giovedì 19 gennaio 2012

l’Unità 19.1.12
Marx e i vetturini
di Michele Prospero


Anche a Londra nel 1853 il Parlamento discuteva provvedimenti urgenti per diminuire il debito pubblico e abbassare l’interesse sui titoli di Stato. Tra le misure per rilanciare lo spirito d’intrapresa, in agosto la camera approvò una legge sulle carrozze che introdusse una nuova tassa e innalzò a reato lo sciopero dei vetturini.
Marx prese la vicenda dei vetturini inglesi come una occasione per riflettere sulla controversia tra la concorrenza e il monopolio. «Non è questa la sede per dirimere la questione dell’intervento statale nell’iniziativa privata», scriveva. Si trattava di una faccenda di grande portata teorica, difficile da risolvere con un articolo. Nella sua corrispondenza londinese, senza scavare più a fondo, Marx annotava: «Ci basta soltanto osservare che questa legge è stata approvata in un Parlamento liberista. Ma si dice che nel settore delle vetture da nolo non vi è libera concorrenza, bensì un monopolio». Questa asserzione non convinceva Marx che segnalava al riguardo le contraddizioni del vangelo liberista.
«Si tratta di una logica bizzarra. Prima si impongono una tassa chiamata licenza su un determinato settore commerciale, e speciali misure di polizia, e poi si afferma che, a causa di questi stessi gravami che sono stati imposti, lo stesso settore non ha più il carattere della libera concorrenza ed è invece stato trasformato in un monopolio di Stato».Questo è il paradosso del regime della licenza che con la concessione già data a caro prezzo o con l’allargamento delle autorizzazioni a nuove figure contiene una forzatura della logica della libera concorrenza che a rigore non contemplerebbe licenze esose che elevano un regime di monopolio. Certo, i clienti dei vetturini non appartenevano alle classi più popolari. E Marx ironizzava sul «povero aristocratico che è obbligato a servirsi di una vettura di piazza anziché di un cocchio di sua proprietà». Ma i modi con cui il Parlamento trattò la vicenda, con toni e metafore facili da dare in pasto ai giornali, lo colpirono molto. Le «riduzioni liberiste» che rendevano più a buon mercato talune merci e servizi gli parevano delle esche grazie alle quali venivano sfornate al pubblico delle piccole concessioni simboliche e poi però restavano intaccate le potenze economiche egemoni (la City, i ceti industriali e mercantili).
Gladstone, in un discorso durato 5 ore, aveva sostenuto che una tassazione sui titoli di Stato e sui capitali finanziari rappresentava un attentato alla lealtà pubblica che legava Stato e contribuenti. Non bisognava mai rompere (questo era il dogma anche allora riverito) il patto di fiducia con gli speculatori finanziari. I giocolieri del tesoro pubblico riuscivano sempre ad accollare sul lavoro i costi dello Stato e in più aggiungevano qualche diversivo per coprire meglio gli interessi delle potenze dominanti. I vetturini dovevano giocare questo ruolo scenico, a presidio di una vecchia consuetudine di racimolare le tasse proprio da chi possedeva meno ricchezza.
Di tassazione sui redditi e sui patrimoni reali neanche a parlarne perché, intuiva Marx, «dalla tassazione progressiva si cade direttamente in una sorta di socialismo molto incisivo». È chiaro che nelle questioni del fisco si nascondono ancor oggi i veri nodi del conflitto sociale moderno. Ed anche gli oneri per l’uscita dalla crisi sono connessi alla grande vicenda dell’equità fiscale. In un Paese in cui il tassista come l’orefice, il professionista come l’imprenditore si presenta come un «testimonium paupertatis» e denuncia redditi più consoni a chi versa in una indigenza cronica è evidente che sono spezzati tutti i vincoli di cittadinanza e coesione sociale. Il tassista blocca le città con minacce e sabotaggi ogni volta che si prospettano degli accertamenti delle entrate effettive o che si adombrano nuove licenze che abbassano i ricavi e accentuano la competizione. La ribellione selvaggia contro le nuove licenze che incutono timori e incertezza di reddito è il simbolo di una parte di società chiusa e corporativa che rifiuta di misurarsi con i costi della crisi. Le liberalizzazioni sono un metodo per immettere i servizi sul mercato, poi però occorre una politica per ripensare lo sviluppo, per definire il rapporto tra la grande distribuzione e la piccola attività, tra le tariffe e i costi, tra le professioni liberali e le imprese. Altrimenti, senza politica è solo caos e disobbedienza. Mentre tutto si agita e arde nella enorme polveriera della concorrenza che sfida gli interessi consolidati di professionisti, di lavoratori autonomi e del commercio, grandi potenze economiche, patrimoni immensi, fortune sconfinate dormono ancora indisturbati. Per questo occorre che i tassisti non siano soltanto un’esca, come furono i vetturini del 1853.

l’Unità 19.1.12
Intervista a Giulio Sapelli
«Non ci sono innocenti davanti al neoliberismo e ai suoi disastri sociali»
Il capitalismo è in default, ma non si vede una svolta. I limiti del governo Monti
La politica? Ripartire dal basso. L’Europa si salva se la Merkel perde le elezioni
di Rinaldo Gianola


