lunedì 2 gennaio 2012

l’Unità 2.1.12
Cgil, Cisl e Uil uniti: la disoccupazione è benzina sul fuoco
«C’è rischio di tensioni sociali»
«C’è il rischio che il crescere delle disuguaglianze aumenti il conflitto sociale», afferma Susanna Camusso. «La disoccupazione è benzina sul fuoco», dice Luigi Angeletti. E Raffaele Bonanni chiede «un cambio di linea del governo».
di M.V.


MILANO Non c'è davvero tempo da perdere per evitare che il 2012 si trasformi per i lavoratori in uno degli anni più bui nella storia della Repubblica. Ed allora è bene suonare l'allarme fin dal giorno di Capodanno, accompagnandolo con proposte e richieste al
governo Monti. Lo ha fatto Susanna Camusso, così come gli altri due leader dei principali sindacati nazionali, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Per il segretario generale della Cgil esiste un «rischio reale» di tensioni sociali crescenti e va contrastato con un piano per il lavoro, la vera emergenza. «Nei prossimi mesi ha sottolineato Susanna Camusso la recessione avrà un impatto duro sull'occupazione e sui redditi. Il rischio che cresca il conflitto sociale man mano che cresce la disuguaglianza è quindi reale». Da qui l'esortazione all'esecutivo: «Anche per questo è meglio che il governo abbia più coraggio di quanto ne ha avuto finora e apra un confronto esplicito e costruttivo con le parti sociali sui temi della crescita e dell'occupazione. Noi vogliamo confrontarci sulla crescita del Paese, e per noi crescita vuol dire creare nuove occasioni di lavoro per giovani e donne e lavori meno instabili e precari per tutti».
CAPITOLO PENSIONI NON CHIUSO
Da Corso Italia sono giunte poi delle indicazioni specifiche: «La Cgil ha proseguito il suo segretario propone un nuovo "Piano del lavoro". Crediamo sia indispensabile ridurre il numero e la tipologia dei contratti instabili e atipici, moltiplicata in maniera irresponsabile dal governo Berlusconi. Bisognerà anche riformare gli ammortizzatori sociali per tutelare maggiormente chi perde il lavoro, senza rinunciare agli interventi urgenti che si proporranno nei prossimi mesi. Però, fare queste due operazioni a parità di spesa 2011 ci sembra molto difficile». Quella delle pensioni, invece, resta una ferita aperta: «Per noi ha ribadito la Camusso il capitolo non è chiuso: ci sono delle ingiustizie e delle discriminazioni che gridano vendetta e vanno risolte. Penso soprattutto a coloro che hanno perso e perderanno il lavoro e a chi stava maturando il diritto di andare in pensione che si vede di colpo allungato il lavoro di 5 anni. Questo non è giusto, e non è accettabile».
Luigi Angeletti ha usato toni duri, quelli messi spesso in naftalina nel triennio berlusconiano: «C'è il rischio di andare verso un fase di recessione ha affermato il segretario della Uil e quindi una fase che comporterà la perdita di posti di lavoro: l'aumento della disoccupazione non è un antidoto alla pace sociale, anzi è la benzina sul fuoco ed è questo il problema sui cui concentrarsi». Quindi, le proposte sull'occupazione: «La Uil è disposta a fare cose
razionali e ragionevoli, a non avere atteggiamenti puramente ideologici: ma vogliamo che si riducano le tasse sul lavoro, senza questo la parola occupazione è uno slogan. Ed insieme occorre ridurre le tasse sul lavoro, ridurre l'evasione fiscale, ridurre i costi della politica e liberalizzare. Abbiamo una serie di norme che sono criminogene cioè inducono e favoriscono la corruzione».
E sul rischio di tensioni sociali si è soffermato anche Raffaele Bonanni, per il quale l'inasprirsi del conflitto nei prossimi mesi di recessione dipenderà soltanto dal governo. «La Cisl ha detto il suo leader chiede una concertazione vera su tutti i temi economici e sociali. La necessaria rapidità delle decisioni non può divenire un alibi per evitare il confronto con il sindacato. Non accetteremo pacchetti preconfezionati o ispirati da altri». Per Bonanni «finora il governo ha voluto fare da solo e infatti la reazione del sindacato è stata la diretta conseguenza di questa scelta. Verificheremo nei prossimi giorni se ci sarà un cambiamento nella linea».

l’Unità 2.1.12
Oggi più che mai è il lavoro la vera priorità
di Guglielmo Epifani


Il Paese a cui si è rivolto il discorso del Presidente della Repubblica è attraversato da preoccupazioni e inquietudini grandi, come poche volte è capitato nel passato. Si avverte l’insidia di una crisi economica e finanziaria solo in parte ascrivibile alle responsabilità nazionali.
Una crisi su cui ora gravano il peso delle manovre di aggiustamento dei conti pubblici; la crescita dell'inflazione e la caduta dei redditi da lavoro e pensione; la lunghezza di un ciclo senza crescita economica e le previsioni di una ulteriore caduta dell’occupazione e dei consumi per l'anno che si apre.
Innanzitutto grava sull’Italia il rischio di perdere altri 150mila posti di lavoro, o forse anche di più, in tutti i settori dell'industria e dei servizi. Per questo il presidente, senza nascondere la gravita del momento, ha esortato il Paese ad avere fiducia rassicurando che i sacrifici serviranno a fare uscire dalla crisi di oggi sia l’Italia che l’Europa. E parole non diverse hanno usato la cancelliera tedesca e il presidente della Repubblica francese, il quale ha messo la questione sociale al centro del suo discorso di fine anno.
Il punto però che continua a restare aperto soprattutto in Europa, a differenza della situazione americana, è come evitare che le politiche di restrizione della domanda, degli investimenti e dei consumi che sono necessarie ma sono anche causa della recessione in corso, non determinino un aggravamento delle condizioni dell’occupazione, del lavoro e delle prospettive comuni. E visto che non si riesce a fare assumere a livello europeo quelle decisioni che sarebbero necessarie già da tempo a partire dagli Eurobond per gli investimenti diventa necessario affrontare il tema di come sia possibile, Paese per Paese, sostenere una politica anticlica nei tempi più brevi.
Il governo Monti è chiamato a questa sfida e solo in questa prospettiva le condizioni dell’equità e della coesione sociale possono essere ricomposte. Ancora una volta cioè il tema non è quello dell'accettare o meno i sacrifici, ma se i sacrifici e il rigore nella loro qualità sociale ed economica determinano o meno la possibilità di ottenere risultati concreti, che consentano anche al nostro Paese e anche nel tempo della globalizzazione dei mercati di riprendere la strada dello sviluppo e di una crescita fondata su una buona e stabile occupazione.
Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso del presidente Napolitano una isposta a osservazioni e critiche che i sindacati confederali hanno avanzato ad alcune misure prese dal governo in materia previdenziale, di equità sociale e fiscale e di metodo di confronto. Conoscendo il presidente questo rilievo non è fondato mentre è stato evidente il richiamo a una comune e condivisa responsabilità sociale. D’altra parte il sindacato italiano non si è mai sottratto a questo dovere anche quando ha dovuto accettare una politica dei due tempi o i sacrifici spesso sono stati a senso unico, se è vero come è vero che l’Italia è oggi tra i Paesi europei più diseguali per distribuzione della ricchezza. Il punto di oggi è però un altro: non si esce da questa crisi se non si cambia la qualità del nostro sistema produttivo, se non si torna ad investire e ad innovare, se non si offre lavoro di qualità e ben remunerato: se, insomma, non si troverà anche da noi quello che tanti giovani trovano in giro per l’Europa o per il mondo. Troppi luoghi comuni sbagliati continuano ad essere riproposti nel dibattito italiano dall’articolo 18 alle cause circa il deficit di produttività del sistema e troppe scelte di questi giorni sono improntate a continuità che andrebbero rimosse, come nel caso dell'aumento dei pedaggi autostradali o delle accise sui carburanti; per non parlare del fatto che ancora una volta invece di ridurre il carico fiscale sul lavoro lo si sia fatto solo a vantaggio dell’impresa, per quanto con modalità corrette. Questo è il respiro che deve avere una politica per la crescita e la buona occupazione. Questa la prospettiva che si deve dare a chi perde il lavoro in questi mesi o non lo trova se non in forma precaria. Questa la svolta di cui c’è bisogno se vogliamo lasciarci alle spalle un decennio di declino e di arretramento anche morale e culturale.

