venerdì 3 febbraio 2012

l’Unità 3.2.12
Crisi della politica. Bisogna aprire subito un dialogo più alto e più serio con la gente perché è in gioco la democrazia
Ora il Pd reagisca
di Alfredo Reichlin


Che cosa aspetta il Pd ad aprire con la gente un dialogo più alto e più serio sulla crisi della politica? La crisi è molto grave. I corrotti ci sono, ma la classe politica non è una banda di ladri. Perciò va benissimo espellere le «mele marce» e deferire gli indagati alla commissione di garanzia. Ma ha ragione l’Unità.
La discussione che a noi spetta aprire deve riguardare il problema del perché la crisi sia così profonda e rischia di sfociare nel dramma di una democrazia malata e impotente. E quindi deve riguardare il problema della sua riforma. Questo è il nostro compito e il nostro dovere.
Non possiamo più accettare che di noi si parli solo per dire che il Pd «non esiste», «non parla», «non sa cosa vuole». Altroché se esiste. Con tutti i suoi limiti esso rappresenta (forse per caso?) il solo perno solido dell’operazione «salva Italia». Io ne ho viste tante nella mia lunga vita. Ma non ricordo una guerra feroce come questa. Sento che la democrazia è in pericolo. Intendendo per democrazia, ciò che consenta alla gente non solo di votare e di vedere i dibattiti in tv, ma di partecipare alla vita statale attraverso i suoi organismi intermedi, i suoi partiti. Perciò è così importante riformare i partiti e cacciare i corrotti. Ma bisogna anche sapere a che gioco si sta giocando. La posta è altissima. Cosa c’è dopo il governo Monti? Si può affermare una nuova classe dirigente o, sia pure in forme nuove, resta l’Italia di sempre? I poveracci pagheranno il conto e restano al comando quelle forze, quei mondi e quei poteri forti responsabili di aver consegnato l’Italia a Berlusconi e che in tutti questi anni gli hanno consentito di ridurla in queste condizioni: un paese sull’orlo della catastrofe, reso impotente di fronte ai saccheggi dell’oligarchia finanziaria e per di più irriso in tutta Europa e nel mondo. Qui sta il cuore dello scontro. Adesso nessuno può più negare la gravità della crisi. Il problema allora diventa quello di contro chi indirizzare la protesta. Contro la sinistra? Fino a un certo punto. Del resto chi è più di sinistra di Tremonti? In realtà contro il Pd. Cioè contro quella forza che, con tutti i suoi limiti, è la sola che potrebbe prendere realmente in mano la guida del Paese e riformarlo rendendolo più giusto.
Avverto subito che non sto cercando giustificazioni per il mio partito. Anzi. Io penso che noi stiamo sottovalutando il peso e la gravità di ciò che accade. Non mi consolano i buoni sondaggi. Al di là di essi esiste altroché un problema enorme di distacco della gente dalla democrazia dei partiti. Ma forse non ci rendiamo conto che non si tratta del solito, vecchio anarchismo italiano. C’è ben altro. C’è un grande vuoto. C’è la debolezza di una risposta democratica ai nuovi, grandi interrogativi, perfino esistenziali, posti da quella che non è solo una crisi dell’economia ma un passaggio della storia mondiale. Si è rotto un ordine, ed è per questo che il vecchio sistema politico non solo non regge più ma non tornerà più. Ma è esattamente qui che sta la necessità di un nuovo partito come il Pd, più largo della vecchia sinistra ma che sia capace di collocarsi all’altezza del nuovo livello dei problemi. Quel livello in cui la lotta politica interna non si distingue più da quella estera e che un partito nazionale diventa parte integrante delle forze europee che vogliono restituire all’Europa e alla sua civiltà un ruolo globale. Così da poter finalmente lottare ad armi pari contro lo strapotere delle oligarchie.
Perciò è così grave e insidioso l’argomento ripetuto in modo ossessivo che i partiti sono tutti uguali. Non è vero affatto, e non solo per ragioni morali. Ma rispondiamo, perbacco, con le rime. Domandiamoci quali problemi e quali pensieri occupano le menti delle nuove generazioni. Io penso che ha ragione Vendola quando parla della necessità di una nuova «narrazione». Quella che lui propone non va bene ma il problema è questo. Si è aperto un enorme problema non soltanto economico ma di legittimità anche morale per un sistema come questo in cui l’economia di carta si mangia l’economia reale. Dietro i travagli dell’euro c’è la rottura del patto sociale tra il capitalismo industriale e la democrazia che ha garantito per quasi un secolo il progresso dell’Europa moderna. Esattamente questo è il cuore del problema: mettere in campo una nuova soggettività politica e culturale che abbia la forza di misurarsi con l’oligarchia non in nome di una inesistente rivoluzione proletaria ma di un nuovo patto democratico e sociale.
Di qui la mia ostinata battaglia in difesa del Pd. Da un lato io non mi nascondo affatto la debolezza di un partito ancora appesantito da una vecchia idea della politica essenzialmente dall’alto e molto ristretta dentro i vecchi canali notabilari (candidati, elezioni, luoghi istituzionali, ecc.). E sostengo la necessità per il Pd di occupare un terreno di battaglie più ampio, che è il terreno delle nuove idee da contrapporre alla forza vera dell’avversario. La quale nel mondo attuale sta soprattutto in quella estrema concentrazione della ricchezza immateriale che consiste nel controllo delle coscienze. Nella capacità di imporre una visione della realtà come strumento di direzione di una società atomizzata. Ma è proprio questa analisi delle cose che mi spinge non solo al sostegno ma alla militanza in un partito come questo. L’orgoglio di un militante che sa benissimo che la politica è in crisi e che in molte zone è anche corrotta. Ma sa quanto ha pesato, e pesa tuttora, il fatto che i grandi poteri sono altrove, ben oltre i confini di Montecitorio, e conosco il peso dell’intreccio politica-affari e la assoluta necessità di un sistema mediatico più libero che parta dai fatti e che fornisca non solo opinioni (peraltro tutte uguali) ma informazioni vere. Bersani fu trattato come un poveretto perché negli anni di Berlusconi cercava di dire alla tv che l’economia stava andando a rotoli e che questo dato era preoccupante almeno quanto le notti del Cavaliere. Poi tutti, due mesi fa, hanno scoperto lo «spread». Ma io vorrei soprattutto insistere sulla ragione principale della crisi della politica, la quale sta nel fatto che il lavoro umano è stato emarginato e che è stata avvilita la sua stessa funzione sociale. Qui sta la spiegazione di tante cose essendo il lavoro (non dimentichiamolo) il garante dei diritti politici e civili di tutti. La base dello Stato democratico.

l’Unità 3.2.12
Irritazione dei democratici Bersani
Il Pd sfida il governo «Intesa con i sindacati oppure votiamo no»
Il Pd reagisce all’uno-due Monti Fornero su lavoro e posto fisso
«Noioso per chi ce l’ha», dice Bersani
D’Antoni: «Senza intesa coi sindacati votiamo no»
Fassina: premier violento quando parla di «apartheid».
di Andrea Carugati


Il Pd non ci sta. L’uno-due Monti Fornero sui temi del lavoro ha parecchio irritato i democratici. E se la battuta del premier sul posto fisso viene derubricata appunto ad una battuta da Pierluigi Bersani, l’uscita del ministro del Welfare sulla riforma del lavoro («Andremo avanti anche senza accordo con i sindacati») scatena una sollevazione.
«Per quanto mi riguarda il lavoro stabile può diventare noioso, ma per chi ce l’ha. Per chi non ce l’ha è desiderabile», dice il segretario. «Non inchiodiamo Monti a una battuta», aggiunge. «Non sarà questo a far venire meno la nostra fiducia nel premier». Non tutti hanno voglia di sdrammatizzare: «Una battuta infelice», taglia corto Nicola Zingaretti. «Monti ha detto una sciocchezza», va giù duro Nicola Latorre.
Ma è soprattutto il sinistro annuncio sull’articolo 18 del ministro Fornero ad irritare i democratici. E il seminario su lavoro e precarietà organizzato ieri pomeriggio alla sede Pd del Nazareno da Cesare Damiano e Pierpaolo Baretta diventa uno sfogatoio dei tanti malumori che covano contro il governo dei professori. Il più esplicito è Sergio D’Antoni, non certo un estremista: «Fortuna che c’è il governo Monti che ci ha liberato dalla barbarie di Berlusconi», premette sornione. Poi attacca: «Il dibattito sul posto fisso? Roba di vent’anni fa, per favore finiamola e si parli di cose serie. Il Pd deve difendere la ritrovata unità sindacale, o c’è l’accordo con le parti sociali o sul lavoro non votiamo niente. Visto che Fornero manda segnali, anche i nostri devono essere chiari», chiude l’ex leader Cisl tra gli applausi della platea. D’accordo con lui anche l’ex Cgil Paolo Nerozzi, appena un poco più diplomatici Damiano e Stefano Fassina. Dice il responsabile economico del Pd: «Un testo non condiviso con i sindacati troverà molti problemi in Parlamento». E Damiano: «Questo governo non mi sembra molto portato alla concertazione, e non vorrei che dal dialogo si passasse al monologo. Se dopo aver fatto un atto unilaterale sulle pensioni, ne arrivasse un altro sul lavoro, sorgerebbero molti problemi politici, e in Parlamento la maggioranza potrebbe restringersi...».
FASSINA CONTRO MONTI
Fassina, più prudente sulle conseguenze parlamentari dello stentato avvio della concertazione, picchia duro sul concetto di «apartheid» nel mercato del lavoro evocato mercoledì sera da Monti. «È un termine dell’estremismo neoliberista di destra, una parola violenta e offensiva che parte da un’analisi infondata della realtà». «Chi sarebbero i “segregazionisti bianchi” che impediscono l’ingresso nel mercato del lavoro ai “neri”? Gli operai in cassa integrazione? Perché il ministro Passera non si fa un giro tra i “garantiti” di Eutelia, di Porto Torres, di Termini Imerese?». E ancora: «Il premier conosce bene i mercati delle merci e dei servizi, ma c’è un deficit di conoscenza del mercato del lavoro: qui non si tratta di merci ma di persone». Sull’articolo 18, Fassina è ancora più esplicito: «C’è una strumentalizzazione della condizione giovanile, i precari sono solo la punta dell’iceberg di un mondo del lavoro che in questi anni è regredito nella sua totalità, a partire dai salari dei cosiddetti garantiti». «L’articolo 18 non c’entra nulla, è solo una questione ideologica», insiste. «E se il governo vuole attaccarlo per recuperare competitività nell’area euro riducendo ancora il costo del lavoro almeno abbia il coraggio di dirlo».
Anche Rosi Bindi è molto netta: «Il tempo delle battute e degli annunci è finito per tutti». La ricetta avanzata dal Pd è quella tedesca, come ribadisce D’antoni: «Ammortizzatori universali, partecipazione dei lavoratori alle scelte dell’azienda, uso intelligente del parttime. In questo modo hanno risollevato l’economia dell’ex Ddr».
Anche sul capitolo pensioni il Pd punta i piedi. «Fornero ha detto che la questione è chiusa, per noi non è così», insistono Damiano e Fassina. «E non lo sarà finché ci saranno lavoratori che rischiano di restare nel limbo senza lavoro e senza pensione». L’ex ministro del Lavoro ribadisce il netto no alla proposta Ichino sul contratto unico: «Non ha senso neppure parlare di una distinzione tra chi è già dentro e chi entrando perderebbe l’articolo 18». Mentre Marco Follini si colloca sul fronte opposto: «La nettezza di Monti pone il Pd di fronte ad un bivio. Se la mediazione non si troverà, dovremo comunque prendere una posizione chiara e netta».

Repubblica 3.2.12
Le ricette immaginarie
di Luciano Gallino


L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni.
Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le "nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro", richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della "flessibilità buona", un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.

La Stampa 3.2.12
I partiti fondatori del Pd, scatole vuote ma cassa piena
Fioroni: ex dirigenti finanziavano le loro campagne, ed è legale
di Fabio Martini


ROMA In quei giorni di primavera del 2007, tra liti e qualche pianto, i Ds e la Margherita si sciolsero, confluendo con grande enfasi nel futuro Partito democratico. Nei trionfalistici documenti ufficiali dei due congressi però era omesso un piccolo dettaglio: i partiti optavano per la separazione dei beni e cioè non portavano nella nuova casa neppure uno spillo. I propri “redditi” li tenevano tutti per loro. I Ds trattenevano non solo l’ingente patrimonio immobiliare e artistico ereditato (assieme a molti debiti) dal Pci, ma soprattutto i cospicui rimborsi elettorali previsti per i successivi 4 anni; la giovane Margherita era senza debiti, disponeva di una ingente liquidità e anche lei non versava al Pd i finanziamenti pubblici fino al 2011. Una separazione dei beni che si accompagnava ad un’altra originalità: i due partiti confluivano nel Pd, ma lo facevano con una formulazione ambigua, in base alla quale la propria attività politica non era conclusa. Era «sospesa».
E’ con questo carico di ambiguità che Ds e Margherita scompaiono dalle schede elettorali ma restano fino ad oggi parzialmente attivi. Costituendo due tesoretti, finalizzati ad iniziative legali, le più diverse: gli ex Ds, grazie al diuturno lavoro del tesoriere Ugo Sposetti, sono riesciti a spegnere lo storico debito cumulato dal Pci e al tempo stesso hanno messo su una miriade di Fondazioni che gestiscono il residuo patrimonio immobiliare; gli ex Margherita (a parte le “deviazioni” del suo tesoriere) dal 2007 in poi si sono finanziati ecco la novità campagne elettorali, manifestazioni e convegni di ex esponenti di quel partito.
Dunque, tutto ha inizio nella primavera del 2007, è allora che si pongono le premesse di una storia tutta italiana: i partiti dalla “doppia vita”. In quell’anno i tesorieri dei Ds, Ugo Sposetti e della Margherita, Luigi Lusi, cominciano a farsi pregare persino per versare una parte dei “propri” soldi per la campagna elettorale del Pd, appena nato per loro volontà. Soltanto con le elezioni del 2008 (e i relativi rimborsi) il Pd si prende la sua autonomia e dunque Lusi e Sposetti si dedicano alle loro “creature”. L’opera più complessa la compie Ugo Sposetti, un viterbese di 65 anni, uomo sanguigno, legato alla cultura di partito e alla storia del Pci. E’ lui che nel bilancio Ds del 2010 può scrivere: «L’atto più significativo di questo rendiconto è la conclusione della vicenda della Beta immobiliare», la cassaforte delle proprietà immobiliari dei Ds. Sposetti con sacrifici simbolici (la vendita delle Botteghe Oscure e di Frattocchie) era riuscito ad azzerare un debito enorme.
Ma sempre Sposetti si dedica ad un’altra operazione: costituisce 57 Fondazioni in tutta Italia alle quali viene conferito il restante patrimonio immobiliare, per un valore di centinaia di milioni di euro, determinando è la tesi di Mauro Agostini, primo tesoriere del Pd «con una procedura opaca, una sostanziale privatizzazione del patrimonio che era frutto del sacrificio di generazioni di militanti». Con un paradosso che li comprende tutti: mentre le 57 Fondazioni dei Ds danno in affitto tante loro sedi ai Pd locali in giro per l’Italia, a Roma il Pd nazionale è in affitto. E il padrone di casa ha un nome famigliare: Margherita.
E quanto al partito guidato da Rutelli, dal 2007 fino al 2011, riceve decine di milioni di rimborsi elettorali. Una parte vengono stornati da Lusi, una parte resta in cassaforte e la parte restante? Beppe Fioroni, da sempre uno che parla chiaro, spiega: «Il finanziamento di iniziative politiche, ma anche di campagne elettorali di ex dirigenti della Margherita confluiti nel Pd o restati nel perimetro del centrosinistra, compreso l’Api di Rutelli, è previsto dallo Statuto, è perfettamente legale». E così diventa più chiara la vita reale della Margherita dopo il suo (apparente) scioglimento: tutti coloro che, forti dell’antica militanza, chiedevano una mano a Lusi, potevano sperare di averla. Sapendo di non commettere reati. Forti di quel paradosso tutto italiano dei partiti-zombie: sciolti, ma ancora vivi.

