l’Unità 12.1.12
Aerei, satelliti, missili:
la difesa italiana costa 20 miliardi di euro
Rapporto di «Archivio Disarmo» sulle spese militari in Italia nel 2011:
una struttura sovradimensionata rispetto alle esigenze delle Forze armate
di Umberto De Giovannangeli
Troppi. Costosi. E, in alcuni casi, velleitari. È il quadro aggiornato della spesa militare in Italia 2011, così come emerge dal Rapporto dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, curato da Luigi Barbato. La premessa: «In un contesto di crisi economica rimarca il Rapporto i sacrifici richiesti ai cittadini, sia in termini di maggiore fiscalità che di tagli allo stato sociale, impongono una doverosa riflessione sulla sostenibilità economica dell’attuale modello. Inoltre prosegue il Rapporto sarebbe opportuna anche una aperta discussione in sede politica della congruità di alcuni programmi di acquisizione di armamenti particolarmente costosi e di dubbia rispondenza anche al modello di Di-
fesa attualmente in vigore. In particolare si fa riferimento al progetto dei cacciabombardieri F35, il cui costo appare eccessivo e che rischia di monopolizzare quelle non infinite risorse che forse dovrebbero essere comunque rivolte all’esercizio (addestramento, carburanti, manutenzione...)».
Il bilancio per la Difesa 2011 ammonta a 20.557 milioni di euro. Ai 20 miliardi e mezzo di euro del 2011, però, spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo, vanno aggiunti circa 3 miliardi di euro inscritti nei bilanci di altri ministeri per scopi militari. «Il ministero dell’Economia e Finanze stanzia 754,3 milioni di euro per il Fondo di riserva per le spese derivanti dalla proroga delle missioni internazionali di pace – rileva l’Archivio Disarmo -, il ministero dello Sviluppo economico stanzia 1.483 milioni di euro destinato ad Interventi agevolativi per il settore aeronautico, 510 milioni di euro destinato ad interventi per lo sviluppo e l’acquisizione delle unità navali della classe Fremm (fregata europea multimissione) e una percentuale del budget del Miur viene destinata a progetti in ambito spaziale e satellitare delle forze armate. A questi vanno aggiunti il miliardo e mezzo di tutte le missioni di peacekeeping».
Non è finita. Nei capitoli di spesa degli anni a venire l’Italia ha già qualcosa da inserire.
«Sul bilancio dello Stato – spiega Simoncelli all’Agenzia Dire attualmente, esistono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. C’è anche il discorso del soldato del futuro: si parla di 25 miliardi nell’arco di 20 anni come se niente fosse. Si tratta di una serie di ipoteche sui bilanci degli anni prossimi che adesso non appaiono nei bilanci della Difesa, ma sono programmi che vengono approvati. E tutto questo proprio quando a tutti gli italiani è chiesto di fare sacrifici».
Della preponderanza oltre il 63% del bilancio delle spese per il personale, l’Unità ne ha dato conto in precedenti articoli.
Il Rapporto dell’Archivio Disarmo ci permette di aprire un altro capitolo, non meno interessante: quello relativo alle spese per l’investimento, suddivise per tipologia di programma. A fare la parte del leone è la componente aerea. Per mezzi aerei, infatti, l’Italia ha speso, o a in programma di spendere, 1.444,7 milioni di euro. Seguono mezzi navali, 324,7 milioni di euro, sistemi comando e controllo, 298,5 milioni, sistemi missilistici, 248,3 milioni. Per mezzi terrestri, la spesa scende a 78,9 milioni. Nel dettaglio, per una nuova portaerei Nave Cavour l’Italia ha già stanziato, nel bilancio 2011, 46, 2 milioni di euro, per sommergibili di nuova generazione U-212 -1ma e 2nda serie, 168,9 milioni di euro. Sono solo spese iniziali. Perché, rileva il Rapporto, gli oneri globali legati alla nuova portaerei saranno pari a 1.390 milioni di euro. Completamento previsto: 2016.
Spese mezzi aerei. Dei 131 F35 si è discusso e polemizzato ampiamente in queste settimane. Meno si è discusso su altri programmi. Come lo Sviluppo Velivolo Joint Strike Fighter (Jsf), 468,6 milioni di euro. Si tratta di un programma in cooperazione con Usa, Regno Unito, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia, Turchia. Per la fase di sviluppo (Sdd) l’investimento complessivo è di circa 1.028 milioni di dollari. Completamento previsto: 2012; per il programma relativo allo sviluppo, industrializzazione e supporto alla produzione (Psdf), la spesa prevista è di circa 900 milioni di dollari. Completamente previsto: 2047.
Altro capitolo preponderante è quello relativo a Eurofighter: programma, in cooperazione con Germania, Regno Unito e Spagna, relativo allo sviluppo e all’acquisizione di velivoli per la difesa aerea, con compito primario di contrasto delle forze aeree avversarie e con capacità secondaria di svolgere missioni di attacco al suolo. Oneri globali pari a circa 18.100 milioni di euro.
«Alcuni di questi progetti oltre a rappresentare una spesa onerosa, sono velleitari»: a sostenerlo, in una recente intervista a l’Unità, è il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo. Il rapporto dell’Archivio Disarmo conforta questa valutazione. Il dibattito è aperto. Le scelte irrinviabili.
l’Unità 12.1.12
La crisi del ’29 e quella di oggi
Nessun punto di contatto fra i due periodi di instabilità finanziaria. Dalle pagine di Antonio Gramsci ci viene una lezione: non si può valutare una difficile situazione economica fuori dal suo contesto
di Giuseppe Vacca
Nel febbraio del 1933 Antonio Gramsci scrisse un commento alla crisi mondiale del 1929-1932 che inviterei a rileggere. È il paragrafo 5 del Quaderno 15, intitolato Passato e presente. La crisi, e potrebbe essere un utile punto di riferimento nella discussione attuale su quella che comunemente si definisce una «crisi finanziaria», cominciata negli Stati Uniti nel 2007 e divenuta progressivamente una crisi economica globale. Mi limito a riprendere alcuni spunti dello scritto di Gramsci che mi sembrano particolarmente fecondi.