Lei vorrebbe parlare della crisi del capitalismo? Ma sta scherzando? Se lo facciamo in questo Paese ci mettono in galera». Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università Statale di Milano, ha il gusto della battuta e della polemica culturale. Discutere con lui del default del capitalismo è come andare a una festa a sorpresa, dove ci si può attendere di tutto. Professor Sapelli, anche il Financial Times è preoccupato per le condizioni del capitalismo. Magari è morto e nessuno ci ha avvertito? «Distinguiamo. Il capitalismo neoliberista è fallito, non ci sono dubbi. Il capitalismo tout-court non ancora. Vedremo».
Un requiem per il neoliberismo?
«Sicuramente, anche se molti continuano a far finta di niente. Il capitalismo neoliberista si è dimostrato incapace di procurare sviluppo e benessere. Nei paesi dell’Ocse si contano 250 milioni di disoccupati di cui almeno 60-70 milioni sono disoccupati strutturali, destinati a restare senza lavoro per sempre. È una cosa che fa tremare i polsi perchè parliamo di paesi con sistemi politici democratici ed economie avanzate. Oggi misuriamo il fallimento neoliberista. Un secolo dopo dobbiamo rendere omaggio aRudolf Hilferding che nel suo “Il capitale finanziario” immaginava la prevalenza della finanza sul capitalismo industriale, anche se veniva svillaneggiato da Lenin e Plekhanov».
Oggi siamo in mezzo ai guai per il neoliberismo...
«Certo. Il neoliberismo si è presentato come un megacapitalismo con qualche cosa in più e di peggio: un nichilismo morale di massa che ha alimentato l’ingiustizia, la diseguaglianza sociale».
Data di nascita del capitalismo neoliberista e principali sostenitori-responsabili?
«L’anno è il 1989. Il neoliberismo inizia quando la Securities exchange commission (Sec), la Consob americana, autorizza la libera contrattazione sul mercato dei prodotti derivati, di finanza strutturata. È la svolta, assieme alla nuova disciplina delle banche d’affari e commerciali. Anche in Italia c’è un segnale forte con Amato e Ciampi che mettono in soffitta la legge bancaria del 1936. Inizia la stagione del capitalismo deregolato».
Adesso fuori i nomi.
«Ronald Reagan, la signora Thatcher. Ma storicamente è sbagliato pensare che il neoliberismo sia solo il prodotto di quella destra. La deregulation come ideologia di massa viene perfezionata e divulgata da Bill Clinton e da Romano Prodi. Nessuno può dirsi innocente davanti ai disastri del neoliberismo. L’unico che in Italia comprese il pericolo di quel nichilismo fu Cossiga, uomo della intelligence democristiana».
Il capitalismo ha ancora speranza?
«Il suo futuro è incerto. Io spero in un capitalismo ben temperato, polifonico, che convive con imprese non capitalistiche il cui obiettivo non è massimizzare il profitto, ma garantire il lavoro, la collettività. Ho fiducia nella filosofia dell’impresa cooperativa, nella divisione delle ricchezze nelle piccole comunità».
Ma queste idee non maturano da sole. Ci vorrebbe la politica, non crede?
«Certo. Ma guardiamo la realtà. Le classi politiche del mondo avanzato sono state conquistate o acquistate dal neoliberismo. Non c’è ministro del Tesoro che non sia stato dipendente della Goldman Sachs. In Italia il governo è guidato dall’ex rettore della Bocconi, che dovrebbe salvare la patria. Si rende conto in che condizioni siamo? La Bocconi è portatrice di un’ideologia neoliberista di serie B e Mario Monti è chiamato a fare il guardiano da un capitalismo subalterno, periferico e straccione. Guardi che Gramsci non aveva mica torto quando descriveva il capitalismo italiano».
Allora siamo tutti morti, non c’è più alcuna speranza politica?
«La politica tornerà, è questione di tempo. Credo nelle minoranze, nei piccoli gruppi. Ho fiducia nei movimenti sociali, anche in quelli che sono apparsi all’improvviso in America, nel mondo a contestare il capitalismo, le ingiustizie, l’arricchimento truffaldino. Ci sono alternative. Grandi paesi come il Canada e l’Australia non sono stati coinvolti nella crisi finanziaria perchè hanno forti banche cooperative».
Da dove ripartire?
«Dal basso, con umiltà, imparando dal passato, ascoltando anche gli insegnamenti delle religioni».
La religione?
«Ha un ruolo decisivo. Il buddismo in Asia ha temperato il capitalismo. Potrebbe farlo anche il cattolicesimo, così come l’ebraismo ha avuto un’influenza positiva sull’ideologia dei kibbutz. E anche l’Islam: noi siamo preoccupati per la minaccia dell’integralismo, ma le banche islamiche sono istituzioni serie. Ricorda il famoso discorso di Togliatti a Bergamo? La religione è un potente afflato per la rivoluzione, il cambiamento sociale, la giustizia».
Se il capitalismo è così malmesso perchè la sinistra non rialza la testa?
«Perchè la sinistra ha perso la sua autonomia culturale. Non propone più nulla, qualcuno scimmiotta il neoliberismo e pensa di apparire moderno. Papa Ratzinger dice cose più di sinistra di certi leader del pd. La questione è culturale. Lo sa perchè i signori del Financial Times discutono apertamente del capitalismo e dei suoi limiti?Sono preoccupatissimi di perdere potere e interessi. Sono pronti a tutto per resistere».
E la nostra Europa?
«La mia generazione aveva in mente gli Stati socialisti d’Europa, non questa dei banchieri centrali bastardi o incompetenti. Dipenderà dalla Germania. Spero che la signora Merkel perda le elezioni, così sarà possibile un cambio di stagione. Helmut Schmidt, storico leader socialdemocratico, ha fatto di recente un grande discorso. Ha detto alla Merkel di non dimenticare che la Germania è morta se cammina davanti all’Europa. Ha avvertito che gli altri paesi non seguiranno un passo prussiano, ha chiesto di non svegliare vecchi spettri. La speranza per noi e l’Europa è la vittoria della Spd. Vorrebbe dire che il socialismo ha ancora un senso».

l’Unità 19.1.12
Quando Marx criticava i «censori» dell’arricchimento
Il filosofo di Treviri spiegava che era futile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori e invitava a non confondere l’economia con la morale
di Massimo Adinolfi


E se, dopo aver capito che la ricetta reaganiana non funziona, e che non è vero che lo Stato sia sempre il problema piuttosto che la soluzione – se non altro perché allo Stato si è chiesto di salvare con migliaia di miliardi il sistema bancario americano – se ora che la crisi ha investito i debiti degli Stati europei dovessimo chiederci se non occorra essere più radicali? E domandare, a proposito del capitalismo, se anch’esso non sia il problema, invece che la soluzione?
Troppi «se», si dirà. Ma davvero sarebbe un bel guaio, perché di risorse intellettuali per misurarsi con un simile problema non ce ne sono molte, in circolazione. Non si vorrà mica tirare in ballo un’altra volta Marx? Certo lui qualche parolina l’ha detta, provando per esempio a sostenere che le crisi non sono eventi più o meno accidentali, ma fasi strutturali del funzionamento dell’economia capitalistica. Come si fa però a riprendere un’analisi del genere, se persino il termine, «capitalismo», è scomparso dal dibattito? In verità, la parola sta di nuovo facendo capolino, e il solo fatto che la si torni a usare indica perlomeno che il problema c’è: la fede nelle virtù taumaturgiche del mercato si è indebolita; indebolita è pure la convinzione che il mercato rappresenti sempre il miglior sistema di allocazione delle risorse; fragilissima è ormai la presunzione che alla politica spetti solo il compito di correggere le distorsioni del mercato.
Certo, non possiamo farne solo un affare di parole. Forse, però, tornare a usare la parola «capitalismo» aiuta a individuare nodi strutturali, quelli che non vengono meno solo per il fatto che non li si nomina più. Marx era ad esempio con-
vinto che la crisi si manifesta sì sui mercati finanziari, e anzi le bolle speculative la ingigantiscono oltre misura, ma comincia da un’altra parte, nella sfera della produzione: è lì che bisogna guardare. Siccome però il fenomeno della sovrapproduzione, che lui poneva all’origine della crisi, raccoglie le abbondanti ironie degli economisti mainstream, figuriamoci se proponiamo di tornare alle sue descrizioni del ciclo economico (con tanto di inevitabile crollo finale). Però, quando Marx spiega che è futile oltre che irresponsabile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori, quando avvisa che non è buttandola sul piano della morale che si individuano le cause e si indicano le vie d’uscita, non sarà il caso di rimpiangere un pensiero critico altrettanto robusto? Così, se il presidente del Consiglio vola a Londra per riconquistare la fiducia dei mercati, ci si può chiedere se è di economia che stiamo parlando, o non piuttosto di psicologia?
Sentite allora Marx, quando ad esempio se la prende con la stampa: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca della crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del libero commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno». Che dire? A parte il fatto che oggi il problema non ce l’abbiamo solo con i giornalisti inglesi, e che di decenni di panegirici ne abbiamo vissuti più d’uno, ma non avremmo bisogno di penne altrettanto sfrontate?
Perché di questo anzitutto si tratta: se il capitalismo crollerà, non ce lo manderà certo a dire, ma intanto si può auspicare un po’ più di libertà intellettuale, di intelligenza critica, di anticonformismo nel dibattito delle idee?

l’Unità 19.1.12
L’export di armi cresce verso i regimi con meno democrazia
L’Europa è diventata il primo esportatore di armamenti nel mondo e l’Italia figura tra i Paesi che ha più rifornito Libia, Bahrein, Siria e Yemen
Con sempre meno controlli da parte del parlamento e dell’Unione europea
di Umberto De Giovannangeli