Repubblica 2.1.12
Fiat, partono gli scioperi Fiom Landini: pronti i ricorsi sulle Rsa
Quattro ore dal 9 gennaio, manifestazione l’11 febbraio
Le tute blu Cgil al governo: via la deroga agli accordi nazionali prevista dalla manovra
di Stefano Parola


TORINO - Da ieri gli 86 mila lavoratori italiani del gruppo Fiat hanno ufficialmente un nuovo contratto di lavoro. Diventerà pienamente operativo soltanto con la graduale riapertura delle fabbriche, ma la Fiom-Cgil non perde tempo e rilancia la sua lotta contro l´accordo sin dal primo giorno dell´anno. Lo fa attraverso un pacchetto di iniziative: quattro ore di sciopero per assemblee nei vari stabilimenti, una manifestazione nazionale l´11 febbraio a Roma e poi i ricorsi che, annuncia il segretario Maurizio Landini, «sono già pronti».
Dal 9 gennaio le tute blu della Cgil incroceranno le braccia per quattro ore, in base a un calendario che tocca tutte le fabbriche del gruppo automobilistico. Nel mirino della Fiom c´è l´uscita di Fiat dal contratto nazionale dei metalmeccanici, avvenuta grazie all´intesa aziendale raggiunta con Fim-Cisl, Uilm-Uil, Ugl, Fismic e Associazione quadri il 13 dicembre. Ma l´organizzazione guidata da Landini se la prende anche l´accordo separato siglato da Federmeccanica e dai sindacati del "sì" che vale per tutto l´indotto auto.
La Fiom, però, contrasterà l´applicazione del nuovo contratto anche in un altro modo: «Prima delle feste e della chiusura delle fabbriche per cassa integrazione, in alcuni stabilimenti abbiamo già proceduto alla nomina delle Rsa, votate dai lavoratori», racconta Landini. Perché in base alle nuove regole aziendali in vigore da ieri i lavoratori della Fiat sono rappresentati da delegati nominati dai sindacati firmatari (le Rsa) e non più dalle Rsu, che invece venivano elette. Un meccanismo che di fatto esclude la sigla dalla Cgil dalla fabbrica. Ma, dice il leader della Fiom, «se l´azienda non riconoscerà le nostre Rsa adiremo anche le vie legali». Del resto, ricorda Landini, «la Fiat è stata già condannata per condotta antisindacale dal tribunale di Torino proprio perché esclude un sindacato dalla rappresentanza. E poi sulle prime 800 assunzioni di Pomigliano non c´è un iscritto alla Fiom: siamo di fronte a una discriminazione».
Un´azione provocatoria, per denunciare quello che il responsabile nazionale auto della Fiom, Giorgio Airaudo, definisce «un vulnus legislativo causato dal fatto che Fiat sta forzando la legge e sta limitando le libertà sindacali dei suoi lavoratori». A Torino, per esempio, le Rsa sono già state nominate. Ma la sigla della Cgil farà di più: «Stiamo raccogliendo le firme per una consultazione sul contratto aziendale da eseguire in tutte le fabbriche. Siamo già arrivati a oltre 10 mila adesioni», dice Airaudo. Che ricorda: «Tutto ciò non ha nulla a che fare col futuro della Fiat, che continua a non spiegare, per esempio, quando i lavoratori delle Carrozzerie di Mirafiori rientreranno al lavoro. Ci sono aziende dell´indotto come la Lear di Grugliasco che a causa di questa incertezza rischiano di chiudere».
Ma Maurizio Landini è pronto ad allargare il campo di battaglia oltre la Fiat: «Il governo – dice il segretario generale della Fiom – deve intervenire perché siano garantiti gli investimenti e le libertà sindacali». E per questo chiede di «cancellare l´articolo 9 della manovra sulle deroghe dei contratti aziendali agli accordi nazionali» e «di modificare l´articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che disciplina la costituzione delle Rsa per le organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti». E ancor prima, «di arrivare a una vera legge sulla rappresentanza».

l’Unità 2.1.12
Intervista a Vincenzo Visco
«Manca ancora una strategia sulla lotta all’evasione fiscale»
L’ex ministro: «È stata una manovra necessaria, ma non sufficiente
Se l’Europa non cambia la politica economica, l’intervento non basterà»
di Bianca Di Giovanni


Si poteva fare di più (sulla lotta all’evasione) e meglio(sull’Irpef). Ma soprattutto si doveva fare prima: esattamente 10 anni fa. Purtroppo non è andata così: questa è la pesante responsabilità dei governi Berlusconi. A questo punto, dopo un decennio di malagestione dei conti e di racconti «fiabeschi» sulla realtà, agli italiani va detta la verità: «la manovra Monti è ineludibile. Necessaria, ma insufficiente». La vede così Vincenzo Visco, che descrive questo momento come «la crisi globale che si va dipanando. All’inizio se ne sono limitati gli effetti grazie al coordinamento internazionale delle azioni. Oggi invece ciascuno fa per sé, e la crisi peggiora». Difatti all’Italia non basterà aggiustare i conti: bisognerà anche modificare la politica economica europea. «il punto sta lì: si continua a chiedere di aggiustaee disavanzi, che sono l’effetto della crisi, non la causa. nel frattempo la Germania rischia di suicidarsi, evitando politiche espansive. Perché una cosa è chiara: il surplus tedesco può finire in due modi. O con la recessione, o con le politiche espansive. Scelgano loro». La «Merkel Politik» rischia di trascinare l’Europa nel baratro. «Non è un caso che Stati Uniti, Gran Bretagna, Fondo monetario osservano atterriti come l’Europa sia riuscita a farsi male da sola continua l’ex ministro del Tesoro Quello che si rischia oggi è che anche la Francia entri nell’occhio del ciclone già la prossima settimana. E dopo la Francia resta solo la Germania». Insomma, due livelli che si intersecano: quello nazionale e quello europeo. Gli italiani devono tenere i conti in ordine, i tedeschi e gli altri partner forti devono spendere: così si evita l’avvitamento. Perché «non c’è una formula uguale per tutti i Paesi: ciascuno deve fare quello che davvero serve».
L’intervento di Monti sarà recessivo?
«Tutte le manovre lo sono. Ma la questione è un’altra. Qui bisogna ricostruire la giusta sequenza logica. Nel 2011 abbiamo fatto una manovra dietro l’altra, e il governo Berlusconi non è riuscito a fare quello che c’era da fare. Il da farsi ha a che fare con i problemi strutturali del nostro Paese, e viene da molto lontano. Il debito dagli anni ‘80, la gestione del debito dagli anni 2000. Nel 2001 l’Italia aveva un avanzo primario di 5 punti di Pil e il debito era in calo. In 10 anni il surplus è stato azzerato e il debito ha subito un’inversione, a forza di finanza creativa e di vane promesse sulle tasse. Poi la crisi ha fatto il resto. Oggi Monti si trova a fare quello che andava fatto 10 anni fa. Ma è come rimettere il dentifricio nel tubetto: ci si impiastriccia le mani». Ma questa manovra basterà?
«Molto dipende da quello che accade in Europa, e Monti lo sa benissimo. La Bce ha ridato liquidità alle banche per evitare la stretta creditizia. È possibile che il peggio sia evitato. Ma il problema è un altro. Fermo restando che l’Italia doveva assolutamente fare la manovra, la Germania e gli altri paesi forti devono fare altro: cioè espandere. Altrimenti per l’Europa non c’è altro che recessione».
Se l’Italia ha fatto quello che doveva fare, perché lo spread resta alto?
«Le fluttuazioni dello spread non dipendono da quel che fa un singolo Stato, vedremo se le risorse date alle banche serviranno per acquistare titoli, e se la Bce continuerà con gli acquisti diretti. La mia impressione è che sia maturo un cambio di indirizzo in Europa. Lo dimostrano gli ultimi avvertimenti di Christine Lagarde all’Europa: state attenti che è il mondo a rischiare la depressione. Questo è il contesto in cui l’Italia si ritrova a pagare errori che sono tutti suoi. È inutile che Berlusconi se la prende con l’Europa: sono stati i suoi governi a scassare i conti. E lui cosa ha fatto fin’ora? Come mai non sapeva nemmeno che la Bce non può fare il prestatore di ultima istanza? Oggi sicuramente il ruolo di Francoforte va rafforzato: la Bce deve imporre spread credibili e assicurare che non si modificheranno. Così la speculazione si placherà».
Lei dice che bisognava recuperare 10 anni perduti. Non si poteva fare nulla di diverso nella manovra?
«Certo, qualcosa poteva essere anche diverso. Sulle pensioni si potevano smussare alcuni angoli, si poteva anche fare la patrimoniale sulle grandi fortune, sulle accise si sarebbe potuto aggiornare le aliquote all’inflazione (quindi alzarle, ndr), ma restituire il fiscal drag ai cittadini. Si poteva fare altro sicuramente, ma la sostanza non cambia».
Qual è il capitolo su cui è più critico. «Sono molto perplesso sulla lotta all’evasione, perché non c’è una strategia coerente né ex ante, né ex post. La misura sui conti correnti bancari si poteva fare in modo più semplice ed efficace. All’agenzia delle entrate bastano 4 numeri: saldi iniziale e finale, media dei depositi, media delle transazioni. Invece si è scelto di trasferire tutti i movimenti: un’operazione che richiederà almeno un anno per entrare in funzione, e che non aiuterà nella lotta all’evasione. Noto poi che si fa molta propaganda sul “cervellone” Serpico: è nato 12 anni fa, con il primo governo Prodi. Piuttosto che suonare le fanfare, bisognerebbe chiedersi come mai non ha funzionato finora. L’altra misura che avrei inserito è una detassazione, magari leggera, dell’Irpef. Ma, ripeto, queste osservazioni non mutano la sostanza. La manovra era necessaria, e non c’erano molti margini per l’Italia. D’altronde scontiamo i nostri peccati».
Le misure per la crescita la convincono?
«Anche qui è la stessa storia della finanza pubblica. Se ne parla da 10 anni e non si fa nulla. Tutti sanno che servono le liberalizzazioni, così come serve una macchina pubblica più efficiente. E anche qui mi chiedo: cosa hanno fatto i governi Berlusconi?» Serve davvero anche la riforma del mercato del lavoro?
«È singolare che in questo campo ci si divida su dei simboli. Secondo me bisogna fare una cosa molto semplice: guardare come funziona il mercato del lavoro nel resto del mondo, a prescindere dall’articolo 18. Faccio notare che negli altri Paesi gli ammortizzatori si pagano con la contribuzione. Cioè, pagano anche le aziende. Non è un caso che Sacconi difendesse tanto la cassa integrazione: così le imprese prendono solo soldi pubblici, senza contribuire alle tutele».
Per buona parte della base di sinistra la manovra è iniqua: si colpiscono pensionati a 1.400 euro lordi mensili. «Critiche giuste e sacrosante, ma irrilevanti di fronte alla necessità del contesto. In ogni caso, gran parte delle pensioni sono sotto quella cifra. E poi va ricordato che la spesa per pensioni è cresciuta di 3,1 punti di Pil in 10 anni, mentre quella per l’istruzione è diminuita di 2 punti. Nello stesso periodo la spesa per interessi è scesa di 2 punti, ma, ripeto, i governi Berlusconi si sono mangiati anche quei risparmi. A questo punto bisogna chiedersi: che tipo di società vogliamo? Dobbiamo o no recuperare risorse per la ricerca, l’Università, la scuola?»