Vorrei innanzitutto osservare che quando ci si trova in presenza di una crisi economica di proporzioni mondiali è erroneo e fuorviante isolarne un aspetto o cercarne una causa sola; si deve invece ricostruire un intero periodo storico nel quale le manifestazioni economiche della crisi, che variano nel tempo e si differenziano da Paese a Paese, possano essere spiegate in modo utile a risolverla. In altre parole, è necessario non isolare gli aspetti puramente economici del fenomeno se non per comodità analitica, purché vengano inquadrati in una ricostruzione storica complessiva nella quale si possano individuare gli attori e le strategie necessarie a creare nuovi equilibri e stabilità.
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individuava l’origine nel contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, e perciò proponeva di iscrivere il quadriennio in un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla inettitudine delle classi dirigenti a risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più compiutamente mondiale. Dal 2007 i paragoni fra la crisi attuale e quella del 1929 ricorrono di frequente, ma sono quasi sempre impropri e superficiali, poiché si coniugano con spiegazioni della crisi odierna riassunte in slogan del tipo «la globalizzazione della finanza espropria la politica», oppure con la denuncia dell’enorme crescita delle disuguaglianze redistributive come causa degli squilibri dell’economia mondiale o, infine, con l’accusa alla «speculazione» di creare le crisi dei debiti sovrani. Ma, per fare solo un esempio, come si fa a spiegare con uno o l’altro di quei concetti l’esplosione dei debiti sovrani in Europa quando è del tutto evidente che l’apprezzamento o la svalutazione dell’euro, per non dire dello spread fra i titoli del debito tedesco e quelli del debito di altri Paesi europei, dipendono dalla politica del governo germanico? Rileggere lo scritto di Gramsci può servire, quindi, ad attivare qualche difesa immunitaria contro quelle narrazioni o quanto meno a eliminare gli aspetti contraddittori di ricostruzioni più articolate, in cui però può capitare di ascoltare nello stesso discorso un racconto puntuale del modo unilaterale e aggressivo in cui la Germania ha esercitato la sua leadership nell’Europa dell’euro fino a determinarne la crisi, e spiegazioni della crisi complessiva fondate su un presunto, fatale predominio dell’economia sulla politica.
C’è stato un breve periodo, durante il 2010, in cui le vicende dell’economia mondiale venivano raccontate dai media come guerra delle monete. Anche questa era una interpretazione inadeguata, ma almeno sollecitava le menti a domandarsi: quando è cominciata «la guerra»? chi fa la guerra a chi? E come se ne può uscire? Insomma, era un modo di raccontare le vicende più vicino a una narrazione storica e quindi al senso comune dei cittadini, che vorrebbero essere aiutati a trovare delle spiegazioni plausibili e a individuare delle responsabilità, e non sentirsi oppressi dall’impotenza dinanzi a fantasmi indecifrabili come «l’economia che espropria la politica», la «speculazione internazionale» che minaccia la sovranità degli Stati, e simili. Ma quel periodo è finito proprio quando quell’approccio avrebbe dovuto essere affinato per investigare la crisi dell’euro.
Se il contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica squassava il mondo già nella prima metà del 900, esso appare ancora più acuto nel periodo attuale, in cui la globalizzazione dell’economia è più estesa, le classi dirigenti imputabili di nazionalismo sono ben più numerose e al tempo stesso sono inclini a un «neomercantilismo continentale» piuttosto che al nazionalismo politico o economico tradizionale.
La chiave di lettura dei loro comportamenti potrebbe quindi ricavarsi dalla ricostruzione dei loro successi e dei loro fallimenti nel governare le interdipendenze e le asimmetrie di potenza che caratterizzano la struttura del mondo da 40 anni. Non mi pare proponibile, invece, il paragone fra la crisi odierna e quella del ’29 sotto altri aspetti. Innanzi tutto, i Paesi protagonisti del conflitto economico mondiale di allora potevano ricorrere alla guerra mentre, per il bene dell’umanità, questa possibilità sembra oggi preclusa. D’altro canto, il numero maggiore dei partner dell’economia mondiale odierna rende ancora più imprevedibili la durata della crisi e il raggiungimento di accordi che generino un nuovo equilibrio come fu quello dei tre decenni successivi alla II Guerra mondiale.
In secondo luogo, un anno dopo aver scritto quel testo Gramsci mise ordine fra le note dedicate all’«americanismo» e individuò nel taylorismo e nel fordismo le leve di un nuovo industrialismo, che avrebbe potuto espandersi mondialmente e sovvertire le strutture antiquate della vecchia Europa. Poteva indicare, così, un nuovo modello di organizzazione delle masse e dell’economia che, diffondendosi nel mondo più sviluppato, avrebbe modificato e reso più controllabile quella contraddizione, con effetti incredibilmente progressivi. Non mi pare che nella crisi attuale si possa ravvisare nulla di paragonabile a cui appellarsi. Appare molto più plausibile, invece, il raffronto con un altro aspetto dell’analisi gramsciana: la stabilità monetaria internazionale come risorsa anticiclica dell’economia mondiale. È l’elemento oggi evocato da quanti auspicano «una nuova Bretton Woods». Naturalmente una moneta o un paniere di monete di riserva negoziato a livello mondiale non potrebbe coincidere con nessuna moneta nazionale e anche questo non consente di prevedere se e quando si potrà raggiungere l’obiettivo.
In conclusione vorrei osservare che le economie nord-atlantiche costituiscono nel loro insieme il più grande aggregato di risorse che potrebbero essere messe a disposizione di un nuovo ordine mondiale. Ma non si vede come potranno concorrere a creare nuovi equilibri e una nuova stabilità senza superare preliminarmente il dualismo fra euro e dollaro, il cui antagonismo è forse la vera causa delle crisi parallele, americana e europea, dell’ultimo decennio.
La Stampa 12.1.12
Intervista
“Rivoluzione Facebook? No, ha vinto la piazza”
Asma, attivista tunisina: non tradite la primavera araba
di Marco Bresolin
TORINO E smettetela di dire che la primavera araba è stata la rivoluzione dei social network. È stata la rivoluzione della piazza, dei martiri. Facebook e Twitter sono stati solo dei mezzi di comunicazione, proprio come lo erano il telefono o le lettere nei decenni scorsi». Asma Heidi Nairi, 23 anni, attivista di Amnesty International e protagonista della «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia, scuote la testa quando sente parlare di «movimenti che hanno trovato una spinta nella Rete». A un anno esatto dalle sommosse popolari, che hanno causato la caduta di Ben Ali, la studentessa tunisina è oggi a Torino per l’incontro «Primavera araba, un anno dopo», in programma alle 18 al centro conferenze Campus Onu, a cui interverranno anche il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi, e Domenico Quirico, inviato del nostro quotidiano.