Un quadro inquietante per un commercio che va, quanto meno, regolamentato e reso trasparente: il commercio delle armi. 470 pagine di tabelle e dati: è la «XII Relazione annuale sul controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari», che ricopre le esportazioni per il 2010. Un rapporto tanto più significativo perché il responsabile della pubblicazione è «Consilium» (il Consiglio dell’Unione Europea). Una relazione che sarebbe passata inosservata se non fosse stata rilanciata da un ampio gruppo di associazioni, reti e centri di ricerca di diversi paesi europei tra cui, per l’Italia, la Rete Disarmo e la Tavola della pace.
I dati innanzitutto. Da quelli forniti, emerge che il valore totale delle autorizzazioni (licences) di esportazione di armi nel 2010 è diminuito del 21% rispetto al 2009 quando avevano raggiunto un record di 40,3 miliardi di euro: nel 2010 ammontano a 31,7 miliardi di euro, una cifra vicina a quella del 2008 (33,5 miliardi di euro) che rappresenta uno dei valori più alti dall’attuazione nel 1998 di una politica comune europea sulle esportazioni di armamenti.
«Mentre il valore delle autorizzazioni all’esportazioni di armi verso i paesi occidentali (principalmente l’Unione europea e gli Stati Uniti) è sceso di oltre il 28%, è preoccupante notano le associazioni europee che le esportazioni di armi verso i Paesi delle economie emergenti e in via di sviluppo siano salite a 15,5 miliardi di euro, cioè a poco meno della metà del totale. Se il valore delle esportazioni di armi verso i regimi repressivi del Medio Oriente e Nord Africa è sceso rispetto ai livelli record del 2009, anche nel 2010 le autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso queste zone di forte tensione sono rimaste molto alte e superano gli 8,3 miliardi di euro».
«Ai sensi dell’articolo 15 della Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari, è prevista nel 2012 una revisione della normativa dell’Ue sulle esportazioni di armamenti. Tale revisione può essere efficace solo se si basa su informazioni attendibili e complete e su un dibattito informato», sottolineano le associazioni europee.
Informazione e trasparenza sono alla base di un controllo da parte di istituzioni e opinioni pubbliche. Otto Paesi (quasi un terzo degli Stati membri, tra cui due dei principali esportatori di armamenti al mondo, cioè Germania e Regno Unito) non hanno fornito dati completi sulle consegne di sistemi militari, rendendo così praticamente impossibile l’analisi delle esportazioni effettive di armi da parte dei Paesi dell’Unione europea.
«Al riguardo va evidenziata l’ampia anomalia dei dati forniti dall’Italia precisa Giorgio Beretta, analista della Rete Disarmo, che per primo ha esaminato il rapporto pubblicandone un ampio resoconto sul portale Unimondo -. Mentre, la Relazione ufficiale della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni di armamenti italiani per l’anno 2010 riporta come “operazioni di esportazione effettuate” un valore di circa 2.754 milioni di euro, il governo italiano ha segnalato all’Ue esportazioni effettuate per soli 615 milioni di euro. Se una minima differenza di dati tra i due rapporti può essere comprensibile, non può certo essere nell’ordine dei miliardi di euro soprattutto considerando che si tratta di consegne già effettuate nel 2010 e quindi con armamenti già passati e registrati dall’Agenzia delle dogane».
«L’Europa è ormai diventata il primo esportatore mondiale di armi sottolinea Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace contribuendo direttamente alla crescita dell’instabilità e del disordine internazionale. In un mondo che sembra ormai fuori controllo, con delle istituzioni internazionali fortemente indebolite, mentre l’Europa viene pesantemente attaccata dalla speculazione finanziaria, non possiamo permetterci di continuare a disseminare il mondo di armi italiane ed europee. L’Europa non può essere un fattore di destabilizzazione internazionale. Prima ancora di essere contro i nostri principi è contro i nostri interessi e la nostra stessa sicurezza. Chiediamo dunque al nuovo governo di agire di conseguenza».
Usa, Russia ed altri Paesi europei hanno fornito grandi quantità di armi a governi repressivi del Medio Oriente e dell'Africa del Nord prima delle rivolte di quest'anno, pur avendo le prove del rischio che quelle forniture avrebbero potuto essere usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani: altro rapporto, stessa denuncia.
A sostenerlo è Amnesty International in un rapporto intitolato «Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del Nord: le lezioni per un efficace Trattato sul commercio delle armi», che esamina le esportazioni verso Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen a partire dal 2005. I principali fornitori di armi ai cinque paesi di cui si occupa il rapporto di Amnesty International sono Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia e Stati Uniti d'America.
Armi al Colonnello. Amnesty ha identificato 10 stati (tra cui Belgio, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Russia e Spagna) i cui governi hanno autorizzato la fornitura di armamenti, munizioni e relativo equipaggiamento al regime libico del colonnello Gheddafi a partire dal 2005. Alcune delle munizioni recuperate in Libia erano anche di fabbricazione cinese, bulgara e italiana come, rispettivamente, le mine anticarro Tipo 72, componenti per razzi e i proiettili d'artiglieria da 155 millimetri.
Dalla Libia all’Egitto. Almeno 20 Stati hanno venduto o fornito all' Egitto armi leggere, munizioni, gas lacrimogeni, prodotti antisommossa e altro equipaggiamento: in testa gli Usa, con forniture per un miliardo e 300 milioni di dollari all'anno, seguiti da Austria, Belgio, Bulgaria, Italia e Svizzera. Amnesty riconosce che «quest'anno la comunità internazionale ha fatto alcuni passi avanti, limitando i trasferimenti internazionali di armi a Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen». Tuttavia, secondo Amnesty, «sono gli attuali controlli sulle armi a non aver impedito i trasferimenti negli anni scorsi».

La Stampa 19.1.12
Niente più carcere per i reati minori
Lo prevede un ddl a firma del Pd Lanfranco Tenaglia Ma la Lega si oppone: c’è un eccesso di discrezionalità
di Francesco Grignetti


ROMA I deputati esperti di giustizia ne hanno discusso tra loro anche ieri in un comitato ristretto e la settimana prossima dovrebbero venire allo scoperto. La nuova maggioranza trasversale è pronta a una nuova legge per depenalizzare i reati quando siano di «particolare tenuità». Caso classico, la mela rubata in un supermercato. Il processo nemmeno partirebbe. Tutto subito in archivio. Detto questo, il confine della «particolare tenuità» è abbastanza vago e rimesso alla discrezione dei magistrati. Finora era una semplice attenuante. In futuro, se questo ddl che porta la firma di Lanfranco Tenaglia, Pd, divenisse legge, sarebbe una corsia privilegiata per chiudere molti processi sul nascere. «Sarebbe - dice - una misura di buon senso. Tante volte non c’è bisogno di un lungo e costoso processo, addirittura con tre gradi di giudizio, a fronte di casi di impatto minimo sulla società». Ma c’è un ma. La Lega Nord s’è già messa di traverso. Ai leghisti non piace questa norma buonista che porterebbe all’archiviazione senza processo per tanti piccoli reati. Sono pronti a cavalcare il caso. Se protestano già contro un provvedimento in fondo inoffensivo come l’allargamento della legge svuota-carceri (si va ai domiciliari quando mancano 18 mesi alla fine della pena), che pure avevano approvato quando erano al governo (e valeva solo per gli ultimi 12 mesi), e gridano all’amnistia mascherata, figurarsi di fronte a una legge che farà finire in archivio, senza condanne, chissà quanti procedimenti per reati minori.
In verità l’archiviazione d’ufficio per i casi di «particolare tenuità» è già una regola nei processi minorili e nei procedimenti davanti al giudice dipace. Viene adottata in un buon 20 per cento di quei procedimenti. Dice ancora Tenaglia: «Non è possibile, però,fare nessuna stima per il processo penale ordinario. Di sicuro non varrebbe per reati di grande impatto quali l’omicidio, la rapina o anche i reati contro la pubblica amministrazione che di per sé non possono definirsi “tenui”. Può funzionare invece per il furto di una mela, per una diffamazione, per le piccole calunnie, per tanti piccoli reati contro il patrimonio. Non sarebbe mai applicabile nel 20 per cento dei casi».
Al ministero della Giustizia, una norma del genere non dispiace. La ministra Paola Severino l’annovera tra le possibili riforme dall’effetto deflattivo del processo penale. E per una volta sono d’accordo anche eterni duellanti come Enrico Costa, Pdl, e Donatella Ferranti, Pd. Costa però ci tiene a non concedere eccessiva discrezionalità ai magistrati e vorrebbe meglio definire quando un caso è «tenue» oppure no per non dare ad alcuno una licenza di furto. Ferranti, a sua volta, chiede che ci sia comunque un coinvolgimento delle parti lese e una forma di risarcimento del danno, quantomeno in forma di lavori socialmente utili. Entro una settimana, comunque, la commissione Giustizia della Camera dovrebbe licenziare una legge che andrà in Aula a marzo.
La Lega, come detto, è all’opposizione. «Noi siamo contrari», spiega Carolina Lussana, leghista. I leghisti erano già riusciti a condizionare la maggioranza di centrodestra un anno fa alla prima uscita di Tenaglia, quando al ministero della Giustizia c’era Angelino Alfano e il Pdl era più che bendisposto. I leghisti sentono odore di buonismo nei confronti di nomadi e clandestini vari. Né l’esempio della mela rubata al supermercato li commuove più di tanto. «C’è - dice ancora Lussana - un eccesso di discrezionalità nel meccanismo dell’archiviazione. Noi riteniamo che questo tipo di depenalizzazione non possa essere concessa tout court. Se proprio si deve procedere a qualche forma di depenalizzazione, discutiamo. Ma va trovata una altra forma di sanzione. Se c’è stato un reato, non è accettabile fare come se niente fosse stato».