Corriere della Sera 3.2.12
Tre decenni di promesse e di rimborsi senza freni
La vera svolta sarebbe sottoporre i bilanci al controllo della Corte dei conti
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


E si offriva pure, Luigi Lusi, di fare l'elemosina ai cittadini: una rinuncia a 200 euro sull'indennità parlamentare, crepi l'avarizia, mentre stava per fare sparire 13 milioni. Ridurre il caso del tesoriere della Margherita alla mascalzonata di un singolo, però, sarebbe sbagliato: se è successo è perché nel mondo opaco dei finanziamenti ai partiti poteva succedere. E questo è il problema.
L'allarme sulla gestione dei soldi statali da parte delle forze politiche ha radici lontane. Nel 1982 Marcello Crivellini la bollava come «paragonabile ad un misto di cosche mafiose e servizi segreti». E annunciava: «Quest'anno i revisori dei conti del Partito Radicale non sono scelti in base a criteri di partito, ma sono esterni di provata e indiscutibile capacità professionale».
Tutti dovevano poter conoscere il bilancio dei Radicali, continuava Crivellini: «Tutti debbono poter essere nostri revisori dei conti. Anche Craxi, Andreotti o Gelli se lo vogliono, così come un qualsiasi cittadino che sia iscritto o no al Partito».
Sono passati tre decenni, da allora. Tre decenni e un referendum che abolì il finanziamento pubblico e fu svuotato dal rattoppo dei «rimborsi elettorali». Rimborsi schizzati come è noto, tra il 1998 e il 2008 (anni in cui il Pil rimaneva sostanzialmente al palo), del 1.110%. Eppure proprio il caso dei soldi spariti dalle casse della Margherita dimostra come l'obiettivo di una vera trasparenza, invocata ieri da Bersani e Casini (che dicono di volere nuove regole «in una settimana») sia ancora lontano.
Eppure era già successo. Basti ricordare, tra gli altri, lo scandalo dell'immenso patrimonio della Dc. Era un impero immobiliare, con dentro gioielli come palazzo Sturzo all'Eur o la villa della Camilluccia per un totale di 508 immobili. E dopo una serie di oscuri passaggi societari e una catena di svendite a prezzi stracciati senza manco una perizia, finirono in gran parte in società fantasma che avevano sede in una catapecchia diroccata nelle campagne di Babici, in Istria, ed erano intestate a un italo-croato che campava scaricando cassette al mercato di Trieste.
Era già successo e, con le regole attuali, non poteva non succedere di nuovo. Lo scriveva ieri mattina, su «Europa», il giornale che fu della Margherita, il direttore Stefano Menichini: al di là delle responsabilità di Lusi «ci vuole l'umiltà di riconoscere l'errore collettivo di una platea più vasta — ci siamo dentro anche noi — di tutto il mondo che vive di politica e non aveva voluto vedere quanto fosse insostenibile il metodo di finanziamento dei partiti coi cosiddetti rimborsi elettorali, per di più a partiti estinti». Partiti defunti che incassano la metà dei rimborsi.
Il responsabile delle casse del Pd Mauro Agostini, in un libro autobiografico intitolato appunto «Il tesoriere», l'aveva scritto due anni fa con parole dure: «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po' sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica». Cupa o no che fosse la sua fotografia, spicca un dato: solo il Pd risulta aver fatto certificare il bilancio dal 2008, nella scia di quell'antica scelta radicale, dalla Price Waterhouse Coopers. E se agli ex Ds eredi dei debiti ma anche del patrimonio immobiliare del Pci va riconosciuto di avere messo online il loro bilancio (con l'impegno a metterci anche quelli di tutte le fondazioni-casseforti nelle quali sono state «messe al sicuro» case, negozi, palazzi) gli altri si regolano in maniera diversa. Sono online quelli dell'Idv o di Sel, non quelli della Lega (o se c'è è praticamente introvabile) e del maggiore partito italiano, il Pdl. La cui tesoreria è sì disponibile a fornire via fax quattro fogli di rendiconto, ma da qui a metter tutto a disposizione dei cibernauti ce ne corre...
La deflagrazione del «caso Lusi e del bilancio dei Dl», il cui acronimo ha fornito ieri a «Libero» lo spunto per il titolo «Diversamente Ladri», spingerà finalmente a una sterzata? Vedremo. Agostini sta preparando una proposta di legge per rendere obbligatoria la certificazione dei bilanci dei partiti da parte di società di revisione indipendenti, già adottata nello statuto di Fli. Con l'introduzione di forme di controllo radicalmente diverse: oggi il tesoriere è affiancato da un comitato di uomini per lo più fedeli alla segreteria. La proposta è che le verifiche siano affidate a soggetti indipendenti, esterni, senza legami col partito. La vera svolta, però, sarebbe l'obbligo di sottoporre il bilancio al controllo della Corte dei conti. Mettendo così finalmente in crisi il pilastro su cui si basa il meccanismo opaco attuale. Com'è possibile che i partiti, finanziati con pubblici denari, siano considerati oggi alla stregua di associazioni private nelle quali il «pubblico» non può mettere bocca?
I rivoli dei finanziamenti sono tali che non si sa nemmeno quanti soldi arrivano nelle casse. I rimborsi elettorali: 200 milioni l'anno sia pure in fase di riduzione entro qualche anno a 145. Poi i finanziamenti ai «gruppi» del Parlamento e a quelli dei Consigli regionali: almeno altri 150, stando alle stime. Poi gli stanziamenti per i giornali di partito o assimilabili: circa 40 milioni nel 2009. Poi i contributi che i parlamentari versano al partito, utilizzando spesso il fondo del portaborse: col risultato di far gravare sulle pubbliche casse anche il 19% di sgravio fiscale che spetta a chi finanzia la politica. Poi i soldi donati dai singoli elettori e dalle aziende...
Prendiamo quest'ultima voce. Fino a 50 mila euro, dice la legge, un partito ha diritto di incassare i «regali» di un cittadino o una società senza dover registrare il generoso donatore. Al di là della opacità sull'eventuale «merce di scambio» (una leggina, un comma, una deroga...) come fai a sapere se quei soldi finiscono a bilancio?
Una cosa è fuori discussione. Con regole diverse, il «caso Lusi» non sarebbe potuto succedere. Così come, agli elettori del Pd, resterà l'amarezza di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. L'ha scritto la stessa «Europa»: il peccato originale del Partito Democratico è stato «il permanere di due strutture parallele al neonato partito», che «ha da subito ingenerato retropensieri di ogni genere e insinuato il sospetto di una cattiva coscienza in chi, imbarcandosi nel nuovo soggetto, teneva in acqua due grosse scialuppe di salvataggio in caso di naufragio. Un errore psicologico che ha pesato e pesa ancora nella vita quotidiana del partito».
Era tutto scritto in un bisticcio avvenuto alla Festa della Margherita a Vietri sul Mare, il 7 settembre 2007, tra i due tesorieri dei Ds e della Margherita. Lusi, che aveva molti soldi liquidi, voleva mettere tutto il patrimonio insieme dentro al Pd. Sposetti, che coi debiti aveva ereditato dal Pci e dal Pds anche 2.399 immobili blindati in 55 fondazioni, spiegò che non ci pensava proprio: «Luigino e Ughetta, che sono io, vanno all'altare poveri in canna, ma se Ughetta ha un po' di patrimonio e Luigino ha un po' di soldi, quel che devono dire al sindaco è: facciamo la separazione dei beni».
Il risultato lo racconta Angelo Rovati, il braccio destro di Romano Prodi, nella campagna elettorale del 2006: «Se è vero quello che leggo, cioè che la Margherita ha speso quattro milioni in propaganda quando il partito era già chiuso, è singolare che per la campagna elettorale del 2006 abbiano fatto un sacco di storie per dare qualche spicciolo per la campagna di Prodi: un paio di milioni in tutto, fra Margherita e Ds». Tenere ciascuno la sua scialuppa, evidentemente, era più importante che vincere la regata...

Repubblica 3.2.12
"A mia insaputa" la famiglia si allarga
di Francesco Merlo


Anche Francesco Rutelli è un ‘a mia insaputa´, ma nella variante triste. Non ha la sfrontatezza di comicità e di cinismo che in Claudio Scajola confinava con l´ironia e dunque con l´intelligenza del farsi fesso per farci fessi.
In Rutelli è invece goffa quella stessa linea di difesa minchioneggiante: «Non faccio il ragioniere», «non leggo i bilanci», «siamo incazzati e amareggiati», «non sono un padrone che controlla la cassa». E forse perché inconsapevolmente, per forza di Storia, Rutelli rimanda anche al primo Craxi confuso che scaricava il suo «mariuolo» e i suoi «craxini», e al Forlani che voltava le spalle a Citaristi, all´Andreotti che negava il bacio …
Ma Rutelli non è più soltanto un antico ‘non poteva non sapere´. È anche un moderno ‘a mia insaputa´ perché siamo ormai nel 2012 e Scajola ha per sempre rinnovato il frasario della ribalderia politica. Né ci sono il comunismo e l´anticomunismo ad appesantire di tragedia i costi della politica. Rutelli è un ‘a mia insaputa´ perché preferisce subire lo scherno pur di non affrontare la responsabilità (politica) di quel fiume di danaro pubblico, almeno 13milioni di euro che finiva nei conti personali del suo uomo di fiducia, del senatore Lusi, suo braccio destro sin dai tempi belli della sindacatura di Roma, la stagione più felice e rimpianta del leader che diceva d´essere «cresciuto a pane e cicoria». Rutelli sbaglia: in gioco non ci sono la sua onestà personale e il suo conto corrente privato, il suo patrimonio, la sua sobrietà di vita, tutte cose che garantisco personalmente, ma ci sono la trasparenza e il costo della sua politica, l´uso dei rimborsi pubblici nel suo partito, ci sono il profumo del pane e l´umiltà della cicoria.
"Pane e cicoria" voleva dire politica in tutte le sue asprezze, politica umiliata, politica dimessa, politica bastonata, ma politica in piena coscienza, fosse pure politica dove hanno un costo anche l´ammorbidire e lo smussare gli spigoli, fosse pure politica corrotta o che corrompe, ma comunque e sempre politica consapevole.
E adesso invece Rutelli è diventato un politico «a mia insaputa». Il pane e cicoria era caviale e champagne, ma «a mia insaputa». L´amministratore della casa, il cassiere della ditta Rutelli, l´alter ego finanziario della bottega ‘qui pane e cicoria´ non era un parco asceta vegetariano ma un satrapo all´arraffo che esportava all´estero il danaro del partito, quei rimborsi che in nome di Rutelli otteneva e non spendeva ma accumulava. E poi, secondo l´accusa, faceva rientrare con lo scudo fiscale, come un evasore qualsiasi. E intanto Rutelli, che era cointestatario del conto del partito, approvava i bilanci che non leggeva. E mai si accorgeva che tutto il denaro gli veniva sottratto sotto il naso. E non se ne accorgevano i revisori e neppure le assemblee, e quando Lusi e il partito vennero citati in giudizio civile da Enzo Carra e Renzo Lusetti, Rutelli difese indignato la gestione economica del periodo 2009-2010. Si proclamava garante di un´economia di cui ora si dice vittima. Il Rutelli di oggi smentisce il Rutelli di ieri.
E Arturo Parisi, che è da sempre il suo ruvido oppositore ed ebbe pure presagio della corruzione, ora dice di lui: «È un simpatico ragazzo», ben sapendo che dare del ragazzo a un signore incanutito è il modo più crudele per inchiodarlo all´imbarazzo e alla risatina appunto, come quella che cercava Scajola quando decise di farsi citrullo e inventò l´antropologia dei politici ‘a mia insaputa´. È questo il loro destino, questa la loro ultima spiaggia: provocare le risatine per evitare l´indignazione.
Rutelli tuttavia non è all´altezza della maschera arguta e lepida di Scajola che non negava di avere le mani nel sacco ma diceva di non essersene accorto. Ci auguriamo che davvero Rutelli non sapesse nulla. Meglio un citrullo autentico che un replicante malinconico di Scajola.
Ma Rutelli è comunque deludente perché più che al ribaldo sgamato che gioca e forse persino si diverte, inconsapevolmente rimanda, per contrappasso, a quel Craxi appunto al quale augurò di «consumare il rancio in galera», e speriamo che sia vero che «il giallo non c´è» e che tutta la dirigenza di quel partito sia stata vittima e mai complice di quell´unico capro.
Di sicuro nella commedia politica italiana Scajola è un caposcuola, è il nuovo romanzo, mentre Rutelli si nasconde nella quarta fila della vecchia filodrammatica dove si amputa il braccio destro: quel Lusi che, malgrado tutti i milioni e la casa e la villa, non ha certo l´antropologia sgargiante di Milanesi, non fa brum brum in Maserati come Lavitola e non somiglia neppure a Penati che è l´ideologia della tangente sul palcoscenico. Somiglia invece ai vecchi duri di una volta, e come un duro lo conoscono e lo riconoscono tutti, dalla Bindi a Giachetti: «Meticoloso, puntiglioso, integerrimo». Rutelli ancora adesso lo definisce « un arcigno boy scout». Somiglia, per dirla chiara, a un Greganti atipico, un cassiere di ferro, il cerbero fuori tempo massimo, non più a difesa dei grandi mostri ideologici del Novecento, ma di un circoletto di amici. È meglio ladro o fantasma della storia?