Cosa resta oggi della rivoluzione tunisina?
«Una totale libertà d’espressione. Abbiamo finalmente ritrovato l’ossigeno, anche se la libertà d’informazione nel nostro Paese ora è in una situazione paradossale. Quasi tutti i gruppi che controllano i grandi media sono di sinistra, di opposizione. E pur di contraddire il governo ci bombardano ogni giorno con notizie false. Meno male che abbiamo Internet e i canali televisivi stranieri che smascherano tutte queste bugie».
Internet è stato il simbolo della vostra rivoluzione, un mezzo...
«Un mezzo, punto e basta. La rivoluzione l’abbiamo fatta andando in strada, mica stando davanti al pc. Purtroppo in Occidente c’è questa convinzione, perché voi la nostra rivoluzione che non è stata raccontata dai media tunisini l’avete vissuta solo grazie alla Rete. Ma per noi non è stato così».
La dittatura di Ben Ali, però, è intervenuta censurando il web.
«Chiaro, hanno cercato in ogni modo di zittirci. Per esempio entrando nelle nostre caselle di posta elettronica. La mia è stata bloccata più volte e ho perso centinaia di contatti. E se nelle nostre mail c’erano critiche al governo, il destinatario spesso riceveva messaggi criptati, con foto pornografiche o addirittura con annunci di automobili... Ma la censura non era solo nella Rete: per noi di Amnesty era impossibile riuscire a trovare un hotel che ci affittasse una sala per le nostre riunioni».
Qual è la situazione dei diritti delle donne, ora, in Tunisia?
«Esattamente come prima. Da noi la parità c’è sempre stata e Ben Ali usava proprio questa parità come arma per dire: “visto che siamo un Paese libero? ”. Le donne tunisine, nel mondo arabo, sono da sempre considerate le più emancipate. Tanto che si dice: “Non sposare mai una tunisina”... ».
Crede che la rivoluzione dei gelsomini sia stata determinante anche per far cadere le altre dittature, come ad esempio quelle in Libia o in Egitto?
«Certamente. Nel mondo arabo c’è una forte solidarietà e se succede qualcosa in un Paese anche gli altri si sentono toccati. Inoltre Ben Ali era considerato il più forte e così gli egiziani, piuttosto che i libici, hanno detto: “se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi”. Ma credo che la stessa spinta sia arrivata anche molto più lontano, basta vedere gli indignati in Spagna o a Wall Street».
L’Italia è una delle mete dei migranti tunisini: cosa è cambiato dopo la caduta di Ben Ali?
«Sono cambiate le destinazioni. Ora molti tunisini preferiscono andare in Libia, in Qatar oppure a Dubai. Anche perché ci si sente molto meno discriminati. Ci si sente più sicuri in tema di diritti dell’uomo».
Religione e politica spesso si saldano nei Paesi arabi, anche ora che le dittature sono crollate. Quanto la seconda deve essere influenzata dalla prima?
«La mia risposta è una domanda: in Italia sono consentiti i matrimoni omosessuali? ».
Corriere della Sera 12.1.12
Sinistra. Insegnamento anche per il presente nel volume curato da Acquaviva e Gervasoni
Il duello che nessuno vinse
Così fallirono i disegni contrapposti di Craxi e Berlinguer
di Michele Salvati
«Perché l'Italia fu teatro di un lungo, acceso e spesso aspro "duello a sinistra"?... Perché questa lotta politica ebbe l'esito infausto che conosciamo, che nel 1992-94 si espresse nella morte del Psi e nell'involuzione dell'esperienza del Pci?... Quali conseguenze ebbe questo esito traumatico nel favorire il crollo della "Repubblica dei partiti"?». Non si tratta di «questioni archeologiche», sostiene Gennaro Acquaviva nella nota introduttiva da cui ho tratto la citazione. Ha ragione: ora che (forse) siamo all'epilogo della Seconda Repubblica, è illuminante riflettere sull'epilogo della Prima: due sistemi politici all'apparenza molto diversi, l'uno il frutto della crisi dell'altro, ma entrambi incapaci di assicurare all'Italia un buon governo ed entrambi conclusi da una grave crisi politica ed economica. Così grave da richiedere governi «tecnici», Ciampi e Dini nel 1993-95, Monti oggi.
La raccolta di saggi Socialisti e comunisti negli anni di Craxi (Marsilio, pagine 398, 29), curata da Acquaviva e da Marco Gervasoni, si riferisce alla fase finale della Prima Repubblica, alla sua crisi, e in particolare ai rapporti tra due dei suoi tre grandi protagonisti: socialisti e comunisti. Trattandosi di lavori seri, i vizi originari del sistema politico che si formò in Italia nel dopoguerra sono però sempre presenti. Ed è sempre presente il terzo grande protagonista, la Democrazia cristiana: se non direttamente, lo è attraverso i riflessi sugli altri due. E l'aver fissato l'attenzione sui difficili rapporti tra Psi e Pci ha il grande merito di concentrarsi sul nucleo centrale dell'anomalia italiana, al quale va fatto risalire il cattivo governo del nostro Paese nei lunghi trent'anni del centrosinistra: il predominio del Partito comunista nella sinistra e di conseguenza — nelle condizioni internazionali di allora — la conventio ad excludendum e l'impossibilità di alternanza. Conseguenza di questa conseguenza: quando la Dc e i partiti laici minori non furono più in grado di ottenere la maggioranza e un tentativo di riforma elettorale maggioritaria non andò a buon fine («legge truffa», 1953), l'alleanza tra Dc e Psi, il centrosinistra, divenne inevitabile. E fu inevitabile un cattivo governo, composto da partiti costretti a stare insieme ma con orientamenti e interessi profondamente diversi, tallonati da un partito escluso ma forte nella società e nelle istituzioni, radicato nel movimento sindacale. L'eccezionale inflazione degli anni Settanta e Ottanta e l'accumulazione del debito pubblico che ancora ci portiamo appresso — due indicatori importanti di cattivo governo economico — si manifestano proprio con il centrosinistra.