l’Unità 2.1.12
Le classi ci sono ancora
ma la politica non sa più rappresentarle
Il conflitto sociale non scompare né si attenua: al contrario pone nuove istanze e nuove sfide davanti all’incalzare della crisi economica
La crescita dell’astensionismo determina problemi soprattutto alla sinistra
di Carlo Buttaroni


Esistono ancora le classi sociali? A rilanciare il tema, seppur in termini non così diretti come suggerisce la domanda, è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo appassionato discorso di fine anno. Il Capo dello Stato ha più volte fatto riferimento ai lavoratori e alle forze produttive del Paese, ricordando le sue radici politiche, la sua vicinanza al mondo del lavoro, nonché il ruolo e lo slancio positivo del movimento operaio nei momenti più difficili della nostra Repubblica.
Qualche giorno prima, Susanna Camusso, in una bella e intensa intervista a l’Unità, anticipava gli stessi temi, denunciando quanto il peso della crisi economica fosse a carico dei lavoratori e dei pensionati.
Il presidente della Repubblica e la leader della Cgil, nelle loro riflessioni, hanno fatto spesso riferimento a classi di lavoratori e pensionati, pur declinandone il ruolo in un contesto nuovo e dalle inedite insidie com’è quello che stiamo vivendo. Eppure, intorno all’idea di “classe”, una certa retorica politica si è periodicamente esercitata a celebrarne la fine, ritenendola inadeguata a cogliere il profilo dinamico delle trasformazioni e delle tensioni che attraversano le società globalizzate.
In modo particolare, negli ultimi anni è prevalsa la convinzione della necessità di una nuova griglia interpretativa, al posto della tradizionale sintassi economica, capace di cogliere i paradigmi della nuova produzione. Ad alimentare questa convinzione è stata l’idea che la “classe” rappresentasse solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito. Mentre la “classe”, in realtà, non è un oggetto né un’unità di misura, bensì un sistema complesso di relazioni, in grado di esprimersi anche sul terreno degli orientamenti socio-politici e del comportamento di voto.
Nonostante la relazione fra classe e orientamenti elettorali possa oggi apparire in declino, la collocazione sociale continua a essere centrale nell’interpretazione dei comportamenti politici, evidenziando andamenti fluttuanti, come molti studi, a livello internazionale, hanno recentemente dimostrato.
In Gran Bretagna, ad esempio, la letteratura scientifica nega una tendenza al declino del voto di classe, evidenziando semmai degli andamenti altalenanti. Dopo essersi collocato a livelli elevatissimi negli anni del secondo dopoguerra, il voto di classe, infatti, cala nei primi anni Sessanta, risale a metà degli anni Settanta, durante gli anni del conflitto industriale, si mantiene elevato durante il lungo ciclo thatcheriano, per declinare progressivamente dal ‘97 a oggi.
Al contrario, in Germania, gli analisti evidenziano un crollo nell’immediato dopoguerra, una crescita nei primi anni Sessanta, un calo nel decennio successivo, rimanendo da allora a livelli bassi, ma con accentuate variazioni regionali, legate alle radici culturali e religiose di alcune aree. In Svezia il voto di classe è sempre stato su livelli elevatissimi. L’apice è nel 1960. Altri studi, in particolare sui comportamenti elettorali negli Stati Uniti, mettono in evidenza un disallineamento fra classe e voto, ma non fra classe e astensionismo, che invece avrebbe conosciuto un legame sempre più marcato proprio nell’elettorato proletario, ormai privo di una propria rappresentanza politica. Secondo questa interpretazione la scelta di classe non si orienta solo su un partito, ma ruota anche intorno all’opzione della partecipazione elettorale vera e propria.
Un esempio, in questo senso, è rappresentato proprio dall’Italia. Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro (casalinghe, pensionati, disoccupati). Classi “oggettivamente” interessate alle politiche economiche e sociali della sinistra, che tuttavia “soggettivamente” si sono dimostrate, nell’ultimo decennio, sensibili al richiamo berlusconiano. E, infatti, le indagini più recenti hanno mostrato una crescita della propensione all’astensionismo in corrispondenza con l’uscita di scena del leader del Pdl.
Ad alimentare la convinzione del declino delle “classi”, soprattutto in Italia, hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell'occupazione, che ha segnato alla fine del Novecento il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia: si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto. Altrettanto profondi, ma non meno ambivalenti, i cambiamenti che hanno coinvolto la natura stessa della prestazione. Se il fordismo disarticolava il lavoratore nei suoi saperi e nel suo potere di controllo sulla prestazione ma integrandolo in enormi aggregati ne favoriva la creazione di una coscienza di classe la prestazione di terza generazione opera esattamente al contrario: integra individualmente il lavoro nell'impresa, disarticolando il lavoratore come soggetto collettivo.
Il conflitto di classe, anche se diverso rispetto al passato, non è scomparso, né si è attenuato. Al contrario pone nuove istanze e nuove sfide di fronte all’incalzare della crisi sociale ed economica. Non possono sfuggire le conseguenze delle nuove asimmetrie dei rapporti di potere tra finanza, produzione e lavoro e ne sono la riprova i fermenti che riguardano il mondo del lavoro. Ciò che tuttavia sembra profondamente mutato è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità della società contemporanea. E mentre cresce la quantità sociale complessiva del lavoro, cede la sua specifica qualità politica.
Non sono, quindi, le “classi” a essere superate benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni – ma appare inadeguata la capacità di interpretarne il connotato politico. Il deficit, quindi, non riguarda la domanda, ma l’offerta di rappresentanza.
Perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità multiforme, nella quale il conflitto non è accompagnato da nessuna divisione visibile della società, da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia una risultante provvisoria. Un deficit di rappresentanza che si accompagna al declino delle grandi organizzazioni politiche. Dinamica alla quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La ricerca di un “uomo forte” che sappia farsi interprete di una “politica forte” è la risposta incompleta di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. La sfida alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.

