martedì 3 gennaio 2012

l’Unità 3.1.12
Il leader del Pd al governo e alle forze che sostengono Monti: subito misure per lo sviluppo
Tra le priorità anche i temi istituzionali e la legge elettorale: «Ridare credibilità alla politica»
«Ora riforme» Il programma anti-recessione di Bersani
Il leader Pd in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari non ha interrotto i contatti col governo e le altre forze che sostengono Monti. «Ora politiche per lo sviluppo, riforme istituzionali e legge elettorale»
di Simone Collini


Far sentire in Europa la voce dell’Italia sulle misure a difesa della moneta unica. Mettere in campo le politiche necessarie per produrre crescita e occupazione. Avviare in Parlamento un confronto sulle riforme istituzionali e per una nuova legge elettorale. Sono i tre punti in cima all’«agenda Bersani». Il leader Pd, in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari, non ha interrotto i contatti col governo e con i leader degli altri partiti che sostengono Monti. E il ragionamento che ha fatto in questi colloqui è che il 2012 sarà «un anno molto difficile», che l’Italia uscirà dalla crisi «solo se ci saranno insieme cambiamento e coesione».
COME CONTRASTARE LA RECESSIONE
In particolare, l’agenda su cui Bersani vuole aprire il confronto con governo e altre forze politiche alla ripresa dei lavori parlamentari prevede un pacchetto di misure per «contrastare la recessione, produrre crescita ed occupazione e tutelare i più deboli». Si va dalle norme sulle liberalizzazioni a proposte sulla politica industriale alla necessità di avviare una riforma sugli ammortizzatori sociali («oggi il problema non è licenziare dice quando viene sollevato il tema dell’articolo 18 ma creare lavoro e renderlo meno precario»).
L’altro punto su cui Bersani vuole accelerare riguarda le riforme istituzionali e la legge elettorale. Lo ha spiegato ai leader delle altre forze che sostengono l’esecutivo dicendo che ora compito dei partiti è «disegnare un percorso per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni». Anche in prospettiva della prossima legislatura. Per il leader del Pd va superato l’attuale bicameralismo e ridotto il numero dei parlamentari, ma soprattutto non si può andare a votare per la terza volta con il “Porcellum” e quale che sia la sentenza della Consulta sul referendum, il Parlamento deve avviare un confronto per giungere in tempi rapidi a un nuovo sistema di voto. «Il Pd ha depositato la sua proposta, facciano altrettanto gli altri».
L’ITALIA E LA DIFESA DELL’EURO
C’è poi un terzo punto dell’«agenda Bersani» (di cui il leader Pd parla anche in un’intervento pubblicato oggi da Repubblica) che riguarda Europa e moneta unica. Per il segretario dei Democratici finora sono state prese decisioni «deboli» e bisogna subito attuare provvedimenti seri a difesa dell’Euro. Il ragionamento di Bersani è che l’Ue «non può solo chiederci manovre», e che «se l’Italia è troppo grande per fallire e per essere salvata, è anche troppo grande per stare zitta». Quanto proposto e prodotto dall’asse Merkel-Sarkozy non convince affatto il leader Pd. Per questo Bersani ritiene necessario aprire un confronto anche sul piano comunitario, a livello di governi ma anche di forze politiche. Anche i contatti con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi proseguono, per arrivare in tempi rapidi alla definizione di una piattaforma comune.