Questo è lo scheletro della storia. I nervi e i muscoli, i diversi aspetti del «duello a sinistra», sono analizzati in modo illuminante da tredici saggi di storici seri — di prevalente orientamento socialista, ma capaci di tener distinte le loro inclinazioni ideologiche dal mestiere di studioso — e sono arricchiti da tre gruppi di testimonianze di politici socialisti e comunisti di allora. Impossibile dare un'idea di 480 dense pagine in una breve recensione: la semplice indicazione dei nomi degli autori e degli argomenti trattati porterebbe via troppo spazio. Mi limito allora al saggio di Marc Lazar, non perché sia migliore di altri, ma perché la sua analisi comparata dei rapporti tra socialisti e comunisti in Italia e in Francia lo porta più vicino allo scheletro della nostra storia. Anche in Francia i comunisti emersero dalla Seconda guerra mondiale più forti dei socialisti e così restarono — anche se la sproporzione era minore che in Italia — per tutta la Quarta Repubblica e ben oltre l'inizio della Quinta. Che cosa determinò l'inversione dei rapporti di forza, l'accesso della sinistra al governo con un'alleanza Pcf-Ps a predominio socialista (Mitterrand, 1981) e poi il rapido declino dei comunisti?
Tanti sono i fattori finemente analizzati da Lazar e mi limito a sottolineare i tre che mi sembrano più importanti: le riforme costituzionali di de Gaulle, abilmente usate contro le intenzioni di chi le aveva proposte; l'attenzione di Mitterrand verso i comunisti — non un «duello a sinistra» — in vista di una possibile alleanza contro i «partiti borghesi» (e si trattava di una attenzione credibile, perché praticata da un partito, il Ps, che con i partiti borghesi non aveva contratto un accordo organico di centrosinistra, come invece aveva fatto il Psi); la maggiore libertà d'azione della sinistra in un Paese vincitore della guerra, cui gli americani non potevano imporre una conventio ad excludendum. Al di là dei diversi caratteri personali, queste erano le condizioni — insieme alla maggior forza del Pci rispetto al Pcf — che impedirono a Craxi di diventare il Mitterrand italiano.
Anche se sono frequenti, in saggi scritti nel 2010, i riferimenti successivi alla crisi politica del 1992-94, e dunque all'esperienza della Seconda Repubblica, nella sostanza i contributi di questo libro si attengono al tema che era stato loro proposto: il «duello a sinistra» tra socialisti e comunisti nella sua fase finale, nella crisi della Prima Repubblica. Non affrontano dunque il problema politico che li rende interessanti, «non archeologici», per un lettore di oggi.
Comunisti e socialisti non ci sono più, almeno come grandi forze politiche; prima l'alternanza non era possibile e oggi lo è; nella Prima Repubblica il sistema elettorale era proporzionale e ora è maggioritario: a queste differenze viene spesso attribuita la responsabilità del cattivo governo che condusse alla crisi e alla necessità di governi tecnici tra il 1993 e il 1996. Come mai, allora, ci troviamo oggi nella stessa situazione? La domanda è urgente, se ci preoccupiamo di che cosa accadrà dopo il governo Monti: ricadremo ancora in un cattivo governo «politico»? A questa domanda il nostro libro non può rispondere, ma fornisce buoni materiali per riflettere e soprattutto per escludere risposte superficiali.
Repubblica 12.1.12
Il teorema di Gramsci
Se gli esperti di politica non applicano il buon senso
Il clima d’opinione generale oggi più di ieri deve fare i conti con le mediazioni locali e micro-sociali, utili a capire fenomeni più ampi
Bisogna esplorare in profondità i luoghi dove le istituzioni, la democrazia, i partiti trovano le basi della loro legittimazione
di Ilvo Diamanti
La dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla, non possono non sollevare dubbi sull´adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello "macro" mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici.
Tuttavia, è difficile considerare "dipendenti" le variabili che attengono ai fenomeni locali e micro-sociali – perché e in quanto tali. Il "clima d´opinione", in particolare, non può essere considerato "solo" il prodotto della comunicazione progettata e dispiegata dalle istituzioni, dai poteri, dai media a livello centrale. I messaggi che definiscono l´Opinione Pubblica, oggi ancor più di ieri, sono infatti mediati dai "micro-climi d´opinione". Intendo sottolineare, in questo modo, come il "clima d´opinione generale" debba fare i conti con le "mediazioni" locali e micro-sociali. Con mentalità e leader d´opinione che reinterpretano i messaggi generali. Li traducono e li trasmettono attraverso le reti sociali e personali che costellano il territorio, attribuendo loro un significato diverso e, talora, opposto rispetto alle intenzioni di chi li ha lanciati. Secondo un´eterogenesi dei fini che genera effetti non previsti e non desiderati dai protagonisti. (...)
Oggi stesso, d´altronde, nelle aree a forte presenza elettorale leghista, e quindi nelle province del Nord, gli elettori e i simpatizzanti del Carroccio sembrano convinti che la Lega, nonostante sia alleata di Berlusconi e al governo insieme a lui da un decennio (con la breve parentesi del governo Prodi), in effetti stia all´opposizione. La percepiscono come un Sindacato del Nord, impegnato a Roma a difendere gli interessi padani. A "portare a casa" il federalismo. Contro tutti. A ogni costo.
Per cui ogni responsabilità dei problemi economici e sociali che, in questa fase, preoccupano il Paese, ogni mancata riforma, ogni spiacevole conseguenza delle politiche pubbliche, da molti settori della popolazione del Nord (e non solo), viene spiegata rivolgendo gli occhi altrove. Anche quando i motivi di insoddisfazione coinvolgono il governo, gli elettori leghisti non si sentono coinvolti. Preferiscono spostare all´esterno la loro frustrazione. E talora ciò avviene anche tra gli elettori del centrodestra, in generale.
