l’Unità 25.1.12
Napolitano, gli ideali della Resistenza contro la crisi
Il «patrimonio di ideali e valori» della Resistenza «costituisce tuttora un essenziale riferimento per fronteggiare le sfide proposte dalla grave crisi economica e finanziaria e da un contesto mondiale profondamente cambiato». Lo sottolinea il presidente della Repubblica, nel messaggio all’Anpi in occasione dell’incontro su «L’Unità d’Italia alla prova di resistenza», «una significativa occasione di riflessione sulla tenuta dei valori fondamentali che hanno ispirato il processo di unificazione nazionale e che hanno conosciuto, dopo il ventennio fascista, nuova vitalità grazie alla Resistenza».
l’Unità 25.1.12
Ocse: «Falsa l’idea che la crescita economica si traduca nell’aumento dei redditi più bassi»
Mutamento «Le disuguaglianze non lo mettono in moto se non si creano pari opportunità»
Italia, ricchi e poveri
La distanza sociale aumenta
Ricerca Ocse sull’aumento delle disparità di redditto. In tutto il mondo sviluppato il gap aumenta. In Italia il reddito medio del 10% benestante è 10 volte superiore al reddito da lavoro minimo.
di Jolanda Bufalini
I precari dell’Istat che «hanno fornito gli indicatori e le misure della diseguaglianza», protagonisti e, al tempo stesso, oggetto della ricerca dell’Ocse sulle diseguaglianze, hanno salutato il ministro Elsa Fornero con uno striscione nell’Aula magna dell’Istituto di Statistica, ispirato al titolo della ricerca: «Precarious We Stand». Un inflessibile Enrico Giovannini non ha dato loro la parola ma il ministro ha assicurato: «I precari di tutta Italia sono nel cuore del governo».
Viviamo in un paese dove i poveri restano poveri, i ricchi sposano i ricchi, dove le diseguaglianze sono aumentate anche negli anni in cui cresceva l’occupazione, smentendo l’idea che «i benefici della crescita economica ricadano sulle classi meno abbienti e che una maggiore diseguaglianza stimoli la mobilità sociale». È il profilo dell’Italia che emerge dalla presentazione, fatta da Stefano Scarpetta, della ricerca comparata fra i paesi Ocse in cui si cerca risposta all’interrogativo: «Perché le diseguaglianze continuano a crescere?». Dice Scarpetta che della povertà in Italia preoccupa la sua «persistenza», che i matrimoni fra persone dello stesso ceto «contribuiscono per un terzo all’aumento delle diseguaglianze».
In Italia la crescita della diseguaglianza è all’apice dagli anni Novanta ed è superiore alla media Ocse: nel 2008 il reddito medio del 10% più ricco del paese era di 49.300 euro, 10 volte di più del reddito medio del 10% più povero (4.877 euro), venti anni fa la differenza fra ricchi e lavoratori poveri ra invece di sette punti. Se si allarga lo zoom e si guarda all’insieme il quadro è ancora più fosco: negli Stati Uniti i ricchi hanno 18 volte di più rispetto ai redditi minimi, in Brasile la differenza è pari a 50. Non solo, i maggiori guadagni in alcuni paesi sono raccolti dallo 0,1 per cento della popolazione: negli Usa la quota di reddito familiare netto per l’1 % della popolazione più ricca è più che raddoppiata, passando dall’8% nel 1979 al 17 % nel 2007. Solo alcuni paesi in via di sviluppo come la Turchia hanno ridotto il differenziale mentre anche nel Nord Europa le differenze sono aumentate, solo in Francia e Giappone sono rimaste stabili.
RIVOLUZIONE TECNOLOGICA
Passando dalla fotografia alle cause si scopre che la globalizzazione (cioè l’aumento degli scambi e degli investimenti stranieri) non sono la causa diretta del maggiore gap mentre le riforme del mercato del lavoro, come l’aumento dei contratti atipici, hanno ampliato la platea degli occupati ma anche ridotto i salari. Un fattore che ha influenzato, invece, direttamente le disparità è la rivoluzione tecnologica. Di qui una delle raccomandazioni della ricerca: investire sul capitale umano, cioè su scuola e formazione perché i lavoratori più qualificati hanno visto incrementare rapidamente i loro redditi mentre i meno qualificati sono rimasti indietro. E la sfida, per i paesi Ocse «è creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente migliori». C’è un altro fattore che ha aumentato le disparità, l’esigenza di contenere la spesa di welfare: minore protezione sociale, minore capacità redistributiva delle politiche fiscali, meno previdenza, meno assistenza. Di qui la sottolineatura dell’Ocse: agire sulla qualità dei servizi gratuiti come la sanità e l’istruzione. E sulla leva fiscale, «perché le quote crescenti di reddito per le retribuzioni più elevate suggerisce che la capacità contributiva è aumentata» e con la recessione «le politiche di sostegno sono molto importanti».
Repubblica 25.1.12
Il reddito del 10% di popolazione più benestante è di 49.300 euro, mentre al 10% più povero ne vanno 4.877 I dati diffusi dall'Istat collocano l'iniquità economica italiana al di sopra della media dei Paesi dell'Ocse
Classi sociali, i ricchi sempre più su ora guadagnano 10 volte più dei poveri
di Luisa Grion
RICCHI sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. In Italia l'ascensore sociale si è rotto, le categorie di reddito sono sempre più chiusee il divario fra classi - invece di diminuire - aumenta. La tendenza accomuna quasi tutte le economie sviluppate, ma da noi la distanza è superiore rispetto alla media dei Paesi Ocse. Uomini e donne non salgono più i gradini della scala sociale e restano aggrappati alla ringhiera anche al momento delle nozze: il matrimonio tende a «polarizzare» i redditi. Il medico sposa quasi sempre il medico, l'avvocato dice «sì» solo all'avvocatessa, l'operaio all'operaia.
Ricchi con ricchi, poveri con poveri: una dura legge che nemmeno la favola bella di Cenerentola riesce a contrastare. Oggi i principi azzurri e le ricche ereditiere non rappresentano più la soluzione del problema: ce lo dice l'Ocse nel suo rapporto« Divided we stand », una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali presentata ieri all'Istat.
UNO A DIECI Le cifre indicate dallo studio dettano una tendenza netta: nel 2008, anno degli ultimi dati disponibili (e periodo comunque antecedente alla fase più pesante della crisi), il reddito medio del 10 per cento di popolazione più ricco del Paese era di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero (49.300 euro contro 4.887). A metà degli anni Ottanta il rapporto era di 8 a 1: il gap sta quindi peggiorando. Nonè un fenomeno solo italiano, sia chiaro: il divario fra più e meno abbienti, sottolinea l'Ocse, sta aumentano in quasi tutti i paesi europei. Francia a parte dove - come in Giappone - il quadro è rimasto più o meno stabile, il differenziale è salito anche nella ricca Germania e nell'evoluta penisola Scandinava (passando dall'1 a 5 degli anni Ottanta all'attuale 1 a 6). Imbarazzante l'1 a 17 degli Stati Uniti, drammatico - pur se in netto miglioramento - il dato del Brasile dove i più ricchi hanno redditi cinquanta volte superiori a quelli dei più poveri.
I MEGLIO E I PEGGIO PAGATI Più sei pagato, più lavori, più ti arricchisci: a guardare le tabelle dello studio Ocse par di capire che le occupazioni di basso livello difficilmente evolvono e permettono il riscatto. Secondo gli studi dell'Ocse in Italia (ma la tendenza è confermata anche negli altri paesi) quantità e qualità del lavoro vanno di pari passo. Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi il numero annuale di ore di lavoro effettuate dai dipendenti meno pagati è passato dalla 1580 alle 1440 ore. Anche fra i lavoratori meglio pagati la quantità è diminuita, ma in minor misura, passando dalle 2170 alle 2080 ore. Faticare, quindi, non basta. Ed essere lavoratore dipendente non aiuta: a differenza di molti paesi Ocse in Italia la diseguaglianza sociale va di pari passo con l'aumento dei redditi dei lavoratori autonomi.
La loro quota sul totale della ricchezza è aumenta, negli ultimi trenta anni, del 10 per cento.
CENERENTOLA E ALTRI RIMEDI Cos'è che fa aumentare la diseguaglianza? Il livello minimo di istruzione, certo, la bassa percentuale di lavoro femminile, lo storico divario fra Nord e Sud.
Ma non basta. Il gap di casa nostra è causato anche dalla tendenza degli italiani a celebrare unioni fra caste: i principi azzurri non vanno più in cerca della loro Cenerentola e questa mancanza di fantasia ha contribuito per un terzo dell'aumento delle diseguaglianze di reddito. Cosa fare per invertire la tendenza? L'estensione dei servizi pubblici non basta più: istruzione, sanità e welfare riducono il gap, ma in modo meno incisivo rispetto al passato (di un quarto nel 2000, di un quinto oggi). La svolta, suggerisce l'Ocse, per l'Italia passa attraverso una riforma del fisco e della previdenza, il potenziamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno al reddito.
Repubblica 25.1.12
Dai militanti pressing via Facebook sul segretario: "Se fai passare l'addio alla cassa integrazione, con noi hai finito"
Pd in tensione, Bersani stoppa il ministro "Non accetto di abbandonare i lavoratori"
di Giovanna Casadio
ROMA - Un colloquio con Fornero? «Ho quest'abitudine: non chiamo, ma sono a disposizione quando il governo mi chiama...».
Ufficialmente, nelle dichiarazioni alle agenzie di stampa, Bersani usa toni cauti. Ma nelle riunioni di partito, il segretario del Pd dà un alt secco al ministro del Welfare.
Uno stop «alla professoressa».
Brava, ma secondo i democratici astratta. E soprattutto poco consapevole delle conseguenze che la stretta sulla cassa integrazione - lanciata come un sasso nello stagno e poi ritirata - rappresenterebbe per centinaia di migliaia di lavoratori. Per non parlare dell'articolo 18. Perciò il leader pd suona l'allarme: «Al governo consiglio uno sguardo lungo ma i piedia terra, perché la crisi industriale è diffusa e non si lascia la strada vecchia senza vere alternative, mettendo nell'abbandono centinaia di migliaia di lavoratori».
Sono bastate le poche battute di Bersani in risposta a Fornero diffuse da tv e rete, perché sulla pagina facebook del segretario si scatenasse l'inferno. «Se fai passare questo, hai finito»; «Occhio kompagno»,e via in un crescendo di proteste, di contestazioni condite di insulti ma anche di appelli drammatici. Dal Sulcis un lavoratore posta: «Lei Bersani conosce la nostra realtà e sa cosa accadrebbe se si passasse alla sola cassa integrazione ordinaria». Un dramma.E più in generale, se Fornero mettesse mano, come ha detto, a misure radicali di riforma del mercato del lavoro, il Pd - il partito del lavoro, secondo l'imprinting che gli ha dato Bersani - dovrebbe scendere in trincea, peraltro lacerandosi al suo interno. I "full Monti", i liberisti e montiani a oltranza, già sono in rotta di collisione con i "gauchisti" come Fassina e Damiano. Bersani punta a mantenere il partito «nel solco». Per quanto riguarda Fornero e le sue misure "radicali", replica: «Si può essere radicali ma sempre avendo bene i piedi piantati nella realtà. Cambiamo prima i meccanismi contrattuali che stanno svilendo il lavoro, perché un eccesso di precarietà sta disperdendo il tradizionale punto di forza dell'Italia ovvero il bagaglio di competenze del lavoro. Noi a questo tavolo ci siamo con il nostro contributo. Quindi, bisogna indicare una prospettiva di riorganizzazione degli ammortizzatori, ma mai dimenticando che siamo nel pieno di una crisi difficile e che non sarà breve».