Repubblica 3.1.12
Bersani: ora basta manovre interveniamo per i più deboli
È il momento del dialogo sociale
di Pierluigi Bersani


Caro Direttore, come tutti dicono, abbiamo davanti un anno arduo e non semplice da interpretare. Vale forse la pena di "progettarlo" un po´, togliendo di mezzo un eccesso di fatalismo. Vorrei cominciare con qualche prima idea.
1. La scena si apre sull´Europa. Fino ad ora le decisioni sono state deboli. L´agenda da qui a marzo di per sé non rassicura. Nelle opinioni pubbliche è ancora dura come il marmo quell´ideologia difensiva e di ripiegamento che le destre europee hanno coltivato, ricavandone inutili vittorie, e che i progressisti non hanno potuto o saputo contrastare, ricavandone larghe e dolorose sconfitte. Inutile illudersi. O si mette in comune rapidamente e seriamente la difesa dell´Euro (vincoli di disciplina, strumenti efficaci e condivisi contro la speculazione e per la crescita, politiche macroeconomiche coordinate) o sarà il disastro. Se davvero l´Italia è troppo grande sia per fallire che per essere salvata, allora è troppo grande anche per stare zitta. È tempo che ciascuno di noi faccia la sua parte in Europa; il Partito Democratico sta lavorando per la piattaforma comune dei progressisti europei. Ma è tempo anche di fare qualcosa assieme, qui in Italia. Governo e forze politiche possono determinare una posizione nazionale. Il Parlamento (che non esiste solo in Germania!) può articolarla e assumerla. Il nostro Presidente del Consiglio può interpretarla e gestirla al meglio. Le idee ci sono e vedo su di esse la possibilità di una larga convergenza. Il biglietto da visita delle nostre idee in Europa potrebbe essere così concepito: noi continueremo le nostre riforme e ci riserviamo ogni ulteriore iniziativa per rafforzare la nostra credibilità. Ma non faremo più manovre. A chi raggiunge il 5% di avanzo primario che cosa altro si può chiedere? Nel caso, nessuno pensi di trattarci come la Grecia. Come si diceva, siamo troppo grandi e quindi parecchio ingombranti. Se ne tenga conto.
2. Torniamo qui ai nostri compiti. Salvare l´Italia significa, al concreto, contrastare la recessione, produrre crescita e occupazione, dare una prospettiva alla nuova generazione. Salvare l´Italia è possibile solo se cambiamento e coesione si danno la mano. Se coesione e cambiamento diventassero un ossimoro, non ci sarebbe speranza. L´azione di governo deve dunque possedere un metodo fondamentale e un fondamentale messaggio. Quanto al metodo, emergenza e transizione pretendono una forma particolare di dialogo sociale tale da sollecitare partecipazione e corresponsabilità, salvaguardando comunque la decisione tempestiva. Si può fare e, a parer mio, si deve fare. Ma voglio sottolineare in particolare il metodo politico. Il Governo troverà la sua forza in un rapporto stabile, permanente e ordinato con i Gruppi Parlamentari; un rapporto da allestire anche nella fase ascendente delle decisioni. Si parli di mercato del lavoro, o di liberalizzazioni, o di politica industriale, di pubblica amministrazione, di immigrazione, di Rai e di cento altri temi, esistono in Parlamento, da ogni lato, idee inevase da anni e non necessariamente divisive. Dica il Governo il suo piano di lavoro, raccolga dal Parlamento orientamenti e idee e avanzi quindi le sue decisioni e le sue proposte. Noi non pretendiamo il cento per cento di quel che faremmo, e così sarà per gli altri. Ma la trasparenza e la chiarezza servono a tutti. Quanto al messaggio fondamentale, se nell´emergenza è in gioco il comune destino del Paese, si deve innanzitutto promuovere un´idea di comunità degli italiani. Ci si ricordi allora che la solidarietà è la materia prima di una comunità, è ciò che la distingue da una accozzaglia anarchica di interessi. Se vogliamo farcela, tutti assieme, i riflettori vanno dunque puntati su chi è più in difficoltà. Bisogna predisporre l´aiuto a chi sta vivendo e vivrà le condizioni più difficili, come l´assenza di lavoro, l´insufficienza di reddito o una disabilità abbandonata. Su questo, non ci siamo ancora. Occorre fare di più, cominciando col cancellare qualche inutile asprezza di alcune misure già adottate che suscitano un giusto risentimento
3. La grande parte delle forze politiche e parlamentari si dichiarano interessate e disponibili ad una iniziativa di riforma delle Istituzioni e della politica. Il Presidente della Repubblica la sollecita autorevolmente. È evidente che un simile percorso significherebbe stabilità per il Governo e maggiore credibilità della politica e delle Istituzioni nella prospettiva della nuova legislatura. Sto parlando della già avviata adozione di parametri europei nei costi della politica, di riduzione del numero dei Parlamentari, di riforma del bicameralismo, di radicale aggiornamento dei regolamenti parlamentari e, alla luce delle prossime decisioni della Corte, di riforma elettorale. Su tutto questo esistono proposte e appaiono possibili convergenze significative. Si intende fare sul serio? Intendiamo davvero passare dalle parole ai fatti? Questo pronunciamento tocca innanzitutto ai segretari dei partiti, ovviamente non solo a quelli che hanno votato la fiducia al Governo, ma a partire da loro. C´è poco tempo ed è quindi ora di prendersi impegni pubblici, espliciti e dirimenti.
I tre punti che ho segnalato dovrebbero essere, a parer mio, l´agenda di gennaio. Infine una parola per chi, nel gioco ormai stucchevole fra tecnica e politica, si predispone a promuovere, chissà in quali forme nuove, l´edizione 2012 dell´antipolitica. L´Italia ha già dato. Per quello che ci riguarda il Partito Democratico ha compiuto un gesto propriamente politico, trasparente e generoso, nel sostenere questa transizione e si predispone ad offrire agli elettori, quando sarà il momento, una proposta riformista e democratica di ricostruzione, alternativa al decennio populista. Siamo pronti a riconoscere in termini nuovi i codici e i limiti della politica. Anche in questo difficile passaggio, tuttavia, siamo convinti di poterne rafforzare la dignità e l´indispensabile ruolo.