il Fatto 19.1.12
Santi e canaglie
Il vizio dell’eroismo “à la carte”
di Angelo d’Orsi


Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”: è poi così giusta la sentenza di Brecht? Ma, soprattutto, è possibile fare a meno degli eroi? Forse no. Nella storia il panorama, in ogni situazione, è sempre attraversato dalle figure opposte, che tendiamo a far diventare quasi idealtipi, dell’eroe e della canaglia. Per ogni Enrico Toti c’è un “soldataccio” austriaco. Per ogni Leone Ginzburg c’è un torturatore nazista. Per ogni Paolo Borsellino c’è un Totò Riina. Per ogni De Falco c’è uno Schettino. Eppure, è un gioco possibile quello di guardare le cose da un’altra prospettiva: nella manualistica austriaca Giuseppe Mazzini è una canaglia; per i fascisti ieri, e i rovescisti della storia, oggi, i partigiani erano tutte canaglie, ladri, assassini, stupratori; per il vasto territorio della cultura mafiosa i giudici e i poliziotti uccisi erano tutti “cornuti”, spazzatura da disperdere nel vento, o da seppellire sotto piloni di cemento su qualche cantiere autostradale... A ciascuno, come dire, i suoi eroi. E anche dal nostro personale gotha possiamo essere poi giudicati dagli altri. “Mangano è un eroe”, ebbe a dichiarare, stentoreo, riferendosi a un suo stalliere mafioso, tale Berlusconi. E questa frase, scappatagli in un rarissimo momento di spontaneità e veridicità, lo ha inchiodato più di decine di capi d’accusa, giuridicamente fondati. Certo l’eroicizzazione e la demonizzazione sono processi facili quanto discutibili, ma altrettanto inevitabili. In fondo una comunità si cementa anche intorno alle figure esemplari, nel bene e nel male. E nella storia spesso accade che non soltanto che gli opposti fronti giudichino eroi le canaglie e viceversa; ma capita anche che le canaglie di ieri divengano gli eroi di domani, in una incessante altalena. Pensare il mondo diviso in eroi e canaglie, comunque, ci rassicura, ci fa sentire spettatori tranquilli, nei limiti del possibile, di fatti più grandi di noi. La storia come un palcoscenico, e noi applaudiamo ai De Falco, e fischiamo agli Schettino.
E mentre lo stesso capitano della Concordia per i suoi sostenitori è un eroe, perché avrebbe salvato centinaia di vite, e il rappresentante della Capitaneria di porto, lo accusa di viltà, ribattendo che le vite potevano e dovevano essere salvate tutte, noi ci rendiamo conto che, con tutta l’antipatia che spontaneamente o in modo un po’ pilotato, ci capita di provare per il primo, e la stima per il secondo, la cautela dovrebbe essere obbligatoria, anche davanti alla sconvolgente emozione procurataci da immagini e parole: lette e, ahimè, ascoltate; parole che non avremmo immaginato di ascoltare neppure in un mediocre film del filone catastrofista, oggi non più tanto di moda, essendo ormai il mondo in condizione perenne di pre-catastrofe.
“Paese di eroi”, sarebbe il nostro, secondo una delle tante vecchie, logore etichette: e il De Falco di turno, ce lo dovrebbe ricordare. Eppure, fin troppo facile a nostra volta puntualizzare che chi fa il suo dovere, chi dimostra la maturità necessaria in ogni situazione, chi sa assumere le proprie responsabilità – invece di scaricare su altri, attaccarsi a pretesti, piagnucolare il pianto degli “eterni innocenti” (come scrive Antonio Gramsci, uno che di eroismo ne ha regalato non solo all’Italia) –, è semplicemente un cittadino, cosciente di far parte di una comunità, con tutto ciò che ne consegue in termini di assunzione di responsabilità, appunto. Grazie, capitano De Falco, a nome di tutti gli italiani e le italiane che ancora sanno sentire l’appartenenza alla collettività nazionale. Purtroppo, tendiamo, suggestionati dalle vicende recenti, specie se opportunamente mediatizzate, a dimenticare gli eroi “veri”, che sono gli eroi consapevoli, ossia coloro che scelgono convintamente, dopo aver valutato le situazioni, da che parte stare, che sono pronti a immolare carriera, affetti, e la vita stessa, da Francesco Pagano a Carlo Rosselli, da Salvo D’Acquisto a Giovanni Palatucci, da Rosario Livatino a Giovanni Falcone. Soprattutto non dimentichiamo coloro che, magistrati, ufficiali, funzionari e agenti di polizia, ogni giorno sfidano le grandi organizzazioni criminali tutti i giorni, sapendo di non avere adeguati strumenti di autodifesa, privilegiando il bene comune, la legalità e talora, spingendosi oltre le forme, tentano di tutelare anche il contenuto più prezioso, la giustizia sociale.

il Fatto 19.1.12
Il governo degli indignados
di Pilar Velasco


È da qualche giorno in libreria “Non ci rappresentano. Il manifesto degli indignati in 25 proposte” della giornalista spagnola Pilar Velasco, di cui pubblichiamo parte della nota introduttiva.