Corriere della Sera 3.2.12
Gli psicologi e la sede da 44 milioni: colta un'occasione
di Lorenzo Salvia


ROMA — È il marzo del 2011, il contratto è stato firmato da poche settimane. L'Enpap, l'Ente di previdenza degli psicologi, decide di informare i propri iscritti. Si tratta dell'utilizzatore finale di quel palazzo al centro di Roma che il senatore del Pdl Riccardo Conti ha comprato e venduto nello stesso giorno incassando 18 milioni di euro in più. Una storia che anche la procura della Capitale vuole capire meglio, al punto da aver aperto un'inchiesta. Ma per raccontare ai propri soci quell'operazione l'Enpap usa toni addirittura trionfalistici: «Per quanto riguarda l'acquisto diretto ultimamente abbiamo colto un'importante occasione di mercato acquisendo un immobile di prestigio nel centro di Roma».
Un'importante occasione, dunque. Adesso, scoppiato il caso, l'Ente di previdenza degli psicologi si limita a dire che il prezzo è in «linea con le valutazioni dell'agenzia del territorio». Ma allora quel palazzo comprato per 44 milioni di euro da chi poche ore prima lo aveva preso quasi alla metà viene definito un vero affare. Va bene che una parte della differenza può essere spiegata con i lavori che l'immobiliare del senatore bresciano si impegnava a fare, con i mancati introiti per i due anni almeno di cantiere e con altre voci ancora. Ma forse è stato proprio quel trionfalismo a fare venire qualche sospetto. Non solo tra gli iscritti ma anche tra gli amministratori dell'Enpap dove, come in ogni ufficio che si rispetti, gelosie e rivalità non mancano di certo. L'importante occasione viene raccontata su «Parla con noi», la newsletter dell'Ente. Si legge in quelle pagine che il palazzo di via della Stamperia «permetterà di ottenere tre buoni risultati». E cioè di incassare l'affitto dalla banca che occupa il piano terra, di sperare in una rivalutazione perché siamo pur sempre nel centro di Roma e anche di allargarsi un po' visto che l'attuale sede «non è più sufficiente».
La newsletter si conclude come sempre: «La tua opinione conta. Parla con noi: scrivi a...» segue indirizzo mail. E i dolori cominciano subito. Qualcosa comincia a circolare sui blog e sui siti di psicologia. Ma poche settimane dopo una richiesta formale di informazioni arriva da Marco Nicolussi, che siede nel Consiglio di indirizzo generale dell'Ente oltre ad essere presidente dell'Ordine degli psicologi in Veneto. «Abbiamo fatto una normale richiesta di accesso agli atti. Non sospettavamo nulla ma ci sembrava una cosa dovuta». E da lì che il caso esplode, un caso che il senatore Conti continua a definire «fango ignobile».
Ora l'Enpap dice che tutti gli atti relativi a quell'operazione sono sempre stati a disposizione degli organismi di vigilanza. Ma sulla vicenda i vertici dell'Ente continuano a defilarsi. C'è la richiesta di una convocazione urgente del Consiglio d'amministrazione e del Consiglio di indirizzo generale. Ma sembra che la prima data utile sia dopo il 18 febbraio. Adesso tutti sanno che lo stesso palazzo era stato acquistato poche ore prima ad un prezzo molto più basso. E all'improvviso spiegare «l'importante occasione colta» deve essere diventato molto più difficile.

il Fatto 3.2.12
Legge Lega-Pdl-Violante
di Marco Travaglio


Ma sì, forse è meglio così. Ben venga il voto della Camera sull’emendamento leghista che costringerà i magistrati a pagare di tasca propria i “danni” a ogni persona indagata e poi assolta. Ben venga perché, anche se fosse approvato anche dal Senato e diventasse legge, non entrerebbe mai in vigore, visto che è contrario alla Costituzione e alla normativa europea: serve soltanto a spaventare i magistrati che si lasciano spaventare. Ben venga perché ci sveglia dal sogno che basti un governo tecnico per ripulire una politica marcia dalle fondamenta e cancellare vent’anni di berlusconismo bipartisan. Ben venga perché così è chiaro a tutti che, sulla giustizia e sulla tv, continua a comandare B. E che il Parlamento che dovrebbe “fare le riforme”, cambiare la legge elettorale, combattere corruzione, mafia ed evasione è sempre quello che dichiarò Ruby nipote di Mubarak, varò una dozzina di leggi ad personam e salvò dal carcere Cosentino (due volte), Tedesco e Milanese. Ben venga perché costringe il governo Monti a uscire dalla comoda e ambigua “continuità” col precedente e a scegliere non fra destra e sinistra (etichette giurassiche), ma fra i due partiti trasversali che si fronteggiano da tempo immemorabile: quello dell’impunità e quello della legalità. Per fortuna, mentre il Parlamento si arrocca a difesa dei suoi delitti come quello spazzato via vent’anni fa da Mani Pulite, il partito della legalità cresce: lo testimoniano le oltre 16 mila firme raccolte in poche ore dalla legge del Fatto sulla responsabilità giuridica dei partiti dopo il caso Lusi. Ora la ministra Severino non può cavarsela con frasette alla vaselina per deplorare l’“intervento spot” che “rende poco armonioso il quadro complessivo”, auspicare “qualche miglioramento in seconda lettura”, previa “riflessione sul tema per riaprire il dialogo”, e annunciare “una seconda fase” (la solita, mitologica “fase 2”). Prendersela soltanto col Pdl e con la Lega è troppo facile: erano anni che tentavano di farla pagare (nel vero senso della parola) ai giudici per le indagini sui loro leader-lader. Ieri, fra i 261 sì alla porcata padan-berlusconiana, si annidavano – nascondendo la mano grazie al voto segreto avventatamente concesso da Fini – almeno 50 deputati dell’altro fronte (Pd, Udc, Fli e Idv). Del resto i partiti maggiori (Pdl, Pd e Lega) e qualcuno minore (tipo l’Api di Rutelli) hanno a che fare con la giustizia e, nel segreto dell’urna, non è parso vero a qualche furbastro di assestare una bella legnata ai magistrati, o almeno di metter loro paura. L’idea malata e somara che l’errore giudiziario scatti ogni qual volta un cittadino finisce sotto inchiesta o sotto processo o agli arresti e poi venga assolto, dunque debba pagare direttamente il magistrato, accomuna trasversalmente la gran parte del mondo politico e di quello intellettuale retrostante. Proprio in questi giorni l’Unità, tornata a essere l’organo ufficiale del Pd, s’è lanciata in una delirante campagna in difesa di Ottaviano Del Turco, arrestato nel 2008 per tangenti, poi rinviato a giudizio e ora a processo. Anticipando la sentenza, l’Unità ha deciso che Del Turco è innocente a prescindere. Poi l’ha intervistato per fargli chiedere “un atto riparatore dalla politica” per un’assoluzione che non c’è. Poi ha interpellato Violante, il quale ha sostenuto che siccome “non si è trovato il denaro”, Del Turco dev’essere per forza innocente (uno come lui i  soldi non li farebbe mai sparire). E s’è portato avanti col lavoro, dimenticando che gli arresti e i rinvii a giudizio non li fa il pm, ma il gip e il gup: “Se Del Turco dovesse risultare innocente, è chiaro che il magistrato inquirente dovrebbe risponderne direttamente”. E certo: siccome i processi servono a stabilire se uno è innocente o colpevole, se tutti gli assolti potessero rivalersi sul pm, non si troverebbe più un pm disposto ad aprire un’indagine. Un’idea talmente demenziale che Polito l’ha subito elogiata sul Corriere. E ieri, Lega e Pdl l’hanno tradotta in legge. Per una questione di Siae, la chiameremo “legge Violante”.

il Fatto 3.2.12
Irragionevole vendetta
Gerardo D’Ambrosio: Non sono questi i problemi della giustizia

Sono sorpreso, perché penso che la responsabilità civile dei magistrati, che peraltro già esiste nella nostra legislazione dal 1988, non sia “il problema” che oggi si trova davanti il sistema giudiziario. Quando fu inserita la responsabilità civile “per dolo o colpa grave”, noi che operavamo nel settore, ricorremmo a una assicurazione, perché alla fine correvamo il medesimo rischio professionale che può interessare un medico ed era giusto tutelarci. La certezza del diritto, del resto, dovrebbe essere garantita al cittadino dai tre gradi di giudizio; tre gradi, che, nell’architettura del nostro sistema, ovviamente contemplano che un magistrato possa commettere, anche in buona fede, un qualche errore. Non trovo quindi una giustificazione tecnica a questa norma. Vi leggo piuttosto una dimostrazione di risentimento, uno spirito di rivalsa nei confronti della magistratura che, in altri tempi, avrei compreso di più. Oggi, però, il male grosso e afflittivo della giustizia italiana è costituito da questioni ben più vaste e mai affrontate in maniera decisiva. La prima è sotto gli occhi di tutti: i tempi lunghissimi dei processi, che finiscono per caricare sulle spalle dei magistrati sia civili che penali una mole di lavoro enorme, con milioni di cause pendenti. A questa lentezza, che pesa sul sistema tutto, contribuisce senz’altro anche la nutrita schiera degli avvocati, che, nel nostro Paese, assomma alla cifra di un quarto di milione. Il problema, che io personalmente riscontro, è che costoro, non essendo pagati per il risultato conseguito, ma “a prestazione”, possano giovarsi della fragilità del sistema. Se il sistema non prevede di premiare chi chiude in fretta le cause con un risultato positivo, ma chi riesce a portarle per le lunghe, è un problema. Una delle maggiori voci di spesa della giustizia italiana non è costituita dalle eventuali cause contro i magistrati per “colpa o dolo”, ma da quelle per i tempi lunghi dei procedimenti. È questo il problema. Si vada a vedere a quanto ammontano i risarcimenti che la Legge Pinto impone per l’irragionevole durata dei processi. Il paradosso è che a volte, a portare per le lunghe quei procedimenti, sono proprio quegli avvocati e quei clienti che poi fanno ricorso per ottenere i risarcimenti per l’irragionevole durata degli stessi.

Corriere della Sera 3.2.12
Colpo di mano leghista che mette in tensione la coalizione montiana
di Massimo Franco


Il minimo da dire è che qualunque misura al di là dell'ambito economico diventa, per la coalizione trasversale di Mario Monti, terreno minato. E dà corpo al fantasma di «maggioranze variabili» che non sono destinate a puntellarlo, ma a destabilizzarlo. Il voto di ieri alla Camera con il quale la Lega è riuscita ad agganciare i malumori del Pdl, e non solo, contro la magistratura può rappresentare una sorta di caso di scuola. Il Parlamento doveva pronunciarsi sulla responsabilità civile dei giudici: una misura osteggiata dal Csm e dall'Anm, che la considerano insieme una provocazione e una mostruosità giuridica; e alla quale il governo si era dichiarato contrario. E invece, con un colpo di mano parlamentare il partito di Umberto Bossi ha resuscitato la ex maggioranza di centrodestra. E, proponendo una modifica, ha provocato un'incrinatura nella maggioranza di Monti e una bufera fra i magistrati: inclusa una minaccia di sciopero.
A sentire il sottosegretario a Palazzo Chigi, Antonio Catricalà, l'incidente non dovrebbe avere conseguenze sul governo. Al Senato, si è detto, la legge sarà corretta e approvata secondo gli accordi iniziali. Ma l'irritazione che filtra dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, mostra quanto forti rimangano le tensioni per un'alleanza col Pdl in bilico non appena si sfiorano certi temi; e come il partito di Umberto Bossi sappia stimolare gli istinti più profondi del ventre molle del Parlamento: e in particolare del fronte berlusconiano. La sola ipotesi che a puntellare la responsabilità civile dei magistrati siano stati anche esponenti del centrosinistra fa infuriare il Pd. Eppure, i numeri farebbero pensare ad un consenso più vasto di quello limitato a Pdl e Carroccio: 264 sì contro 211 no.
È una tesi accreditata, fra gli altri, dal segretario del Pdl, Angelino Alfano. A suo avviso, «almeno 50 deputati» della sinistra avrebbero espresso in quel modo la propria ostilità contro i magistrati, approfittando dello scrutinio segreto. E forse, la durezza con la quale i vertici del Pd intimano a Monti di dare «un segnale forte» e denunciano la rottura della maggioranza come un episodio inaccettabile, nasce anche da un filo di imbarazzo. È come se la votazione resuscitasse i fantasmi di un partito anti-giudici che inquina i rapporti fra potere politico e giudiziario. E fa segnare un punto a quanti, in Parlamento, non rinunciano all'idea di una resa dei conti con la magistratura destinata a riaffiorare comunque.
«Norma giusta messa nel posto sbagliato», commenta Pier Ferdinando Casini, dell'Udc. Dietro si indovina il tentativo di trovare una via d'uscita, senza irrigidire posizioni che metterebbero ulteriormente in difficoltà palazzo Chigi. «Non possiamo», avverte Bersani, «assistere alla rinascita della vecchia maggioranza». E ammette di temere che al Senato la correzione della legge non sia affatto scontata. Anche perché il centrodestra saluta il risultato come una vittoria da ostentare polemicamente in faccia all'Anm. «Chi sbaglia paga, anche i magistrati», insiste Alfano. Il problema è che l'emendamento, sostengono i magistrati, introducendo la responsabilità civile diretta del giudice non si limita a uniformare la legislazione italiana a quella dell'Ue: apre la strada a conflitti inesauribili e cerca di intimidire gli inquirenti.
Soprattutto, per il modo in cui ci si è arrivati, sembra fatta per annullare la tregua seguita alle dimissioni di Silvio Berlusconi da palazzo Chigi. Il Pdl e la Lega rivendicano un'affermazione della «volontà popolare» e si trincerano dietro le norme europee. E di rimbalzo riprendono fiato i settori della magistratura refrattari all'idea di una pacificazione con la politica. Cresce la spinta ad una protesta che non esclude neppure il ricorso allo sciopero. Il presidente dell'Anm, Luca Palamara, vede «un ennesimo tentativo di vendetta» contro i giudici. E di colpo si è risucchiati nei veleni degli ultimi anni. Il calcolo dei lumbard probabilmente era proprio questo. E sebbene non provocherà una crisi, rappresenta un indizio della fragilità della maggioranza che sostiene il governo «tecnico» di Monti, e delle frustrazioni da cui è percorsa.

La Stampa 3.2.12
Intervista
Palamara: “Vendetta politica Toglie la libertà di giudizio”
Il presidente dell’Anm: probabile il ricorso allo sciopero
di Guido Ruotolo


Chi ha approvato questo emendamento vuole impedire che il giudice possa decidere liberamente. E’ un emendamento incostituzionale che troverà la ferma opposizione dei magistrati, se dovesse riproporsi tal quale alla Camera. Non possiamo escludere che i magistrati proclamino uno sciopero».
Suonano tamburi di guerra e sono pronti a impugnare l’ascia. Quel voto della Camera proprio non se l’aspettavano. Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, fa capire che se al Senato non cambia quell’emendamento, si va dritti allo sciopero delle toghe. E questo nonostante sia scoppiata la pace, per la prima volta dopo decenni, tra giudici e governo.
Presidente Luca Palamara, i giudici non devono pagare per gli errori giudiziari di cui sono responsabili? E chi ingiustamente è stato in carcere, la vittima della malagiustizia, con chi deve prendersela?
«Bisogna distinguere tra responsabilità dello Stato e responsabilità del giudice. E’ evidente che chi ha proposto l’emendamento non sa nemmeno di cosa parla».
Non sarei tanto sicuro. Nel vostro comunicato parlate di vendetta della politica...
«In un momento nel quale si chiede rigore, solidarietà e legalità qualcuno preferisce tornare al passato e tentare di vendicarsi nei confronti di chi in questi anni ha cercato di applicare la legge».
Va bene. Ma chi ha sbagliato deve pagare o no?
«Esistono cinque forme di responsabilità del giudice. Una penale, un’altra amministrativa, e poi una disciplinare, una contabile e infine una civile».
Benissimo, e allora qual è il problema? Dov’è la pericolosità dell’emendamento leghista, fatto proprio anche da un gruppo di una cinquanta per dirla con Di Pietro di “traditori”, o franchi tiratori?
«Per la legge italiana il cittadino può rivalersi direttamente nei confronti dello Stato che, a sua volta, può rivalersi nei confronti del giudice, nei casi di dolo o di colpa grave. L’emendamento approvato, invece, vuole introdurre una forma di responsabilità diretta del giudice, di fatto inibendo anche l’esercizio della funzione giurisdizionale».
Chiaro. Perché parlate di ritorsione della politica?
«Introdurre la contestazione diretta significa impedire la libertà di giudizio dei giudici. Nel processo ci sono due parti. E’ fisiologico che quella che soccombe finisca per rivalersi sul giudice. E dunque il giudice di fronte all’eventualità di essere trascinato in giudizio da una delle parti di fatto finirà per non decidere, per non compromettersi».
Insomma, che fine fa il libero convincimento dei giudici? Va a finire in soffitta?
«Finiremo per essere coartati, assimilati a delle macchine nelle quali come un jukebox si mette un gettone ed esce la decisione. Altri, riteniamo, devono essere i meccanismi per controllare come ha operato un giudice. Puntando sul sistema disciplinare e sui controlli sulla professionalità».
Perché parlate di emendamento incostituzionale?
«Perché l’impianto voluto dal nostro costituente vuole la soggezione del giudice soltanto alla legge».
Davvero c’è il rischio che si vada a uno sciopero della magistratura italiana?
«Di fronte a quanto è accaduto oggi non possiamo escludere nessuna forma di protesta».