Il 2 febbraio nelle sede dei Democratici si sono dati appuntamento alcune associazioni, esperti, politici come Treu, Baretta e Damiano. Si parlerà di articolo 18e cassa integrazione. Damiano, ex ministro del Lavoro, ex sindacalista Fiom-Cgil, capogruppo democratico in commissione, ritiene che imboccare certe strade porterebbe a compromettere il rapporto tra il Pd e il governo: «Fornero ha detto sull'articolo 18 che se Monti le dice "fermati", lei si ferma: mi pare che glielo abbiano già detto in molti di fermarsi.
Immaginare che togliere la cassa integrazione straordinaria è una strada che Fornero non può imboccare. Possono esserci abusi certo, però se accadesse Passera si troverebbe a gestire non 200 tavoli di crisi ma molti di più. Si vogliono ammodernare gli ammortizzatori sociali? Ci vogliono soldi». La tensione nel Pd sale. Pietro Ichino è di parere opposto. Per il giuslavorista «Fornero andrà avanti, dovrà mettere a punto il modo in cui procedere, ma il disegno complessivo è sensato e ci saranno spazi di accordo». Il Pd? «Tutte le forze politiche sono sotto stress e il Pd non lo è più di quanto non lo sia già stato». Non è stato facile ieri neppure il vertice al partito sulle liberalizzazioni, però la partita del lavoro è, afferma il vice segretario Letta, quella che veramente «preoccupa».
l’Unità 25.1.12
Il Pd deve reagire
di Alfredo Reichlin
Ho deciso. Farò una rivelazione. Per più di dieci ore tra il 20 e il 21 gennaio, in una grande sala di Roma (peraltro pubblica) si è riunito il vertice del Pd, il primo partito italiano. Ha discusso insieme ai suoi parlamentari europei le iniziative da prendere in Europa e i problemi dell’Italia. La notizia è stata nascosta da gran parte dei giornali.
Nessun dissenso, solo un silenzio tombale. Parto da qui perché questo non è un problema di giornalismo ma di democrazia. Di degrado civile e intellettuale della democrazia italiana. Quello che, dopotutto è il principale partito politico italiano, a novembre poteva anche spingere perché si andasse subito alle elezioni, e poteva vincerle. Non lo ha fatto perché ha una certa idea della politica e delle responsabilità della sinistra. Ha avuto l’ingenuità di pensare che non si vince sulle macerie di un paese che stava per fare la fine della Grecia. Bersani non ha l’eleganza dell’avvocato Agnelli il quale disprezzava Berlusconi ma gli dette il via con l’argomento: se perde, perde lui, se vince vinciamo noi. La stessa cosa fecero, del resto, i grandi liberali del tempo nei confronti di Mussolini.
È questa la cultura profonda della nostra classe dirigente? È l’antipolitica? Si tratta di una minaccia molto grave al futuro della democrazia italiana. È il segno del disprezzo che si ha per le masse popolari: incaricare i media, che dopotutto dipendono da loro, di mettere la merda nel ventilatore, di ripetere in tutte le ore del giorno che i partiti sono tutti uguali e sanno soltanto complottare nell’aula sorda e grigia di Montecitorio contro il governo dei professori. È un martellamento.
Vengo adesso alle nostre responsabilità. È vero che nel modo di essere del Pd c’è stata finora una grande debolezza. Io capisco il dubbio sulla effettiva capacità del Pd di rappresentare una alternativa reale in quanto sentito dalla gente come tale, cioè come una guida necessaria dell’Italia, non solo della sinistra. È tempo, quindi di mettere i piedi per terra. Ma è esattamente ciò che abbiamo fatto in quelle due giornate. La domanda era, ed è: che ruolo siamo in grado di svolgere nel vivo di questo dramma di proporzioni storiche che scuote l’Europa? Qui si gioca il nostro destino. Fuori da questo orizzonte diventa abbastanza vano almanaccare sul futuro della sinistra. Ma allora non si va a testa china a questa prova, come se fosse una tattica o un obbligo. Io credo che sta qui detto nel modo più semplice la debolezza del Partito democratico. Basta con questa vecchia storia. Non si tratta di scegliere tra Casini e la “foto di Vasto”, ma di definire il nostro “campo”. Un campo che parla a tutti gli italiani e che va oltre i confini della sinistra storica e che perciò può coinvolgere soggetti, culture e interessi storicamente distanti da noi. Io non sono affatto sicuro che vinceremo. So però che molto dipende dal fatto che una vasta corrente di pensiero e di azione per il progresso e la democrazia torni a occupare la scena dopo decenni di egemonia anche culturale delle destre. Tutto è molto difficile ma l’obiettivo di portare nel mondo globale la forza di 450 milioni di europei, il loro enorme patrimonio di lavoro, creatività, cultura, il loro retaggio storico, è un obiettivo esaltante. Altro che “deriva centrista” del Pd. Certo, dobbiamo partire dall’Italia. Ma l’idea che abbiamo dell’Italia e del suo destino come nazione non può più restare chiusa nei vecchi confini.
Lo scontro è mondiale. I nemici dell’euro non sono i taxi. Il pericolo non è il “centrismo”. Io mi chiedo se misuriamo abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che è in atto nella distribuzione della ricchezza e quindi nel mondo dei valori e dei significati dell’esistenza. La forza della sinistra sta nel collocarsi al centro di questo scontro, che è anche di civiltà. La ricerca senza limiti dei guadagni in conto capitale ha fatto si che valori come lealtà, integrità, fiducia, significati della vita, venissero via via accantonati per fare spazio al risultato monetario a breve termine. Bush è arrivato a far credere a milioni di persone che diventavano ricche con le carte di credito. Berlusconi pensava che bastasse comprare i deputati per governare.
Il nostro problema non è organizzativo. È capire quali spazi reali si aprono a una forza riformista all’interno di una società che in questi anni l’ha negata come tale, cioè come insieme di legami storici, culturali, anche ancestrali. Con l’idea, addirittura teorizzata, che il mondo è fatto solo di individui immersi in un eterno presente, i quali definiscono la loro identità in un modo solo, nel rapporto che hanno col consumo e quindi col denaro. Io sento il rischio che la sinistra e le forze democratiche si riducano a flatus vocis, a poco più che combinazione elettorali, se non si affronta questo problema e se non si stabilisce un rapporto con le nuove spinte sociali e ideali che sono un atto in Italia come in tante altre parti del mondo. Se la politica non produce senso.
Il problema quindi non è solo cosa fa il governo ma cosa facciamo noi. Nel senso che è la nostra voce, la voce di un partito che ha una fisionomia etico-politica diversa da quella delle altre nomenclature, è questa voce che si deve sentire alta e forte. Il gruppo dirigente deve rendere più chiara la grandezza della posta in gioco. Non è affatto vero che il governo dei professori toglie spazio alla politica perché non è possibile risanare la finanza pubblica e rilanciare la crescita senza una nuova idea dello sviluppo. Senza cioè porre la struttura italiana su una nuova base.
Servono quindi forze politiche, intellettuali e morali capaci di far leva su una combinazione diversa delle nostre risorse, a cominciare dal lavoro e dal capitale umano. Non siamo alla fine del capitalismo e delle cosiddette economie di mercato. Siamo però di fronte alla rottura dell’ordine economico mondiale di questi 50 anni, e quindi si è aperto un grande conflitto non economico soltanto, ma di potere, perfino di civiltà. L’Europa è il cuore dello scontro. E la sinistra si ridefinisce a partire da qui. La causa della giustizia non è un’altra cosa. Perché non si uscirà dalla grande crisi dell’economia mondiale senza una redistribuzione del reddito e della ricchezza. La vecchia domanda di consumi non è più riproponibile. La droga dell’indebitamento ci ha portati al disastro. Bisogna far leva su nuovi consumi di massa per rilanciare lo sviluppo. Una distribuzione della ricchezza diventa la condizione per il rilancio della crescita, essendo questa impossibile se non cambiano anche le condizioni del vivere, i bisogni, le domande, il modo di essere della società.
Corriere della Sera 25.1.12
I giornali di partito? Contributi per 850 milioni
ROMA — Nelle statistiche del finanziamento pubblico della politica manca una voce importante: i soldi che ogni anno vanno ai giornali. Un libro che esce oggi per i tipi di Marsilio prova adesso a fare qualche conto. Dal 1990, anno in cui è stata approvata la legge che stabilisce quei contributi, al 2009, ultimo anno per cui le cifre sono disponibili, sono andati ai giornali di partito, o che si sono presentati come organi di movimenti politici, 697 milioni 182.863 euro. Ma se rivalutiamo questa somma in base all'inflazione si arriva allora a 850.851.746 euro.
Titolo del libro è: «I soldi dei partiti — Tutta la verità sul finanziamento alla politica in Italia». Gli autori sono Francesco Paola ed Elio Veltri. Il primo, avvocato e saggista. Il secondo, medico e politico di lungo corso. Sono tanti soldi, 850 milioni. E a sentire gli autori del volume non sono nemmeno tutti: «I contributi complessivi a quotidiani, periodici, radio e televisioni di partito o contigui ai partiti sono molti di più. Nel 2009, ultimo anno di erogazione dei contributi, lo Stato ha distribuito 178 milioni 657.891 euro per mezzi di comunicazione di partito, vicini ai partiti e indipendenti, come lo si può essere in questo Paese. Orientarsi è difficile, perché la legislazione è complicata e sovrabbondante». Il capitolo dei soldi ai giornali politici rispecchia in pieno l'opacità che qui circonda il finanziamento pubblico dei partiti. Norme che non impongono il necessario e doveroso rigore nei bilanci. Trasparenza inesistente, come dimostra il fatto che per legge i contributi privati di importo inferiore a 50 mila euro possono restare anonimi. E disposizioni ipocrite, al pari di quella sui rimborsi elettorali. Basta dire che per le politiche 2008 i partiti hanno avuto diritto a 503 milioni di euro pur avendo documentato spese per 136 milioni. E hanno il coraggio di chiamarli rimborsi.
Nati con il motivo di garantire il pluralismo democratico si sono trasformati in alcuni casi in rendite di posizione, andando ad alimentare surrettiziamente anche organi d'informazione che con i partiti avevano poco o nulla a che fare. Raccontano per esempio Paola e Veltri che l'Avanti edito da Valter Lavitola, che Bobo Craxi definì «un foglio di spionaggio politico», ha ottenuto dal 2003 al 2009, «stando al sito del governo», 21 milioni di euro. Una somma enorme, anche in rapporto ai contributi, non proprio esigui, ottenuti dagli altri giornali. In cima alla lista dei maggiori beneficiari l'Unità, quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci: 169 milioni, attualizzati al 2010. Segue il Secolo d'Italia: 76,4 milioni. Quindi Liberazione: 63,6 milioni. La Padania: 63,6 milioni. Il Foglio, giornale diretto da Giuliano Ferrara, che figura come organo del movimento politico Convenzione per la giustizia: 44,6 milioni. Il Popolo: 41,8 milioni. L'Opinione: 30,5 milioni. Il Roma: 29,4. Europa: 26,6. La Voce Repubblicana: 31,3. Notizie Verdi: 24,3. E Libero: 24,9.