Racconto, a titolo di esempio "pop", un fatto capitato qualche tempo fa, che mi è stato raccontato da una testimone privilegiata, ai miei occhi credibile e attendibile. Mia suocera. Recatasi al supermercato vicino a casa nostra, in fila davanti alle casse si trovò accanto a una "vecchina" (così la definì mia suocera, che, peraltro, ha ottant´anni). Intenta a guardare il carrello, quasi vuoto, l´anziana signora si lamentava. Perché il carrello ogni mese era sempre più vuoto, visto che la pensione le permetteva un potere d´acquisto sempre più ridotto. Ce l´aveva con i politici, responsabili della sua condizione. Ce l´aveva soprattutto con il governo, per definizione primo e diretto "colpevole" dei suoi problemi personali di bilancio. E inveiva apertamente, neppure in modo troppo silenzioso. Tanto che al colmo della rabbia esplose in un´invettiva contro quel «p… di Prodi». Il principale colpevole. Sempre lui. Anche se da anni governava Berlusconi. E Prodi, ormai, non faceva (e non fa) più politica attiva. Ma il "senso comune" le impediva di accettare e riconoscere la realtà. Di mettere in discussione le sue convinzioni, le sue certezze. Più e prima che "politiche": "personali". Incardinate nella sua visione del mondo e della vita. Condivise con la sua cerchia di relazioni quotidiane. (...)
È dunque difficile capire quel che succede nella politica senza tenere conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio. Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso. Assecondando la convinzione – superstizione? – che la comunicazione mediatica e in particolare la televisione risolvano tutto. Che i media, gli attori politici, in tempi di campagna permanente, possano manipolare ad arte e a loro piacimento il "consenso" dei cittadini. Al più, possono contribuire a cogliere e a plasmare il "senso comune", come suggerisce la teoria della "spirale del silenzio" di Elisabeth Noelle-Neumann. Secondo cui gli individui cercano approvazione e conferma da parte degli altri, nei loro luoghi di vita. In quanto temono, soprattutto, di essere stigmatizzati se si pongono in contrasto con le opinioni che ritengono prevalenti. Per usare una categoria già richiamata in precedenza (e formulata proprio dalla Noelle-Neumann), esiste un esteso conformismo sociale, condizionato dal "clima d´opinione" dominante, che induce al silenzio coloro che si percepiscano minoranza. Ciò riguarda soprattutto (ma non solo) gli elettori "marginali", definiti così perché stanno ai margini della scena politica e non hanno convinzioni forti. Temono, tuttavia, di sentirsi isolati e "perdenti" e, per questo, cercano di cogliere il pensiero della maggioranza.
Dispongono, a questo fine, di una «competenza quasistatistica» (come la chiama ancora la Noelle-Neumann) che esercitano nel rapporto con l´ambiente sociale ma, soprattutto, attraverso l´esposizione ai media. I quali diventano doppiamente influenti nel formare il "clima d´opinione". Da una parte, perché gli individui-spettatori attingono da essi informazioni e giudizi che vengono poi dati per scontati, diventano "reali" proprio perché legittimati dai media. Dall´altra parte, perché i media (soprattutto la televisione) condizionano le opinioni dell´ambiente sociale, dei gruppi e delle reti di relazioni in cui gli individui sono inseriti. E a cui gli individui chiedono conferma e rassicurazione. Da ciò il "silenzio" di quanti, per non sentirsi esclusi, preferiscono non sfidare il "senso comune".
In fondo, qualcosa di simile l´aveva (de) scritto, qualche tempo fa, Antonio Gramsci. Il quale distingueva tra "buon senso" e "senso comune". E citava, a questo fine, Alessandro Manzoni. Il quale nei Promessi sposi annotava che al tempo della peste «c´era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione, contro l´opinione volgare diffusa». Perché, aggiungeva Manzoni, «il buon senso c´era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Un ragionamento che, senza voler apparire irriguardosi, potremmo applicare anche a noi stessi. Alla comunità scientifica di cui facciamo parte. Il "buon senso", cioè, ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e micro-sociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri orientamenti metodologici. Ma il "senso comune" della comunità scientifica e degli specialisti, che con Kuhn potremmo definire "paradigma dominante" (in tempi di "scienza normale"), ci induce a far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall´alto e di lontano.
Repubblica 12.1.12
Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale
di Stefano Rodotà
Il blitz di Cortina e la campagna per gli scontrini mostrano come la battaglia sul fisco stia diventando politica, contro le disuguaglianze e per l´equità
Una questione capitale che sembra destinata a sconvolgere equilibri colpire interessi consolidati e mettere fine ad antiche compiacenze
Siamo alla radice dell´obbligazione sociale: se "tutti" non significa veramente "tutti", allora il legame di solidarietà viene infranto
Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare "i comportamenti individuali e collettivi".
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i "pericoli" e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate "marce contro il fisco". Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può "evadere".
Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui "tutti" non significa davvero "tutti", e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di "seguire l´impiego" dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.
Repubblica 12.1.12
A Londra aliquote basse e Stato inflessibile
L’altra faccia del diritto
di John Lloyd
Il fatto che contribuire equivalga a godere della democrazia forse spiega la percentuale relativamente bassa di persone che tenta di sfuggire all´imposizione Ma negli ultimi anni questo numero è in aumento
L’evasione fiscale continuava a essere assai diffusa, soprattutto fra i lavoratori autonomi
Il miracolo economico aveva reso più evidenti i fenomeni di evasione fiscale
Razza padrona... cesellatori dell´evasione fiscale, surfers dello off shore
Al cuore della vita nazionale e civile c´è il diritto che un governo ha di imporre tasse. Sin dai primordi della vita in Gran Bretagna tale diritto è stato messo in rapporto con la democrazia: nella Magna Charta – l´importante documento dettato al debole re Giovanni nel 1215 dai potenti baroni – il re approvò che le tasse non sarebbero state imposte "fuorché da una decisione comune del nostro regno", prima forma di richiesta di voto sulle tasse che un re potesse esigere.
Quello, indubbiamente, fu un primo piccolo passo avanti, ma la richiesta dei baroni di fatto esprimeva un nuovo principio: tutte le persone fuorché il sovrano avevano tanto diritti quanto doveri. L´idea di uno stato più grande di colui che governa fu poi espressa compiutamente per la prima volta da Niccolò Machiavelli, ma ad anticiparla in un certo senso furono i baroni inglesi e tale criterio entrò a far parte delle consuetudini a mano a mano che il parlamento divenne più potente.