Repubblica 2.1.12
L’ex ministro Galan: il mio successore Ornaghi ora lo spieghi ai contribuenti
"Alle carceri i soldi scippati alla cultura, rovinata la battaglia del 5 per mille"
di Carlo Alberto Bucci


I fondi per il patrimonio artistico non si tagliano, il Paese deve puntare sui beni culturali per il suo sviluppo economico
Se facciamo passare il principio dell´urgenza presto avremo le discariche nelle aree paesaggistiche

ROMA - Il dirottamento sotto Natale dell´otto per mille dello Stato, che dai restauri dei monumenti è stato spostato sulle carceri, minaccia l´altro lascito all´arte italiana da parte del "popolo dei 730". È l´allarme dell´ex ministro Beni culturali Giancarlo Galan: «Mi dite voi con che faccia andiamo ora a chiedere ai contribuenti italiani di destinare il 5 per mille alla cultura quando abbiamo appena spostato il loro lascito di 57 milioni al sistema carcerario?». Il 5 per mille pro patrimonio artistico è una misura inserita dal governo Berlusconi nella manovra di agosto ed entrerà in vigore con la denuncia dei redditi del 2012. «Il mio successore Ornaghi in questo modo rischia di vanificare la battaglia per il 5 per mille condotta insieme al Fondo per l´ambiente italiano» incalza l´esponente del Pdl.
Restiamo all´8 per mille, al ministero Beni culturali non se l´aspettavano che quei soldi sarebbero finiti alla Giustizia.
«È stato uno scippo inaspettato, un gravissimo errore dalle conseguenze drammatiche. Brutalmente, il ministro Ornaghi si è fatto mettere i piedi in testa dal Guardasigilli, Paola Severino».
Ce l´ha con loro per il decreto del 22 dicembre. Ma già nel testo della manovra di inizio dicembre, articolo 30 comma 5, c´è scritto che l´8 per mille dello Stato dalla cultura passava alla Protezione civile.
«È stato un bidone perpetrato con freddezza e premeditazione. In consiglio dei ministri Ornaghi doveva sbattere i pugni sul tavolo quando gli toglievano quei soldi da sotto il naso».
Cinquantasette milioni non sono una cifra esorbitante. Davvero il patrimonio artistico italiano non può farne a meno?
«Di questi tempi sì, assolutamente. Ma è il principio che va difeso a spada tratta: i soldi per la cultura non si tagliano in un Paese che sulla cultura deve puntare per il suo sviluppo economico. Per la prima volta dopo tanti anni, con me - sottolinea Galan, ministro dei Beni culturali da marzo a novembre 2011 - i fondi per questo settore erano aumentati. Da noi, come in Francia e Polonia».
Dopo la mannaia subita al bilancio dal suo predecessore Sandro Bondi, non ci voleva molto per far risalire la china del depauperato budget del Collegio romano.
«Non è stato facile per nulla tenere testa a un ministro non tenero con la cultura come Tremonti. E invece abbiamo invertito la rotta. Abbiamo reintrodotto il Fondo unico per lo spettacolo e portato a casa 186 assunzioni l´anno per tre anni».
Questi contestati 57 milioni non sono più necessari per l´emergenza carceri?
«Il problema non si affronta con nuove prigioni ma accelerando i processi. E poi già si annuncia una nuova amnistia. Inoltre, se facciamo passare il principio dell´urgenza e della causa di forza maggiore a danno della cultura, il passo successivo sarà il via libera alle discariche dei rifiuti nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico».

Corriere della Sera 2.1.12
Un proporzionale che salvi il bipolarismo
di Stefano Passigli


C aro direttore, Giovanni Sartori, cui la Scienza politica deve una insuperata analisi dei rapporti tra leggi elettorali e sistemi di partito, è stato uno dei primi sostenitori del referendum da me promosso un anno fa per abolire premio di maggioranza e liste bloccate. Non desta dunque sorpresa che nel suo recente editoriale (Corriere della Sera del 27 dicembre) affermi che «lo scandalo italiano è che non abbiamo il voto di preferenza». Dopo aver correttamente ricordato che nella Prima Repubblica gli scrutatori avevano la possibilità di manipolare le preferenze, Sartori suggerisce tuttavia che il voto di preferenza «non funzionò allora e... funzionerebbe ancora peggio se ripristinato», e aggiunge: «oggi siamo più smaliziati. Così è ancora più sicuro che il votante non riuscirà mai a eleggere chi voleva», riprendendo così quanto affermava Gaetano Mosca, primo attento critico delle deviazioni nel rapporto tra classe politica ed elettori.
Mosca guardava però ad un sistema politico a suffragio ristretto, fondato su piccoli collegi uninominali dominati da notabili locali, e caratterizzato dalla mancanza di informazione, condizioni ideali per una manipolazione del processo elettorale da parte dell'élite dominante. Oggi, ben diverse sono le condizioni della competizione politica: tanto è che la classe politica per conservare il proprio potere ha dovuto varare, o subire senza troppo opporsi, l'obbrobrio delle liste bloccate. Per cancellare tale obbrobrio, del tutto incompatibile con un corretto sistema di democrazia rappresentativa, abbiamo assistito ad una grande mobilitazione referendaria. Ma quale che sia la decisione della Corte Costituzionale circa la sua ammissibilità, il referendum che propone il ritorno alla legge Mattarella non risolverebbe il problema: è infatti indubbio che il ritorno a collegi uninominali a turno unico lascerebbe nelle mani dei partiti e non dei cittadini la selezione della classe politica. Non così se — come propone Sartori — al collegio uninominale si accompagnasse l'adozione del doppio turno, che consente al cittadino un ben maggiore potere di decisione.
Il problema è che nell'attuale Parlamento non vi è una maggioranza favorevole al doppio turno. Se vogliamo superare il «Porcellum», e favorire quel ricambio della classe politica trasparente e aperto che oggi tutti auspicano, occorre insomma tornare ad una proporzionale con voto di preferenza, correggendola con una adeguata soglia di sbarramento e abolendo il premio di maggioranza. L'alternativa — specie se il giudizio della Corte imponesse di muoversi nella direzione dei quesiti referendari — è il ricorso ad un sistema misto di collegi uninominali e di voto di lista con preferenza, sempre abolendo il premio di maggioranza.
Al di là di una teorica preferenza per il maggioritario a doppio turno, che non troverebbe approvazione nell'attuale Parlamento, occorre oggi ricercare una soluzione politica che eviti un referendum non risolutivo e pericoloso per la sopravvivenza del governo. Occorre insomma correggere i due maggiori difetti del «Porcellum» — premio di maggioranza e liste bloccate —, e avvicinarsi al cancellierato e al sistema elettorale tedesco, proporzionale ma garante di un sostanziale bipolarismo e dell'alternanza di governo.
Professore ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze

Corriere della Sera 2.1.12
Gli estremisti religiosi si sentono minacciati dalla secolarizzazione e cercano di imporre il loro stile di vita
In piazza come nei lager nazisti, choc in Israele
Alla manifestazione degli ultraortodossi anche i bimbi con le divise a strisce
di Elisabetta Rosaspina

qui
http://www.scribd.com/doc/76923373

Corriere della Sera 2.1.12
Bambini con la Stella di Davide Shoah banalizzata dagli Ortodossi
di Stefano Jesurum


E se, paradossalmente, l'ultima sceneggiata degli ebrei «talebani» si tramutasse nell'inizio di una «primavera» israeliana? Chissà. Certo è che quei bambini «travestiti» da deportati nei campi di sterminio, quei piccoli fantasmi con la stella gialla cucita sul petto e la scritta Jude sulla casacca a righe, le urla «nazisti» rivolte ai poliziotti hanno profondamente scosso una società divisa sì tra (più o meno) religiosi e laici, però sempre e comunque legata alla democrazia. Ma una parte del mondo haredì, ultra ortodosso, non accetta critiche, limiti e tantomeno aule di tribunale, processi e sentenze. Quindi si rivolta se qualche suo «militante» viene condannato a due anni di carcere per vandalismo, chiama alla mobilitazione di fronte a un'opinione pubblica indignata dal medioevo che vieta alle donne di usare gli stessi marciapiedi degli uomini, impone sugli autobus file separate di sedili a seconda del sesso, spintona e insulta una bambina di 7 anni per una maglietta «immodesta».
Israele s'interroga sulle concessioni ai partiti ultra religiosi che garantiscono la maggioranza ai governi di destra. Ora, forse, questa macabra sceneggiata ridarà voce a chi da anni — come il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai — si appella alla maggioranza silenziosa degli israeliani in difesa della democrazia, dell'esistenza stessa del Paese, dei suoi ideali fondativi calpestati da chi non contribuisce né alla difesa della nazione né al suo sviluppo.
Il 27 gennaio si celebrerà Yom ha Shoah, il Giorno della Memoria: i bambini, quelli veri, deportati nei campi di sterminio, le piccole vite finite nel vento con la stella gialla cucita sul petto e la scritta Jude sulla casacca a righe ci ricorderanno chi siamo e di che cosa siamo capaci, ieri e oggi. Anche in nome di un Dio a cui diamo il nome che più ci piace.