S. Riz.
il Fatto 25.1.12
Il magistrato partigiano
di Gian Carlo Caselli
Non contro la disoccupazione. Non contro l’evasione fiscale. Non contro la corruzione. L’unica vera guerra combattuta dal governo negli ultimi anni è stata quella contro la magistratura. In essa ha finito per trovarsi come bersaglio fisso – unicamente a causa del suo rigore – un collega che stimo e ho potuto apprezzare “sul campo”. Si tratta di Antonio Ingroia, contro il quale – del tutto pretestuosamente – sono state persino scagliate accuse di “cospirazione politico giudiziaria” e “calunnia di stato”, assieme alla assurda, ma screditante richiesta, di “tirar fuori l’art. 289 del codice pena-le” (attentato a organi costituzionali!) con il simpatico corollario di una decina d’anni di galera come possibile conseguenza.
Stante questo scenario, confesso che mi ha colpito la notizia di ieri che la competente commissione del Csm ha proposto (dovrà poi decidere il plenum) di qualificare come inopportuno un intervento sui temi della giustizia svolto da Ingroia in occasione del congresso di un partito politico nel quale il magistrato si definì “partigiano della Costituzione”. Inopportuno, ma non sanzionabile e perciò da archiviare, sia pure non del tutto: essendo stato richiesto l’invio degli atti ad altra commissione, quella che si occupa delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati.
MERITANO riflessione innanzitutto le tesi (ancorché diffuse a rullo) che la partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende “sospetto” a chi non ne condivide le idee e che anche l’apparenza può nuocere all’immagine di imparzialità. Tesi suggestive, ma attenzione: più che la sede in cui si parla importa quel che si dice. E il dibattito sulla giustizia non può che essere a tutto campo. Perciò deve avere come interlocutori i cittadini di ogni opinione, compresi ovviamente quelli dell’area progressista (riferimento “naturale” per i magistrati che si richiamano – come il sottoscritto e Ingroia – alle opzioni culturali di “Magistratura democratica”).
È vero, Ingroia si è definito “partigiano della Costituzione”, ma dopo aver premesso l’obbligo di assoluta imparzialità nell’esercizio quotidiano delle proprie funzioni. Allora “partigiano” (per quanto dialetticamente impressiva possa sembrare la parola) significa semplicemente ribadire quella grande novità della Costituzione democratica – cui i magistrati prestano solenne giuramento di fedeltà – che impone ai giudici della Repubblica di essere “soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.). Quindi mai partigiani del “palazzo” e dei suoi esponenti, delle contingenti maggioranze, dei movimenti politici, dei potentati economici o culturali e via seguitando. Partigiani di nessuno: salvo che della legge, a partire appunto da quella costituzionale.
Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione a ridurre l’imparzialità del magistrato, ma casomai le “appartenenze” (in particolare quelle occulte) e le interessate frequentazioni delle stanze del potere, specie se intrecciate con disinvolti “pareri” generosamente dispensati. Spesso anzi sono proprio la presunta “apoliticità” e l'indifferenza a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti incompatibili. L'imparzialità è estraneità agli interessi in conflitto e distacco dalle parti: non anche indifferenza alle idee e ai valori (pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo: non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale, partecipazione che con la “professionalità” – a mio avviso – non c’entra proprio per niente, ben altri essendo i parametri di giudizio al riguardo (parametri, sia detto per inciso, che certamente Ingroia non teme).
Dopo anni di “assalto alla giustizia” sembrano talora emergere, nella magistratura, segnali di inquietudine e insofferenza che possono portare ad “avvitamenti” burocratici e formalistici. È la spia di una crisi che induce molti a rifugiarsi in un isolamento corporativo, consolatorio, ma controproducente per gli interessi della società. Contro queste tendenze il Csm dovrebbe reagire arginandole. Proprio per questi motivi mi auguro che il “plenum” sappia inquadrare nella giusta prospettiva la vicenda di Antonio Ingroia.
Repubblica 25.1.12
Manifesti abusivi, anche il Pd nel fronte anti-condono
ROMA - Cresce alla Camera il fronte del no al condono delle multe ai partiti per le affissione abusive dei manifesti. Ieri, dopo la dichiarazione di voto contro di Giovanni Bachelet, un altro deputato del Pd, Walter Verini, ha annunciato il voto contrario: «Mi risulta che il Pd stia lavorando per superare l'emendamento, sarebbe importante perché l'emendamento-sanatoria è difficilmente votabile». Contro il sì si schiera anche l'Api di Rutelli. Donato Mosella annuncia un emendamento soppressivo perché «non è tollerabile che anno dopo anno si faccia ricorso ad una sorta di "salvacondotto"». Soddisfatti i Radicali, primi a contestare il condono. «Le dichiarazioni contrarie di queste ore e gli emendamenti soppressivi annunciati da Pd, Api e Idv, che si aggiungono a quelli Radicali - spiegano il segretario Mario Staderini e Marco Cappato - fanno sperare che il voto favorevole della settimana scorsa venga ribaltato».
il Fatto 25.1.12
L’ennesimo ritorno dei forconi siciliani
di Nicola Tranfaglia
Tutte le volte che l’Italia entra in crisi (e in questo momento ci sono crisi numerose e difficili da risolvere: da quella “economica” che tutti riconoscono a quella “morale e politica” che ci ha condotti al governo “tecnico”, dopo le ultime elezioni politiche dell’aprile 2008 vinte dalla destra berlusconiana) rispunta quello che forse è più corretto definire l’indipendentismo, o anche separatismo siciliano, che vorrebbe fare dell’isola uno Stato indipendente ed estraneo all’Italia unita. È accaduto, senza andare troppo lontano, nel drammatico quadriennio che va dal 1943 al 1947 e che ha segnato la caduta del regime fascista e l’inizio difficile verso la democrazia – al centro della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica – che ha caratterizzato il primo cinquantennio dell’Italia repubblicana.
Quel movimento era nato negli anni Trenta, all’interno dei primi tentativi di organizzazione antifascista e, aveva annoverato subito un sostenitore della destra proprietaria come il conte Lucio Tasca autore nel 1943 di un esplicito Elogio del latifondo, ma anche il più giovane prof. Antonio Canepa. Questi, nel 1933, aveva radunato un gruppo di cospiratori per tentare un colpo di mano antifascista nella Repubblica di San Marino e alcuni anni dopo divenuto agente dei servizi segreti inglesi, aveva scritto un opuscolo intitolato La Sicilia ai siciliani (1941). Due anni dopo lo troviamo al comando di un reparto dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) per guidare una sollevazione armata contro il governo nazionale. Insomma, già nel separatismo siciliano della guerra e del dopoguerra riuscivano a convivere due leader come Tasca e Canepa, separati sul piano culturale e politico da idee e posizioni molto diverse. Settant’anni dopo, con il movimento dei Forconi che ha conquistato nei giorni scorsi le prime pagine di alcuni quotidiani e persino di alcuni canali televisivi meno vincolati agli attuali centri di potere, emerge in primo piano il volto della destra razzista ed eversiva di Forza Nuova che connota alcuni segni importanti del movimento (come la bandiera che richiama soltanto la Trinacria siciliana e separatista) ma anche quello del disagio e della miseria delle popolazioni siciliane prive di lavoro, e in difficoltà nella vita quotidiana, in un’isola in cui ormai non arrivano più né il carburante per i tir né i generi alimentari necessari alla sopravvivenza dei siciliani che non hanno avuto neppure il tempo di accumulare scorte e provviste.
La verità è che la parola d’ordine del separatismo può mettere insieme, in maniera provvisoria e superficiale, forze e classi sociali diverse, ma non può costituire un programma credibile sul piano democratico per affrontare e risolvere i problemi della Sicilia contemporanea. Come, su un piano diverso, un governo tecnico come quello guidato da Monti a cui sono stati costretti a ricorrere i partiti politici maggiori, in mancanza di elezioni politiche vicine e di una soluzione accettabile da parte dei centri di potere più influenti (pensiamo alla Confindustria, ma anche, come è ovvio, al Pdl e al Pd), non potrà risolvere problemi centrali della crisi italiana e servirà piuttosto a rimettere in ordine i conti e a imporre agli italiani i necessari sacrifici di fronte alla grave crisi economica.
DIRE CHE tutto avvenga con la necessaria equità è francamente discutibile giacché l’imposizione di tasse è avvenuta ancora una volta a danno dei lavoratori e dei pensionati mentre i possessori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari sono stati rigorosamente risparmiati dai sacrifici e potranno godersi a tempo indeterminato il frutto, in certi casi, di affari fortunati, in altri di favori acquisiti in maniera illecita. Il peso sempre più rilevante che le organizzazioni mafiose hanno in Italia, in Sicilia come in Piemonte e Lombardia, nel Lazio come in Toscana e in Emilia Romagna o nel Veneto genera continuamente corruzione e favorisce i ceti e gli individui che si trovano in condizione di acquisire denaro e potere evadendo, in parte o in tutto, il connesso carico fiscale.