L´importanza che la regolamentazione fiscale ha assunto nella storia britannica e il fatto che equivalga all´avere diritti civili spiegano la percentuale relativamente bassa di evasione fiscale. Percentuale relativamente bassa di evasione non significa necessariamente che essa sia bassa in assoluto: da varie stime si calcola che l´elusione fiscale (lecita) e l´evasione fiscale (illecita) costino al Tesoro fino a 40 miliardi di sterline l´anno. Tale cifra è in ogni caso di gran lunga inferiore agli stimati 275 miliardi di euro che vanno persi nell´economia sommersa italiana, in buona parte per evasione fiscale, ed è ancor più inferiore agli stimati 500 miliardi di euro che gli italiani custodiscono all´estero e non dichiarano come facenti parte dei loro beni.
Come si spiega questo fenomeno? Prima di tutto c´è il presupposto che nel Regno Unito le tasse debbano essere pagate sic et simpliciter – retaggio in parte storico, in parte dovuto al timore che si ha del fisco, particolarmente severo nei confronti di chi prova a evadere. Le autorità del fisco britannico non danno per scontato – come spesso affermano quelle italiane o i politici italiani stessi – che sia impossibile prendere chi evade le tasse o assicurare alla giustizia quel gran numero di imprenditori, lavoratori autonomi e in proprio che dichiarano redditi di gran lunga inferiori a quelli reali.
In secondo luogo la forma più comune di tassazione, quella sui redditi, è relativamente bassa e benché il governo abbia alzato la percentuale massima per i più abbienti portandola al 50 per cento, ha anche detto che la ridurrà quanto prima possibile.
In ogni caso, però, l´elusione e l´evasione fiscale sono aumentate nel Regno Unito, sia da parte delle aziende sia dei singoli cittadini. Le piccole aziende ormai chiedono sistematicamente pagamenti in contanti così da poter evitare di dichiararli come introito, e le società – soprattutto del settore finanziario – reclutano intere squadre di consulenti fiscali il cui unico compito è quello di spostare i capitali verso attività e giurisdizioni dall´imposizione fiscale più bassa possibile. Come in Italia, anche l´attuale coalizione di governo in Gran Bretagna ha dichiarato guerra agli "evasori fiscali", ben sapendo che il fardello dell´evasione ricade su coloro che sono ligi al pagamento delle tasse. Il principio dell´obbligatorietà democratica di pagare le tasse è andato scomparendo: sia David Cameron sia Mario Monti credono di poterlo riaffermare, ma il primo ministro italiano farà più fatica.
Traduzione di Anna Bissanti
Repubblica 12.1.12
Contribuenti infedeli dall’impero romano a oggiLe rivolte e i furbetti
di Giorgio Ruffolo
Francesi e britannici reagirono in modo diverso alle imposte eccessive dovute alle guerre e alle imprese coloniali. Gli uni con la rivoluzione, gli altri con un duro confronto politico tra Comuni e sovrano
Secondo una ricerca americana si possono contare oltre duecento famose rivolte fiscali nella storia dell´era cristiana, dal primo secolo ad oggi: da quelle legate ai grandi movimenti popolari di lotta per la libertà – le grandi rivoluzioni americana francese russa – alle ribellioni popolari contro la tassa sul whiskey negli Stati Uniti o all´insurrezione provocata dalla bella Lady Godiva a Coventry nel 1067 contro il marito che aveva inflitto alla popolazione una tassa intollerabile, fino al punto di sfidarlo cavalcando nuda per la città.
Altre però sono le rivolte popolari contro l´oppressione fiscale, altri i fenomeni di evasione fiscale. Le prime sono condotte in nome della giustizia e della solidarietà, gli altri attraverso il privilegio e la diserzione. Tre sono le principali caratteristiche dell´evasione fiscale: l´indifferenza, la differenza, la privatezza. Indifferenza verso la solidarietà sociale; differenza proclamata o praticata verso concittadini di altri luoghi o altri credi; privatezza, chiusura dei rapporti di solidarietà entro l´ambito familistico.
Può senz´altro contribuire ad alimentare questi sentimenti una eccessiva pressione fiscale. È il caso, nell´antichità, della persecuzione dei cittadini romani oppressi dal fisco nella tarda età imperiale: intollerabile fino al punto da indurli a rifugiarsi nelle terre dei barbari, Ma, in primo luogo, l´evasione si manifesta anche in presenza di regimi fiscali ragionevoli. Inoltre, la reazione sociale ad una pressione fiscale pesante è diversa secondo il contesto sociale. Ad esempio, all´inizio dell´età moderna, la pressione fiscale delle grandi monarchie europee divenne particolarmente invadente: in Francia a causa delle continue guerre provocate dall´irresponsabile aggressività di Luigi XIV che esigeva un massiccio finanziamento degli eserciti. In Inghilterra a causa delle conquiste coloniali, che comportavano l´onere di una grande flotta. Il peso rispettivo delle imposte nei due paesi era grosso modo equivalente. Ma la reazione politica fu diversa. In Francia, la borghesia reagì con una contestazione sempre più accanita, che sfociò poco più tardi nella rivoluzione. In Inghilterra in una contrapposizione certo energica tra i Comuni e la Corte, che tuttavia non giunse, se non in un breve periodo, a pregiudicare l´unità politica del paese. La diversa reazione si deve al diverso grado di coesione sociale.
Quello dell´Italia, è il caso di un paese nel quale, a differenza della Francia e dell´Inghilterra, la nazione non si è consolidata nella forma dello Stato nazionale moderno, ma in quella di un conglomerato di Stati regionali prosperi per ricchezza, smaglianti per cultura, ma militarmente e politicamente fragili. L´Italia ha pagato la sua secolare egemonia con una secolare servitù che ha fiaccato il nerbo della coscienza civile e ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Ora, è proprio sulla coscienza civile e nazionale che si fonda in ultima analisi il rispetto dello Stato e la solidarietà dei cittadini, entrambe gravemente carenti nel nostro paese. La particolare gravità dell´evasione fiscale, di dieci punti superiore, ancora oggi, a quella della media europea, testimonia di questa inferiorità sociale e morale. Di cui è espressione eloquente il benign neglect verso l´evasione fiscale di un recente Presidente del Consiglio che in nessun altro paese moderno avrebbe potuto manifestarlo.