Il 15 maggio la piattaforma Democracia real ya convocò una manifestazione in 60 città spagnole. Quella domenica, alla Puerta del sol di Madrid, quanti scesero in piazza condividevano il motto più eloquente degli ultimi anni: “Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri”. Conoscevano gli abusi e gli eccessi del sistema finanziario, e oltre a conoscerli, avevano dato loro un volto. La marcia fu un successo. Fino a sera. Al termine del percorso, moltissimi ragazzi improvvisarono un sit-in pacifico in plaza de Callao. Arrivarono le camionette, le cariche della polizia... Ci furono 24 arresti. Le corse notturne dei manifestanti dispersi confluirono verso Sol. Sempre più indignati. Perché più di centomila persone avevano gridato “il sistema non funziona”, e il sistema aveva risposto come di consueto. Quella prima notte, circa 40 ragazzi si sedettero sull’asfalto del centro di Madrid come reazione alle cariche. Chi abitava nelle vicinanze portò coperte e sacchi a pelo. Lo scrissero sui muri: “Se non ci lasciate sognare, non vi lasceremo dormire”. Quella notte i candidati, distesi nei loro letti, non sapevano che mancavano solo poche ore al termine della campagna elettorale. Gli ultimi comizi sarebbero stati oscurati dai messaggi di Puerta del sol.
ALLE CINQUE di mattina, quando ormai i giornalisti se n’erano andati, la polizia procedette allo sgombero. Li trascinarono per terra, li malmenarono e ne portarono via otto sulle camionette. In totale, un arresto.
Due giorni dopo il 15-M, i suoi partecipanti reagirono allo sgombero invadendo Sol. Fino a lì, una scena già vista. Ma il discorso non si era mai sentito prima. Stavano dicendo forte e chiaro, megafono in mano, in piedi su pedane improvvisate: “Questa democrazia non ci rappresenta”. Quel martedì magico tutto cominciò con l’occupazione del selciato della piazza. Lo ricoprirono di cartoni e borse riciclate, e comparvero i primi bigliettini, che testimoniavano uno sforzo logistico partito la notte precedente. Su uno si leggeva: “Ci servono coperte, acqua, guanti, candeggina, segatura, sacchi dell’immondizia, teloni, auto, furgoni, tupperware, medicine”. Il bisogno di esprimersi inondò tutti gli angoli di Puerta del sol. Nei vicoli, ancora poco trafficati, si discuteva seduti in cerchio e a bassa voce per non svegliare i residenti; in calle de Preciados si dibatteva di economia e in calle Carretas di arte. Ogni muro e manifesto pubblicitario, ogni lampione, l’ingresso della metropolitana, le impalcature e le vetrine dei negozi testimoniavano le storie e le istanze di quell’enorme rete che era già un movimento senza saperlo. Senza badare alle divergenze e ai punti di incontro, ogni striscione veniva scritto insieme e ogni motto entrava a far parte del racconto sociale composto per strada. L’uno voleva scrivere il messaggio dell’altro. Nessuno aveva “nient’altro” da fare che stare lì: come se si dovesse abolire il denaro o il lavoro obbligatorio in quell’istante, come se rimanessero solo sette giorni per sistemare tutto. Sol era il luogo, la priorità e il momento. Andarsene era impossibile. Stavano costruendo il loro governo. Sovrani senza sudditi che non intendevano più chiedere il permesso per scendere in strada. Decine di cellulari twittavano quel mormorio con i primi hashtag. Anche a chi non partecipava, era chiara l’importanza di essere lì.
A OGNI messaggio riferito a @acampadasol – l’account dell’acampada su Twitter – i follower dell’account si moltiplicavano. A ogni #15M, #spanishrevolution, #acampadaensol, #yeswecamp, seguivano decine di retweet, domande, consigli, ringraziamenti. Bastava dire come andavano le cose e per mezzo del network più rapido di messaggistica breve diventavano trending topic a Madrid, Valencia o Barcellona. In meno di ventiquattr’ore a Puerta del sol venne creata la più complessa struttura di commissioni e gruppi di lavoro che si sia mai vista in una mobilitazione di questo tipo. Diciotto commissioni si incaricarono della gestione logistica dell’acampada. In seguito il modello sarebbe stato riproposto – sempre in scala ridotta – in decine di altri posti. Lo spirito del battezzat0 “maggio spagnolo” ha inaugurato un modo diverso di discutere. Senza grida né imposizioni, senza sovrapporsi nei turni di parola. Si tratta di giungere agli accordi con la responsabilità di dotare di contenuto le proposte.
DARE L’ESEMPIO. Dimostrare che quanto si chiedeva era possibile: democrazia vera, orizzontale, pacifica e fondata sul consenso. (…) Si sono voluti presentare i contenuti di riforma istituzionale come i temi centrali del movimento. Ma nel nuovo governo cittadino ci sono anche proposte economiche. Radicali. Perché quando gli indignati chiedono vera democrazia subito vogliono farla finita con quella concezione perversa secondo la quale la politica è il mezzo, non il fine. I motivi di indignazione possono essere molti. Per questo, fra gli acampados convivono molte ideologie. Nel magma iniziale,tuttitrovanoposto.Masarà il movimento stesso a fare chiarezza su chi condivide il manifesto degli indignati.

Repubblica 19.1.12
l Professore, la Chiesa e l'Ici dimenticata
di Miguel Gotor


MARIO Monti ha rilasciato ieri un´intervista a L´Osservatore Romano: un gesto di attenzione significativo da parte della Santa Sede poiché avviene di rado che l´organo ufficiale della Città del Vaticano intervisti il presidente del Consiglio in carica.
Tanto più che il colloquio cade all´indomani dell´udienza ufficiale di Monti con papa Benedetto XVI, in una qualche misura a suggellare il felice esito di quell´incontro.
L´intervista sottolinea il fondamentale contributo dei cattolici alla vita sociale italiana e tocca i principali problemi all´ordine del giorno: dalla crisi economica globale al futuro della moneta unica, dai destini del progetto di integrazione europea alla questione della cittadinanza italiana per i minori stranieri, dai programmi del governo in materia di liberalizzazioni alla politica fiscale.
Monti mette in risalto che proprio in quanto "tecnico" «può liberamente affermare che l´antipolitica e l´antiparlamentarismo causano danni che nel tempo possono dimostrarsi insidiosi». Da questa considerazione deriva la necessità che «ogni soggetto, individuale e collettivo, privato e pubblico, è chiamato a essere "migliore", in ogni ruolo - piccolo o grande - che assuma». Inoltre, evidenzia l´importanza dei "beni comuni" come orizzonte della politica nazionale e comunitaria e riconosce che sia la Santa Sede sia la Conferenza episcopale italiana possono svolgere un ruolo critico e propulsivo di rilievo perché «di fronte al bene comune non si può sfuggire». Per quanto riguarda gli interventi fiscali il presidente del Consiglio ribadisce il massimo rigore nella lotta all´evasione.
E tuttavia manca una questione: sia le domande relative alla politica fiscale, sia le risposte di Monti eludono il nodo del pagamento dell´Ici da parte della Chiesa cattolica per quei luoghi di carattere "parzialmente" commerciale che oggi sono esenti. Come è noto, tali immobili entrano in contraddizione sia con le previsioni della legge "concordataria" 222/1985, richiamate dalla Corte suprema di Cassazione nel luglio 2010 (in cui è stato condannato un ente ecclesiastico di Assisi) sia con la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato e l´indebita concorrenza.
Tempo fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che «se ci sono punti della legge da rivedere o da discutere, non ci sono pregiudiziali da parte nostra». Si tratta di una disponibilità importante che il governo italiano, tanto più perché non strettamente legato da vincoli di carattere elettorale, dovrebbe verificare e raccogliere: sarebbe imperdonabile lasciarla cadere nel vuoto. In un periodo di crisi come questo è giusto che tutte le istituzioni, Chiesa cattolica compresa, si mostrino disposte all´impegno, al sacrificio, all´esempio e facciano seguire ai pronunciamenti i fatti: unicuique suum, ossia "a ciascuno il suo", come recita per l´appunto il motto de L´Osservatore Romano

La Stampa 19.1.12
Operazione Qumran
Da febbraio a Gerusalemme un’équipe italiana al lavoro sui materiali archeologici rinvenuti negli Anni 50 Sveleranno gli ultimi misteri dei Rotoli del Mar Morto
di Maurizio Assalto


CACCIA AL TESORO Dopo le prime scoperte, studiosi contro beduini. Poi lo stop per le guerre arabo-israeliane
DUBBI E INTERROGATIVI Troppe monete per una comunità pauperista. E perché quei corpi sepolti non secondo l’uso ebraico?