il Fatto 3.2.12
Stupro di gruppo, carcere non obbligatorio
Le donne contro il giudizio della Cassazione, senza distinzioni politiche: “Decisione aberrante”
di Stefano Caselli


Una decisione in punta di diritto, come si addice alla Corte di Cassazione che è giudice di legittimità e garante della corretta e uniforme applicazione del diritto che però, dato il tema delicatissimo su cui interviene, non mancherà di scatenare (come già scatena) furiose reazioni.
Secondo i giudici della Terza sezione, infatti, in caso di violenza sessuale “di gruppo” il carcere non è (più) la sola misura preventiva obbligatoria.
La Cassazione, nello specifico, ha annullato una sentenza del Tribunale del Riesame di Roma che, ha negato la scarcerazione di due giovani accusati di stupro ai danni di una ragazza del frusinate, sulla base del decreto legge 11/2009, “Misure urgenti in tema di sicurezza pubblica e contrasto alla violenza sessuale”. Al pari di quanto avviene per i reati di mafia, infatti, il decreto stabilisce l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere quando vi siano “gravi indizi di colpevolezza” in caso di violenza sessuale. Sul decreto, però, è intervenuta nel luglio 2010 la Corte Costituzionale, ritenendo (sentenza n. 265 del 2010) le norme anti-violenza sessuale in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena).
IN PRATICA, secondo la Consulta, è necessario consentire l’applicazione di misure alternative al carcere anche per un probabile colpevole di stupro “nell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici in relazione al caso concreto da cui risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. La Corte di Cassazione, in pratica, ha ritenuto di dover ricordare al giudice di sorveglianza (che dovrà riesaminare la richiesta di scarcerazione) la possibilità di attenersi ai principi interpretativi della Consulta anche in caso di violenza sessuale “di gruppo”, assimilabile al reato di violenza sessuale e “atti sessuali su minorenni” presi in considerazione dalla Corte Costituzionale.
Una decisione in punta di diritto – appunto – ma oltre la punta c’è la bufera, perché la legge ha un’anima e – al di là della questione carcere obbligatorio, carcere facoltativo – è assai difficile persuadere chiunque che intervenire con particolare durezza contro il reato di violenza sessuale possa essere giuridicamente illegittimo: “È un ennesimo passo indietro – dichiara il presidente di Telefono rosa Gabrielle Moscatelli – dove a rimetterci è la parte più debole ossia le donne vittime di violenza. Vogliamo ricordare che questo reato bestiale segna per sempre la vita di una donna e che ci batteremo in ogni modo perché ci sia un cambio di rotta della giustizia italiana”. L’ex ministro Mara Carfagna, che del decreto del 2009 fu promotrice, critica duramente la decisione della Corte di Cassazione: “Una sentenza impossibile da condividere – dichiara l’esponente del Pdl – contro le donne, che manda un messaggio sbagliato. Le aggravanti per i reati di violenza sessuale furono introdotte proprio per evitare lo scempio della condanna senza un giorno di carcere per chi commette un reato grave come questo. Il Parlamento aveva voluto condividere un messaggio chiaro: tolleranza zero contro la violenza sulle donne, che non è un reato di serie B”. D’accordo anche il suo predecessore al ministero, Barbara Pollastrini: “Una sentenza lacerante – dichiara – che fa discutere. Perché da una parte si intuiscono le ragioni legate agli articoli della Costituzione, dall’altra si finisce per stridere innanzi a un reato disumano e annichilente. Il punto non è volersi vendicare, ma poter avere fiducia che si compia sino in fondo giustizia. Leggerò con attenzione la sentenza della Corte ma, ora, il mio pensiero va a quella giovane donna e insieme a lei alle altre che sono state offese e violate”. L'avvocato Giulia Bongiorno (Fli) aggiunge: “Una decisione non condivisibile, vengono equiparate la violenza del singolo quella di gruppo. Il ruolo della donna ne viene avvilito e non è un discorso fuori dal tempo perchè è sintomo di discriminazione”.

La Stampa 3.2.12
Nino Marazzita
“Reato odioso ma è rispettata la Costituzione”


Nino Marazzita, uno dei più importanti avvocati penalisti italiani, spesso è stato parte civile nei processi di stupro. A iniziare dal massacro del Circeo.
Avvocato Marazzita, la sentenza della corte di Cassazione che permette al giudice di concedere misure alternative al carcere a chi ha un procedimento per stupro di gruppo, sta scatenando le proteste delle donne. Cosa è accaduto?
«In realtà non si tratta di una novità. Quando la Carfagna era ministro per le Pari Opportunità, per sua iniziativa il Parlamento indurì le norme per i reati sulla violenza sessuale, obbligando il giudice a disporre la carcerazione in carcere. Ma la corte Costituzionale subito disse che non era possibile una norma del genere perché introduceva una disparità tra reati. Il legislatore allora abrogò la norma, dimenticandosi di farlo però per gli stupri di gruppo».
Quindi in realtà questa sentenza della corte di Cassazione estende una norma già esistente?
«E’ così. La Corte di Cassazione ha detto solamente che il principio per cui la corte Costituzionale intervenne è implicitamente allargato anche alle violenze di gruppo. Prima dell’intervento della corte Costituzionale tutti gli imputati accusati di stupro tornavano in carcere. Ricordate don Ruggero, il prete pedofilo? In quel caso io ero parte civile. Lui era a casa per problemi di salute e dovette tornare in cella. Quando poi venne sancita l’incostituzionalità della norma tornò agli arresti domiciliari».
C’è una grande agitazione tra le donne e non solo. Lei cosa ne pensa?
«Credo che i reati contro le donne siano i più odiosi, ma il legislatore deve stabilire un parametro di rigore che sia uguale per tutti, non può violare l’articolo 3 della Costituzione. Bisogna tutelare le donne, ma il legislatore deve farlo applicando le regole dello stato di diritto».

l’Unità 3.2.12
«Sequestro di persona» l’accusa dell’associazione e dell’Asgi
«Fuggiti dai loro Stati in guerra civile, l’Italia li tenne per mesi in un centro»
Migranti detenuti a Lampedusa Esposto Arci contro il ministero
Esposto dell’associazione dei volontari, spalleggiata da quella di studi giuridici sull’immigrazione, contro il Viminale per «sequestro di persona». La vicenda l’estate scorsa a Lampedusa. Indagherà la procura di Agrigento
di Vicenzo Ricciarelli


Sequestro di persona: è il reato ipotizzato nell’esposto di Arci e Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) depositato alla Procura di Agrigento contro i vertici politici e amministrativi del Ministero degli Interni che nel luglio scorso (quando il ministro era ancora il leghista Roberto Maroni) disposero la detenzione nel centro di contrada Imbriacola dei profughi che sbarcavano a Lampedusa.
Premettendo che si trattava di persone che arrivavano nell’isola siciliana mentre nei paesi di provenienza era in corso una guerra civile, l’Arci ricorda che il Governo italiano di allora «parlò di “invasione”, “drammatica emergenza”, e alimentò un clima di paura, creò le condizioni per giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica, lo scempio di democrazia che si perpetrò in quei mesi ai danni dei migranti, in primo luogo a Lampedusa».
Per giorni in centinaia denuncia ancora una volta l’Arci furono «rinchiusi nel centro di prima accoglienza (sic!) di contrada Imbriacola, senza che la privazione della libertà personale trovasse la necessaria convalida giurisdizionale. Per quel Governo e quel ministro, d’altra parte, la Costituzione e la legge sono state in più occasioni null’altro che una variabile dipendente, dagli interessi legati al consenso elettorale innanzitutto. Di quel vulnus democratico ci sono prove documentali e testimoni, come l’avvocato Luca Masera che per alcuni giorni assistette, dall’interno del centro, alle sistematiche violazioni e raccolse le testimonianze dei “detenuti”, mai raggiunti da un provvedimento del giudice di pace, come prevede la legge, che confermasse la legittimità della detenzione».
«Siamo convinti che perchè una delle pagine più tristi della nostra democrazia si chiuda e non si ripeta mai più sia necessario conclude l’Arci ricostruirne per intero la verità, individuare le responsabilità e ottenere giustizia».

l’Unità 3.2.12
La polemica
Io ebreo difendo Vauro
Antisemita a chi?. Se la destra gioca sporco sulla Shoah
di Moni Ovadia


Vi è mai capitato di sentirvi dare dell’antisemita? A Vauro è capitato. A me, ebreo che ha dedicato una parte significativa della propria vita al pensiero ebraico e ai suoi valori, è capitato. Mi è capitato anche di sentirmi dare del nemico del popolo ebraico solo per aver espresso opinioni aspramente critiche nei confronti del governo israeliano per la politica di occupazione e di colonizzazione delle terre palestinesi. Avete idea di come ci si possa sentire? Forse voi non lo sapete ma io sì, non solo e non tanto perché sono ebreo, ma perché, come Vauro, in ogni fibra del mio corpo e della mia mente, esprimo ripulsa per qualsivoglia forma di razzismo o di xenofobia. Per questa ragione so come si deve essere sentito Vauro quando si è sentito infamare con l’accusa di essere antisemita.
L’accusa è nata a scoppio ritardato a seguito di una vignetta in cui il mirabile disegnatore ritraeva una nota giornalista e parlamentare italiana ebrea, Fiamma Nierenstein, come una specie di Frankenstein fricchettona in gonnella, con un abitino stazzonato su cui esibisce alcuni badge di partiti politici e specificamente Pdl e Forza Nuova e una stella di Davide. La vignetta intendeva stigmatizzare la disinvoltura strumentale con cui la Nierenstein, a ogni pié sospinto, offre il suo sostegno totale e acritico al governo israeliano in carica, pavesandosi talora con la bandiera dello Stato d’Israele su cui campeggia la stella a sei punte in occasione delle manifestazioni pro Nethanyahu (surrettiziamente definite pro Israele) e trovando contemporaneamente naturale, aderire ad alleanze politiche che comprendono partiti neofascisti e neonazisti. Tutto qui.
Le vignette di Vauro sono giustamente feroci, così deve essere la grande satira, ma per sostenere che quella vignetta avesse intenzioni antisemite, antiebraiche o anti israeliane tout court, bisogna essere profondamente in malafede. Il linguaggio della vignetta è trasparente e prende di mira, insieme alla signora Nierenstein, tutti coloro che fanno dell’ebraismo o delle simpatie filosemite un’ideologia politica che mira ad accreditare le destre berlusconiana e post fascista come i veri amici degli ebrei. Comunque, qualora Fiamma Nierenstein si fosse sentita autenticamente oggetto di un’aggressione antisemita reato odioso e ripugnante avrebbe dovuto citare Vauro in giudizio. Tuttavia, farlo sarebbe stato troppo rischioso vista la totale inconsistenza dell’addebito. Meglio cogliere la palla al balzo per dare nuova linfa al proprio furore ideologico. Un’ideologia politica che mira a separare la persecuzione degli ebrei dagli altri crimini del fascismo e che prende le distanze dai valori della Resistenza antifascista.
L’intento ultimo è quello di criminalizzare la sinistra in quanto tale, di attribuirle pulsioni antiebraiche ed antisioniste e imprimere il marchio di antisemita su qualsiasi vero oppositore del governo israeliano. Vauro è stato sottoposto ad un fuoco di fila di calunnie vergate anche da penne “indipendenti” perché è di sinistra e perché è antifascista ma soprattutto perché, agli occhi di tutti i sostenitori del governo ultrareazionario e pararazzista di Netanyahu e di Lieberman, ha commesso la grave colpa di aderire alla Freedom Flottilla con lo scopo sostenere i sacrosanti diritti del popolo palestinese.
Fra i calunniatori di Vauro si è distinto per zelo interpretativo Giuseppe Caldarola che, sul quotidiano il Riformista, lo ha accusato di avere definito nella sua vignetta Fiamma Nierenstein «una sporca ebrea». Vauro ha risposto all’infamante accusa con una denuncia per diffamazione contro Caldarola. Il tribunale ha dato ragione a Vauro condannando Caldarola al pagamento di una penale di 25000 euro per diffamazione aggravata. A questo punto apriti cielo! Si è scatenata sulla stampa e sulla rete un ondata di grottesco vittimismo contro il vignettista.
Da molti anni è in corso una perniciosa campagna ideologica che fa un uso strumentale, capzioso e persino mercantile, della Memoria e della Shoah. Esiste ormai una ricca letteratura che denuncia questa micidiale deriva e se non verrà arrestata con un grande sforzo di onestà intellettuale e di coraggio anticonformista, la memoria si trasformerà in culto della falsa coscienza e della banalità retorica. L’insulto di «antisemita» diventerà meno grave di «sciocchino».
Personalmente sono grato a Vauro per avere denunciato con la folgorante sintesi che gli è propria il marasma di stereotipi che sostiene il mediocre polverone propagandistico della nostra patetica destra «filoisraeliana» & Co.

il Fatto 3.2.12
Oltre la Concordia: 1.500 immigrati morti in mare
I dati dellUnhcr sulle vittime delle traversate solo dalla Libia verso l’Europa
E le cifre sono ancora incomplete
di Silvia D’Onghia


Potrebbero essere 32 i morti nel naufragio della Costa Concordia. Un numero che in Italia fa giustamente impressione, per una tragedia avvenuta a poche decine di metri dalla costa del Giglio. Eppure nessuno si impressiona per un altro dato, questo sì spaventoso: 1500 fantasmi del mare. Uomini, donne e bambini partiti dalla Libia nel 2011 e mai arrivati in Europa. Una cifra calcolata dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, per difetto, sulla base dei racconti dei parenti e dei superstiti.
“O PEGGIO ancora – spiega la portavoce italiana dell’Unhcr, Laura Boldrini – persone che ci hanno telefonato dai barconi, e che poi non sono mai sbarcate”. Un numero, 1500, che tiene conto soltanto di coloro che sono partiti dai porti della Libia, prevalentemente intorno a Tripoli, e non invece dalla Tunisia. “Questi ultimi – ancora Boldrini – venivano in Europa per lavoro e non avevano i nostri riferimenti”. La distinzione serve a comprendere meglio il fenomeno migratorio. Nel 2011 sono partite dalla Libia, e sono giunte per lo più a Lampedusa, 28 mila persone: si tratta di rifugiati (eritrei, so-mali, ivoriani) o di lavoratori. I primi non potevano certo rientrare nei paesi d’origine, i secondi – travolti dalla caduta del regime di Gheddafi – sono partiti in cerca di un altro impiego. Entrambi i gruppi hanno presentato anche nel nostro Paese richiesta d’asilo. I tempi sono i soliti: le venti commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale devono riunirsi e valutare caso per caso. “In molti si sono visti respingere la domanda – racconta Boldrini –. Per loro il governo dovrebbe trovare soluzioni alternative, altrimenti si rischia di aver moltissimi irregolari in più. Si potrebbe pensare al rimpatrio volontario assistito, magari con un incentivo economico che superi i 200 euro prospettati finora”. Il secondo gruppo, quello dei tunisini, partiti in numero uguale, ha lasciato il proprio Paese nella speranza di poter trovare lavoro in Europa. E infatti non si sono fermati tutti in Italia. “Il governo precedente ha enfatizzato il fenomeno, creando un allarmismo ingiustificato – prosegue Boldrini –. Addirittura si è parlato di ‘tsunami umano’ e la comunicazione istituzionale ha rischiato di influenzare l’animo delle persone, che si sono impaurite. In realtà si è trattato di un numero di arrivi fisiologico, considerando che si parlava di guerra”.
Il numero dei cadaveri sepolti nel Mediterraneo potrebbe essere molto più alto della stima dell’Unhcr. Perché anche tra le odissee tunisine ci sono stati molti naufragi. Mancano all’appello, per esempio, circa 500 uomini, tutti giovani, partiti e mai arrivati. I loro parenti sono giunti nei giorni scorsi in Italia: visitano i Cie, nella speranza di trovare qualche volto familiare. Nelle stesse ore in cui la Concordia speronava uno scoglio, si perdevano le tracce di un’imbarcazione partita dalla costa tra Zlitan e Khums, a est di Tripoli. A bordo c’erano 55 migranti, sono stati recuperati 15 cadaveri, tra cui quello di una neonata. Ma questi sono morti che non fanno notizia.