Per consolarsi in qualche modo si può ricordare che al momento dell´unificazione, centocinquanta anni fa, non pagavano le tasse la metà degli italiani. Sono stati ridotti a 25 per cento cinquanta anni fa e a 17 per cento oggi. Il tempo, almeno quello, è galantuomo.
Repubblica 12.1.12
Dalla matematica alla fisica le formule per capire il mondo
Da domani con "Repubblica" una nuova collana di libri a un euro. Venti volumi con lezioni d’autore e testi scelti
di Piergiorgio Odifreddi
Perché fare una serie di libretti sulla scienza? Si potrebbe rispondere, semplicemente, cosa disse l´alpinista George Mallory al giornalista che gli domandava perché mai volesse scalare l´Everest: «Perché c´è». Naturalmente, si tratta di evitare di fare la sua stessa fine, rimanendo stecchiti e congelati sulle vette del pensiero.
Che anche la scienza ci sia, è un fatto. Se non ci fosse, non ci sarebbe neppure la tecnologia che su di essa si basa, e la nostra vita sarebbe sicuramente molto diversa: niente auto, aerei, telefonini, televisioni, computer, frigoriferi, cibi conservati, medicine… Torneremmo al medioevo, e per molti di noi non sarebbe una bella prospettiva.
Anzi, per tutti. Perché anche coloro che credono che il mondo sia popolato e influenzato da spiriti, quando si muovono da una città all´altra, mica ci vanno volando a cavallo di una scopa. E quelli che credono che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni, quando si ammalano, magari pregano o fanno gli scongiuri, ma corrono pure loro dal medico o in ospedale, a fare esami e farsi prescrivere medicine.
Dunque, semmai ci sarebbe da domandarsi perché così tardi una serie di libretti sulla scienza. Comunque sia, meglio tardi che mai. E il problema è diventato come farla, questa serie. Un bel problema, perché si trattava di comprimere millenni di una storia intensissima e bellissima, in soli venti libretti.
La scelta è stata di concentrarsi sui grandi nomi: quelli noti a tutti, anche se quasi nessuno sa bene perché. Abbiamo dunque deciso di raccontare le storie, personali e professionali, di coloro che hanno forgiato le nostre vite intellettuali e influenzato le nostre vite materiali: Pitagora, Archimede, Copernico, Galileo, Newton, Darwin, Maxwell, Mendeleev, Pasteur, Einstein, Planck…
E abbiamo fatto raccontare le loro storie agli "espositori" italiani più noti. Quegli scienziati, cioè, che sono generosamente usciti dal castello d´avorio della ricerca, per avvicinare il grande pubblico alla scienza. Quelli che scrivono sulle pagine culturali, che pubblicano libri divulgativi, che fanno conferenze popolari. Insomma, quelli che già facevano ciò che abbiamo loro chiesto di fare, e che i lettori già conoscono.
Ma la scienza non è un museo egizio o un obitorio, popolato solo di mummie o di cadaveri da sezionare. È fatta da scienziati tra i quali abbiamo reclutato alcuni dei grandi nomi del presente: quattro premi Nobel (Watson per la medicina, Kroto per la chimica, Glashow per la fisica, Nash per l´economia), una medaglia Fields (Witten), e il matematico più famoso del mondo (Wiles). E abbiamo chiesto loro di raccontare le proprie scoperte: la doppia elica del Dna, la molecola a forma di pallone da calcio, l´unificazione elettrodebole, la teoria dei giochi, la teoria delle stringhe, la dimostrazione del teorema di Fermat.
Per noi è stato un privilegio collaborare con tutti gli espositori. Ora ci auguriamo che sia un piacere per il pubblico leggerli.
il Riformista 12.1.12
Israele ricorda alle altre nazioni che nessuno è autoctono
Donatella Di Cesare nel suo “Se Auschwitz è nulla”, ricostruisce le tesi negazioniste e le loro ripercussioni sulla storia recente
di Corrado Ocone
Il negazionismo, la tesi che tende appunto a negare o semplicemente a ridimensionare il fenomeno dello sterminio in massa nelle camere a gas degli ebrei da parte dei nazisti, non può essere giudicato e condannato sul terreno meramente storiografico, come finora per lo più si è fatto. Non si tratta infatti di una tesi storica, per quanto aberrante, ma di un progetto politico. Lo stesso che mosse i nazisti nella loro opera di “purificazione” antisemita. Fra quell’annientamento e questa negazione c’è un sottile filo rosso. E i primi negazionisti sono stati proprio i nazisti. È questa la tesi forte di un pamphlet appassionato, informato e limpido nella scrittura che esce oggi per i tipi de Il Melangolo: Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (pagine 127, euro 8).
Autore è Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, già allieva prediletta di Gadamer a Heidelberg e ora vicepresidente della Heidegger Gesellschaft: «Himmler affermadisse agli ufficiali delle SS che la “gloriosa” pagina di storia, che stavano per scrivere, era una pagina che non era mai stata scritta e che non sarebbe mai stata scritta».
Il volumetto si legge con intensità ed è pieno di notizie e fatti, spesso non conosciuti ai molti, sulla Shoah. Contiene anche una ricostruzione delle tesi negazioniste, da quelle più sfacciate a quelle più mascherate da intenti scientifici e quindi più pericolose (la critica delle tesi di Nolte è da questo punto di vista illuminante e calzante). Le stesse odierne farneticazioni di un Ahmadinejad vengono ricondotte dall’autrice ad un filone, poco esplo-
rato, di promozione e diffusione del nazismo nei paesi musulmani iniziato addirittura nel 1939 quando il Terzo Reich sponsorizzò la traduzione in arabo del Mein Kampf di Hitler e dei falsi Protocolli dei Savi di Sion (la vicenda è ricostruita in Propaganda nazista nel mondo arabo di Herf Jeffrey, che esce in questi giorni in traduzione italiana per le edizioni dell’Altana, pagine 464, euro 19).