l’Unità 25.1.12
In preghiera contro uno spettacolo che non conoscono
A Milano Tra messe di riparazione e insulti, Militia Christi, lefebvriani tradizionalisti e militanti di Forza Nuova hanno manifestato ieri in piazza contro lo spettacolo di Romeo Castellucci andato in scena al Franco Parenti
di Luigina Venturelli
Nonne devote preoccupate dell’educazione cattolica dei nipotini, preti negazionisti che contestano la realtà storica dell’Olocausto, autodefiniti cavalieri templari, militanti lefebvriani che ritengono la diocesi di Milano occupata da eretici, e fedeli di buona volontà che vogliono riparare con un rosario ai supposti peccati commessi dagli artisti. La composizione dei circa duecento manifestanti che ieri sera si sono riuniti a Milano per protestare contro la prima cittadina dello spettacolo di Romeo Castellucci
Sul concetto di volto nel Figlio di Dio non poteva essere più varia. L’unica tipologia che davvero non si trovava era quella del contestatore informato, in grado di criticare la rappresentazione teatrale con cognizione di causa, dopo averlo visto. «Mi hanno riferito che è blasfemo, l’hanno scritto anche i giornali, sono qui per pregare perché non commettano il peccato di infangare il volto di Gesù» diceva Rita, pensionata trevigiana di 68 anni. «Ovviamente non sono andato a vederlo, sarebbe peccato, a meno che non me lo ordinasse un’autorità ecclesiastica. Non serve usare la droga per sapere che fa male» spiegava Alberto Magagna, dipendente pubblico di Verona. «Mi sono informato su internet, dove ci sono le immagini della rappresentazione di Parigi, di quella porcheria, quando proprio dei bambini insozzano l’immagine del Salvatore» riferiva Matteo Castagna, impiegato 35enne impegnato nella restaurazione del vero cristianesimo, «quello precedente all’eresia del Concilio Vaticano II». L’indignazione collettiva dei vari gruppetti tradizionalisti cristiani il circolo Christus Rex, Militia Christi, Italia Cristiana, Fondazione Lepanto e il Comitato No194 è stata suscitata dalla presunta scena di escrementi lanciati contro l’immagine del Cristo di Antonello Da Messina scelta dal regista come scenografia. E pazienza se una simile scena nella pièce di Castellucci non esiste. A decine sono arrivati dal Veneto, una trentina da Roma, e qualcuno in ordine sparso dalla Brianza e da Milano città, per riunirsi sulla grande aiuola di piazzale Libia, a qualche isolato di distanza dal teatro Franco Parenti diretto da Andrée Ruth Shammah (finita anche lei nel mirino di odiosi messaggi di minaccia per le sue origini ebraiche), che per l’occasione è stato blindato dalla polizia in tenuta antisommossa. Lì sono stati fermati dagli agenti, dopo qualche insulto e spintone, una ventina di militanti di Forza Nuova, presenta- tisi a sorpresa. E un gettone di presenza sul finire l’ha messo pure il Carroccio. I protestanti, del resto, non erano nemmeno consapevoli gli uni degli altri. Spiegava Teresa Mondin, pensionata di 76 anni: «Ho fatto un sacrificio per venire fin qui in pullman da Treviso, ma è importante testimoniare il nostro amore in Cristo. Ora recitiamo il rosario e poi si celebrerà una messa per espiare il peccato commesso all’interno del teatro. Pare che l’abbia organizzata la Diocesi di Milano». In- vece, sul furgone organizzato con candele, paramenti e microfoni per la funzione, c’era don Floriano Abrahamovic, lefebvriano negazionista. Uno che mostrerebbe «con orgoglio» la lettera di scomunica papale «se solo me l’avessero inviata» e che, davanti a microfoni e telecamere, predicava come «la filosofia dell’ecumenismo di papa Ratzinger è la stessa dello spettacolo di Castellucci, secondo cui Lucifero è il vero artista». La libertà d’espressione artistica, insomma, non era faccenda di un qualche rilievo.
l’Unità 25.1.12
Profili di letterati e politici attraverso gli occhi di Gramsci
Un volume curato da una trentina di giovani studiosi
e un convegno a Torino per discutere dell’identità dell’Italia
di Leonardo Pompeo D’Alessandro
L’identità italiana con gli occhi di Antonio Gramsci. È stato il tema di un incontro svoltosi a Torino, organizzato da Angelo d’Orsi e promosso dall’Istituto Gramsci piemontese. Occasione del convegno è stata la pubblicazione del volume Il nostro Gramsci. Antonio Gramsci a colloquio con i protagonisti della storia d’Italia, curato dallo stesso d’Orsi ed edito da Viella.
Il volume contribuisce a una messa a punto sul pensiero di Gramsci e consente di rivisitare, attraverso il suo pensiero, i processi che hanno condotto alla formazione dello Stato nazionale.
LA NAZIONE ITALIANA
Il progetto che ha portato al volume e all’incontro di Torino muove dall’idea che il tema fondamentale di tutto il pensiero di Gramsci sia il problema storico della nazione italiana. I 31 giovani studiosi che hanno contribuito alla sua realizzazione si sono confrontati sia con gli scritti giornalistici e politici che con la riflessione dei Quaderni del carcere, ricostruendo 52 profili di protagonisti della storia d’Italia (letterati, filosofi, politici) con i quali Gramsci ha dialogato dal 1915 al 1935. Si tratta infatti di quasi tutti gli autori italiani presenti nei suoi scritti.
Questi stessi personaggi sono stati al centro della giornata torinese, evocati dalla voce degli autori secondo il profilo tracciatone da Gramsci nei suoi scritti. Così, Petrarca, «l’intellettuale cosmopolita», ha potuto rivivere accanto ad un Foscolo «icona della retorica nazionale». Il «grande statista» Cavour accanto a Verdi, che ha saputo mettere in musica il «nazionale-popolare», e al letterato e «uomo di Stato» De Sanctis. Crispi, il giacobino «deteriore», accanto a Giolitti, «Machiavelli in sessantaquattresimo», e al meridionalista Fortunato, «conservatore», ma «illuminato». Il casto socialista e «colonialista di programma» Pascoli, col «fenomeno sociale» D’Annunzio; la «faciloneria di un linguista» come Panzini, con l’«ardito del teatro» Pirandello. E ancora, la riflessione sull’egemonia attraverso la figura di Croce, sui limiti dell’antigiolittismo attraverso Salvemini, e sul fallimento della classe politica liberale, attraverso Nitti, hanno potuto rivivere accanto alla figura del «geniale pagliaccio» Marinetti e dell’«onesto massimalista» Serrati. E, infine, il «gladiatorismo gaglioffo» di Gentile con un «intellettuale che non prende parte» come Prezzolini, col «capopopolo» Mussolini e col «camaleonte snob» Malaparte.
L’iniziativa si inserisce a pieno titolo nel dibattito sull’identità italiana sviluppatosi attraverso le innumerevoli iniziative che hanno caratterizzato le celebrazioni per il 150o anniversario dell’unità. L’individualità della figura di Gramsci viene così illuminata dalla sua riflessione su questi protagonisti e simboli della storia lunga della politica e della cultura italiana.
L’orizzonte concettuale entro cui ha preso corpo l’incontro torinese si individua nell’interesse che il Gramsci dirigente politico mostrava per la storia. Ciò è più evidente nelle note sul Risorgimento, in cui egli avvertiva che le sue ricerche erano finalizzate a un programma politico ed erano concepite «col fine di distruggere concezioni antiquate, scolastiche, retoriche, assorbite passivamente per le idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca», e suscitare «un interesse scientifico per le questioni trattate».
È quanto emerso nel corso della stessa presentazione del volume, per la quale sono stati chiamati a discutere, col curatore, Vera Schiavazzi e Giuseppe Vacca. Quest’ultimo, pur rimarcando l’assenza nel volume della riflessione di Gramsci sul ruolo dei cattolici nella storia d’Italia (emblematica la mancanza di una voce dedicata a Sturzo, fondatore del Partito popolare, la cui nascita Gramsci considerava «il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento») ha sottolineato l’originalità del contributo offerto dai giovani studiosi, che colloca il loro lavoro tra le migliori iniziative su Gramsci realizzate in questi anni.
RINNOVATO INTERESSE
Anche questo volume e questa iniziativa documentano l’ampiezza e la vivacità di una nuova stagione di studi gramsciani favorita anche dalla preparazione della Edizione nazionale degli scritti. Una stagione che ha riportato in Italia il centro propulsore degli studi dedicati a un classico del Novecento, uno dei pochi autori italiani sempre più letti, tradotti e studiati in tutto il mondo.
Grazie ai profili dei numerosi protagonisti della storia risorgimentale presenti nel volume, è possibile rileggere nella sua vera luce anche il dibattito sull’interpretazione del Risorgimento sviluppatosi nel secondo dopoguerra.
Lo stereotipo che ha attribuito a Gramsci la visione del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata», tuttora presente in volumi di carattere sia scientifico che divulgativo, fa risalire a Gramsci un’idea del Risorgimento che non fu sua e che, se mai, ha avuto come principale interprete in campo marxista Emilio Sereni.
La manifestazione è stata intervallata da musiche medievali e rinascimentali suonate da Antonio Gramsci Jr. e conclusa da un suo intervento che raccontava la scoperta del nonno cominciata venti anni fa in Italia quando, insieme a suo padre Giuliano, venne da noi per alcuni mesi e cominciò ad impadronirsi della nostra lingua.
La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Prima dei Greci, come è nato il sapere empirico che ha influenzato tutte le civiltà
Il filo da Babilonia a Internet
L’archeologo: un’eredità sconosciuta, tra astronomia e matematica
di Gabriele Beccaria
Siamo tutti un po’ Greci (antichi), ma pochi sospettano che siamo parenti, e nemmeno alla lontana, dei Babilonesi. L’aureola dei santi, gli orologi solari, gli oroscopi e il teorema, detto impropriamente di Pitagora, non esisterebbero senza le intuizioni sbocciate a Babilonia. E sono appena le briciole: si è scoperto che quell’eredità, poi inquinata da miti negativi altrettanto tenaci, tipo la Torre di Babele, ha plasmato l’invenzione della scrittura, della medicina, della matematica, dell’astronomia. Se Babilonia ci ha appiccicato addosso le superstizioni, ha suggerito allo stesso tempo gli strumenti originari con cui fare scienza, prima dei riveriti maestri della Ionia, come Talete o Anassimandro.
«Babilonia. All’origine del mito» è un saggio di Paolo Brusasco, archeologo all’Università di Genova, e racconta una storia che dribbla le pruderie bibliche di vizio e lussuria e non si accontenta delle solite meraviglie architettoniche di mura e giardini pensili: contiene anche la ricostruzione di un pensiero nascente che ha indagato la terra e i cieli e si è spinta fino agli organismi viventi. Un esperimento segnato da tali dosi di empirismo - sostiene da condizionare contemporanei e posteri. Perfino noi.
Professore, lei è uno dei critici dell’«ellenofilia» e ha raccolto molte prove di come le radici scientifico-tecnologiche del presente siano da retrodatare: ma così non si inquina il concetto stesso di ricerca? Come si fa a separare il lato razionale in senso stretto dall’aura magico-religiosa della sapienza babilonese?
«Sono molti gli storiografi che stanno rivisitando la vecchia nozione di scienza, frutto della concezione positivistica, che sosteneva, tra l’altro, il primato dei Greci. Sappiamo che le prime e concrete manifestazioni di interesse per i fenomeni del mondo naturale si manifestano proprio in Mesopotamia: è una realtà che si sta recuperando grazie a un approccio olistico, capace di rivalutare le diverse sfumature del sapere umano sia di tipo mitico-religioso sia di tipo empirico».
Lei sostiene che si deve utilizzare un nuovo parametro epistemologico e un caso emblematico è la coppia astronomia-astrologia: può spiegare?
«A Babilonia l’astronomia era intimamente legata all’astrologia e così sarà a lungo, fino all’età dei Lumi. Si basava sulla ricerca dei fenomeni ciclici dei movimenti degli astri, oltre che della Luna e del Sole, con una finalità duplice: da un lato regolarizzare i calendari e quindi ricavare un input conoscitivo e pratico, dall’altro predire attraverso la decifrazione dei segni celesti gli avvenimenti futuri e il destino di sovrani, nazioni e individui. Ed ecco che qui emerge l’astrologia, che si intreccia con le speculazioni scientifiche su un universo concepito come un insieme ordinato, retto da distanze misurabili in modo matematico: gli astronomi babilonesi, infatti, inventano le effemeridi, le tabelle con cui anticipare i movimenti degli astri e della Luna, mentre una delle loro celebrità, Kidinnu, mette a punto il “sistema B”, che prevedeva una stabilità ciclica di accelerazione e decelerazione del moto lunare e dei pianeti».
Un altro caso di sincretismo è la mappa del mondo conservata al British Museum.
