parole. Se parlo con tanta convinzione di questo processo è perché io stesso ne ho fatto parte. Non sono più un critico d´arte da molto tempo, ma lo sono stato quanto basta per avere la misura dei limiti di questo strano mestiere.
Nel 1970 creai, poi diressi per quattro anni, una rivista di avanguardia, Chroniques de L´Art Vivant. Assai prima di riviste come Art Press o Teknikart, che oggi danno il "la" in fatto di mode estetiche, L´Art Vivant fu la prima a lanciare in Francia la passione dell´avanguardia. Vi apparvero i primi articoli su artisti, allora pressoché sconosciuti, come Boltanski e Buren – ne fui l´autore – e sulle prime stelle della Scuola minimalista americana come David Judd o Robert Ryman. Vi pubblicammo anche le prime interviste a Joseph Beuys e un numero speciale consacrato agli artisti dissidenti dell´Unione Sovietica, che mi valsero una convocazione minacciosa dell´Ambasciatore dell´Urss a Parigi. Nel 1974 misi fine a questa esperienza. Avevo sperimentato l´impostura che poteva rappresentare una pubblicazione consacrata a dei movimenti così detti d´avanguardia. Avevo visto com´era possibile, nel giro di sei, otto mesi, lanciare sul mercato dell´arte nomi o prodotti. La condizione era quella di riuscire a creare quella triade miracolosa di cui ho parlato prima: mettere d´accordo fra di loro per osannare lo stesso artista, un conservatore di museo, tutto eccitato di riscaldarsi ai fuochi dell´attualità, uno storico d´arte, ugualmente felice di lasciare i suoi studi per riscaldarsi al calore degli atelier dei giovani creatori, un giovane critico ambizioso e naturalmente un mercante per aiutare, sul piano materiale, questa trinità a rivelare al profano i misteri dell´Avanguardia… Potei inoltre verificare, come aveva mostrato McLuhan, che il supporto, il medium, diventava il messaggio. Poco importava l´oggetto: era la sua esposizione, la sua messa in valore, il modo di fotografarlo, le parole per descriverlo che lo facevano esistere, non il suo valore intrinseco. Questa esperienza delle arti fittizie e dei mercati ingannevoli mi allontanò per sempre dalla critica. Vi acquistai una certezza: che la storia dell´arte moderna e contemporanea è fatta di cliché – nel senso quasi tecnico del termine – e che era venuto il momento di scriverla.
Intrapresi questa riscrittura in due modi o su due scale. Intendevo fare vedere che la concatenazione delle scuole e dei movimenti d´avanguardia era una illusione retrospettiva di cui bisognava liberarsi. Così ideai due mostre che mi valsero la reputazione di reazionario o di revisionista. Nei Realismi tra le due guerre del 1981 (Centre Pompidou), cercai di smentire la doxa secondo cui l´arte tra le due guerre aveva segnato il trionfo dell´astrattismo e l´inizio del primato dell´arte americana. In realtà, tra le due guerre, dalla "Neue Sachlichkeit" tedesca ai "Valori Plastici", si era fatto ritorno al soggetto, al classicismo e alla forma. E nel 1995, per il centenario della Biennale di Venezia, tentai ugualmente, con la mostra Identità-Alterità, di dimostrare che l´arte del XX secolo aveva segnato il trionfo del ritratto. Al contempo le mie curiosità sull´arte di oggi mi spinsero a cercare degli artisti viventi il cui genio potesse corrispondere a questa storia rivisitata di cui cercavo di riscrivere le tappe. Si trattava ancora di critica? Sì se, come abbiamo visto, si intende con ciò l´arte del terapeuta che formula una diagnosi. O ciò che Kant aveva definito come critica in relazione alla Ragion pura e da cui noi non avremmo mai dovuto scostarci: una rivoluzione copernicana del nostro modo di comprendere il mondo a prescindere dalle mode e dai capricci dei nostri sensi.
(Traduzione di Benedetta Craveri)
l’Unità 5.2.12
Il fallimento di un sindaco
di Pietro Spataro
Più che un bollettino dell’emergenza è stato un bollettino della disfatta. Una disfatta totale per una città che ha vissuto ventiquattro intollerabili ore di incubo. Abbandonati in strada, prigionieri nelle auto in coda, senza mezzi pubblici, i cittadini della Capitale d’Italia sono stati involontari attori di un film da incubo. E il regista è stato ancora lui: Gianni Alemanno.
Il quale ha replicato, perseverando, i gravi errori già visti in passato: solo tre mesi fa fu la pioggia a mettere in ginocchio la città. Per questo oggi, più di allora, suonano ridicole e inaccettabili le piccole polemiche e le misere giustificazioni di un sindaco che è incapace persino di un sussulto di dignità davanti al disastro.
Sepolta sotto la neve, Roma è un altro emblema della debacle di una destra senza cultura di governo, un po’ fanfarona e tutta “chiacchiere e distintivo”, interessata a inutili guerre ideologiche e per nulla alla soluzione dei problemi. Più propensa a un finto decisionismo mediatico che all’oscuro lavoro che spetta a un amministratore serio. Alemanno ha dimostrato il fallimento di un’esperienza di governo che doveva “salvare Roma dalla sinistra” e proiettarla in un futuro di serenità e di grandezza e che invece l’ha ridotta a una città ferita, piegata, insicura e impaurita. Vittima dell’anarchismo di chi la governa, prigioniera di pericolosi egoismi sociali e di vendette razziali, è diventata una città frantumata in tante cittadelle e sempre più lontana dalle capitali europee. Un drammatico declino, nel corso del quale è ritornata persino a comandare la criminalità più agguerrita che sta riportando Roma ai giorni bui delle guerre degli anni Settanta.