Il fatto tuttavia che il libro sia stato scritto da una filosofa presenta sicuramente un valore aggiunto perché evita di cadere in alcuni tranelli teorici che, se sviluppati logicamente, potrebbero mettere in crisi la memoria condivisa dello sterminio. La stessa celebre espressione di Adorno sulla impossibilità di pensare dopo Auschwitz, e quindi sulla sua “singolarità” o “unicità”, va concepita, secondo la Di Cesare, non come un vuoto che si sarebbe creato nel processo storico ma proprio come la reiterazione sempre possibile nel futuro di un evento che non può dirsi mai appartenente solo al passato. Sottrarre alla comprensione storica lo sterminio potrebbe cioè causare proprio l’effetto della non comprensione delle dinamiche sempre in atto che hanno permesso di realizzarlo. L’autrice ci mette poi in guardia anche su un altro argomento capzioso molto in voga, soprattutto a sinistra: la distinzione fra antisionismo e antisemitismo, con la connessa messa in discussione della legittimità storica e democratica dello Stato di Israele in quanto lesivo dei diritti del popolo autoctono. A parte il fatto che gli insediamenti ebraici in quello che è oggi Israele erano già numerosi prima della Shoah, «si possono sfidare tutti i popoli a provare il loro diritto. Nessuno è autoctono». La conclusione è che «Israele irrita la sovrana autocoscienza delle nazioni ricordando a sé e agli altri che sulla terra siamo tutti ospiti temporanei e che forse è venuto il tempo di pensare alla possibilità di un nuovo abitare».
Corriere della Sera 12.1.12
Il drago della Speranza
«Facciamo una festa insieme per dire grazie della solidarietà, contro la paura e la violenza»
di Paolo Conti
«Invitiamo i cittadini romani e italiani ad accogliere questo nuovo anno insieme a noi anche per dire "no" alla violenza e alla paura. Il dolore che proviamo per la perdita di due nostri connazionali, per giunta di una bambina così piccola, vittime di un atroce delitto, deve far riflettere. Non ci si deve rassegnare alla violenza e alla criminalità. Sarebbe una vittoria degli aggressori violenti».
La dottoressa Yang Yenyen è la responsabile della comunicazione dell'Ambasciata cinese. E risponde con molta pacatezza a una domanda inevitabile: perché la Comunità cinese (più di duecentomila persone in tutta Italia, sicuramente più di 20.000 nella sola Capitale) ha deciso, in accordo con l'Ambasciata, di confermare l'appuntamento del grande Capodanno cinese convocato per sabato 14 gennaio a Roma, in piazza del Popolo? L'assassinio di Zhou Zeng e della sua piccola Joy non avrebbe dovuto suggerire una sospensione?
Proprio ieri, in prima pagina sul Corriere, Dario Di Vico ha sottolineato come questo tragico episodio abbia prodotto, proprio durante il grande corteo di solidarietà organizzato a Roma, un «segnale di apertura reciproca» tra la comunità cinese e quella italiana. Esattamente ciò che sostiene Yang Yenyen: «La festa sarà anche un'occasione per ringraziare la comunità italiana della solidarietà che ci ha dimostrato in questi giorni. Un proverbio cinese dice: un dolore condiviso si dimezza, una gioia condivisa si raddoppia».
Dunque l'appuntamento per sabato 14 gennaio non solo è confermato ma verrà esplicitamente dedicato alle due vittime dell'agguato di via Giovannoli. Tutto comincerà alle 14.30 in piazza Augusto Imperatore: corteo di 160 artisti verso piazza del Popolo, poi l'accoglienza da parte dell'orchestra della Polizia Municipale di Roma Capitale, l'ambasciatore cinese Ding Wei e il sindaco di Roma Gianni Alemanno che dipingono di rosso gli occhi di due draghi (come impone la tradizione) e poi spettacoli di danza, di acrobazie, di musica, estrazione della lotteria del Drago e infine, alle 18, i famosi fuochi artificiali cinesi.
Il Capodanno cinese 2012 non è solo l'inizio del nuovo anno tradizionale lunisolare che si concluderà il 9 febbraio 2013. Soprattutto, nel nostro Paese, è la conclusione dell'Anno della cultura cinese in Italia, fortemente sostenuto dai vertici della Repubblica Popolare e inaugurato nell'ottobre 2010 dal premier Wen Jiabao durante la sua visita in Italia e anche come segno per la celebrazione del 40° anniversario dell'apertura delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina. In tutto 200 manifestazioni culturali organizzate nel 2011 dalla Cina in tutto il territorio italiano, in particolare in dodici regioni e trenta comuni col coinvolgimento complessivo di un milione di spettatori.
Dice l'ambasciatore Ding Wei in una dichiarazione: «Questo anno culturale è stato una grande opportunità di scambio e dialogo fra le nostre due antiche civiltà e soprattutto ha promosso un'ampia piattaforma di collaborazione in diversi settori fondamentali, dalla politica al commercio, dalle conoscenze scientifiche all'insegnamento, dal turismo alla letteratura e alla difesa dei diritti delle donne. Attraverso gli eventi portati in Italia abbiamo voluto offrire un'immagine della Cina aperta e collaborativa, ci siamo proposti infatti come partner affidabile per molti progetti di collaborazione». I dati commerciali forniti dall'ambasciatore sono confortanti: volume commerciale aumentato del 19.5% tra i due Paesi, esportazioni dell'Italia verso la Cina che segnano un +27,8% con un volume di 14.5 miliardi di dollari, le esportazioni della Cina in Italia registrano un +15,7% con un volume di 29.9 miliardi di dollari. Nei primi dieci mesi del 2011 il volume ha raggiunto quota 44 miliardi di dollari, con un aumento del 19.5% L'ambasciatore cinese ha un progetto: «Se la celebrazione del Capodanno diventasse una ricorrenza fissa annuale, sarebbe un'occasione preziosa per condividere i valori di questa festa e migliorare l'integrazione e la conoscenza reciproca tra le nostre due comunità».
Ora comincerà l'anno del Drago, immagine molto positiva in Cina, simbolo antico dell'imperatore e quindi di nobiltà e di imprese gloriose, animale di grande potenza capace di volare in cielo e di nuotare nelle acque. Un ottimo auspicio, per la Cina come per l'Italia.