«Sì. Mentre racchiude un valore mitico-esoterico, apre spiragli di ricerca cartografica. La tavoletta rappresenta la Terra in forma circolare, circondata dall’oceano: non solo anticipa le concezioni di Anassimandro ed Ecateo, ma nell’interpretazione di alcuni studiosi potrebbe delineare in forma bidimensionale la concezione, in anticipo sui tempi, di un emisfero».
Secondo la sua ricostruzione, Babilonia diventa non solo una culla della civiltà, ma il centro del mondo.
«E’ così: si può identificare sia una linea evolutiva che da Babilonia porta a Occidente sia un’altra che conduce verso Oriente. A quella del sapere trasmesso dall’eredità greca alessandrina e poi dall’era cristiana se ne affianca un’altra, proiettata verso il mondo arabo, persiano e indiano. Babilonia è un crocevia della cultura, anche se il processo di contaminazione non è stato riconosciuto dalla storiografia della scienza tradizionale».
Fondamentale è stata l’invenzione della scrittura.
«E infatti nel II millennio a-C. nasce una figura-chiave, quella del saggio caldeo itinerante, che fonda scuole in tutto il Medio Oriente e in Egitto: il cuneiforme diventa il mezzo di trasmissione delle conoscenze, comprese quelle scientifiche, e la lingua accadica-babilonese una sorta di lingua franca, come hanno rivelato gli scavi nel sito di Tell el-Amarna. Vengono fecondate tante civiltà, nel Mediterraneo e in Oriente, e il processo si propaga nel tempo, fino alle armate persiane e di Alessandro Magno e ai Greci di Alessandria. I saggi diventano precettori di principi e re: lo rivela anche una versione cristianizzata della vita di Gautama Buddha, in cui si narra la presenza di “55 uomini istruiti nella scienza delle stelle dei Caldei alla corte indiana”».
Si dice Babilonia, eppure si evoca sempre Babele: perché su questa eredità straordinaria è calata una pubblicità tanto negativa?
«All’origine c’è la presa del regno di Giuda nel 597 a. C. da parte di Nabucodonosor II e la distruzione del Tempio di Gerusalemme 10 anni dopo, con la deportazione degli Ebrei: la fine di Giuda e la cattività babilonese spingono profeti come Geremia ed Ezechiele a lanciare una maledizione che si propagherà nei millenni. Babilonia da prima città multiculturale del mondo diventa simbolo di tirannia e vizio».
La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Un’altra storia è racchiusa nel Genoma
Dalla biologia alle culture: Cavalli Sforza ha trasformato le concezioni su noi Sapiens
di Alberto Piazza
Luigi Luca Cavalli Sforza è nato a Genova 90 anni fa Oggi un gruppo di studiosi e di allievi lo celebra a Milano
Luigi Luca Cavalli Sforza compie oggi 90 anni: il Comune, l'Assessorato alla Cultura e la direzione musei di Milano hanno organizzato in suo onore una tavola rotonda al museo comunale di Storia Naturale di Milano: titolo dell’evento, in programma oggi, è «Disseminare la scienza per seminare il futuro» e non c’è espressione più felice per descrivere ciò che in tanti anni CavalliSforza ci ha donato: scienza e futuro.
Non solo a Milano, dove ha passato la maggior parte della vita e dove ora abita, ma anche a Torino, città da lui sempre amata, conta centinaia di allievi e amici che gli debbono molto, e il festeggiamento che gli si tributa in questa pagina ne costituisce una meritata testimonianza. Cavalli Sforza è nato a Genova, ma da studente ha trascorso alcuni anni a Torino, prima al Liceo d'Azeglio, poi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia (di cui ama ricordare la figura di Giuseppe Levi, notissimo professore di Anatomia dell'Ateneo torinese) ; tuttavia si è laureato a a Pavia nel 1944. Subito dopo ha lavorato all' Istituto Sieroterapico Milanese (con qualche interruzione) fino al 1956, per poi ricoprire tutti i ruoli accademici.
La sua esperienza di straordinario ricercatore ha avuto inizio al dipartimento di Genetica di Cambridge con un altro ricercatore eccezionale, Sir Ronald Fisher. È lui, a buon diritto, che può considerarsi il padre della statistica moderna e uno dei padri (insieme con Haldane e Wright) della genetica evoluzionistica. La testimonianza dello stesso Cavalli Sforza ci lascia intravedere in Fisher il grande e austero sapiente e in se stesso il giovane esuberante, ricco di nuove idee.
Ritornato in Italia, all’attività di microbiologo all’Istituto Sieroterapico Milanese (dove in quello stesso periodo cominciava la sua attività scientifica un altro grande genetista italiano, Ruggero Ceppellini) Cavalli Sforza affianca l’insegnamento di genetica e statistica alle Università di Parma e Pavia, divenendo in seguito Professore di Genetica a Parma (1960 - 1962) e a Pavia (1962 - 1970).
Dal 1970 si trasferisce alla Stanford University School of Medicine, in California, dove lavora nel dipartimento di Genetica fino al 2008, quando ritorna a Milano. Quando gli venne chiesto il motivo di quel trasferimento, la risposta è semplice: «Perchè in Italia il lavoro non mi divertiva più: troppi impegni non scientifici e molte delusioni».
Oggi, 42 anni dopo, i suoi allievi diventati collaboratori ed amici, sparsi in ogni parte del mondo, gli sono grati non solo per la scienza che ha saputo molto generosamente trasfondere, ma anche per questa capacità di divertirsi, per questo gioioso «esprit de finesse» che ha sempre accompagnato la sua ricerca. Ricerca che, documentata da oltre 500 pubblicazioni e otto libri, ha spaziato nelle direzioni più diverse. Nei primi 15 anni (fino agli Anni 60) si è concentrata essenzialmente su argomenti di genetica batterica: tra questi studi, i più noti riguardano il sesso e la ricombinazione nel batterio Escherichia. Coli, cioè la scoperta del primo ceppo mutante di Coli con la presenza di un fattore, chiamato fattore F (da Fertility), in grado di trasmettere la capacità di scambiare il proprio materiale genetico con un altro batterio. Questo carattere di tipo sessuale non era mai stato osservato nei batteri e, ulteriormente analizzato da Joshua Ledeberg, è valso a Lederberg stesso il premio Nobel. A partire dagli Anni 60, poi, la ricerca di Cavalli Sforza si è sempre più focalizzata sulla genetica delle popolazioni umane, campo in cui da anni è indiscussa autorità mondiale.
La sua ricerca ha spaziato dagli aspetti metodologici per ricostruire la storia delle popolazioni umane, partendo dai dati genetici, alla demografia della Val di Parma; dalla consanguineità delle popolazioni italiane alle caratteristiche dei Pigmei africani; dall’influenza della tecnologia agricola dei Neolitici sulla struttura genetica delle popolazioni europee alla teoria della trasmissione culturale; dalle ricerche di laboratorio che hanno dimostrato l’identità della proteina Gc con quella che lega la vitamina D agli studi più recenti, che usano particolari marcatori del DNA (i cosiddetti SNP, Single Nucleotide Polymorphisms, distribuiti a milioni nel nostro Genoma) per datare l’origine della nostra specie e la sua successiva evoluzione nel mondo; e infine a quell’impegnativo compendio di storia e geografia dei geni umani nel quale si è tentato di correlare la storia dei nostri geni con quella della nostra cultura e in particolare delle nostre lingue.
Tutti questi temi riflettono un’ampiezza di interessi, uno sforzo di comprensione della nostra storia di uomini che non è e non può essere concentrata sulla sola biologia; che non può e non deve prescindere dalla nostra cultura.
Cavalli Sforza è membro delle principali accademie e società scientifiche del mondo; è stato insignito dei riconoscimenti più ambiti tra i quali, nel 1999, il premio Balzan per la scienza delle origini dell’uomo. «Tuttoscienze» è onorata di festeggiare Luigi Luca Cavalli Sforza, riportando l’inizio della motivazione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Cambridge (1993), quale sintesi ed augurio per il suo novantennio: «Know then thyself, presume not god to scan; the proper study of mankind is man» (da Alexander Pope, «An Essay on Man», 1734).
Repubblica 25.1.12
Il genetista che oggi compie 90 anni racconta la sua vita e i suoi studi "Se non avessi fatto l'università, mi sarebbe piaciuto diventare tipografo"
Luca Cavalli Sforza "Dai batteri al linguaggio ora so che l'uomo è meglio di come viene disegnato"
di Antonio Gnoli
MILANO Per un uomo che oggi compie novant'anni la vita non è più un riparo. "E' un bel traguardo, ma ci si sente più scoperti, più esposti all'accadere delle cose, allo scorrere del tempo", dice Luca Cavalli-Sforza, uno dei più grandi studiosi mondiali di genetica. Ha insegnato a Cambridge, a Stanford, a Milano. Ha allievi in tutto il mondo che proprio oggi lo festeggeranno con una video conferenza simultanea. «Ormai l'elettronica ha cambiato il nostro modo di viaggiare. Siamo fermi ma è come se fossimo ubiquamente presenti in tutto il mondo», commenta ironico. Ma non è ironico l'omaggio singolare che Gualtiero Marchesi ha fatto al "grande vecchio della genetica" dedicandogli un piatto. Sui suoi viaggi l'editore Codice ha recentemente pubblicato, a cura di Elisa Frisaldi, Ancora una volta ero io il curioso. C'è qualcosa di commovente nel modo semplice con cui rammenta la sua storia: «Nei miei anni giovanili viaggiare era tipico delle società occidentali. Lo si faceva per diletto, come esplorazione o conquista. Io ho viaggiato soprattutto per conoscenza. E già da piccolo, quando avevo dieci anni, fin dai miei primi spostamenti in America del Nord e del Sud, sentivo che era il rapporto con la novità a coinvolgermi».
C'è una foto che la ritrae su una nave insieme ai suoi genitori.
«L'ho presente. Posso avere sette o otto anni. E mio padre, ricordo, era appena tornato dagli Stati Uniti su una nave che si chiamava "Augustus". Con la mamma lo raggiungemmo a Napoli e di lì risalimmo fino a Genova. Credo che quello fu in assoluto il mio primo viaggio».
Suo padre di cosa si occupava? «Rappresentava alcune ditte americane per l'importazione di macchine domestiche. Fu il primo negli anni Venti a far giungere in Europa la prima lavatrice. Diceva di essere scappato di casa a 14 anni, per andare in Inghilterra dove, per guadagnarsi la vita, imparò il mestiere di tipografo. Se non avessi fatto l'università, mi sarebbe piaciuto intraprendere qualcosa di simile».
Dove ha studiato? «Il primo anno di medicina lo feci a Torino. Poi, con la malattia di mio padre, capii che avrei dovuto pesare il meno possibile sulla famiglia. Feci domanda per entrare al Ghislieri di Pavia. Era un collegio prestigioso che si sarebbe fatto carico di tutte le spese, vitto e alloggio, a patto che la media dei voti fosse alta. E lì ebbi la fortuna di incontrare un professore di genetica del quale divenni prima studente e in seguito assistente».