Lo uadi Qumram, dove tra il 1947 e la metà degli Anni 50 sono stati ritrovati, in undici grotte, i celebri rotoli. Il sito si trova sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, in Cisgiordania
I manoscritti del Mar Morto, conservati a Gerusalemme nel Museo d’Israele, grazie a Google dallo scorso settembre sono accessibili a tutti su Internet (http://dss.collections.imj.org.il) in un sito che, oltre alla traduzione in inglese di cinque rotoli, offre la possibilità di zoomare per scandagliarli nei minimi dettagli e di inserire i propri commenti
I rotoli vennero rinvenuti dentro giare di terracotta. La scoperta si deve a un pastore beduino, forse anche contrabbandiere
Nelle grotte sono stati ritrovati in totale circa 900 manoscritti, prevalentemente su pergamena, ma alcuni anche su papiro e uno su rame, contenente una «mappa del tesoro»

La storia era una di quelle a cui si crede volentieri. Il pastorello beduino che pascola il gregge, una pecora che se ne va per conto suo, lui che la insegue in una grotta e dentro alcune giare di terracotta trova un tesoro. I Rotoli del Mar Morto: la più grande scoperta archeologica del secolo scorso, assieme alla tomba di Tutankhamon, ma ben più densa di implicazioni politico-religiose, conflitti accademici, intrighi internazionali. Il racconto «funzionava», un misto di Alì Babà e della parabola evangelica della pecora smarrita.
«Peccato che la realtà fosse un po’ più complicata», fa notare Marcello Fidanzio, coordinatore scientifico dell’Istituto di Cultura e Archeologia delle Terre Bibliche di Lugano, professore di Ebraico biblico alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano. Insieme con Riccardo Lufrani, Fidanzio è a capo dell’équipe italiana che dal 1˚ febbraio sarà a Gerusalemme, incaricata di studiare e pubblicare i materiali scavati negli anni 50 nel sito di Qumran, sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, presso le grotte dei famosi rotoli che contengono, tra l’altro, alcuni tra i più antichi manoscritti della Bibbia. L’archeologia è la chiave per comprenderli meglio, dopo sessant’anni di ricostruzioni fantasiose.
Il ritrovamento, secondo la versione ufficiale, risale al 1947. Merito di un certo Muhammad ed-Dibh («il Lupo») e forse di un altro paio di beduini ta’amireh. Ma in realtà pare che si debba risalire più indietro, agli ultimi mesi del ’46. E forse quei beduini non erano tanto pastori, quanto contrabbandieri in cerca di nascondigli per la loro mercanzia. «Ma il fatto più triste», dice Fidanzio, «è che tutte le prime testimonianze convergono su uno stesso punto: che la pergamena di cui è fatta la maggior parte dei rotoli era un materiale molto utile per fabbricare i legacci dei sandali…». Con ogni probabilità alle grotte che punteggiano la falesia di Qumran avevano già attinto altri in passato, come è suggerito anche dalla constatazione che molte giare vennero rinvenute vuote. Del resto in questa zona già nel III secolo d. C. erano stati ritrovati manoscritti biblici: lo riferisce Eusebio di Cesarea nella Storia ecclesiastica (324 circa), raccontando che Origene se ne sarebbe servito per redigere la sua Esapla .
Quel che è certo è che, con le 24 sterline ricavate dalla vendita del bottino a un mercante di nome Kando che aveva la bottega nella piazza della Mangiatoia a Betlemme, Muhammad il Lupo si comprò un fucile, venti capre e una moglie e cambiò vita. L’antichità dei manoscritti era stata riconosciuta da Eleazar Sukenik, insigne archeologo dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel novembre del ’47. Da quel momento la caccia ai rotoli, quelli nascosti nelle altre grotte di Qumran, poteva dirsi aperta. Pochi giorni dopo, però, il 29 novembre, l’Onu votò la partizione della Palestina tra arabi e ebrei. Seguì il 14 maggio ’48 la dichiarazione unilaterale che sancì la nascita dello Stato di Israele. E, il giorno dopo, lo scoppio del primo conflitto arabo-israeliano. Per un paio di anni, fino a quando la Cisgiordania venne annessa dalla Giordania, la zona di Qumran fu off-limits. Cessate le ostilità, le ricerche potevano riprendere, con gli archeologi di tutto il mondo (ma con l’importante esclusione degli israeliani, ossia i più interessati) pronti a contendere il tesoro ai beduini, che erano avvantaggiati dalla conoscenza dei luoghi. Alcune grotte erano raggiungibili soltanto calandosi per una trentina di metri sul fianco della falesia, altre distavano fino a due chilometri dal sito.
In mezzo a tutte queste complicazioni, l’incarico di condurre gli scavi fu affidato a un domenicano francese, Roland de Vaux, ferratissimo storico e archeologo direttore dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme. I lavori si protrassero fino al 1956, quando la seconda guerra arabo-israeliana, conseguente alla crisi di Suez, impose un nuovo stop. Ma il grosso era fatto: centinaia di grotte erano state ispezionate, e undici di queste avevano restituito importanti rotoli, per un totale di circa 900 manoscritti in decine di migliaia di frammenti. Restava da studiarli e pubblicarli. Nel 1959 De Vaux, che in tutti quegli anni aveva pubblicato periodici rapporti sulla Revue biblique, propose la sua teoria: Qumran era il sito comunitario degli Esseni, una setta che intorno al 150 a. C. si era staccata da Gerusalemme, in opposizione all’«empia» ellenizzazione dell’ebraismo, per praticare il lavoro, la preghiera e l’osservanza della purità rituale; e i rotoli erano la loro biblioteca, nascosta nelle grotte per metterla in salvo, al tempo della rivolta antiromana culminata nella distruzione del Tempio, nel 70 d. C.
«La teoria sembrava convincente», osserva Fidanzio, «perché molti dei primi manoscritti erano relativi alle norme della vita comunitaria essenica. Ma, proseguendo gli studi, si constatò che solo una parte dei documenti rimandava agli Esseni, gli altri attestavano tendenze religiose diverse e anche divaricanti. Qualcuno, poi, risaliva addirittura al III secolo a. C. Il limite di De Vaux fu di mischiare la descrizione e l’interpretazione». Riesaminando i materiali, dopo la sua morte prematura, nel ’71, si aprirono molti interrogativi. Per esempio: come spiegare le tracce di decori architettonici - mosaici, fregi, colonne, ceramica fine - in una comunità pauperista di celibi? E l’abbondanza di monete, che sembra attestare un’attività economica rilevante? E perché nella necropoli alcuni corpi, anziché essere sepolti in un telo, secondo l’usanza ebraica, erano composti entro bare, indizio probabile che vennero trasportati qui da un altro luogo?
Per rispondere a queste domande sarebbe stato necessario un esame approfondito dei materiali archeologici. Ma intanto un’altra guerra, quella dei Sei giorni, nel giugno ’67, aveva nuovamente capovolto la situazione e bloccato tutto. Al termine del blitz Israele aveva occupato, tra l’altro, la parte Est di Gerusalemme, dove i reperti erano depositati nel Museo Rockefeller. Non essendo stata riconosciuta l’annessione, per vent’anni nessun archeologo vi mise piede. Intanto i rotoli erano stati portati nel Museo d’Israele, oggetto di tensioni con la Giordania che periodicamente li rivendica. Il gruppo internazionale e interreligioso creato da De Vaux per lo studio dei manoscritti procedeva a rilento, alimentando illazioni (circolò anche una «teoria del complotto», secondo la quale nei rotoli erano contenuti documenti scottanti che il Vaticano voleva tenere nascosti). All’inizio degli anni 90 fu così istituita una nuova commissione che è finalmente riuscita a pubblicare tutti i manoscritti realizzando microfiches e foto all’infrarosso.
Per quanto riguarda i materiali di scavo, rimasti «dormienti» dalla metà degli anni 50, nel 1987 l’École Biblique incaricò dello studio un altro frate domenicano, l’archeologo Jean-Baptiste Humbert, sotto la cui supervisione opererà dai prossimi giorni la squadra italiana. La sua ipotesi è che Qumran abbia attraversato diverse fasi: nella prima metà del I secolo a. C. vi sarebbe sorta una residenza di tipo ellenistico (la pianta è la stessa della Casa del Governatore a Dura Europos, in Siria), sulle cui rovine si era in seguito insediato un piccolo gruppo permanente dedito all’ospitalità dei pellegrini, che nei giorni della Pasqua si rifiutavano di compiere i riti al tempio di Gerusalemme. Nell’imminenza dell’arrivo dei Romani, sarebbero stati nascosti qui tanto documenti propri dell’insediamento, quanto materiale proveniente da più lontano. Per Fidanzio e colleghi, in attesa di qualche sponsor che sostenga la loro ricerca priva di finanziamenti pubblici, il lavoro si prospetta lungo, con la possibilità di aprire scenari del tutto nuovi anche per quanto riguarda l’interpretazione dei testi. «Faremo come per i rotoli: cercheremo di pubblicare ogni cosa il più rapidamente possibile, in modo gli studiosi di tutto il mondo possano dare il loro contributo».