La Stampa 2.1.12
Polemiche in Israele
Bambini in piazza con la stella di David
di P. DM.


La distanza tra la destra religiosa ultra-ortodossa e il resto degli israeliani sembra ormai incolmabile. Sabato i primi sono scesi in piazza vestiti come vittime dell’Olocausto, con le stelle di David gialle cucite sul petto, per sostenere il diritto alla separazione tra uomini e donne nei loro quartieri, suscitando critiche e polemiche. L’immagine che ha colpito di più è stata quella di un bambino, le mani alzate in segno di resa, che ricordava la celebre foto del bambino terrorizzato nel ghetto di Varsavia. «È sconvolgente e terribile», ha dichiarato il ministro della Difesa Ehud Barak. La manifestazione si è svolta in un clima di crescente tensione tra religiosi e laici, con una frangia di ebrei ultraortodossi che nelle ultime settimane è stata protagonista di una serie di episodi di discriminazione delle donne. Una bambina di 8 anni ha detto di aver ricevuto insulti e sputi perché vestita in modo «immodesto». In realtà, aveva solo le maniche corte.
Intanto domani, dopo oltre un anno, i negoziatori israeliani e palestinesi si incontreranno in Giordania per affrontare gli ostacoli principali (sicurezza, insediamenti israeliani e confini) che bloccano la ripresa dei negoziati di pace.

l’Unità 2.1.12
Asia in testa per ricerca tecnologica
Malgrado la crisi nel 2011 i finanziamenti per scienza e innovazione sono saliti. E nel 2012 gli investimenti del continente giallo saranno primi
di Pietro Greco


L’anno che è appena nato, il 2012, sarà un buon anno per la ricerca scientifica e per lo sviluppo tecnologico (R&S). Almeno dal punto di vista delle risorse disponibili a scala globale. I finanziamenti planetari per la scienza e l’innovazione, infatti, saliranno a oltre 1.400 miliardi di dollari, con un aumento del 5,2% rispetto all’anno che si è appena chiuso. Un record assoluto. Mai l’umanità ha speso tanto nella ricerca. Anno, il 2011, che, malgrado la crisi economica, ha fatto registrare un record assoluto negli investimenti: il mondo, infatti, ha speso in R&S come mai aveva fatto prima 1.333 miliardi di dollari e, soprattutto, ha aumentato la spesa del 6,5% rispetto al 2010. Lo afferma il 2012 Global R&D Global Forecast, il rapporto sullo stato della ricerca nel mondo, pubblicato di recente dalla rivista specializzata americana R&D Magazine e della società Battelle. Ormai il mondo investe in R&S il 2,0% della ricchezza che produce. Anche se bisogna dire che da qualche anno l’intensità di ricerca, il rapporto tra investimenti in R&S e Prodotto interno lordo mondiale (Pil), cresce piuttosto lentamente, anzi ormai è quasi stabile.
Ma il 2012 sarà ricordato, probabilmente, non per una corsa a velocità sostenuta, ma stabile, ma per un sorpasso senza precedenti. L’Asia (con 514 miliardi di dollari pari al 36,7% della spesa complessiva) scalzerà infatti le Americhe (506 miliardi di dollari pari al 36,0%) dal primo posto in classifica e diventerà il continente dove si investe di più in R&S. L’Europa (con 338 miliardi di dollari investiti, pari al 24,1% del totale mondiale) segue ormai nettamente staccata.
LA PATRIA DEGLI SCIENZIATI
Vale la pena ricordare che l’Asia già ospita il maggior numero di scienziati al mondo. E dunque l’asse scientifico del pianeta si è ormai stabilmente spostato dall’Atlantico al Pacifico.
Nella classifica per paesi gli Stati Uniti resteranno saldamente primi per investimenti (436 miliardi di dollari). Seguiti da tra paesi asiatici Cina, (199 miliardi di dollari), Giappone (158 miliardi) e Corea del Sud (56 miliardi). Tra loro riesce a incunearsi un solo paese europeo, la Germania, quarta assoluta con 91 miliardi di dollari di investimenti. L’Italia sarà dodicesima, con appena 24 miliardi di dollari.
Nella classifica relativa, quella che misura l’intensità degli investimenti, il primo assoluto risulta Israele (4,20% del Pil investito in R&S), seguito da Finlandia (3,80), Svezia (3,62), Giappone (3,48) e Corea del Sud (3,45). La Cina rappresenta la grande novità dell’evoluzione della ricerca negli ultimi decenni. Ormai vanta il maggior numero di scienziati al mondo (poco meno di 1,5 milioni), i maggiori investimenti assoluti dopo gli Stati Uniti e un’intensità di investimenti che ha ormai raggiunto la media europea. Tuttavia le previsioni per il 2012 rafforzano la tendenza alla creazione di un mondo sempre più multipolare della ricerca.
In questo mondo l’Italia è ormai un paese di retroguardia. Certo, il R&D Magazine ci accredita di un trend positivo: la nostra intensità di investimenti in R&S è data infatti in crescita (dall’1,1 del 2008 all’1,3% del 2012). Ma il motivo principale non è dovuto a una nostra improvvisa (e auspicabile) resipiscenza. Non stanno aumentando gli investimenti assoluti (che, anzi, sono diminuiti del 5,3% tra il 2008 e il 2010). È che rispetto al 2008 è diminuito il Pil. Semplicemente: abbiamo meno ricchezza e quel poco che investiamo in ricerca ha un peso relativo maggiore.

Corriere della Sera 2.1.12
Un Montale inedito tra balli e risate
di Giovanni Russo


Fu la dissertazione di Carlo Emilio Gadda nel suo stile barocco sul dovere morale di descrivere nei più minuti dettagli «l'organo magnetico di un grand'uomo», ovvero il sesso di Picasso, che Maria Luisa Spaziani aveva avuto la ventura di vedere per un istante mentre le stava facendo il ritratto — comparso poi sulla copertina di un suo Oscar Mondadori — a scatenare la risata di Eugenio Montale. La sua risata si trasformava in un gorgoglio che culminava in una specie di ululato: un «chioccolio» lo definisce la Spaziani nella rievocazione degli anni trascorsi accanto al poeta.
Il suo libro Montale e la Volpe, il soprannome che lui le aveva dato, è una sorta di autobiografia in miniatura (Mondadori, pp. 114, € 12), una miniera di episodi inediti e spassosi, dalla quale viene fuori un personaggio molto diverso da «un monumento annunciato che era sempre un po' tra il timido e lo scontroso». Montale esce dalla torre eburnea con i suoi umori e malumori, i suoi tic, le sue idiosincrasie, e si rivela una piacevole sorpresa per il lettore. «Raramente mi sono divertita tanto e ho riso come con Montale. In lui l'umorismo, il comico andavano in profondo anche quando si incarnavano in piccole situazioni o minimi personaggi», dice la Spaziani. Il racconto procede su un doppio binario: la società letteraria del 900 e il rapporto tra il grande poeta e colei che doveva diventare una raffinata poetessa.
Il 14 gennaio 1949, una data che ricorda ancora come fondamentale nella sua vita, la Spaziani incontra quello che era il suo mito, a una conferenza che Montale è andato a tenere a Torino. Lei si è appena laureata in Lingue con una tesi su Proust e dirige la rivista «Il Dado», che pubblica poesie inedite di Saba, Sinisgalli, Sandro Penna e Virginia Woolf. Montale, nel sentire il suo nome all'atto della presentazione, invece di limitarsi a un saluto formale, sbotta in un rimprovero perché non è mai stato invitato a pubblicare sulla rivista. E Maria Luisa, per farsi perdonare, lo invita a cena a casa sua. Fin dal primo incontro, Montale spazza via il cliché che gli avevano appioppato, dell'uomo scostante e noioso, esibendosi in una danza scatenata, i fianchi cinti da un tovagliolo, per mostrare all'attonita famiglia Spaziani come aveva ballato in Libano una baiadera.
Con Montale, Maria Luisa frequenta l'ambiente letterario milanese che si ritrova spesso al ristorante Bagutta: Sinisgalli, Alfonso Gatto, Ungaretti, Quasimodo, Bacchelli, Leo Longanesi, Dino Buzzati, Carlo Emilio Gadda, Libero De Libero e il critico Giansiro Ferrata sono gli abituali compagni di tavolo. Per ragioni professionali — Montale quale inviato del «Corriere della Serra», che fu in grado di assicurargli finalmente la serenità economica, la Spaziani nella sua veste di giornalista, saggista e traduttrice dei classici francesi — hanno occasione di avere rapporti con Georges Simenon. Albert Camus, Marguerite Yourcenar, T.S. Eliot, Colette, Gérard Philippe, Ezra Pound, Picasso. Di ciascuno, è tratteggiato il profilo e raccontato un episodio che suscita sorpresa e ilarità. Come quando a Parigi a un ricevimento presso la casa editrice Gallimard è costretta a presentare a Eliot il rompiscatole di turno, che non trova di meglio da dire al premio Nobel: «Do you speak English?». Al che l'eccelso maestro della lingua inglese risponde: «Yes, I do». O come quando capita di fare un viaggio insieme con l'autore del Gattopardo, il quale si sposta sempre con un baule pieno di biancheria perché «Abbiamo l'antica abitudine di non dormire mai in lenzuola dove abbiano dormito altri». Divenuto senatore a vita, Montale si diverte a immaginare proposte di legge, ad esempio «un vitalizio o l'esenzione dalle tasse per chi usi ancora il congiuntivo».
Nonostante l'intesa profonda, anche fra Eugenio e Maria Luisa si verificano contrasti: le divergenze sono però sempre attinenti al poetare. La poesia nasce dal suono della parola o da un'emozione? È lecito descrivere i fiori di sambuco «alte tremano guglie di sambuchi» senza averli mai visti?
L'ammirazione per il poeta non cancella però quelli che erano i suoi difetti, come la proverbiale parsimonia. Quando bisogna fare una colletta per Sibilla Aleramo perché abbandonata da Giovanni Cena, Montale non partecipa, perché se Sibilla va a letto senza Cena la cosa non lo riguarda.
Montale e la Volpe è non solo la storia di una lunga amicizia sentimentale, ma anche la testimonianza straordinaria di una stagione letteraria, in cui si muovono i personaggi più significativi del Novecento.