Cosa l'attraeva della genetica? «Era una disciplina nuova e quelli che la fondarono furono zoologi e botanici. A introdurla in Italia fu, appunto, il mio professore: Adriano Buzzati Traverso la cui nipote, in seguito, diventerà mia moglie. Passai gli anni della guerra in un laboratorio di Como a fare ricerche batteriologiche. Poi, finito il conflitto, conobbi Sir Ronald Fisher. Ci incontrammo durante un congresso a Stoccolma.
Conoscevo la sua fama di genetista. Ed ero felice di poter esporre la mia ricerca davanti a un personaggio così autorevole».
Fisher dove insegnava? «A Cambridge. Seppi in quei giorni che stava cercando una persona che si occupasse della sessualità dei batteri e mi propose di andare a lavorare con lui. Naturalmente accettai. Fu un periodo magnifico passato accanto a un uomo straordinario che in origine era stato un matematico».
C'è una relazione tra genetica e matematica? «La genetica è quella parte della biologia che ha sviluppato più di tutte l'analisi matematica dei dati. Ad esempio, lo studio della somiglianza tra genitori e figli si è servita di modelli speciali di ricerca che hanno fatto uso di calcoli statistici». Oltre il rapporto genitorie figli, la genetica richiama il problema delle razze.
«È una questione fondamentale». Perché le teorie razziste sono antiscientifiche? «Esagerano, ideologicamente, le somiglianzeo le differenze tra le razze. E sostengono, sbagliando, un grado di purezza nella razza che è inesistente».
Conta più il patrimonio genetico o culturale? «Contano in egual misura. Però tutto dipende da certi fattori che possono essere modificabili dalla vita in comune o dalle scelte reciproche». Lei più che sugli individui ha lavorato sulle popolazioni. Cosa cambia? «Offre una visione più di insieme. Ho studiato diverse popolazioni. Il primo approccio avvenne con i pigmei, i quali vivono in condizioni che sono senza dubbio molto più simili a quelle di migliaia di anni fa che di oggi. Il pigmeo vive in un ambiente a noi estraneo: dentro la foresta, nutrendosi di cibi che non sono mutati nel tempo. Gli animali, frutto della caccia, sono gli stessi di migliaia di anni fa, così le erbe e le radici. In fondo anche se l'uomo si è sviluppato nell'arco di un milione di anni, questo tempo è brevissimo se rapportato all'età della terra». L' homo sapiens - su cui si tiene a Roma al Palazzo delle Esposizioni una mostra curata da lei, da suo figlio Francesco e da Telmo Pievani - risale a centomila anni fa. «Sì. Ma in fondo anche trecentomila anni prima l'uomo non era così diverso da oggi. Differente era l'ambiente in cui viveva».
Parliamo di poche migliaia di individui? «Un milione di anni fa saranno stati meno di 100 mila. Si muovevano sapendo di imbattersi talvolta in gruppi ostili, che potevano rappresentare una limitazione importante agli spostamenti. Ma, al tempo stesso, esistevano ampie zone abitate da gente pacifica».
Lo spostamento era in funzione della caccia? «Sì, procurarsi il cibo, anche vegetale, richiedeva una notevole capacità di movimento».
Quando l'uomo diventa stanziale? «Esattamente diecimila anni fa quando, a causa della crescita demografica, ha inizio l'agricoltura.
In pratica ci sono più bocche da sfamare e questo grande rivolgimento, questa forma sociale nuova, ha inizio nel Medioriente, dove sono rimasti esempi di piccoli villaggi preistorici».
Ci ricordava i suoi studi tra i pigmei, ma anche tra i boscimani... Che ricordo ha di quel mondo remoto? «Per lo più di gente straordinariamente ospitale. I soli pericoli che ho corso sono stati nel Sahara, dove varie volte ho rischiato di perdermi». Visto il suo approccio multiculturale si ritiene un relativista? «Credo alle differenze, ma alla fine tutti mangiamo, anche se non le stesse cose. E riusciamo a comunicare, senza necessariamente conoscere la lingua dell'altro, con la sola nostra fisionomia.
Quando poi parliamo con persone che non conosciamo il comportamento può oscillare tra ostilità e gentilezza».
L'essere umano è meglio o peggio di come lo si descrive? «Meglio, altrimenti la convivenza sarebbe impossibile. Per mangiare avremo sempre bisogno di comunicazione e scambio». Perché allora scoppiano conflitti, gelosie, soprusi? «Quasi sempre sono dovuti al fatto che in molte persone c'è il desiderio per cose che appartengono agli altri».
Desiderare qualcosa che altri desiderano. «Più esattamente ciò che qualcuno ha e che l'altro non ha».
Si può intendere come un bisogno di possesso? «Sì, il cibo, ad esempio, dobbiamo procurarcelo. Se uno ha fame e non ha di che sfamarsi può diventare cattivo».
Equità e giustizia fanno parte del mondo della cultura o anche la biologia aiuta? «La cortesia è un'esperienza sociale. La giustizia non è molto diversa». Lei ha lungamente insegnato all'università di Stanford.
«È vero. Fu Joshua Lederberg a chiamarmi. Era un po' più giovane di me. Un talento della ricerca.
A soli 33 anni vinse il Nobel».
Le dispiace che a vincerlo fu lui e non lei? «Ha fatto cose più importanti di me. Poi, sa, non credo che sia così fondamentale. Non c'è bisogno, a questo livello, di una stimolazione del proprio ego. Bastano i risultati della ricerca. Comunque se me lo avessero conferito ne sarei stato felice».
Quanto tempo è rimasto a Stanford? «Più della metà della mia vita.
Sono rientrato definitivamente in Italia nel 2008».
Come ha trovato il suo Paese? «Mescoliamo un alto tasso di rissosità con la tendenza a sottovalutarci. Ma ormai esco poco di casa e il Paese si conosce bene uscendo dalle mura domestiche».
Tra gli scaffali della sua libreria vedo pochi romanzi.
«Non sono assolutamente bravo a leggere romanzi. Preferisco le storie vere. Meglio i giornali. In ogni caso, i libri di lavoro continuano a occupare la mia vita».
Cosa è importante nella genetica? «La nascita, il matrimonio e la morte. Riassumono la storia dell'umanità». Il suo matrimonio come è stato? «Bello e continua ad esserlo. Su nascita e morte non ci sono scelte.
Ma sul matrimonio sì e ho scelto bene». Nascita e morte sono anche un fatto culturale.
«Cosa intende per culturale? ».
Ci hanno insegnato che la vita e la morte sono un passaggio, a volte vissuto con speranza, altre con terrore.
«Ma lei crede all'Al di là? ».
Credo che molti credono.
«L'Al di là è un'invenzione intelligente e niente di più. Il cristianesimo gli ha dato una forma compiuta». È stato un modo per arricchire la speranza. Un genetista deve tenerne conto? «Il genetista è costretto a prescinderne. Non deve occuparsi dei problemi che riguardano i peccati, la punizione o la resurrezione». Immagino che le sarà accaduto di leggere la Bibbia. Cosa ne pensa? «Ho il massimo rispetto e considerazione per quel testo. Ma come membro della specie umana posso affermare che la sua narrazione dice ben poco sulle nostre origini. Anzi non dice un accidente di niente».
Uno scienziato può credere in Dio? «Ce ne sono parecchi che credono, io no. Penso che in questo caso credere sia un cedimento a un insegnamento privo di fondamento e come tale una forma di debolezza o di superstizione».
Ma ammetterà che l'uomo non è riducibile ai valori della scienza. «Penso chei soli discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza». Ha nostalgia del mondo in cui ha viaggiato? «Sono quasi sempre stati viaggi molto faticosi e sono contento di averli fatti. Ma oggi non ho più l'energia di allora. E poi c'è un momento in cui si dice basta».
Tutto quello che voleva apprendere lo ha appreso? «Detta così sembra un'affermazione di superbia. Ma non mi è rimasta più molta curiosità. A novant'anni mi sento appagato. In fondo ho sempre avuto la consapevolezza precisa di ciò che posso o non posso fare. E se una cosa non la posso fare non me ne importa niente».
Molto pragmatico.
«La parola mi piace. Sono stato contento per come ho usato il mio tempo e non ho rimpianti. Ho soddisfatto molte curiosità e accumulato conoscenze che ho trasmesso ad altri. Credo di essere abbastanza in pace con me stesso e con il mondo».
La Stampa TuttoScienze
Intervista
“E adesso Cina e India preparano il sorpasso”
Ricerca/1. Il direttore della Sissa di Trieste: perché l’Asia sta investendo in mega-progetti “Una strategia globale per attirare i cervelli migliori. E l’Italia soffoca nella burocrazia”
di Stefano Rizzato
La geografia della scienza sta cambiando. In fretta. E, tra qualche anno, al posto di Harvard, Cambridge e Stanford, in cima ai desideri di ogni ricercatore potrebbero esserci Taiwan, Pechino, Bangalore.
L’exploit dell’economia di Cina e India non è una novità. Ma il resoconto annuale della rivista «Nature» rivela l’impetuosa crescita dell’Asia anche nel campo della ricerca. Lo scorso anno l’Iran ha incrementato il numero delle pubblicazioni scientifiche del 20%, la Cina del 15, l’India e la Corea del Sud del 10. Con gli oltre 142 mila articoli prodotti nel 2011 la ricerca cinese è la seconda del mondo, dietro agli Usa (310.206) e davanti a Gran Bretagna (90.018), Germania (82.550) e Giappone (68.308). L’Italia si conferma 8ª, con 47.403 lavori, ma alle spalle ora incalzano proprio India (39.640) e Corea del Sud (39.285).
Numeri che non riguardano solo gli specialisti, perché è anche grazie ai progressi fatti nei laboratori che i Paesi emergenti stanno rivoluzionando lo scenario mondiale. «E’ la ricerca il motore dello sviluppo di ogni nazione», conferma Guido Martinelli, direttore della Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, una delle poche eccellenze universitarie italiane -. C’è una correlazione molto stretta tra progresso scientifico-tecnologico ed espansione economica. Peccato che troppo spesso qui in Italia ce ne dimentichiamo».
Professore, anche nella ricerca la supremazia occidentale sta per finire?
«Si deve tenere presente che molte delle potenze emergenti partivano da un livello inferiore in campo scientifico: il loro progresso, in parte, è fisiologico. Di sicuro, però, la crisi non aiuta né l’Europa né gli Usa. La loro egemonia si basava anche sul fatto che l’Oriente ha continuato a lungo a produrre ed esportare solo manufatti a basso contenuto tecnologico. Ma da quando questi Paesi hanno cominciato a puntare sulla ricerca la musica è cambiata».
Cina e India sono le nuove icone: qual è la formula dei loro trionfi in laboratorio?
«Le ragioni del loro sviluppo, in realtà, sono semplici da spiegare: là lo Stato si è fatto promotore della ricerca e dell’innovazione, con investimenti importanti. E ora ha iniziato a raccogliere i frutti».
Taiwan è un altro esempio emblematico.
«Fino a qualche anno fa esportava quasi solo magliette e, addirittura, le etichette " made in Taiwan" erano sinonimo di scarsa qualità. Ora là ci sono università all’avanguardia e aziende che forniscono componenti sofisticate ai produttori di computer. Un bel salto».
E’ davvero imminente il sorpasso scientifico della Cina sugli Usa?