La destra in Italia, con Alemanno come con Berlusconi, ha dimostrato in questi anni la propria inconsistenza di classe dirigente. Travolta dal populismo e dall’ideologia di un uomo solo al comando, ha fallito proprio nella sua capacità di governo. Non ha saputo farsi interprete dell’interesse generale, né ha saputo dialogare con le rappresentanze sociali, ha puntato sulla divisione della società in corporazioni e trasformato i cittadini in sudditi. Si è fatta guidare da un feroce spirito di vendetta e, sulla base del binomio amico-nemico, ha ridotto le amministrazioni a un bivacco di fedelissimi incapaci. È per questi motivi che, come il Cavaliere è stato travolto dal disastro economico e dalla sua pessima credibilità internazionale, Alemanno viene affondato dalla tragedia di una città male amministrata e dal tramonto della fiducia dei suoi cittadini. E quando un’intera città non si fida più e a stento trattiene la rabbia e l’indignazione, per un sindaco è il segnale del fine corsa.
Repubblica 5.2.12
Il sindaco inconsapevole
di Dario Cresto-Dina
Non sarà un grande sindaco, si perdoni l´eufemismo, e purtroppo in tal senso di indizi ne abbiamo ormai accumulati molteplici, ma non si può non riconoscere a Alemanno il talento di una straordinaria e chissà quanto involontaria comicità. Gianni Alemanno è un comico senza sorriso, un Buster Keaton alla vaccinara ma più dolente e triste.
Per quel non so che di vagamente arrogante e ottuso proprio del suo guardare di sottecchi. Ieri, nel tentativo patetico e infantile di rifugiarsi in un alibi assurdo, ha scaricato la responsabilità della figuraccia mondiale per il clamoroso fallimento del piano antineve – una macchina per altro neppure mai avviata – sui bollettini della Protezione civile e le previsioni meteo, rei a suo giudizio di non averlo messo in guardia per tempo sulla eccezionalità delle precipitazioni. Forse avrebbero dovuto avvisarlo già lo scorso Ferragosto. Sarebbe bastato? Ne dubitiamo.
Insomma, Alemanno o scherza, o la sua impudenza ha superato l´ultimo confine del principio di irrealtà o il sindaco deve avere qualche conto ideologico in sospeso con i meteorologi. Che siano tutti comunisti? Non potendo risolvere il contenzioso a manganellate, il sindaco si metta l´animo in pace. Ammetta di avere ancora una volta sbagliato. Gli esperti avevano diffuso l´allarme già all´inizio della settimana. Lo testimoniano i resoconti dei giornali, delle tv e i siti Internet. Un vaticinio scientifico di precisione quasi incredibile, tanto che fino ai primi fiocchi di venerdì mattina, riconosciamolo, molti tra di noi avevano manifestato scetticismo. Esagerano, ci dicevamo, per quel vizio indigeno di teatralità di un paese appassionato di catastrofi. Ma quali trenta centimetri in una sola notte su Roma, male che vada si tratterà di una spolverata, neve mista a pioggia che si farà fango in un batter di ciglia. Tuttavia, sotto sotto, si stava all´erta. Tutti, non Alemanno. Lui, pacifico nella sua sicumera, rimaneva fedele al suo motto: arrangiatevi. Lascio le scuole aperte, tocca a voi decidere se mandarvi o no i figli. Restate inchiodati di traverso con l´auto lungo via del Tritone? Mettete le catene, con calma. Preferireste evitare di sfracellarvi sul pavè con lo scooter? Andate a piedi. E se non volete rischiare di rompervi un femore sul marciapiede portatevi appresso un badile. Adesso, infatti, distribuisce pale. Lo faceva pure Mussolini. Che diamine, spetterà mica al Comune farvi da balia nelle incombenze quotidiane.
Così ieri mattina alle sette Roma era bellissima, silenziosa, struggente e dolorosa come in una lettera di Leopardi o nelle descrizioni di Michelangelo Antonioni. Un bowling sul Tevere. Tutto scivolava dentro la sua monumentale e imbiancata rotondità. Una ragazza bionda in body verde correva e sbuffava vapore acqueo in via del Corso, un giapponese intirizzito e commosso si fotografava sotto l´Altare della Patria, al Teatro di Marcello un ragazzo con la Punto prigioniero di un deserto bianco pietiva un consiglio: mo´ ´ndo metto ´ste catene, sulle rote davanti o su quelle de dietro? I rari lampeggianti azzurri di carabinieri e vigili urbani sfilavano impotenti, con aria di scusa. Eppure nel silenzio qualcosa stonava. C´era troppo silenzio nel silenzio della neve. Non il clangore di uno spazzaneve, non il vociare faticoso e allegro di una squadra di spalatori, non la pioggia ruvida sull´asfalto di un camion spargisale. Non un taxi di pronto soccorso, alla faccia della rivolta contro la liberalizzazione delle licenze. Chilometri e chilometri e chilometri di nulla. La città più bella del mondo abbandonata a se stessa. Tragicamente e comicamente. Costretta a scegliere tra l´abdicare alla dignità di grande capitale e l´arrangiarsi, che oggi non è più un´arte. Ma se dobbiamo arrangiarci, che bisogno abbiamo di un sindaco, viene da domandarsi. E di un sindaco come questo. Se lo chieda anche lei, gentile signor Alemanno, quando finirà la caciara. Ci rifletta su.