l’Unità 3.2.12
Ecco perché oggi siamo più intelligenti
Le scoperte scientifiche. Rivelano che crescere in un ambiente migliore ci fa diventare più sani
L’ottimismo razionale. Ci sono molte ragioni per preferirlo. E aiuta a combattere l’ansia
Lo storico della medicina Gilberto Corbellini ricorda come si viveva in passato per ridimensionare il «pessimismo nostalgico» che spesso ci coglie oggi. Vi anticipiamo l’intervento che terrà stasera a Bologna
di Gilberto Corbellini


Programma del Festival
«Arte e Scienza in Piazza», la manifestazione di diffusione della cultura scientifica e artistica promossa dalla Fondazione Marino Golinelli, torna a Bologna, fino al 12 febbraio, con oltre 100 eventi. Gilberto Corbellini, professore di storia della medicina all’Università La Sapienza di Roma, terrà oggi un incontro dal titolo «Come siamo, come eravamo». Ricordare come si viveva in passato è un buon modo per prendere le misure al presente e ridimensionare il pessimismo che spesso ci prende. Può essere anche l’occasione per parlare di una serie di scoperte scientifiche: quelle che hanno rivelato che crescere in un ambiente migliore ci ha fatti diventare più alti, più intelligenti, più sani e più longevi; oppure quelle che hanno svelato nuovi segreti sul nostro corpo e il nostro cervello nelle diverse età della vita. Gilberto Corbellini dialogare con Emilio Franzina, professore di Storia e antropologia culturale all’Università di Verona.

Viviamo una stagione segnata da un diffuso pessimismo nostalgico. La crisi economica genera ansia per il futuro, soprattutto nei paesi che, come l’Italia, nei decenni scorsi non hanno investito in capitale cognitivo e cultura civica. Cioè negli unici strumenti di cui si sa per via empirica che sono capacidi inventare un futuro individuale e sociale che porti miglioramenti rispetto al passato. Il pessimismo nostalgico immagina il presente e il futuro peggiori del passato, ed è il risultato di un errore di giudizio ben descritto dagli psicologi cognitivi, cioè la «retrospezione rosea». Errore già noto agli antichi, i quali sapevano che memoria praeteritorum bonorum (il passato viene sempre ricordato migliore). Il pessimismo nostalgico è la conseguenza di un modo di ragionare verosimilmente utile ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, che traevano vantaggio dall’esser conservatori. Ma oggi può costituire un forte freno, personale e culturale, rispetto alla possibilità di intraprendere cambiamenti in grado di ridare concreta speranza per il futuro.
L’idea che il passato fosse migliore del presente è un errore facilmente confutabile. Nel corso delle ultime 15-20 generazioni, cioè negli ultimi trecento anni, e in modo particolarmente accentuato nel corso delle ultime 3-4 generazioni, cioè negli ultimi sessant’anni, nel mondo sonoaccadute novità su cui raramente ci si sofferma a riflettere. E si dovrebbe essere ben coscienti di cosa è cambiato e come, proprio per fare previsioni e prendere decisioni riguardanti il presente e il futuro sulla base di informazioni più corrette. Nei paesi che per primi hanno conosciuto l’industrializzazione, l’aspettativa di vita alla nascita è più che raddoppiata – da circa trent’anni a oltre settanta in media – e questo è accaduto perché è migliorata in modo straordinario la qualità della vita in generale. Le generazioni vissute nel mondo industrializzato hanno visto diminuire le cause di malattia e migliorare la salute (cioè potenzialità fisiologiche individuali), e hanno goduto progressivamente di un incremento del reddito medio pro-capite da poche centinaia di dollari ad alcune decine di migliaia; nonché di una continua, benché incostante, riduzione della diseguaglianza economica. Questi stessi miglioramenti si stanno verificando in numerosi paesi in via di sviluppo. Senza dimenticare che là dove sono avvenuti tali cambiamenti si è sviluppata anche la democrazia nel senso moderno e sempre più pieno del termine: l’organizzazione politica si è evoluta in un numero crescente di paesi in senso liberale, basando l’impianto istituzionale sullo stato di diritto, e sono cadute molte discriminazioni sociali fondate su ingiustificati pregiudizi culturali.
IL BENESSERE ECONOMICO
Che cosa ha consentito e consente la creazione e diffusione del benessere economico, sociale e sanitario a livello praticamente dell’insieme della specie umana? La ricerca storica si è finora concentrata quasi solo sulle cause prossime di questo processo, ignorando le cause remote o evolutive. La nostra biologia, cioè il bagaglio genetico con cui ogni individuo inizia la sua storia di vita e da cui dipende l’assemblaggio delle sue caratteristiche anatomiche e funzionali, è sostanzialmente rimasto identico a quello dei nostri antenati vissuti per centinaia di migliaia di anni allo stato di cacciatori-raccoglitori. Ora, gli antropologi hanno dimostrato che la transizione all’agricoltura non ha comportato, sotto quasi nessun punto di vista, un miglioramento delle condizioni di vita. Anzi, l’aspettativa di vita, a partire da diecimila anni fa, è diminuita, e solo nell’età classica è tornata mediamente ai livelli del Paleolitico, mentre la salute è peggiorata e la convivenza sociale, benché sia diventa progressivamente meno violenta, è stata governata per millenni da logiche gerarchiche di dominanza (dal totalitarismo, per usare un termine politico).
Questi iniziali cambiamenti peggiorativi sono stati la conseguenza del «mismatch», cioè della dissonanza tra le predisposizioni biologiche evolute dai nostri antenati per sopravvivere e riprodursi nell’ambiente dell’adattamento, e le nuove condizioni di vita nell’ambiente fisico e sociale creato dall’attività agricola. Dato che l’evoluzione biologica è governata dalle dinamiche della selezione naturale e che la nostra genetica è rimasta praticamente immutata, quali fattori e meccanismi hanno agito per consentire di abbattere gli effetti del mismatch? E perché siamo cambiati anche somaticamente negli ultimi tre secoli, dato che mediamente siamo diventati più alti, pesiamo di più, abbiamo acquisito un aspetto esteticamente più proporzionato e migliorato alcune capacità che caratterizzano l’intelligenza?
Si possono formulare diverse ipotesi sulle origini di tali miglioramenti, e di certo non va sottovalutato il processo di «evoluzione tecno-fisiologica» teorizzato nel 1997 dal Nobel per l’economia Robert W. Fogel e da Dora L. Costa. Secondo Fogel e Costa è stato soprattutto il miglioramento dello «status nutrizionale», a partire dagli inizi del Settecento, a innescare il processo evolutivo in senso migliorativo delle società umane. I progressi tecnologici, che cominciarono a interessare l’agricoltura e il settore manifatturiero, consentirono l’accesso ad alimenti tali, per quantità e qualità, da cominciare a incrementare la disponibilità di energia metabolica per tutte le fasi della vita umana. In modo particolare cominciarono a garantire un livello nutrizionale alle madri gravide adeguato a far nascere feti sempre meno sottopeso, e quindi anche meno predisposti a danni causati da diversi fattori di malattia. In questo modo, si innescò un aumento della durata della vita che consentì di lavorare più a lungo e in modo più efficiente, quindi di far avanzare le conoscenza e le tecnologie utili a ridurre ulteriormente l’impatto delle malattie e migliorare gli standard di vita, nonché a determinare, grazie alla logica del libero scambio, una più equa distribuzione del reddito. Col passare delle generazioni, aumentando la ricchezza, insieme alla durata della vita, si cominciavano a pianificare le scelte riproduttive e così gli standard di vita incrementavano ulteriormente, insieme a quei tratti somatici, prima ricordati, che sono indicativi di un aumentato benessere.
I cambiamenti introdotti dalla modernità hanno consentito di recuperare e contrastare gli effetti del mismatch, sviluppando una serie di tecniche (produttive, di cura e prevenzioni, istituzionali, etc.) che hanno sia risoltii problemi creati dall’allontanamento dallo «stato di natura», sia potenziate predisposizioni umane, soprattutto sul piano cognitivo e morale, già presenti nei nostri antenati del Paleolitico. In questo modo si è arrivati ad avere il meglio, sia rispetto alla vita paleolitica sia rispetto al mondo premoderno. Un meglio che non è di certo assoluto, ma ancora perfezionabile e da perfezionare. In particolare il mismatch continua causare problemi perché persistono dissonanze tra alcuni aspetti dell’ambiente o gli stili di vita moderni, e le predisposizioni o i vincoli fisiologici imposti dalla nostra genetica pleistocenica. In ogni caso, la modernità, tanto vituperata dai filosofi nichilisti e da certi integralismi ideologici, ci ha fatto guadagnare un benessere che non ha confronti nel passato. Sotto qualunque punto di vista.
IL SENSO DI RESPONSABILITÀ
Il concetto di «evoluzione tecno-fisiologica» sottovaluta forse il fatto che senza l’invenzione della scienza moderna, nei due secoli che precedettero l’inizio dei cambiamenti fisiologici e sociali appena descritti, non sarebbe stato possibile disporre delle conoscenze e degli strumenti cognitivi per innovare le tecnologie e creare opportunità di scelta che ci hanno resi anche più liberi. La scienza ha messo a disposizione dell’uomo un metodo, finalmente non ideologico, in grado di spiegare e valutare empiricamente e in modo trasparente le conseguenze delle scelte e dei processi economici, sociali e culturali in corso, e in questo modo ci ha anche migliorati sul piano morale. Grazie a questo metodo e al senso di responsabilità personale e civile che esso genera si possono continuare a studiare i problemi ancora irrisolti e quelli imprevisti, e cercare pacificamente soluzioni efficaci che non mettano a rischio le conquiste fatte e che, magari, apportino ulteriori avanzamenti alla qualità della vita e dell’ambiente.
Ci sono quindi molte ragioni per preferire l’ottimismo razionale al pessimismo nostalgico.
La mostra pensata da Giovanni Carrada e prodotta dalla Fondazione Marino Golinelli illustra i cambiamenti che sono intervenuti nella fisiologia umana, lavorando sulle predisposizioni e la flessibilità permessa dalla selezione naturale al nostro corpo e al nostro comportamento. E dimostra anche il ruolo che la scienza ha svolto nella vicenda.

il Fatto Saturno 3.2.12
C’era una volta
I quattro gatti di Lenin chiamati “maggioranza”
Cento anni fa a Praga una sparuta fazione di comunisti fondò il partito bolscevico. Una fede tramontata nel ‘91
di Emilio Gentile


CENTO ANNI FA, il 30 gennaio 1912, nasceva a Praga il partito bolscevico. Il termine “bolscevico”, che in russo significa «maggioritario», era stato coniato da Lenin nel 1903, al secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico russo, per definire la fazione da lui capeggiata, mentre chiamò «menscevichi», cioè minoritari, i suoi oppositori. Il contrasto principale era la concezione leninista del partito rivoluzionario. Lenin non credeva nella vocazione rivoluzionaria spontanea delle masse, propense piuttosto a cercare miglioramenti economici cadendo così sotto l’influenza dell’ideologia borghese. Al proletariato, la coscienza rivoluzionaria della sua missione storica, in quanto classe destinata a distruggere il capitalismo e a porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, poteva essere portata solo dall’esterno, da intellettuali borghesi convertiti alla causa della rivoluzione proletaria. Pertanto, Lenin riteneva necessario costruire un partito di avanguardia, cioè una organizzazione omogenea, centralizzata, disciplinata, guidata da rivoluzionari di professione, interamente dediti al partito, e provvisti di una efficace teoria rivoluzionaria per la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato. La sua concezione del partito fu respinta dai menscevichi, fra cui Trotskij, i quali accusarono Lenin di essere un autoritario arrogante con pretese da “superuomo”. Nel 1903, i menscevichi vinsero. Contro di essi, Lenin ingaggiò per un decennio una lotta tenace, usando l’argomentazione teorica e l’insulto polemico. Per far trionfare la sua fazione, acconsentì a finanziarla col denaro proveniente da rapine a mano armata, compiute da bolscevichi, fra i quali si segnalò il georgiano Stalin. I metodi spregiudicati e la pretesa di aver sempre ragione isolarono Lenin nel partito socialdemocratico e allontanarono da lui anche compagni bolscevichi. Ma a Praga, nel 1912, si prese la rivincita, organizzando una conferenza del partito socialdemocratico russo a cui parteciparono solo diciotto delegati, di cui sedici bolscevichi. Lenin proclamò che il partito si identificava ora con il bolscevismo, anche se non tutti i bolscevichi erano d’accordo con lui. Nella sua fazione divenuta partito, Lenin fu un capo riconosciuto, ma non fu mai un dittatore incontrastato.
Dotato di immensa fede in se stesso e di grande energia intellettuale, Lenin era convinto di essere l’unico in possesso della teoria rivoluzionaria che avrebbe condotto il proletariato al potere. Cinque anni dopo, i fatti sembrarono dargli ragione. Nell’ottobre 1917, il partito bolscevico, con meno di trentamila iscritti, conquistò il potere in Russia e instaurò col terrore la propria dittatura sul proletariato, proponendosi come guida mondiale nella lotta contro il capitalismo. Mezzo secolo dopo, i regimi comunisti sorti nella scia del partito di Lenin, pur con varianti ideologiche e peculiarità nazionali, coprivano un territorio immenso, che si estendeva dal centro dell’Europa fino al Pacifico; e ve ne erano anche in Africa e in America latina; e in tutti gli Stati c’erano partiti rivoluzionari che si ispiravano al modello del partito leninista. Il comunismo divenne la più universale e la più potente fra le religioni politiche, conquistando milioni di proseliti con la promessa di scacciare il Male dal mondo. E fu anche una delle più spietate, sacrificando milioni di vittime innocenti con la pretesa di liberare l’umanità da ogni sofferenza.
Il Male non è stato scacciato dal mondo, ma dal 1991 il partito fondato da Lenin non esiste più: è scomparso insieme al regime totalitario che aveva fondato, come è scomparsa gran parte dei regimi totalitari costruiti sul suo modello. Di quelli che sopravvivono, alcuni sembrano fossili senza vita, altri hanno riacquistato vitalità imitando il Male che volevano distruggere. La concezione leninista del partito non attrae più intellettuali borghesi convinti d’essere la guida eletta della rivoluzione proletaria, disposti a usare il terrore per realizzare il Bene. La religione comunista è tramontata, forse per sempre. E sono altre le religioni che oggi usano il terrore per liberare il mondo dal Male.
Hélène Carrère d’Encausse, Lenin. L’uomo che ha cambiato la storia del ‘900, Corbaccio 2000;
Robert Service, Lenin. L’uomo, il leader, il mito, Mondadori 2001;
Robert Service, Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, La-terza 2011