Repubblica 19.1.12
Perché saper fare i puzzle aiuta a risolvere i problemi
di Paolo Zellini


Tutto ruota intorno ai concetti di numero, algoritmo, complessità E ciascuna teoria dà una prospettiva diversa
Le matrici, il punto fisso, la questione del commesso viaggiatore: ogni dimostrazione aggiunge altri quesiti
Cosa studiano oggi gli esperti della disciplina più pura? Ecco come ogni nuova scoperta s´intreccia alle altre in un gioco di tessere

Nella ricerca, osservava il celebre matematico André Weil, nulla è più fecondo delle oscure analogie e dei torbidi riflessi che rimandano da una teoria all´altra. Nebbie inesplicabili e seducenti circondano spesso le idee e i confini ancora incerti tra diverse aree di indagine; e nulla dà più piacere al ricercatore di questa eccitante imprevedibilità. Arriva poi il giorno in cui il vagheggiamento si dissolve e diventa certezza. Le teorie rivelano la loro fonte comune e, come insegna pure la dottrina indiana della Bhagavad Gita, si conquista la conoscenza assieme all´indifferenza. «La metafisica», concludeva Weil, «è divenuta matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprebbe più emozionarci».
Tuttavia questa indifferenza è sempre un momento intermedio, un passaggio obbligato per scorgere altri collegamenti, altre possibili combinazioni. La ricerca matematica ha il carattere di un´estesa, imprevedibile e proteiforme moltiplicazione, di un incessante spostamento di confini e di una ricombinazione dei dati. Non è tanto importante, allora, accumulare successi nel risolvere singoli problemi, quanto svelarne il significato in un quadro sempre più ampio e generale, che si delinea a poco a poco nel riconoscere temi affini o confinanti. È come tentare di comporre un gigantesco e inesauribile puzzle, in cui molte singole tessere, pur provviste di senso proprio, ricevono ogni volta un significato più ampio e profondo dal paragone reciproco: un compito senza fine, che richiede un continuo riassestamento dei pezzi. E alla fine non possono non restare enigmi irrisolti, perché le formule viaggiano attorno a concetti centrali ed elusivi come quelli di caso, di informazione, di numero, di complessità, di algoritmo. Il puzzle ne svela nuovi aspetti, ma essi rimangono sempre suscettibili di qualche revisione critica.
I matematici hanno spesso constatato che le loro formule hanno una forza o un´intenzione autonoma e obbediscono a un principio di unità interna che le lega in sistemi organici sempre meglio connessi e articolati. Gli stessi algoritmi portano in sé implicazioni imprevedibili e un potere ermetico che li costringe a specchiarsi l´uno nell´altro. Anche per questa via si creano nuovi concetti: i numeri complessi si introdussero quasi da sé, nel XVI secolo, combinando l´algebra delle equazioni di terzo grado con le costruzioni della geometria euclidea.
Per quanto peculiari e diversi, molti problemi matematici si rivelano equivalenti e quindi sorprendentemente inclini – si direbbe – ad accorparsi in classi. Questa loro equivalenza, per lo più nascosta a un primo sguardo, è essenziale: risolvendo uno di essi si risolvono automaticamente tutti gli altri. L´ibrido territorio tra la matematica applicata e l´informatica, tra la logica e la teoria della computazione, ne offre svariati esempi. La frontiera della ricerca si sposta su diversi livelli di generalità. Spesso vengono prima questioni specifiche, di immediato interesse pratico. Ma queste suscitano poi questioni molto più generali, palesando una struttura che si ritrova, astrattamente, in altri contesti e merita di essere esaminata in sé e per sé. Chi sospetterebbe l´affinità di un celebre problema come quello del "commesso viaggiatore" – consistente nel trovare il percorso minimo che collega un dato numero di città – con una serie di altri problemi di natura algebrica e combinatoria da cui dipendono importanti settori del calcolo scientifico? Questa affinità permette di definire una intera classe di problemi equivalenti (chiamati NP-completi): se un algoritmo ne risolvesse uno in un tempo accettabile, lo stesso tempo basterebbe a risolvere ogni altro problema della classe. Ma nessuno sa ancora se un simile algoritmo può esistere.
A uno di questi problemi già accennava Kurt Gödel in una lettera a John von Neumann del 1956. Non è un caso. Negli anni ´30 Gödel, e altri con lui, dimostrarono che l´aritmetica, diversamente da quanto molti supponevano, non si può configurare come una specie di discorso logico rigoroso, un sistema formale con assiomi e regole di inferenza. Anche per questo motivo, invece di pretendere che tutto fosse dimostrabile, si cominciò a prestare maggiore attenzione alla complessità dei calcoli e delle dimostrazioni. Infatti il problema che Gödel poneva a von Neumann era il seguente: quanto è difficile decidere se una proposizione in un dato sistema formale ammette una dimostrazione di data lunghezza in base agli assiomi del sistema? Sappiamo ormai che non è possibile decidere, per ogni proposizione, se è vera o falsa. Ma ammesso che sia vera, quanto è difficile dimostrarlo? La complessità dei calcoli, ancorché finiti, è una delle grandi sfide della matematica moderna, il passaggio inevitabile per tentare di rispondere in modo esauriente a una questione tanto centrale quanto elusiva della scienza dell´ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato? In che cosa consiste precisamente l´effettività che siamo soliti attribuire ai processi automatici?
Gli stessi teoremi di Gödel sui limiti del formalismo logico, con le loro implicazioni generali sulla natura della matematica e della stessa ragione astratta, sono ora diventati il tassello di un quadro più generale, di una più ampia scienza computazionale in cui singoli stratagemmi possono incidere sui concetti generali di algoritmo e di modello di calcolo.
Vecchie teorie rivelano imprevedibili significati e pongono nuove domande in diversi contesti. La teoria delle matrici positive del matematico tedesco Oskar Perron, del primo decennio del Novecento, si applica a domini della fisica, della biologia e dell´economia che poco hanno a che fare con i motivi per i quali fu scoperta. Oggi ha importanti implicazioni nei calcoli su cui si basano i motori di ricerca su rete. Ma quei calcoli coinvolgono matrici di enormi dimensioni, e molti quesiti sulla loro complessità sono ancora irrisolti. Lo stesso Perron non avrebbe previsto le implicazioni della sua teoria per una scienza informatica che gli ispirava, ancora negli anni ´70, una caustica diffidenza. Questa teoria ha pure importanti collegamenti con il celebre teorema del punto fisso: se si trasforma con continuità una sfera (o un suo equivalente topologico) in se stessa, almeno un punto mantiene la sua posizione d´origine. Accade lo stesso nell´esperienza di ogni giorno: se provochiamo un leggero mulinello in una tazzina di caffè e la depositiamo sul tavolo, quando il movimento sarà cessato almeno un punto nel caffè sarà tornato alla sua posizione iniziale. Luitzen Egbertus Brouwer, che scoprì questo teorema un secolo fa, non poteva certo immaginarne le innumerevoli applicazioni. Ma forse Brouwer le paventava, queste applicazioni, e temeva che la matematica, irrigidita in un sistema dalla bellezza fredda, necessaria e imparziale, potesse infine intrappolarci in un mondo tanto oggettivo quanto tirannico – «ogni necessità rende schiavi» si legge pure nell´Oreste di Euripide. Eppure l´incessante scoperta dei nessi e degli intrecci imprevedibili, in cui consiste la dinamica della scoperta, ha poi il potere di legare la ferrea e oggettiva necessità delle formule alla spontaneità dell´invenzione, e di farci capire come noi stessi, in fondo, desideriamo sottomettere il nostro arbitrio a quella necessità.