«Difficile fare previsioni, anche perché nel XX secolo gli Usa hanno dimostrato grandi capacità di rilancio. C’è però un fattore che gioca a loro sfavore: i giovani americani più brillanti stanno snobbando la ricerca per dedicarsi alla finanza. D’altra parte gli Usa conservano un importante punto di forza: continuano a richiamare talenti da tutto il mondo e a offrire condizioni di lavoro allettanti».
Nel grande gioco globale quanto è importante la capacità di attrarre talenti?
«I bravi scienziati sono sempre più ambiti. E in Oriente ci si attrezza. La Cina, infatti, si sta impegnando per invertire la fuga di cervelli, mentre a Bangalore ho visto centri di ricerca creati da zero, invitando studiosi dall’estero e dando loro carta bianca. E allora si torna alla questione degli investimenti: dove ci sono risorse e la possibilità di assumere si crea la situazione ideale».
È per questo che sempre più ricercatori lasciano l’Italia?
«La penuria di fondi è una parte importante del problema, ma c’è dell'altro. Spesso la ricerca viene imbrigliata da un contesto normativo che sembra di un’altra epoca e che rende difficile persino utilizzare le risorse dell’Ue. Io stesso ho ottenuto un “grant” dello European Research Council e posso dire che utilizzare i fondi non è per nulla semplice. E per assumere c’è un gioco dell’oca normativo pieno di trappole: così molti finiscono per portare il loro “grant” altrove. Scrissi una lettera all’ex ministro Gelmini, ma non mi rispose. Ora confido nel ministro Profumo, che conosce a fondo i problemi della ricerca».
Non sono però mancate critiche proprio contro uno dei primi provvedimenti di Profumo, quello sui Prin, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, per cui sono stati stanziati 175 milioni. Fabio Beltram e Chiara Carrozza, direttori della Scuola Normale e del Sant’Anna di Pisa, hanno contestato il nuovo sistema di selezione, che limita il numero di progetti con cui ogni università può concorrere. Lei che ne pensa?
«Condivido le perplessità dei colleghi. Certo, è giusto promuovere la creazione di grandi reti e gruppi di lavoro allargati, come auspica il ministro. Allo stesso tempo, però, imporre un tetto ai progetti da presentare per i Prin significa tarpare le ali alle migliori università. Ci sono centri d’eccellenza dove si fa ricerca con grande qualità in tante discipline: per loro la nuova soglia rischia di essere troppo penalizzante. Credo che siamodi fronte a un errore da correggere».
La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Scoop: 570 milioni di anni fa per riprodursi si faceva così
Nel Sud della Cina i micro-fossili dei primi organismi pluricellulari
di Luigi Grassia
Molto prima dei dinosauri Qui accanto il «rendering» dei mari di 570 milioni di anni fa e delle forme di vita che li abitavano In alto la tomografia del fossile di un grumo di cellule di Doushantuo con in corso fenomeni di suddivisione
Il fisico Rutherford diceva che «l’unica vera scienza è la fisica, tutto il resto sono collezioni di francobolli». Intendeva che quello della fisica è un sapere strutturato, mentre nelle altre scienze ci si limita a raccogliere e a classificare campioni, come fanno il botanico con le sue erbe (o il filatelico coi suoi rettangolini di carta). Il giudizio di Rutherford non era obiettivo, però in una cosa la fisica è di sicuro avvantaggiata su altre discipline: in fisica si può (almeno in teoria) scoprire e verificare tutto e persino sondare, in base a prove indirette, che cosa c’era prima del Big Bang, anche se nessun fisico era lì a vederlo; invece in certe scienze un po’ più sfigate, vedi la paleontologia, c’è il rischio che determinate cose non vengano scoperte mai, neanche fra un miliardo di anni; per esempio, se non si sono conservati i fossili intermedi fra l’animale X e il suo discendente animale Y, vissuto 50 milioni di anni dopo, non sapremo mai, prove alla mano, com’è avvenuto il passaggio.
Questa premessa dovrebbe far apprezzare per benino l’eccezionalità di un ritrovamento nel Sud in Cina ad opera di un team internazionale di zoologi: nella formazione di Doushantuo, vecchia di 570 milioni di anni (periodo Ediacarano), un deposito di fossili ci ha regalato la fotografia unica e irripetibile del passaggio degli animali dalla vita unicellulare agli organismi pluricellulari. È anche parte del nostro albero genealogico, perché veniamo tutti da lì. Niente garantiva che questa testimonianza ci venisse preservata, e invece eccola lì, miracolosamente a nostra disposizione. Uno studio condotto dall’università di Bristol è pubblicato sulla rivista «Science». Ammettiamolo, la scoperta è stata un incredibile colpo di fortuna, un po’ come trovare un intero foglio di «Gronchi rosa» (francobolli rarissimi e di valore) in un vecchio cassetto del nonno, ma con buona pace di Rutherford questa ci sembra vera scienza.
Attenzione: se i vostri ricordi scolastici non sono freschissimi e non vi risulta, a memoria, che sia mai esistito un periodo Ediacarano (fra i 635 e i 542 milioni di anni fa) non vi sorprendete, perché l’Ediacarano è stato introdotto ufficialmente dai geologi con un apposito convegno internazionale soltanto nel 2004, ritagliandogli un posto immediatamente prima del Cambriano; roba di non strettissima attualità, insomma, un’epoca di mucillaggini e poco altro.
Allora proviamo a spostare la lancetta della macchina del tempo a 570 milioni di anni fa. Che cosa troveremmo? Nel remoto Ediacarano la vita sul nostro pianeta era solo acquatica, ma i pesci ancora non esistevano (e tantomeno gli anfibi, o i dinosauri) ; se è per questi, persino i vermi erano organismi ancora troppo complessi e sofisticati e di là da venire.
Le terre emerse erano completamente vuote e sterili. Non un filo d’erba, non un insetto. Invece nei mari erano già presenti organismi pluricellulari vegetali (le alghe), la cui comparsa risalire addirittura a un miliardo e 200 milioni di anni fa. Quanto agli animali, erano un po’ indietro rispetto alle piante nella tabelle di marcia dell’evoluzione: all’inizio dell’Ediacarano erano esclusivamente unicellulari, tipo le amebe, e passarono alla multicellularità solo verso la fine del periodo. Di preciso non si sapeva come questo fosse avvenuto, adesso invece ce lo rivelano i microscopici ma fenomenali fossili di Doushantuo.
In questo sito nel Sud della Cina è stato scoperto un deposito fossile con migliaia di animaletti microscopici. Tenete conto delle difficoltà: non si tratta di grandi reperti che un paleontologo può scorgere a occhio nudo, come le ossa di un dinosauro o la zanna di una tigre dai denti a sciabola. Nell’Ediacarano non esistevano le ossa, le lische, i gusci, i denti o altre parti resistenti dei corpi di animali: c’erano solo tessuti morbidi, partendo dai quali un processo naturale di sostituzione, molecola per molecola, ci ha restituito alla fine la fotocopia solida di quegli esseri antichi, così com’erano. Sia chiaro: anche l’osso di dinosauro che troviamo oggi non è un vero osso, conservato per noi durante 100 milioni di anni, ma una roccia che preserva la forma dell’osso originario a seguito di un raro e improbabile processo di sostituzione molecola per molecola. Però è chiaro che questo processo è ancora più raro e più improbabile, se coinvolge non un osso o un guscio, con le loro strutture solide di supporto, ma solo delle amebe.
Bene, e che cosa hanno visto gli scienziati in questi microfossili di Doushantuo? Hanno trovato una gran quantità di «fermo immagine» dei progenitori degli animali attuali, sorpresi in tutti gli stadi del loro sviluppo, a partire dal processo di divisione con cui da una cellula si passa a due, quattro, otto cellule e così via, fino a formare grumi di centinaia di migliaia di cellule; poi sono state trovate «immagini» di questi grumi carichi di spore e, infine, è documentata la liberazione di queste spore nel momento esatto in cui avviene, per far ripartire il ciclo della vita dall’inizio. Il processo di divisione cellulare così «fotografato» nella pietra è talmente simile a quello che si verifica nei primi stadi di sviluppo degli embrioni animali (esseri umani compresi) che qualche anno fa, quando avvenne la scoperta di Doushantuo, questi micro-fossili furono interpretati, appunto, come gli embrioni di animali già arrivati allo stadio della multicellularità. Ma poi sono cominciati ad affiorare i dubbi: era strano che accanto a questi ipotetici embrioni non venissero mai rinvenuti, nonostante un raggio di ricerche sempre più ampio, anche i corrispondenti animali adulti.
La soluzione del mistero è arrivata da un’analisi hi-tech dei fossili. «È stata fatta una serie di tomografie usando come fonte di raggi X un sincrotrone - spiega il ricercatore John Cunningham -. Questo ci ha permesso di ricreare al computer dei modelli dei fossili da sezionare poi virtualmente». La scienziata Therese Huldtgren aggiunge che «le cellule fossili sono così ben conservate che persino i loro nuclei risultano chiaramente visibili». Alla fine è risultato che quei grumi di migliaia di cellule non erano embrioni di animali, ma animali adulti già formati, nello stadio più rudimentale della multicellularità.
Ecco, quello immortalato nel Sud della Cina è il Big Bang degli animali pluricellulari. Visibile oggi anche a chi di noi quel giorno lì non c’era.
Corriere della Sera 25.1.12
Se il computer ci ruba la memoria
Da Petrarca al fantascientifico iPhone 50: il ricordo affettivo e quello artificiale
di Joshua Foer
Ho passato un anno a cercare di allenare la memoria, studiandone il funzionamento e cercando di capire se c'era un trucco o un esercizio per ricordare meglio. Ho imparato che l'antica arte della memoria, che risale a circa 2.500 anni fa, richiede un impegno profondo — quello che gli psicologi contemporanei definiscono «codifica elaborativa». Si tratta di collocare le informazioni in un contesto, comprendere il loro significato, associarle alla rete di altri concetti che abbiamo in mente. Ricordare richiede tempo, impegno e concentrazione. Tempo, fatica, concentrazione: tutte cose che troppo spesso ci mancano. Siamo bombardati da informazioni e siamo diventati dei colabrodo che catturano solo minime particelle di quel che gli piove addosso, mentre il resto scorre via. Ogni giorno sembra che ci siano più blog da seguire, più riviste da leggere, libri da conoscere, informazioni che ci distraggono. Mentre il flusso di queste informazioni continua a crescere, diventa sempre più difficile essere adeguatamente informati. (...)
L'incapacità cronica e diffusa di ricordare è una caratteristica della nostra cultura, ed è così radicata che la consideriamo un dato di fatto. Ma non è sempre stato così. Una volta, molto tempo fa, la sola cosa che si poteva fare dei pensieri era ricordarli. Non c'era un alfabeto in cui trascriverli, carta su cui fissarli. Tutto quel che volevamo conservare doveva essere memorizzato. Ogni storia che si voleva raccontare, ogni idea che si desiderava tramandare, informazione che si intendeva trasmettere, doveva anzitutto essere ricordata.