il Fatto Saturno 3.2.12
Oltre Marx rileggiamo anche Lukács
di Marco Filoni


IL FENOMENO è ormai noto. Altro che morto e sepolto: il buon vecchio Karl Marx gode di ottima salute. Forse come non mai. I suoi libri vengono ristampati, il suo pensiero rivalutato anche da insospettabili: liberali, liberisti, progressisti sinora attenti a marcare le distanze dal marxismo, addirittura un cardinale (fra l’altro omonimo: Reinhard Marx) che ha dedicato un libro al Capitale. Arriva pure un film che corona il sogno di Eisenstein, il regista russo della Corazzata Potëmkin: portare sullo schermo il Capitale. Ci ha pensato Alexandre Kluge, autore di culto in Germania, con un cofanetto in 3 dvd per ben 10 ore: nonostante la durata, un successo di pubblico e di critica, accolto con entusiasmo anche dai più conservatori. Pare insomma che oggi Marx sia fra gli autori più in voga, riscoperto come un classico al quale ispirarsi in tempi di crisi. Prendendo atto di questa “rinascita”, val la pena porre una questione: solo Marx merita di esser riscoperto? Perché non rileggere anche alcuni marxisti, ortodossi o meno, organici o disorganici, che tanto piacevano agli intellettuali nel ’68 e che da allora sono caduti nel dimenticatoio? A leggere certe critiche al sistema capitalistico e finanziario che vengono poste oggi, sembra di scorgere l’eco di una ricca tradizione del marxismo europeo del Novecento. Un esempio può venire dal più insigne fra i critici letterari e filosofi marxisti di tutti i tempi, l’ungherese György Lukács. L’occasione è data dalla ripubblicazione, poco più di trent’anni dalla sua prima comparsa, di un’importante monografia di Elio Matassi: Il giovane Lukács. Saggio e sistema (Mimesis). E va salutata con interesse per più d’un motivo. Anzitutto perché è la più chiara e armonica ricostruzione teorica di quello che comunemente viene chiamato il primo Lukács. Ma non solo: a Matassi riesce, problematizzandola, di rifuggire dalla ormai scolastica distinzione fra un Lukács votato all’estetica e alla critica letteraria dei primi scritti (che hanno influito in maniera determinante sugli esistenzialisti così come sulla Scuola di Francoforte) e a un Lukács dopo la “svolta” (ovvero un pensiero ispirato al materialismo dialettico e votato alla creazione di un’estetica marxista, di cui sarebbe espressione l’ormai classica La distruzione della ragione). Senza epurare le componenti materialistiche e “politiche” del filosofo, Matassi invita a ricostruire l’evoluzione intellettuale di Lukács «rovesciando quello che dovrebbe essere l’unico criterio autenticamente discriminativo, ossia valutare un’esperienza intellettuale, qualsiasi esperienza intellettuale, a partire dalla sua conclusione e non dalle sue origini». Insomma, non più un Lukács giovane e uno della maturità, uno decadente e l’altro marxista, ma un pensiero che si è evoluto e ha assunto nel suo sviluppo tonalità differenti. Va reso merito a Matassi d’aver saputo, per primo, offrire un’analisi libera dall’ideologia che per anni ha tenuto incatenate figure importanti del nostro Novecento. Leggiamo Marx, leggiamo pensatori che sono stati organici col nazionalsocialismo come Carl Schmitt e Martin Heidegger, quindi si può tornare a leggere senza scandalo neo-marxisti come Lukács – che in Italia, come giustamente sottolinea Matassi, ha avuto un ruolo in intellettuali come Franco Fortini, Alberto Asor Rosa, Furio Jesi o Massimo Cacciari. E pensare che Lukács sembrava destinato alla polvere delle biblioteche. Invece, anche grazie a questo libro, può essere una buona occasione per fare i conti, senza ansie rabbiose o apologetiche, con quel periodo delle contrapposizioni ideologiche che la storia, speriamo una volta per tutte, ha seppellito.
Elio Matassi, Il giovane Lukács, Mimesis, pagg. 187, • 15,00

Corriere della Sera 3.2.12
«Gramsci ripudiò il comunismo» Il giallo del quaderno mancante
di Antonio Carioti


Il caso Gramsci resta aperto. Pensatore tra i più letti al mondo, è un vanto del marxismo italiano e del Pci, di cui fu leader. Ma tra lui e il partito, specie dopo la sua incarcerazione sotto il fascismo, vi furono contrasti e dissensi. «Antonio Gramsci non muore culturalmente comunista: è un uomo in crisi che cerca una via, perché è consapevole delle ragioni per cui sta fallendo l'esperienza bolscevica», dichiara al «Corriere» il filosofo del linguaggio Franco Lo Piparo, che ha appena rilanciato la questione con un saggio dal titolo assai significativo: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 152, € 16).
Tra l'altro, in una lettera del 27 febbraio 1933, Gramsci afferma di avere l'impressione che la sua vita sia stata un «dirizzone», cioè una cantonata, un abbaglio. Per Lo Piparo qui il riferimento, per quanto sottinteso, è proprio all'ideologia comunista, da cui l'intellettuale sardo si sarebbe sentito ormai distante.
Dissente da questa interpretazione, come ha scritto ieri sul «Manifesto», lo studioso del pensiero politico Guido Liguori: «Nella stessa lettera Gramsci manifesta grande fiducia nella cognata Tania Schucht e in Piero Sraffa, che erano gli anelli di collegamento tra lui, l'Urss e il Pci. Non si può parlare di una rottura con il comunismo: la sua critica rimane sempre interna al movimento nato dalla rivoluzione d'Ottobre. Semmai Gramsci, riflettendo sulla sconfitta subita negli anni Venti, intende proporre lui stesso una concezione teorica adeguata per l'affermazione del marxismo in Occidente».
Un altro punto su cui Lo Piparo insiste è l'ipotesi che, oltre ai Quaderni del carcere gramsciani a tutti noti, ve ne fosse un altro, forse fatto sparire per il suo contenuto eretico. Sull'«Unità» di ieri Gianni Francioni ha smentito tale eventualità, spiegando il mistero del «quaderno scomparso» con un errore di numerazione di Tania. Ma Lo Piparo non è convinto: «C'è una lettera di Julia Schucht, moglie di Antonio, e dell'altra sorella Eugenia, del 5 dicembre 1940, in cui si citano 30 quaderni di riflessioni teoriche, mentre noi ne abbiamo solo 29. E anche altri grossi indizi suggeriscono che ce ne fosse uno in più rispetto a quelli che sono stati pubblicati».
Liguori la pensa diversamente: «I quaderni erano più di 30. Se si contano quelli di traduzioni, quelli in bianco, quello compilato da Tania come indice, si arriva a 36. Errori ed equivoci nel conto mi sembrano inevitabili. Ed è insostenibile l'idea di Lo Piparo che il presunto quaderno scomparso sia stato distrutto in Italia, dopo la fine del fascismo, mentre si poteva benissimo farlo sparire in Urss».

Repubblica 3.2.12
Il Cremlino e la rivolta degli innocenti
Così lottano i ragazzi dell’Internet café
di Ezio Mauro