Corriere della Sera 2.1.12
Prima si gusta e poi si pensa, la lezione di Onfray
di Cristina Taglietti


Dal nichilismo alimentare dei cinici alla rivoluzione culinaria futurista: la «diet-etica» per Michel Onfray è una cosa seria. Un'espressione dell'ateismo e dell'immanenza, sulla scorta di Feuerbach che scriveva «l'uomo è ciò che mangia» e dell'ultimo Foucault secondo il quale: «La pratica della dieta come arte di vivere è (...) un modo di costituirsi come un soggetto che ha del proprio corpo una preoccupazione giusta, necessaria e sufficiente». Onfray, noto per le sue tesi spesso controversiali, si incarica di mettere ordine tra il pensiero e la pancia dei pensatori in un saggio scritto nel 1989 (Les ventres des philosophes è il titolo in originale anche se Onfray avrebbe preferito «Diogene cannibale») che gli diede una certa notorietà in patria e che ora l'editore Ponte alle Grazie ha tradotto in italiano (I filosofi in cucina, traduzione di Giovanni Bogliolo, pp. 158, 13).
Un interesse, quello per la gastronomia, che Onfray dichiara di aver succhiato con il latte materno: una madre brava cuoca e un padre bravo ortolano in una famiglia povera in cui non si poteva andare al ristorante, in vacanza, al cinema, a teatro, e «i pasti erano le uniche occasioni edoniste». Il libro, racconta Onfray nell'intervista in Appendice, ha generato anche un equivoco relegando il suo autore alla facile etichetta di «filosofo della gastronomia» che, secondo lui, era un modo per neutralizzare un postulante spesso invitato nei talk show, ma che gli studiosi volevano ignorare. E invece Onfray ci tiene a inserire il saggio in un percorso teorico coerente perché «la tavola, come pure il letto, costituiscono un luogo altrettanto filosofico quanto la scrivania o la biblioteca».
La rassegna di Onfray comincia dal cinico Diogene, che oppone «al cotto consensuale dell'istituzione nutritiva» il nichilismo alimentare più sfrenato, caratterizzato dal rifiuto del fuoco e, quindi, centrato sul crudo. Onfray passa attraverso Rousseau, «plebeo nell'animo», figura emblematica della rinuncia in materia di gastronomia («al di là del fabbisogno fisico, tutto è fonte di male») e Kant, «buona forchetta dedita a una pratica nutritiva priva di ambiguità» che tuttavia, relegando l'odorato e il gusto a sensi inferiori e soggettivi, reputa impossibile qualunque teoria critica del gusto alimentare, oggetto troppo impreciso per una scienza stabile. Ma è su Nietzsche, il filosofo che più di ogni altro «ha affermato il ruolo determinante del corpo nell'elaborazione di un pensiero», che, evidentemente, Onfray trova la convergenza maggiore: «Scegliere il proprio alimento significa elaborare la propria essenza» perché la scelta «è accettazione della necessità, che anzitutto bisogna scoprire». La preoccupazione dietetica, quindi, nel Nietzsche riletto da Onfray, diventa illustrazione pragmatica della teoria dell'amor fati e al tempo stesso un invito all'ascesi del diventa chi sei.
Onfray ci invita al banchetto, a patto che siamo disposti ad ammettere che il corpo è l'unica via di accesso alla conoscenza. Il pasto è decisamente gustoso e, alla fine, nonostante le portate succulente, anche di (relativamente) facile digestione.

La Stampa 2.1.12
L’antica necropoli cancellata per un campo di calcetto
Il sindaco di Oria: “Troppi siti”. Ma c’è chi insorge: “Distrutto un tesoro del Salento”
di Valentina Roberto


BRINDISI. Una partita di calcetto vale più di una necropoli messapica risalente al III secolo avanti Cristo? Probabilmente sì, visto che a Oria, in provincia di Brindisi e nel cuore del Salento, un sito archeologico composto da quindici tombe con corredo funebre è stato cancellato per lasciare spazio a un campetto da calcio a cinque. Fatto ancora più singolare è che l’impianto sportivo sorge nel cortile del palazzo dei missionari di San Vincenzo sul colle di Sant’Andrea, una zona sottoposta a rigidi vincoli dettati da un decreto del 16 marzo 1998 a firma dell’allora ministro ai Beni culturali e ambientali, Willer Bordon, che poneva inviolabili limiti di edificabilità tuttora in vigore.
Ma nessuno fermò le ruspe. Gli scavi per realizzare l’area ricreativa su questo terreno di proprietà della Curia iniziarono nel 2002 e da quei lavori emersero in maniera sorprendente le radici della comunità brindisina: il cimitero dei padri era celato lì, da millenni, sotto un sottile tappeto di terra ai piedi di quel monastero settecentesco. Nessuno avrebbe potuto immaginare che a pochi centimetri dal suolo fossero nascoste rarissime tombe con camera e una grotta destinata ad ancestrali riti religiosi. La Soprintendenza, debitamente avvertita, scrisse una perizia nella quale annotava «la presenza in loco di diverse tombe di grandi dimensioni, assimilabili a semicamere. L’area necropolare è di notevole rilevanza - si legge nella relazione – e densamente utilizzata tra l’ultimo venticinquennio del IV e il III secolo a. C.». Un sito, verrebbe di alto valore e dunque da tramandare all’umanità. Ma evidentemente non è stato ritenuto tale visto che i lavori per il campo da calcio, oggetto di un esposto alla Procura della Repubblica, sono andati avanti fino ad offrire attualmente un impianto sportivo con tanto di palestra per il fitness annessa.
«Il campetto da calcio - spiega il sindaco Cosimo Pomarico - è utile alla comunità e ai nostri giovani che possono fare riferimento ad un centro sempre a loro disposizione. C’è una scuola calcio per i bambini molto frequentata e una palestra dove tanti ragazzi si ritrovano per tenersi in forma. Un impianto del genere non c’era in città, mentre di siti archeologici qui a Oria, ve ne sono tanti». Il primo cittadino fa riferimento alla caserma dei carabinieri, la cui realizzazione non è mai stata portata a termine a causa dei numerosi reperti antichi ritrovati durante gli scavi. «Ora però in quella zona - continua Pomarico - vi sono solo più macerie. Ecco, rispetto a un cumulo di terra abbandonato e non fruibile nemmeno ai turisti, avere un campo da calcetto è certamente più utile ai cittadini». Una versione, quella del sindaco, che non convince tutti gli oritani. Infatti mentre i seminaristi e le scuole calcio della città rincorrono il pallone a 3,5 euro all’ora per ogni giocatore in campo, alcuni cittadini guidati da Franco Arpa, ispettore superiore di Polizia in pensione, stanno organizzando una petizione per chiedere una commissione d’inchiesta sulla necropoli distrutta. «Non riusciamo a capire come un impianto sportivo abbia potuto sostituire in toto, senza trovare nessun ostacolo nè dalla Soprintendenza nè dal Comune, un’area archeologica - precisa Arpa e come sia stato possibile concedere le autorizzazioni edilizie. Vogliamo chiarezza perchè non tutti pensano sia meglio fare delle partitelle di calcio proprio lì, dove sorgeva la culla della civiltà salentina».