Oggi abbiamo le fotografie per registrare le immagini, i libri per immagazzinare la conoscenza, e recentemente, grazie a Internet, per accedere alla memoria collettiva dell'umanità ci basta tenere a mente gli opportuni termini di ricerca. Abbiamo rimpiazzato la memoria naturale con un'ampia sovrastruttura di puntelli tecnologici che ci hanno liberato dall'onere di immagazzinare le informazioni nel cervello. Queste tecnologie che esternalizzano la memoria e raccolgono la conoscenza al di fuori di noi hanno reso possibile il mondo moderno, ma hanno anche cambiato il modo in cui pensiamo e in cui usiamo il cervello. Abbiamo dato meno importanza alla nostra memoria interna. Non avendo quasi più bisogno di ricordare, a volte sembra che ci siamo dimenticati come si faccia. Vorrei soffermarmi un momento su come questa situazione si sia venuta a creare. Come siamo arrivati a salvare le nostre memorie ma a perdere la nostra memoria?
Vivendo in mezzo a un fiume di parole stampate (solo ieri, ad esempio, sono usciti quasi 3.000 nuovi libri), è difficile immaginare cosa fosse la lettura prima di Gutenberg, quando un libro era un oggetto scritto a mano, raro e costoso, che richiedeva a un amanuense mesi di lavoro. Oggi scriviamo per non dover ricordare, ma nel tardo Medioevo i libri non erano considerati solo sostituti, ma anche aiuti della memoria. Ancora nel Quindicesimo secolo potevano esserci solo poche decine di copie di un dato testo, e molto probabilmente erano incatenate a una scrivania o a un leggio in qualche biblioteca, che se conteneva un centinaio di altri libri sarebbe stata considerata assai ben fornita. Gli studiosi sapevano che dopo aver letto un libro molto probabilmente non lo avrebbero mai più visto, avevano quindi un forte incentivo a ricordare quel che leggevano con grande impegno. Sui testi si ruminava, masticandoli, rigurgitandoli e rimasticandoli, e si arrivava così a conoscerli intimamente e a farli propri. Come scrisse Petrarca in una lettera a un amico: «Gustai la mattina il cibo che digerii nella sera: mangiai fanciullo per rugumare da vecchio; e tanto con loro mi addomesticai, talmente mi passarono, non dico nella memoria, ma nel sangue e nelle midolle». (...)
Oggi leggiamo libri «estesamente», senza una profonda concentrazione e, a parte rare eccezioni, li leggiamo una volta sola. Nella lettura anteponiamo la quantità alla qualità. Non abbiamo scelta, se vogliamo mantenerci aggiornati. Anche nei settori più specializzati, è una fatica di Sisifo cercare di dominare la montagna di parole che si riversa ogni giorno sul mondo. E questo significa che è praticamente impossibile fare uno sforzo serio per memorizzare quel che leggiamo. (...)
Si potrebbe sostenere che stiamo entrando in una nuova era nella quale avere una cultura profonda — possedere una mente ben coltivata e culturalmente attrezzata — non ha più l'importanza di una volta. Uno studio pubblicato all'inizio di quest'anno sulla rivista «Science» ha dato molta soddisfazione agli esponenti di quell'intellighenzia che, dall'altra parte dell'Atlantico, denuncia regolarmente gli effetti negativi che Internet ha sul nostro modo di pensare. Una serie di esperimenti condotti dai ricercatori della Columbia University ha dimostrato che quando impariamo delle nozioni che sappiamo essere anche immagazzinate nella memoria di un computer, il nostro rapporto con esse cambia. Quando sappiamo che qualcuno ricorda per noi, investiamo meno nell'atto del memorizzare. Per chi passa il tempo a navigare sul Web saltando da un argomento all'altro, facendo delle pause per controllare la posta e i risultati sportivi, questo è diventato il modo principale di acquisire informazioni. Leggiucchiamo, scorriamo pagine web, guardiamo qua e là distrattamente, senza grande impegno. E dimentichiamo.
«Google ci sta rendendo stupidi?» ha chiesto un giornalista televisivo. «Ci sta rovinando i ricordi?» ha domandato un altro. E se così fosse, sarebbe poi tanto grave?
Queste discussioni sono molto più vecchie di Google. Abbiamo usato un mezzo tecnologico per registrare all'esterno i nostri ricordi fin da quando il primo uomo ha spalmato del colore sulla parete di una caverna. (...)
Abbiamo fatto molta strada, dal temere la scrittura al preoccuparci di Google. Oggi credo che saremmo tutti d'accordo sul fatto che Socrate stava esagerando. Avendo convissuto con la scrittura per alcuni millenni, siamo più inclini a vederne i vantaggi che le insidie. Penso però che nei timori di Socrate si possa riconoscere un problema attuale.
Ai giorni nostri, quando ci troviamo di fronte a nozioni che non conosciamo o a una domanda per la quale cerchiamo una risposta, tiriamo fuori lo smartphone e avviamo una ricerca. Abbiamo tutta la conoscenza collettiva della civiltà umana — o, almeno gran parte di essa — a portata di pollice. O anche più vicino. (...)
Usiamo sempre più spesso qualche dispositivo come fosse un obiettivo attraverso il quale confrontarci con il mondo e mediare il rapporto con la realtà. La prossima tappa di questa escalation tecnologica sarà la realtà aumentata, una tecnologia che sta cominciando a essere adottata da un numero crescente di applicazioni mobili, e che molti credono sia destinata a trasformare i computer da cose che abbiamo a cose che indossiamo. L'iPhone 5.0 sarà un dispositivo con cui interagire con la voce e le dita, ma l'iPhone 20.0 sarà come un paio di occhiali e l'iPhone 50.0 potrebbe benissimo essere in grado di canalizzare le informazioni direttamente nella nostra corteccia cerebrale. Invece di dover comunicare indirettamente con le nostre memorie esterne, esse faranno sempre più parte integrante del modo in cui percepiamo il mondo e ne facciamo esperienza, ampliando automaticamente i nostri pensieri e le nostre percezioni con una vasta gamma di informazioni e una sempre maggiore potenza di elaborazione.
Questo futuro bionico potrebbe sembrare fantascienza, ma in realtà è la visione dei fondatori di Google. Larry Page ha detto che attende con impazienza il giorno in cui il suo prodotto sarà inserito direttamente nel cervello umano. (...)
Un giorno, nel futuro bionico che Larry Page e Sergey Brin prefigurano, quando la nostra memoria interna ed esterna si fonderanno completamente, arriveremo a possedere una conoscenza infinita. E sembrerà fantastico. Ma la cosa più importante da ricordare è che la conoscenza infinita non coincide con la saggezza.
(Traduzione di Maria Sepa)
Corriere della Sera 25.1.12
Addio al regista Angelopoulos Fu l'antropologo del cinema
Travolto da una moto mentre camminava per strada
di Maurizio Porro
E' stato investito da una moto in una località del Pireo, mentre attraversava una strada. In quella località Theo Angelopoulos stava facendo delle riprese per il nuovo film. Gravemente ferito, è stato portato in ospedale in condizioni disperate. E' morto per una emorragia interna.
Era l'antropologo del cinema Thoduros Angelopoulos, detto Theo, di Atene, 76 anni, nato in un giorno del '36 come in uno dei suoi film, avvocato in Grecia, letterato e cinefilo in Francia, poi anche critico. E' stato uno dei più provocatori e intransigenti maestri del cinema europeo uscito da quel grande movimento di nouvelles vagues della fine anni 60.
Conosceva così bene i meccanismi del cinema che s'è potuto permettere di smontarli, evitando fin dove possibile le emozioni e i sentimenti proprio come accade nell'accezione "epica" del teatro brechtiano in cui i mezzi dello stile e la tecnica della ripresa tendono a prendere il sopravvento per farci sempre capire che siamo dentro un universo di finzione, ma per meglio analizzare l'uomo attraverso sottolineature e didascalie. Eppure ad incontrarlo era molto semplice, cordiale, mai supponente, un uomo innamorato del suo lavoro. In Italia il suo titolo di culto resta La recita uscito nel '75 con Italnoleggio, allora distribuzione di stato e osannato da schiere di fans accaniti ed instancabili: opera di 4 ore, radicalmente e spiritualmente vicina al teatro, fa parte di una trilogia (fra I giorni del '36 e I cacciatori) in cui l'autore raccontò la storia della Grecia dagli anni 30 ai 70, avendo egli iniziato a lavorare sotto la dittatura dei colonnelli.
Quest'opera ostica in cui una compagnia di teatranti mette in scena un dramma ma conserva i propri nomi che sono gli stessi degli Atridi nell'Orestea (e un destino li accomuna) si svolge su tre piani continuamente sovrapposti come se fossero una cosa sola: quello della recita, quello privato e quello pubblico. Il regista parte dal concetto che un film rivela un piano di spazio e tempo mai definibile con precisione, ma solo con sottili complicità subliminali: lungo i suoi piani sequenza, anche senza fine, egli può passare da un periodo a un altro, da un luogo a un altro, ma soprattutto dà l'importanza che merita al silenzio, alla pausa, alla non azione, nei momenti in cui lo spettatore si inserisce davvero dentro l'anima della storia.
Naturalmente in questo processo clamorosamente in controtendenza sul cinema action e fantasy di oggi è un procedimento che si addice ai cinefili. Quegli infiniti movimenti di macchina senza stacchi, quindi il montaggio ridotto al minimo, attraversano nei paesaggi spesso grigi sia la storia che la geografia (ce n'è uno mirabile nel Passo sospeso della cicogna che dura un'eternità ma non è lungo). In questo senso Angelopoulos, che quando ha avuto l'incidente stava girando un film col nostro Toni Servillo, non si è mai tradito, non ha mai fatto sconti né a sé stesso né al suo pubblico anche se il tempo lo rendeva quasi un reduce di un'epoca gloriosa in cui si aveva più fiducia nel mezzo. Vincitore di una agognata Palma d'oro a Cannes (L'eternità è un giorno, momento speciale nella vita di uno scrittore) e di un Leone di argento a Venezia '88 (Paesaggio nella nebbia odissea di due ragazzi), ha spesso raccontato delle piccole storie ma inserite in processi più vasti in cui il mondo si capovolge e urge tornare a ritrovare le proprie radici, tema spesso esplorato, con un complice perfetto, lo sceneggiatore Tonino Guerra, in film più recenti come Lo sguardo di Ulisse - dedicato all'amico Volontè che morì durante le riprese e fu sostituito da Harvey Keitel - in cui si va alla ricerca di vecchi reperti di pellicola ma si parla di Sarajevo e resta negli occhi il viaggio lungo il fiume dell'enorme statua di Lenin. Amante dei nostri attori (usò bene Mastroianni nel Volo e nella Cicogna), ed anche dei francesi, Theo è stato un moderno antropologo del cinema, come dimostra pure l'ultimo suo ammirevole puzzle intitolato La polvere del tempo storia di una famiglia alle prese con una difficile riunificazione attraverso varie capitali.
Ma soprattutto gli interessava il piccolo grande uomo di fronte alla storia, che fosse Alexandròs o un apicultore, sempre esprimendo il suo mondo interiore con ellissi, piani sequenza, fidando che il discorso dello stile diventasse la materia stessa del contendere l'accensione ultima dei suoi discorsi sulle radici della sua cultura greca che egli non separava mai dalla realtà.