L’ultima rivoluzione russa va in onda dal caffè vietnamita, sulla Nikolymskaja, all´angolo col Kolzò, l´anello che circonda il centro di Mosca. Apri la porta, parte la musica di "Magic Moments", ed entri nella quarta dimensione.
L´uomo che ha trovato la chiave di questo universo parallelo ha 35 anni, fa l´avvocato con un anno di specializzazione a Yale, ed è diventato il nemico numero uno del Cremlino, il capo della protesta che domani torna in piazza contro i brogli elettorali in vista delle elezioni per il Presidente della Russia.
Adesso Aleksej Navalnyj sta nel divano in fondo, circondato da tre collaboratori sotto i trent´anni, e qui riceve i giornalisti stranieri, nel caffè trasformato in ufficio volante della rivolta. Dice che è il suo mestiere che lo ha portato a leggere i bilanci delle grandi aziende russe, a documentare gli sprechi e la corruzione che cresce attorno al potere. Poi, la decisione di mettere cifre, sigle, nomi e cognomi su un blog, che si è trasformato in uno show online, che cresce ogni giorno.
A quel punto, spiega, il potere ha cominciato a perdere l´equilibrio. E lui, che dietro ogni azienda e ogni potentato economico vedeva sempre la "montagna" Putin, si è trovato senza accorgersene a fare politica. Finché una radio gli ha messo il microfono davanti e gli ha chiesto cosa pensa di "Russia Unita", il partito di Putin e Medvedev, i due leader che si scambiano da dodici anni le cariche al vertice dello Stato. Incredibilmente, sulle onde medie si è sentito un giudizio a cui la Russia non era abituata: "Un partito di ladri e di malfattori", ha infatti detto Navalnyj, ripreso e rilanciato da mille blog e dal tam tam infernale di Facebook.
La frase ha incominciato a vivere di vita propria e il potere che credeva di controllare tutto, si è dovuto accorgere del vortice incontrollato di Internet. Blog, siti sociali, clip amatoriali, una valanga di notizie, denunce, sberleffi corre sotto il controllo ufficiale dell´informazione di regime, lancia gli appuntamenti, aggiorna le parole d´ordine, convoca le manifestazioni, guida la piazza.
Noi non possiamo usare niente di fisico, dice Navalnyj, manifesti, volantini o giornali, perché la polizia controlla tutto. Allora è stato giocoforza spostarci in una dimensione parallela, tutta virtuale e in rete: la quarta dimensione, appunto.
Il potere non può seguirci, perché loro hanno una cultura materiale, da apparato, da controllo. Non sanno che fare. Putin aveva definito "criceti del computer" i ragazzi del web. Nell´ultima manifestazione di piazza, il 24 dicembre, uno striscione diceva: stai attento, i criceti si sono alzati in piedi, e oggi sono qui. Internet non è più controllabile, troppo tardi, il potere non ha alzato un firewall di filtro all´inizio, adesso ci sarebbe la rivolta di 60 milioni di utenti, con Mosca tutta ormai wireless, le infrastrutture finanziarie delle grandi aziende che operano solo in rete.
E così è in pieno svolgimento la battaglia nuovissima tra l´Internet dei popoli e la televisione del potere, che prova a nascondere, delegittimare, confondere. Navalnyj, ad esempio, non è mai comparso sulla prima rete di Stato, nemmeno quando ha portato centomila persone dall´Oktjabreskaja a piazza Bolotnaja (il luogo delle esecuzioni ai tempi dello Zar) attraverso il ponte dei matrimoni, stracolmo di ragazzi.
Ma dopo Capodanno, quand´è tornato con la sua famiglia da una decina di giorni in Messico, ha trovato due troupe con telecamere e microfoni: perché va in vacanza in Messico? È vero che sua moglie è americana e vive negli Stati Uniti? Lui ha mostrato alle telecamere la moglie e i due passaporti russi. Poi ha preso le immagini, e le ha messe sul suo blog. L´unica difesa che abbiamo, spiega, è dire tutto, sempre, su tutto. Solo la trasparenza ci può salvare dall´opacità del potere, che sta provando anche a creare eroi di regime su Internet. Come l´anonimo che si firma "Il ragazzo col gatto", e minaccia dal web: fatevi pure le vostre rivoluzioni ma poi non lamentatevi se l´America finirà per invaderci e se i suoi soldati verranno qui a fare le stesse porcherie che hanno fatto in Vietnam e in Iraq: i nostri bisnonni non hanno certo tagliato la gola ai circassi e i nostri nonni non hanno fermato i nazisti per permettere al signor Navalnyj di distruggere la Russia con la sua propaganda pagata dagli americani.
Piantato in mezzo al bulvar, il viale interno più bello di Mosca, lo scrittore Viktor Erofeev alza gli occhi al cielo pulito dal freddo di questi giorni. Un tempo così, spiega, lo aspettavamo da novembre, cielo azzurro, sole, l´aria tersa come capita solo pochi giorni ogni inverno: e su questo paesaggio, è ancor meno sopportabile lo sporco del potere. Putin vincerà alle elezioni presidenziali del 4 marzo, ma Erofeev percepisce l´affanno del Cremlino, il disagio per gli attacchi violenti, l´incertezza non nel risultato, ma nella legittimazione. E a quel punto, si domanda lo scrittore, che Putin sarà? L´europeo, che sorride all´Italia, guarda alla Germania, fa accordi con l´America e accontenta la fascia giovane della popolazione, già occidentale nei consumi? Oppure l´uomo con la memoria del Kgb, che flirta col Venezuela, stuzzica gli Usa, cerca intese con la Cina? Nessuno oggi può dirlo.
Il mistero Putin forse diventerà un romanzo di Erofeev. Un mistero che secondo lui gli occidentali non possono capire, perché usano categorie sommarie, e trattano Putin come un dittatore. E invece è un ufficiale del Kgb, pronto a comprare e vendere, perché abituato a negoziare sempre uno scambio. Per lo scrittore, lo scambio che il Cremlino propone ai russi è chiarissimo: vi do la libertà privata che non avete mai avuto in cambio della lealtà politica. Arricchitevi come volete, garantisco io e vi assicuro impunità: ma girate al largo dalla politica, che è roba mia.
Come mai questo patto si è rotto? Dice Viktor Loshak, direttore da vent´anni di giornali progressisti, prima Moskovskie Novosti e oggi Ogoniok, che succede così quando si forma una classe media, in un Paese dove non c´è mai stata un´autonomia del sociale, e non è mai nata una pubblica opinione. Loshak ha chiesto poche settimane fa a Grigori Javlinskij, l´eterno antagonista di Putin a cui viene impedito di candidarsi, perché non si decide a dare battaglia. Perché, è stata la risposta, non ho mai visto perdere un leader che in otto anni ha aumentato di cinque volte il reddito medio del Paese: contro Putin è inutile. E tuttavia sono proprio loro, i nuovi ceti medi in formazione che vanno in piazza. Non li avevo mai visti, dice il giornalista, mai come oggi: giovani, colti, professionali, hanno soldi, stanno bene, hanno qualcosa da perdere nella rivolta e invece eccoli che escono dalle case e dagli uffici e ingrossano la protesta. Per la prima volta, è una generazione interamente nuova che si manifesta: non più sovietica, soltanto russa, senza le colpe collettive del passato, la colpa di chi porta il giogo della dittatura comunista. Una generazione mai battuta, mai colpita dal potere sovietico e dalle sue umiliazioni. In questo senso è la rivolta degli "innocenti".
Anche se qualcosa del passato rimane in questa democratura che è la Russia 2012. Basta andare a trovare a Kommersant Oleg Kashin, che ha scritto un lungo articolo sulla protesta per difendere il bosco di Khimki, alla periferia di Mosca, minacciato da un raddoppio autostradale, e quando una sera tardi è tornato a casa ha trovato due persone che lo aspettavano sul marciapiede con un mazzo di fiori in mano. Nel mazzo c´era un tubo di ferro, lo hanno colpito più di 50 volte in testa, lasciandolo nel sangue finché ore dopo un netturbino non ha chiamato un´ambulanza.
Quel bosco che comincia dove i russi hanno fermato i nazisti, è coperto di neve, col sentiero battuto in mezzo a pioppi e acacie, e subito dietro si allungano le betulle, alte, bianche e flessibili. Soltanto che, appena ti avvicini, c´è una macchia di vernice rossa sopra un vecchio pioppo, su quella betulla, sull´acacia qui di fianco, forte e robusta. È il segno che quegli alberi sono condannati, devono morire, qui passa il tracciato della strada che trasformerà il bosco, come dice il generale Gromov, governatore, in una "infrastruttura".
Evghenija Cirikova, che ha 35 anni e due figlie piccole, vive a pochi passi dal bosco, in due stanze al primo piano di una vecchia casa kruscioviana dove Mosca finisce e non comincia nient´altro che periferia. Lei è entrata nella piccola foresta con altre mamme, qualche studente, pochi contadini coi capelli bianchi. Si sono fermati davanti ad un recinto di fortuna: la Zona. Dentro, hanno visto l´inizio della distruzione: alberi tagliati, tronchi piegati, mozziconi di pioppi, ceppi di betulla, un cimitero di alberi, sotto la neve. E attorno tutti quei segni rossi sugli altri alberi da abbattere.
Evghenija, che non aveva mai fatto politica in vita sua, si è infilata sotto i bulldozer, e li ha fermati col suo corpo, insieme con i suoi amici. Poi il potere ha cercato di negoziare, offrendole una casa più grande, ma lei ha risposto che vuole capire che fine faranno i boschi e il verde attorno a Mosca, i fiumi e i laghetti. Non sono del potere, ma nostri, spiega, non possono decidere loro. Devono smetterla di trasformare il nostro territorio in soldi, che attraverso soci francesi si infilano in un saliscendi di off-shore e finiscono agli amici del Cremlino: basta con questo potere incontrollato e famelico.
Mentre lo diceva, Evghenija ha cominciato a far politica, è finita sul palco di tutte le manifestazioni, vengono ecologisti da lontano a parlarle, oggi le televisioni svedese e finlandese la scortano nel bosco. Qui ha scelto la zona più bella, Bubrova, al confine coi tagli, e ha montato un vagone dove c´è una vigilanza 24 ore su 24, una sorta di sentinella a guardia della natura russa minacciata dal potere. Attorno, hanno scavato qualche trincea di difesa, c´è il riparo per i cani, e dentro ci sta appena un letto, una chitarra e una stufa. Per ora, i lavori proseguono tutt´attorno, e lì Evghenija li ha fermati.
Ma non le basta più. Ha creato da un mese una radio ecologista sul web, diretta da Aleksej Massolov, domani una colonna ecologista marcerà alla manifestazione, un´altra novità politica assoluta. Il giorno prima del voto contestato per il Parlamento, il gruppo del bosco di Khimki si è presentato davanti alla Casa Bianca, sede del governo, a chiedere giustizia, Evghenija aveva in mano una bilancia di plastica presa tra i giochi di sua figlia, l´hanno bloccata, portata via, fermata per un giorno. È bastato un barrito dalla sirena del furgone della milizia per disperdere in un attimo tutto il gruppo. Ma il giorno dopo Evghenija ha ricominciato, e non ha più smesso. Se prendi coscienza dei tuoi diritti, spiega, vuoi andare fino in fondo, vuoi semplicemente essere libero. Ecco perché vado in piazza a parlare del bosco, ma anche a chiedere elezioni libere, questo potere se ne deve andare.
Dove ha preso la gente questa forza che non ha mai avuto, questa voglia di contare? Per capirlo bisogna entrare nella rete di Navalnyj e dei suoi ragazzi avvocati, accampati in otto in quattro stanze, ognuno davanti al suo computer, e con una sola penna per tutti, relitto del passato. Dunque, ecco come si stimola la cosiddetta società civile, perché si muova. Konstantin Kolmykov, 29 anni, apre il sito di RosPil (vuol dire segatura di Russia, ciò che resta dopo la rapina) che ha come immagine ufficiale l´aquila di Stato a due teste, ma con due seghe al posto degli artigli. Infatti il sito serve a controllare come vengono spesi i denari delle commesse pubbliche, visto che Medvedev ha denunciato come su cinque trilioni di rubli spesi ogni anno uno venga rubato.
Funziona così. La gente manda le sue denunce al sito, che le pubblica, 93 avvocati indagano, per ogni materia si apre un portafoglio elettronico, si raccolgono contributi dalla popolazione, e si fornisce il rendiconto. Eccolo qui che scorre sullo schermo: verifiche in corso 212, denunce odierne 41, soldi recuperati più di quaranta miliardi di rubli. Per l´esattezza 40.407.536.066,71, cioè più o meno un miliardo di euro. Il rendiconto delle spese viene subito dopo: 5.660.285 rubli, vale a dire 75mila euro circa.
I russi scoprono che possono essere ascoltati, che dopo essere stati sudditi e bolscevichi possono diventare cittadini, capiscono che il potere si può addirittura fermare. Come quando RosPil ha scoperto che il governo della regione di Khabarovsk aveva deciso di farsi realizzare un sito Internet del costo di 25 miliardi di rubli, una cifra pazzesca. Denuncia sul sito, avvocati al lavoro, ricorso all´authority, denuncia per mancata concorrenza. Ricorso vinto, l´appalto è annullato, va fatta una gara. Ma il governo regionale rinuncia alla gara e a tutto. Non gli interessava il sito, evidentemente, ma la montagna di quattrini.
Ecco allora che si spiegano gli "Automobilisti organizzati" che si raccolgono attorno a Viktor Klepikov, 35 anni, e Sergej Kanaev, 36. O i seimila iscritti al sito "La buca russa" alimentato da Fedor Ezyev, che aiuta a far denuncia, codice alla mano, per le buche in strada. Fino ad arrivare al lavoro di Dmitryj Volov, 28 anni, che monitorizza le spese delle grandi corporazioni statali, i giganti del petrolio, e fa una battaglia legale continua per la trasparenza dei bilanci delle aziende e delle banche. L´ultima raffica di ingiunzioni spedite a una decina di società riguarda i verbali delle riunioni dei Consigli di amministrazione. Qualcuna ha risposto, molte no, sono partiti i ricorsi, Dmitryj ha vinto contro Transnieft, a cui è stato imposto di rendere pubblici i dati richiesti.
Infine, e inevitabilmente, tutto porta e ritorna alla politica. Perché i ragazzi di Navalnyj usano lo stesso sistema per monitorare le prossime elezioni di marzo. Zhora Alburov, 22 anni, ha lanciato il sito di Rosvybori, elezioni russe. Qui si registra liberamente chi vuole fare l´osservatore contro i brogli, non vengono chieste patenti politiche o affiliazioni. Il volontario scrive, un sistema automatico lo indirizza ad un seggio della sua zona dove alle elezioni parlamentari ci sono state percentuali sospette a favore del potere, sempre il sistema fornisce il nome dell´osservatore ai partiti d´opposizione che possono inviarlo come loro rappresentante al seggio. Fino ad oggi i volontari sono già 20mila, 10mila a Mosca, gli altri fuori. È come se un grande computer rovesciato avesse cominciato a controllare il potere.
La vera partita per il voto che dovrebbe dare a Putin secondo tutti la vittoria al primo turno, una vittoria che il movimento considera un´autonomina si gioca a Mosca. La provincia sterminata della Russia dei villaggi sta con Putin, nell´idea che il potere debba coincidere con la "sila", la forza, con le tradizioni profonde, con l´anima russa eterna che è un´anima imperiale, e che Putin ha restituito intatta dopo la disfatta dell´imperialismo sovietico. Ma il movimento di protesta è cittadino, metropolitano, senza fili, creativo. Se si va di mattina dalle parti della vecchia fabbrica dolciaria "Ottobre Rosso", che spandeva il suo odore di cioccolato sovietico poroso fino al ponte, si scopre una zona di loft, cineforum, pub e birrerie che cambia il volto di Mosca. Qui guardando dai vetri la Moscova ghiacciata il pubblicitario Jurij Saprikin si occupa dell´estetica della rivoluzione. Prima ha selezionato la musica, fermandosi sulle vecchia musiche della perestrojka, cantata dai "Kino´" ("Vogliamo il cambiamento") e soprattutto dal gruppo "Ddt" di Jurij Shevcjuk. Poi ha raccolto gli artisti di strada finché quelli di "Vojna´" hanno cominciato a dare fuoco a finte auto di polizia ad ogni performance.
E qui, l´estetica ha cominciato a mescolare codici e linguaggi. Col laser è stato proiettato il teschio con le tibie incrociate dei pirati proprio sulla facciata della Casa Bianca, basta un minuto, tanto l´immagine finisce su YouTube dove verrà moltiplicata all´infinito e vivrà per sempre. Al museo di biologia dieci ragazzi hanno improvvisato scene di vero sesso per festeggiare "l´orsetto Medvedev", prima di fuggire. Poi la protesta degli automobilisti contro l´arroganza dei lampeggianti, con migliaia di auto che sfilavano per Mosca con un secchiello da bambino incollato al tetto, a simulare un lampeggiante, e la polizia che non sapeva che fare. Infine il colore bianco, portatelo tutti, un nastro o un fiore, chiedeva il web quando Putin ha annunciato la sua ricandidatura. Adesso, i palloncini bianchi. Perché la Bolotnaja dove si conclude la manifestazione è infossata, ma se si alzano in cielo anche dall´alto del Cremlino li vedono.
E i vecchi, in mezzo a tutti questi ragazzi designer, programmisti, campioni di YouTube: cos´hanno da dire i vecchi? È ancora viva una generazione maledetta, quella dei "Shestidisiatniki", i ragazzi degli anni Sessanta, che avevano fatto in tempo a credere nel breve disgelo di Krusciov per poi finire sepolti sotto la stagnazione brezneviana, e quindi faticosamente erano tornati a sperare inutilmente con la perestrojka. Adesso sono ai margini, sanno tutto e non contano nulla, conservano come hanno fatto per decenni la profezia di Bulgakov: «Tutto può ancora accadere perché nulla può durare in eterno».
Ma è giusto chiedere cosa sta succedendo a un vecchio dissidente, lo storico Roy Medvedev, che ha 87 anni e vive in fondo al Kutuzovskij Prospekt, dove va ogni giorno a riordinare la carte nel suo piccolo ufficio. Roy Aleksandrovic dice che al contrario del popolo della protesta, lui rispetta profondamente Vladimir Putin, e proprio per le ragioni che l´Occidente non capisce: basta voltarsi indietro, guardare alla stagione terribile degli anni Novanta, l´era di Eltsin, ricordarsi come la Russia stava crollando disfacendosi, tanto che nel suo villaggio sono morti tutti. Oggi, dice Roy Medvedev, il Paese è solido, la gente vive meglio, il timone della Russia è di nuovo governato, anche se capisco che questo possa dispiacere all´Occidente, e che i nostri ragazzi vogliano di più. Ma quel che conta è la Russia, e la Russia si è salvata.
Nel suo ufficio da monarca spodestato, pieno di fotografie coi Grandi della terra, Mikhail Gorbaciov dice che è vero, e proprio per questa ragione Putin dovrebbe ritirarsi dopo tre mandati, salvando ciò che ha fatto per la Russia, senza ostinarsi a durare oltre il limite. Mikhail Sergheevic ha 81 anni, si porta addosso la maledizione dell´ultimo Segretario Generale più dei meriti del primo riformatore. Ma una cosa vuole dirla: questi ragazzi hanno coraggio, li chiamano figli della perestrojka, allora vuol dire che noi vent´anni fa abbiamo gettato il seme di qualche speranza, che oggi matura.
Adesso si dice che la manifestazione vedrà meno gente, fa molto freddo, nevica e Facebook che moltiplica gli appelli ingigantisce anche i litigi tra i capi del movimento, con le accuse a Navalnyj per il suo passato nazionalista di destra, gli attacchi a Evghenija Cirikova per essere una sorta di hippy fuori tempo e fuori Paese, le critiche ai cosiddetti "ragazzi di Jean Jacques", più attirati dalle mode che dalla protesta, preoccupati solo di ritrovarsi nella birreria con quel nome vicino all´Arbat.
Pochi, tanti? Ma vedete, dice Denis Bylunov dagli studi della nuova tv di Solidarnost, che anche voi come loro siete figli di una cultura materiale, per voi contano solo i numeri e le quantità, mentre il muro si è rotto proprio per la qualità della protesta. La madre di Denis ha allenato la nazionale russa di scacchi, e lui stesso è stato assistente di Garry Kasparov, dunque gli scacchi spiegano tutto, la partita è appena cominciata. Noi, dice, siamo una minaccia perenne, e non più eliminabile: e il manuale di scacchi dimostra che la minaccia può essere più devastante dell´attacco frontale, e porta alla vittoria.
Al viet café chiedo a Navalnyj quanto può sopravvivere la pura protesta, senza uno sbocco politico. Lui dice che entro cinque anni ci saranno elezioni libere in Russia, e allora si candiderà. Altrimenti? Allarga le braccia, dice che non si può essere eroi di Internet per sempre, la rete mangia e consuma, la gente si stuferà, ma loro saranno stati utili comunque. Poi tace guardando due ragazzi che si baciano sul divano giù in fondo, incuranti del destino di questa rivoluzione da bar, anzi da Internet café.