Repubblica 2.1.12
Un saggio sulla storia dell’istituzione da San Pietro a oggi
Perché il papato resiste al tempo
di Agostino Paravicini Bagliani


La storia del papato non è la storia del cattolicesimo. Chi lo dice è un gesuita americano, autore di una storia del papato che inizia con San Pietro e termina con Giovanni Paolo II (John O´Malley, Storia dei Papi, Fazi). L´autore dice ancora: "Chi esprime i valori cristiani fondamentali, Francesco d´Assisi o Innocenzo III?". Sono domande che inducono a ripercorrere la storia bimillenaria di un´istituzione che proprio nella sua durata non ha uguali.
E´ una storia sottesa da una straordinaria continuità – si pensi al concetto di universalità che sottende l´intera vicenda storica del cristianesimo e del papato – ma che non fu affatto lineare. Non solo perché vi sono momenti bui – il decimo secolo, con i soprusi dell´aristocrazia romana, la prepotente figura di Marozia e il processo al cadavere di papa Formoso, o l´inizio del Cinquecento con la presenza dei Borgia a Roma – ma anche per l´inevitabile tensione che esiste tra individui e istituzione, in un percorso storico così straordinariamente lungo.
Certo, Francesco d´Assisi conta più di Innocenzo III (1198-1216), ma a questo papa va ascritto il merito storico di avere saputo riconoscere le grandi novità e verità insite nel messaggio del futuro santo. Così, Gregorio Magno (590-604) ha saputo non solo dare alla sua Roma una nuova centralità, in un contesto ancora dominato da Bisanzio, ma anche porre le basi per un´integrazione progressiva dell´Anglia (Inghilterra) nella civiltà europea che stava nascendo. E non sono certo le uniche grandi intuizioni storiche che hanno modellato un´istituzione che ha però certo sempre dovuto fare i conti con le più diverse contingenze e le varie personalità. Una linea di fondo è quindi percettibile in questa storia bimillenaria, in cui il rispetto della tradizione convive con forti tensioni ed anche talvolta con inevitabili contraddizioni.
La riforma gregoriana dell´XI secolo è riuscita a "liberare la Chiesa" dalla tutela dei signori laici ma ha anche creato una distanza tra chierici e laici che soltanto in parte gli ordini mendicanti riusciranno a mediare e che giunge in fondo fino al concilio Vaticano II. Proprio anche per darsi un´assise in grado di garantire una certa autonomia, il papato si dotò negli ultimi secoli del Medioevo di uno Stato pontificio, pagando però un caro prezzo, di compromissione politico-territoriale. La fine dello Stato pontificio (1870), non voluta dal papato, ha invece permesso alla figura del papa di assurgere come autorità spirituale assai più di quanto non fosse stato precedentemente.
Bonifacio VIII (1294-1303) diede vita al primo giubileo cristiano dell´anno 1300, ma questa sua scelta cadde in un momento in cui la cristianità si era ormai assuefatta, dopo l´ultimo grande insuccesso delle crociate (Acri, 1291), all´idea che la cristianità fosse allora soltanto in Europa. L´intero papato avignonese vive con questa idea, di restrizione geopolitica della sua azione. E anche nel Cinquecento, i papi si comportano come altri grandi signori italiani.
In questa storia bimillenaria centralità e universalità sempre riemergono quando le condizioni lo permettono anche per sollecitazioni che giungono a Roma dalla cristianità. Quando l´impero carolingio si disintegra si levano voci al papa che viene chiamato con un titolo – "padre dell´Europa" – che era stato attribuito soltanto a Carlomagno. Sono i vari Abelardo, Arnaldo da Villanova e forse anche Sigeri di Brabante ad appellarsi all´arbitrato del papa in materia di fede. Il più celebre dei processi (Galileo) ha invece avuto le conseguenze storiche in termini di immagine che conosciamo.
Persino il modo di elezione del papa – il conclave – è stato imposto al papato da autorità civili (Roma, Viterbo), desiderose di indurre i cardinali ad eleggere un papa più rapidamente di quanto non fossero usi a farlo (alcune Vacanze della Sede apostolica potevano durare nel Duecento anche alcuni anni). Ma è anche vero che il papato è stato capace di tenere in vita per oltre sette secoli, senza vere modifiche, uno strumento che si è rivelato fondamentale per stabilità e autonomia.
Al mantenimento di una tradizione pur nelle infinite conflittualità e tensioni contribuì anche il fatto che la sede del papato è Roma, la capitale dell´Impero romano e l´unica città della cristianità in cui sono vissuti due apostoli, Pietro e Paolo. Il papato ha potuto disporre di due luoghi sacri, il Laterano e il Vaticano, ambedue di fondazione costantiniana. Sono elementi di centralità che nemmeno il lungo soggiorno avignonese ha potuto scalfire. Ma anche l´eredità di Costantino provocò problemi, perché se grazie alla Donazione di Costantino i papi hanno potuto godere del privilegio di incoronare gli imperatori del Sacro Romano Impero, da Carlomagno a Carlo V, la sua origine controversa ha aperto il fianco a sospetti e polemiche, non solo da quando Lorenzo Valla (m. 1457) ne dimostrò l´inautenticità. I papi medievali erano "veri imperatori" oltre che Vicari di Cristo ma soltanto un papa del Medioevo fu elevato agli onori degli altari, e, non a caso, fu il papa "del gran rifiuto", Celestino V (1294).
Se non si può forse dire che solo dopo il 1870 "i papi dedicarono più tempo alla Chiesa" (J. O´Malley), è vero che l´azione del papato è da allora per molti versi fondamentalmente diversa dai secoli precedenti. Persino la forte mobilità dei papi di questi ultimi decenni è fondamentalmente diversa da quella dei papi medievali, prioritariamente legata a conflittualità anche di natura ecclesiastica (gli scismi del XII secolo…). La figura visibile del papa, con le sue vesti bianca e rossa, è però quella che si è venuta costruendo nel corso del Medioevo, e anche questo è un segno di straordinaria continuità.

Repubblica 2.1.12
"Le ultime ore con Pier Paolo" Pelosi racconta i segreti del rapporto con Pasolini
Un libro, il film e le rivelazioni di Pino "la rana"
di Anna Maria Liguori


«Mi ha fatto una carezza prima che scendessi dall´auto, poi l´ho sentito urlare»
Siamo stati insieme per quattro mesi, non è vero che quella sera ci siamo incontrati per caso
Non sopportavo che li portasse, mi pareva una posa. Così, quando era con me li toglieva per farmi piacere