Repubblica 19.1.12
Il processo
Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt
Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un´esposizione a Firenze
di Susanna Nierenstein


Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi "Processo ad Hannah Arendt" la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l´11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l´11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina – dell´organizzatore prima dell´espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l´Europa occupata –, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l´avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann "la banalità del male". Il Male che Eichmann incarna non ha niente di "banale", come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo. La visione della filosofa tedesca era senz´altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d´altri "volenterosi carnefici" al genocidio.
Ecco invece subito nell´esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l´annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell´estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ´30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ´32. Nel Reich dal ´33, all´indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ´34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell´unità "Affari ebraici", dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania. Alla conferenza di Wansee del ´42 che mise a punto il piano della "soluzione finale" fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati "i protagonisti, i papi del Reich" a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì "lo specialista" quando nel ´44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un "maestro" della spoliazione, dell´emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ´61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei "parassiti".
Cosa ci vide di "banale" Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l´autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l´antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l´aveva definito "ossessionato dalla questione ebraica"). Un quadro confermato anche dall´intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ´61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell´esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d´imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ´33 al ´45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l´avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un´identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ´33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.

Repubblica 19.1.12
Il padre di Maus: "Non è un caso se gli indignati hanno scelto la maschera di V per Vendetta"
Spiegelman: "Così il fumetto ha creato i simboli di oggi"
di Luca Raffaelli


L´occasione per parlare con Spiegelman, autore di Maus e premio Pulitzer, è una lezione che terrà alle 21 di oggi al Circolo dei Lettori di Torino (via Bogino 9, ingresso libero). Il titolo è tutt´altro che accademico: "What the %&*! Happened to Comics?", cioè "cosa diamine è accaduto ai fumetti?". Comics e non graphic novel, giustamente.
Oggi farà una vera lezione?
«Sarà una sorta di ricognizione per capire dove sta andando il fumetto, il mio medium, come funziona e come sta cambiando. Perché per tanti decenni sia stato ignorato da chi ama Michelangelo o Umberto Eco, e perché ora le cose stanno cambiando. E´ stata una fortuna che Eco, invece, li abbia sempre trattati con grande attenzione».
Parla di fumetti e non di graphic novel.
«Perché il percorso del linguaggio è iniziato fin dall´Ottocento. Per capire il fumetti bisogna sapere chi sono i grandi maestri, chi è Winsor McCay, un autore che ha aperto un mondo di possibilità, e George Herriman, l´autore di Krazy Kat, incredibile quello che lui ha fatto, e anche un autore popolare nei comic book degli anni Quaranta non molto conosciuto in Europa: il suo nome è Jack Cole. Ma ho migliaia di immagini nel mio computer e sceglierò cosa mostrare a seconda della piega che prenderà il discorso».
Qual è stata l´evoluzione del fumetto in questi ultimi anni?
«Mi scusi: ha detto "evoluzione" o "rivoluzione"?».
Beh, a questo punto decida lei.
«Credo sia accaduto qualcosa che sta in mezzo tra le due parole. Siamo in una situazione simile a quella delle scimmie di 2001: Odissea nello spazio, quando il protagonista attraversa il monolito e ne esce evoluto. Siamo arrivati al punto in cui si può affermare che il linguaggio viene utilizzato al massimo. Ma ora bisogna stare attenti al futuro, perché ad essere ignorati dalla cultura si possono avere anche molti vantaggi».
Cosa pensa del desiderio di molti autori di fumetti di essere autobiografici?
«E´ comprensibile, dopo tanti anni in cui il fumetto con Mandrake e Flash Gordon o con i fumetti underground è stato lontano dalla realtà. Questo fa parte dell´evoluzione di cui si diceva, della ridefinizione di quel che il fumetto può essere. Però bisogna stare attenti all´autobiografismo, perché ci deve essere assoluta onestà in quel che viene raccontato. Non basta stupire. Bisogna andare a fondo nei propri pensieri. E´ questo il rischio di un linguaggio che arriva ad essere completo: può essere meravigliosamente intelligente e può essere stupido. Com´è accaduto al cinema».
La differenza è che il fumetto non è davvero un´industria.
«Certo, non girano i soldi che ci sono nel cinema. Però il cinema è largamente influenzato oggi da quello che accade nel fumetto perché le nuove tecnologie rendono possibile mostrare un uomo che vola. Un tempo era bello vedere certe scene la domenica sulle pagine a colori dei quotidiani mentre sullo schermo non erano credibili, facevano quasi ridere. Oggi no. Il cinema digitale si può permettere di proporre le situazioni che erano proprie del fumetto popolare, e lo fa spendendo un sacco di soldi. Per esempio con un film appassionante come Hugo Cabret di Scorsese. Una delle poche esperienze tridimensionali della mia vita».
In che senso?
«So bene che i film in 3D si fanno perché così gli spettatori pagano di più per colpa degli occhialetti. Ma ho un occhio molto debole per cui non vedo mai la tridimensionalità e non ho il senso dello spazio. Credo che uno dei motivi per cui sono diventato un fumettista sia stata proprio la scelta della bidimensionalità del disegno».
Ha visto gli "indignados" con le maschere prese dal fumetto di Alan Moore e Dave Lloyd V per Vendetta? Che ne pensa?
«Penso che il movimento di chi occupa Wall Street sia oggi la cosa migliore che accada sul nostro pianeta. E sono molto felice che l´immagine simbolo di questo movimento venga dal mondo del fumetto. Lo ero già stato nel 2008 quando gli autori della rivista umoristica Mad hanno coniato un´immagine del nuovo presidente. Mi chiedo oggi come potremmo ritrarlo: forse come un robot in mano ai banchieri, non so. E´ incredibile quello che sta succedendo negli Stati Uniti da trent´anni a questa parte e non so se in Europa si avverte la gravità della situazione. La possibilità di muoversi nel mondo della cultura e dell´economia si sta riducendo sempre di più. E anche la possibilità per la gente comune di avere una vita confortevole. Però ora bisogna stare attenti anche alle speranze. Un tempo si credeva nelle rivoluzioni (non del fumetto, quelle reali). Ma poi, se si guarda la storia, non hanno mai migliorato la situazione».

Repubblica 19.1.12
Le affinità elettive dei capolavori
Da Vermeer a Kandinsky


Goldin: ho preferito mescolare le carte, così si parlano tra loro dipinti lontani di secoli
Nelle sale di Castel Sismondo Bacon dialoga con Tintoretto e Jacopo Bassano
Quattro secoli di arte in una mostra a Rimini che mette a confronto i grandi maestri. Così "Linea d´Ombra" festeggia i suoi 15 anni di attività

RIMINI Linea d´ombra, la società creata da Marco Goldin per l´organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell´arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte.
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell´ottava sala dell´esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all´altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un´infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l´ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell´uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c´è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un´agitata composizione verticale.
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità dominata da un´ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarán in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà del XIX secolo, mentre sorgeva l´alba della modernità. La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà scandalo con la sua nudità priva di orpelli nella Colazione sull´erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità del santo di Zurbarán ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po´ di storia dell´arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà mai all´uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velázquez per il quale stravedeva.
Diego Velázquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l´opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell´esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto "O greco divino!". Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l´unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell´interno della casa è già quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all´altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all´introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità.
C´è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all´altra le due teste bibliche saltate per volontà femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all´insegna del colore con la felicità cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un´armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell´esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staël con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà la vita nel 1955, l´anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.