La Stampa 3.2.12
A Roma il caos delle scuole “Aperte ma senza lezioni”
La decisione del sindaco Gianni Alemanno divide la Capitale: gli studenti non dovranno giustificare l’assenza, i docenti sì
di Francesco Semprini


BABY PARKING Chi vuole potrà portare i figli in classe dove saranno assistiti
LE POLEMICHE Molte famiglie disorientate «Decisione assurda»

Dopo aver colpito il Nord e il Centro Italia, il gelo siberiano si affaccia su Roma dove il sindaco Gianni Alemanno decreta la sospensione delle lezioni per oggi e domani. Questo non vuol dire che le scuole rimarranno chiuse, i portoni apriranno puntualmente come ogni mattina per venire incontro a chi non può o non vuole rimanere a casa. La direttiva del primo cittadino crea scompiglio: «A scuola ci si deve andare o no? », si chiedono in tanti. Dipende: maestri e professori sono obbligati a recarsi negli istituti, ma tante scuole sino a ieri sera non avevano ricevuto alcuna comunicazione ufficiale, i ragazzi invece possono scegliere se disertare le aule, anche perché non risulteranno assenti visto che le lezioni sono sospese. «Nel caso in cui i genitori non sapessero dove lasciare i figli spiega il Campidoglio potranno portarli nelle scuole e nei nidi dove però non ci sarà attività didattica. Se invece i professori non vanno a scuola dovranno giustificare l’assenza».
Il chiarimento non basta: è Universinet.it, il portale degli studenti, a farsi portavoce del generale disorientamento. «Il nostro forum dice il direttore editoriale Renato Reggiani è preso d’assalto da genitori confusi che non sanno cosa fare». La direttiva genera arcani di difficile soluzione per il Comune. «Se entrambi i genitori lavorano, il blocco della didattica può giustificare l’assenza di uno dei due costretto a rimanere con i figli? domanda un cittadino sul forum O se i docenti saranno bloccati dalla temuta nevicata, e la scuola sarà chiusa cosa succederà? ». Insomma siamo alle solite: «È l’ennesimo pasticcio alla romana. dice qualcun altro Avanti così, nel caos più totale». Dopo i cittadini sono i politici a farsi sentire. «L’allarme neve deve aver congelato di freddo le idee delle teste d’uovo del Campidoglio», avverte Antonio Stampete, consigliere del Pd Capitolino. Rincara la dose il collega de La Destra, Francesco Storace: «Non si capisce perché Alemanno ordini il blocco delle lezioni, mentre Roma-Inter si disputa. Il tutto nella stessa giornata di sabato. A chi devono dare retta i cittadini? Devono andare a scuola o allo stadio? ». A dar manforte al sindaco è invece il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini: «Nessuno di noi può interferire, con questa decisione che peraltro rappresenta una prassi legittima».
I disagi nella capitale insomma sono iniziati già prima dell’arrivo della neve e del gelo la cui morsa sta tenendo sotto scacco da giorni il Centro e il Nord del Paese. La discesa in Italia del «generale inverno» ha costretto le autorità comunali a chiudere le scuole un po’ ovunque. Come in Ciociaria e nel Viterbese, e in diversi comuni di Umbria, Molise e Abruzzo, in particolare Pescara e provincia. In Toscana scuole chiuse nell’aretino, a Siena, Prato, Pisa e Livorno, così come in molte province dell’Emilia Romagna, prima fra tutte Bologna, tra le città più colpite dall’ondata di freddo. I disagi permangono in tutto il Nord, a Est in particolare nel Veneto e a Ovest, nelle province piemontesi.
Lezioni in corso invece a Genova e a nel capoluogo piemontese. Ieri il sindaco Piero Fassino è stato chiaro: «Con le attuali previsioni meteo non è necessario chiudere gli istituti o altri edifici». Genitori, studenti e professori sono avvertiti: a Torino tutti a scuola.

il Fatto 3.2.12
Pestaggio squadrista. Dopo la denuncia de “Il Fatto”
Alemanno e i picchiatori. Roma riapre l’inchiesta
Ascoltati i primi testimoni dell’aggressione a un ragazzo che nel 2009 si era ribellato al saluto romano. Episodio, finora coperto da un muro di omertà, cui assistette il figlio del sindaco
di Valeria Pacelli e Ferruccio Sansa


Sfilano i testimoni. Vengono mostrate le foto per i riconoscimenti. L’inchiesta sul pestaggio fascista del 2 giugno 2009 riparte a marce forzate dopo l’articolo del Fatto Quotidiano. L’obiettivo è ricostruire ogni istante del raid: prima di tutto si vuole stabilire chi erano i picchiatori e i minori piombati subito prima nel condominio della Camilluccia facendo il saluto romano e inneggiando al Duce. Ma si vogliono anche chiarire le circostanze rimaste nell’ombra: la telefonata che uno dei minori avrebbe fatto a un cellulare intestato a Luigi Bisignani, sì, proprio il potentissimo protagonista dell’inchiesta P4. Poi c’è l’agente di polizia che, secondo le prime indagini, avrebbe fatto da autista alla famiglia di Gianni Alemanno e Isabella Rauti portando via il figlio del sindaco dal luogo del pestaggio. Gli inquirenti vogliono capire a che titolo il poliziotto svolgesse questo compito ed eventualmente con quale compenso.
Interrogatori lunghi e approfonditi quelli di ieri, davanti al pm Barbara Zuin. Per due anni e mezzo l’aggressione è stata coperta da un velo di omertà e paura, tanto che l’inchiesta era avviata all’archiviazione. Ora tutto riparte. Il pm intende fare chiarezza, anche se l’unico reato contestabile sembra la violazione di domicilio, in quanto manca la denuncia del povero ragazzo vittima dell’aggressione. I primi testimoni hanno ribadito la loro versione: è il 2 giugno del 2009, festa della Repubblica.
NELLA PISCINA di uno dei comprensori più belli della Camilluccia ci sono due gruppi di ragazzi. Da un lato gli amici quindicenni della famiglia Lombardo Pijola-Vitelli, lei scrittrice e giornalista di punta del Messaggero, lui primario dell’ospedale San Giovanni. A un certo punto compare un gruppo di adolescenti (intorno ai 14 anni) amici di una ragazza. Tra loro, secondo diverse testimonianze, c’è chi fa il saluto romano e inneggia al Duce. Sono vicini al Blocco Studentesco. Ci sono anche Alemanno jr e altri sei ragazzini. Luca (lo chiameremo così), uno dei ragazzi del gruppo dei condomini Lombardo Pijola-Vitelli, si avvicina ai giovani chiedendo di piantarla. Gli amici di Alemanno jr., secondo numerosi testimoni, non ci stanno: “Noi semo der blocco”. Luca gli risponde bruscamente. Il militante di destra gli promette una lezione. Qualcuno lo vede telefonare e poi invitare gli amici ad andarsene. Ma a chi telefona il ragazzo, probabilmente chiedendo di intervenire? È il punto chiave. Secondo le prime indagini ci fu una prima telefonata al leader del Blocco Studentesco a Roma, Guelfo Bartalucci, allora ventenne. Bartalucci, convocato in commissariato più di un anno fa aveva ammesso di conoscere il minorenne che l’aveva chiamato, negando, però, di aver partecipato all’aggressione. Subito dal telefono del minore partivano altre chiamate, più lunghe, a un’utenza intestata a Luigi Bisignani. Sentito più di un anno fa dalla polizia, Bisignani ha spiegato che forse il telefonino era in uso al figlio Giovanni, che oggi ha 21 anni ed è figura di spicco dell’area che fa riferimento a CasaPound e al Blocco Studentesco. All’epoca gli mancavano due settimane ai 18 anni. Il seguito, purtroppo, è storia nota: secondo testimoni, dopo poco arrivò un commando di ragazzi apparentemente maggiorenni che picchiò selvaggiamente a colpi di casco e cinghie Luca.
ANCHE quando era a terra e gridava: “Ormai mi avete gonfiato”. L’aggressione termina soltanto con l’intervento di Carlo Vitelli: “Ho tirato via e l’aggressore, un biondino, si è divincolato. C’erano molti ragazzi più grandi che scappavano. Dopo aver prestato soccorso all’amico di mio figlio li ho inseguiti. Tutti erano a bordo di motorini, ma ho visto anche una Mercedes classe A 200, della quale ho fornito alcuni numeri della targa alla Polizia. Alla guida c’era un adulto”. Sarebbe la macchina della famiglia Alemanno (il figlio del sindaco e l’autista, secondo i testimoni, non avrebbero partecipato al pestaggio). Ora l’indagine dovrà chiarire ogni dettaglio. Non sarà facile, perché sono passati tre anni. Questa storia ha messo in fibrillazione il mondo dell’estrema destra romana. C’è chi vorrebbe ridurre l’episodio a uno scontro tra ragazzi. Chi nega i saluti fascisti. Sui testimoni pesa una pressione fortissima.

Corriere della Sera 3.2.12
Elsa, un Sortilegio salvò il romanzo
La Morante, con l'opera d'esordio, smentì la fine della narrazione tradizionale
di Giorgio Montefoschi


Cento anni fa, nel 1912, nasceva Elsa Morante. È probabile, e auspicabile, che nei prossimi mesi convegni, incontri, letture ricordino e rendano l'onore dovuto a una scrittrice che, insieme a Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è ai vertici della narrativa italiana del Novecento. Intanto — dopo oltre sessanta anni, poiché uscì nel 1948 e subito vinse il Premio Viareggio (erano altri tempi) — rileggiamo il romanzo del suo strepitoso esordio: Menzogna e sortilegio.
Menzogna e sortilegio segnò un esordio strepitoso non tanto per la giovane età dell'autrice (trentasei anni alla pubblicazione delle settecento pagine fittissime), dal momento che precedenti illustri della letteratura inglese, quali Jane Austen o Emily Brontë, svelano come non sia insolito che il genio della scrittura fiorisca così precocemente e in tale profondità nell'animo femminile, quanto per il felicissimo incontro fra una scrittrice dotata di tutti i talenti possibili e il romanzo tradizionale di stampo ottocentesco. Qualcuno, di lì a non molto, avrebbe decretato che il romanzo tradizionale, il romanzo-romanzo, era o sarebbe finito: una sciocchezza, perché il romanzo si trasforma, certamente, ma è destinato a non finire mai. In ogni caso: a far da sentinella, era apparso Menzogna e sortilegio, (poi sarebbero venuti L'isola di Arturo e La Storia) che del romanzo-romanzo aveva tutti i crismi e, giocando d'anticipo, smentiva — con la sua ricchezza tematica, la forza e l'imponenza dei suoi personaggi, l'intreccio, l'ambiente e il «passo»: la straordinaria capacità della Morante di tenere un passo lungo — quelle funeste previsioni.
Menzogna e sortilegio, come annuncia il suo titolo, è un romanzo della più spietata irrealtà, un romanzo «avvelenato» dalla finzione e dalla menzogna, che, al suo fondo, combatte una strenua lotta con il mondo reale. Non ha importanza chi, alla fine, ne esca vincitore: se gli spettri che popolano la mente della narratrice Elisa — figure celestiali e torve segregate in una dimora celeste che è però più simile a un carcere in cui si svolge una esistenza larvale — o la fredda, nuda verità che uccide ogni illusione, smaschera ogni bugia, annulla ogni fattura, disperde ogni sogno. La bellezza del romanzo sta proprio in quella disperata e titanica battaglia: tra gli abitanti delle regioni sovrumane, e gli umili abitanti delle regioni terrestri; fra l'esilio terrestre e il Paradiso.
Se vogliamo, la trama di Menzogna e sortilegio è abbastanza semplice. In un'epoca non ben definita (nella quale esistevano carrozze con i cavalli e treni), in una città del Sud d'Italia non ben definita (nella quale potremmo riconoscere Catania o Palermo — ma il casamento popolare e il «monte dei cocci» sono Roma, Testaccio, dove la Morante nacque) scoppia un amore furibondo fra una ragazza, Anna (figlia di un nobile decaduto, Teodoro Massia di Corullo e una povera maestrina, Cesira) e il suo nobilissimo e ricchissimo cugino, Edoardo Cerentano di Paruta. Anna, dal giorno in cui il padre glielo ha indicato fanciullo in una carrozza, ha sempre avuto nel cuore il Cugino biondo. Quando i due si rincontrano e si riconoscono in una giornata inusuale di neve, davanti a una cioccolateria dove i ragazzi nullafacenti si divertono a distrarre e a far scivolare le ragazze sul ghiaccio (lui è bello, ricco, lei ha una giacchetta nera, una gonna rossa, scarpe sdrucite, capelli raccolti nelle trecce e avanza con «altera e languida noncuranza», mentre i suoi teneri occhi oscuri seguono «chissà quali intimi, orgogliosi, splendori»), la passione immediatamente divampa.
Ma il Cugino non appartiene alla terra. Lui è come gli dèi dell'Olimpo che sì, s'invaghiscono degli umani e scendono sulla terra a prendersi il loro piacere, però non li elevano alla propria sede celeste. È capriccioso, tiranno, geloso persino dei gatti che Anna potrebbe carezzare distrattamente, ambiguo. E, pur amando follemente Anna, la tortura. È anche fragile, tuttavia: ha «l'aggressività malata che è propria delle creature effimere nella stagione del loro più grande fervore». Infatti, ha la tisi. E scompare: chiude brutalmente (o in un meraviglioso gesto di sacrificio), il suo rapporto con la cugina, facendosi sostituire — da vero despota quale è — da un suo amico: un ragazzo semplice, Francesco de Salvi (un finto barone, in realtà figlio di umilissimi contadini), segnato dal vaiolo, animato da un sentimento profondo di inadeguatezza sociale (come Anna), propugnatore di idee tanto incendiarie quanto retoriche di ribellione. È il «Butterato». Anna odia con ogni sua forza quell'individuo scuro e aggrondato che presto si rivelerà essere nient'altro che un bifolco, ma per le drammatiche condizioni economiche della sua famiglia (il padre Teodoro è morto, Concetta, la madre di Edoardo, mantiene lei e Cesira, colmando l'umiliazione) accetta di sposarlo. Il matrimonio è un inferno. Nasce una bambina: Elisa, la narratrice, che troviamo, all'inizio del romanzo, assediata dai suoi fantasmi, nella angusta cameretta di un palazzone romano di periferia. Elisa ama sua madre più di ogni altro essere al mondo: la vede come una regina, come una Madonna orientale. Anna non bada a lei: pensa solo a Edoardo e detesta il «Butterato», che frattanto, abbandonati i sogni di gloria, si è impiegato alle Poste e viaggia nei treni. Francesco, soffre pene indicibili. Un giorno, in città, ricompare Rosaria: una prostituta che ha amato Francesco e non ha mai smesso di amarlo, anche se lo ha tradito con Edoardo (che voleva tutto: pure la misera amante del suo amico). Con lei, il «Butterato» si consola di malavoglia delle sue sconfitte; o le annega nel vino. Riappare anche Concetta, vestita da mendicante: fa penitenza e chiede la grazia per Edoardo in pericolo di vita. Edoardo muore. Quando viene a saperlo dal portiere del palazzo, Anna fugge a casa «come una baccante». È l'inizio della sua follia: che fa da specchio a quella di Concetta. Le due donne leggono finte lettere che Anna si scrive da sola come se gliele scrivesse Edoardo. Muore pure Francesco: in un incidente. Muore Anna: consumata dal delirio della mente. Rimane Elisa, che viene accolta in casa da Rosaria, la quale torna a Roma a fare il suo mestiere di donnaccia.
Al centro di Menzogna e sortilegio campeggia l'amore di Anna e Edoardo. È un amore che non conosce limiti (i due si vedono identici, vedono uno nell'altra come gli amanti nel Fedro, e un giorno addirittura si scambiano i vestiti), ma l'eccesso sentimentale, e l'intransigenza, sono di tutti i personaggi, nessuno escluso. Tutti amano o odiano con una violenza che atterrisce. E non solo: tutti credono alle fantasie più inverosimili, ai viaggi più avventurosi, alle più spudorate menzogne che narrano o ascoltano. Così questo rispecchiarsi, questo processo di sommatoria — così ebbe a definirlo Giacomo Debenedetti — produce un affetto allucinatorio devastante. Come possono reagire i personaggi a una devastazione che non può che condurre alla morte? E come può farlo il romanzo, incarnato dalla malinconica e selvatica Elisa, che nei confronti della madre prova un sentimento non troppo diverso da quello «d'un selvaggio alla presenza di un simulacro sfolgorante»? È impossibile. «Invano — ella scrive — il mio giudizio tenta di chiamarla stupida, perversa e volgare... i suoi cattivi pensieri le splendono intorno al capo come un'aureola, e i desideri turpi e disumani che la trafiggono mi paiono spade sante». Infine, come si fa a non amare Edoardo con quel medesimo amore doloroso e impossibile che è al fondo segreto di ogni amore? E come descriverlo, se è ineffabile?
Eppure il romanzo resiste: sia al sortilegio che alla menzogna. La spettacolosa costruzione barocca, infiorata di arcaismi che, nella ripetizione ossessiva, spinge la frase in alto, trattiene una base di vero. Questo è il calco manzoniano del romanzo che, evidentemente, la Morante conservava nel subconscio quale punto fermo del reale e, in alcuni punti, offre somiglianze testuali sorprendenti. Menzogna e sortilegio inizia in una stanzetta e finisce nella camera in cui Anna muore. Anna ha delirato per undici giorni. Elisa le tiene la mano: accanto al letto. Finché, a un tratto, si accorge che la mano è fredda. Scrive Elisa: «Un vento invernale mi aggirò; fui risucchiata in una gelida acqua senza lumi. E l'amata camera materna, accesa dal mezzogiorno d'agosto, fuggì per sempre dai miei sguardi, come una nave straniera».