ROMA - «Pasolini mi voleva bene. Non ci siano incontrati per caso quella sera come hanno detto tutti. Ci vedevamo da quattro mesi e lui con me si confidava. Ma io ‘sta cosa non l´ho mai detta. A chi importava quello che c´era tra me e lui? Io ero l´assassino, un minorenne sbandato che contava meno di niente. E lui era lui, che diceva cose che non capivo nemmeno. Ma il bene sì, quello lo sentivo, quello si vedeva proprio». Pino Pelosi comincia a parlare ancora prima di sedersi nella stanza della Cooperativa per ex detenuti "29 giugno", quartiere Tiburtino, periferia Est di Roma, dove lavora da anni come trattorista, dove dice «mi hanno salvato la vita». Non spiega molto, ma «una volte per tutte - chiarisce - voglio raccontare quello che ho vissuto con lui, quello che ci siamo detti quella notte prima che morisse. Prima di farmi sette anni di galera per niente. Da quando mi ha fatto una carezza un minuto prima che scendessi dall´auto fino a quando gli ho sentito urlare "aiuto mamma"».
Il vostro rapporto privato dunque. Fino alla notte tra l´1 e il 2 novembre del 1975. Com´è andata allora?
«Ci siano conosciuti perché lui cercava ragazzi di strada per un film. Alla stazione Termini è passata la voce, io sapevo che un regista cercava gente per una parte ma all´inizio non sapevo nemmeno chi era. Una sera è venuto, era estate ma era già scuro, e portava gli occhiali neri. Eravamo in 4 o 5, gli sono piaciuto io».
Avete cominciato a frequentarvi subito?
«Sì. Sono salito sulla sua macchina e mi ha raccontato del film. Mi ha detto "non so ancora quale parte farti fare, ma ci sarai. Hai una faccia che mi piace". Poi mi ha guardato e mi ha detto che ero bello. Non me l´aveva mai detto nessuno».
E lei che ha fatto?
«Gli ho detto "togliti gli occhiali che è scuro". Ma lui non voleva. Allora glieli ho tolti io con la forza. Mi ha chiesto perché, gli ho risposto che quando sto con uno lo devo guardare negli occhi. Allora lui si è fermato da una parte, era in difficoltà perché non vedeva niente. Da quel giorno quando stavamo da soli si toglieva gli occhiali per farmi piacere. Non avevo capito che sacrificio fosse stare senza, le lenti scure mi parevano una posa».
Qual è stata la cosa più intima che le ha confidato?
«Della morte del fratello. Una sera mentre mangiavamo mi ha raccontato del senso di colpa che lo tormentava. Diceva di aver spinto lui il fratello a partire partigiano (il fratello Guido, morto nel 1945, era nel Partito d´Azione, ndr), di averlo accompagnato al treno e di non averlo mai più rivisto vivo. Mentre parlava piangeva, le lacrime gli scendevano ma lui non smetteva di raccontare. "E´ colpa mia" disse. Ma io gli diedi una manata sulla spalla. "Non ce devi pensa´. Si vede che era il tempo suo per morire". E lui mi sorrise come se gli avessi fatto un regalo».
Poi è arrivata quella notte di novembre.
«La notte della cena al ristorante Biondo Tevere. Tutti hanno scritto che mi diceva "mangia, mangia" ma non era vero. Non voleva che ingrassassi. Lui ci teneva a essere in forma. Ne abbiamo riparlato anche quando stavamo all´idroscalo a Ostia».
Cioè?
«Mi prendeva in giro e poi era vanitoso. Quando eravamo fermi in macchina in quel posto ha aperto il cruscotto e mi ha fatto vedere una targa. "Vedi? - ha detto - questo è l´ultimo trofeo che ho vinto a calcio a Sabaudia. Mica solo tu hai un fisico atletico". Io me lo scordavo proprio chi era, mi pareva che eravamo uguali. Poi mi ha mostrato il telegramma del ministero, l´ha letto, c´erta scritto che avevano preso atto del furto della pellicola del suo film e che avrebbero fatto di tutto perché fosse ritrovata. Ma pensava che ce l´avrebbe fatta da solo a farsi ridare le "pizze" che gli avevano preso ("Salò e le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini, ndr)».
Poi cos´è successo. Chi è arrivato? Li ha visti in faccia?
«Dell´assassinio non voglio parlare. Quello è nel mio libro appena uscito ("Io so... come hanno ucciso Pasolini. Storia di un´amicizia e di un omicidio". Ed. Polis). La verità l´avevo già detta a Franca Leosini (giornalista e autrice televisiva, ndr) a "Ombre sul giallo" a Rai3, quando riaprirono l´inchiesta nel 2005. E quella rimane. Poi ora il regista Federico Bruno sta girando un film su quello che so e penso dell´omicidio».
Cosa invece non ha scritto nel suo libro?
«Non c´è scritto che, dopo che siamo stati insieme, io stavo uscendo dalla macchina e lui mi ha fermato con la mano: "Chiudi la portiera e il finestrino per favore". Io mi sono arrabbiato: "Perché non lo chiudi tu?". Lui ha sorriso, sembrava felice. Allora l´ho accontentato, mi sono affacciato nell´abitacolo per chiudere il finestrino e lui mi ha fatto una carezza. Poi ha detto: "certe cose si fanno anche per fare piacere all´altro, e poi ho freddo". Ho chiuso finestrino e portiera, mi sono girato, sono andato verso una rete per fare la pipì. Un minuto dopo non si è capito più niente. Qualcuno ha cominciato a picchiarmi. Mi sono girato, lo stavano massacrando. È stato allora che ha urlato "aiuto mamma". Dopo non ha detto più niente».

Repubblica 2.1.12
Premio Nobel
La pozione magica che muove il mondo ecco le regole per pensare positivo
di Andrea Tarquini


Il loro modello è la figura di Gastone, il cugino fortunato che batte sempre Paperino
Gli eccessi però sono pericolosi come dimostrano anche numerosi esempi storici
Il saggio del ricercatore israeliano e Nobel per l´Economia Daniel Kahneman ne elenca pregi e difetti Ma guai, avverte lo studio, quando la fiducia degenera in sopravvalutazione smisurata di se stessi

Posso farcela, il mondo mi appartiene, pensano gli ottimisti a oltranza, e spesso ce la fanno. In parte il loro ottimismo è da secoli la forza propulsiva del progresso umano. Ma guai quando diventa sopravvalutazione di sé e fiducia cieca: spinge singoli individui, leader o società intere nell´illusione e nel delirio, e allora poi il risveglio è amaro. In quei casi, il freno del pessimismo si rivaluta nei fatti, come forza moderatrice, pragmatismo realista. Da secoli, da quando Leibniz teorizzò che il mondo reale era "il migliore dei mondo possibili" e mandò in collera la Chiesa perché sembrava contestare il Peccato originale (poi ci pensò l´orrendo terremoto di Lisbona a smentirlo), l´umanità riflette e discute sul ruolo dell´ottimismo nella vita. Adesso Daniel Kahneman, un grande ricercatore israeliano, premio Nobel per l´Economia nel 2002, e per paradosso pessimista di natura, ha esaminato a fondo l´ottimismo come "pozione magica" (da usare ma non in overdose) della vita e della Storia, con i suoi pregi e difetti. Al suo saggio, Thinking, fast and slow (Farrar, Strauss & Giroux, New York, 500 pagine, 30 dollari, in uscita in Germania entro maggio da Siedler Verlag) Der Spiegel ha dedicato la storia di copertina del numero di Capodanno. Scelta spiritosa e non casuale, all´alba d´un 2012 che l´umanità attende tesa tra speranze e forti paure.
Non è un decalogo dell´ottimismo, ma ci si avvicina. Agli ottimisti, nota Kahneman, appartiene o sembra appartenere il mondo. Si fanno avanti e riescono con successo nella vita meglio dei pessimisti, affrontano e superano meglio stress, difficoltà e spesso anche malattie. Riescono persino a gestire meglio i loro matrimoni, anche con partner meno ottimisti. Il loro modello e figura-esempio, scherza il settimanale di Amburgo, è Gastone, il cugino fortunato magari antipatico, ma di successo, che batte sempre Paperino pessimista e sfortunato, in ogni sfida del quotidiano. Certo è, nota Kahneman, che gli ottimisti sono rappresentati in numero superiore alla media nelle élite: inventori, scienziati, imprenditori, politici.
Tutto bene, finché l´ottimista non diventa sfrenato: la fiducia smisurata diventa fiducia cieca in se stessi e nella sorte, e degenera in sopravvalutazione smisurata di se stessi. Allora è pericoloso. Gli esempi storici non mancano, anche restando agli anni recenti: dall´illusione di Georg W. Bush di vincere in Iraq come in una passeggiata, alla convinzione di dittatori come Mubarak o Gheddafi di riuscire a restare al potere.
Fin qui il ruolo dell´ottimismo. Ma come nasce l´ottimismo, quale meccanismo psicologico? È insieme processo chimico del cervello e scelta della coscienza, fa capire Kahneman. Il cervello degli ottimisti opera selezioni nella memoria, conserva più ricordi positivi che negativi. Già torniamo nella zona grigia: si tende a essere ottimisti rispetto a situazioni che si crede di poter controllare, tutto è vedere quanto puoi veramente controllarle e influenzarle o no. Alcuni studiosi, come la giovane Tali Sharot, ritengono che l´ottimismo abbia avuto un ruolo decisivo nella nascita e nello sviluppo della coscienza umana e sociale. Liberando il genere umano, dalle origini, da paure eccessive delle difficoltà, delle malattie, della morte. C´è anche qui un rovescio della medaglia: l´ottimista tende a sopravvalutarsi un po´, anche per presentarsi meglio al prossimo e riuscire meglio nella vita. Di nuovo la zona grigia. L´ottimismo, pozione magica del successo, è mescolanza tra fiducia e tendenza a dipingere tutto troppo bello, dipende dalle dosi.
Chi lo ha, e chi lo sa usare meglio nella vita? Non poco dipende dalle origini sociali, dall´infanzia: un´infanzia felice, prospera, con un buon background culturale, è precondizione ben migliore del contrario, ovviamente. Vero ma non certo strano. Ma è anche vero (Der Spiegel cita uno studio del 1930 condotto tra 180 giovani monache) che ci si può aiutare incoraggiandosi, con attitudine positiva: le monache che pensavano con entusiasmo al primo anno in convento statisticamente poi vissero più a lungo. L´ottimismo come energia collettiva ha poi a che fare con la capacità di apprezzare e realizzare con fiducia se stessi. In altre parole, un training di gruppo, come quello delle migliori squadre di calcio studiando i propri successi. Ma anche qui, troppo ottimismo è pericoloso: quando un imprenditore sottovaluta i concorrenti (negli Usa solo 35 su 100 fondatori di nuove piccole imprese ce la fanno dopo i primi cinque anni) o quando una nazione si abbandona al delirio collettivo. In quei casi il pessimismo a dosi moderate, è un antidoto efficace.