il Fatto 3.1.12
Senza legalità nulla cambia
di Paolo Flores d’Arcais


L’emergenza è lo “spread”? Anche. Ma la veraemergenzastrutturaleincuil’Italiasi avvita da un ventennio, e la cui mancata soluzione rende impossibile affrontare tutte le altre urgenze, dal debito pubblico all’occupazione, dal fisco allo sviluppo, dalle grandi opere alla sicurezza e al welfare, ha un solo nome: legalità. La legalità è il “grande rimosso” del discorso politico e della coscienza collettiva, il grande assente nell’azione di governo e nel dibattito sui media.
Il Capo dello Stato ammonisce che evasione fiscale e corruzione sono pratiche intollerabili, ma sono vent’anni che lo sentiamo ripetere, rischia di essere una giaculatoria se alle parole non seguono immediatamente i fatti. Il governo Monti simpatizza col modello danese di flessibilità del lavoro, ma un ex-ministro rivela che dopo averlo studiato in loco il governo Prodi rinunciò a importarlo, perché mancavano le condizioni culturali che ne impedissero l’abuso: un diffuso senso dello Stato e della legalità, appunto. Ora si parla di “crescita”, dunque di opere pubbliche, di incentivi, di liberalizzazioni e privatizzazioni, ma un chilometro di ferrovia o di autostrada costa in Italia due o tre o quattrovolte più che in Francia o Germania: il costo della mancata legalità. E in passato ogni bene pubblico è stato svenduto, coniugando impoverimento dello Stato, nuove inefficienze, indecenti arricchimenti di amici degli amici: su scala ridotta, il modello degli oligarchi putiniani. Per indigenza di legalità, anche qui.
Diventa retorico e rischia di apparire insultante, perciò, pronunciare una volta di più la parola “equità” se non si mette mano a una vera e propria “rivoluzione della legalità”. Sono due facce della stessa medaglia, esattamente come giustizia e libertà. La rivoluzione della legalità oltretutto, è l’unica riforma a costo zero. Anzi, a introito sicuro, progressivo, ciclopico. Tra evasione, corruzione, mafie, ogni anno vengono sottratte ricchezze equivalenti a cinque o dieci manovre “lacrime e sangue”. In questi vent’anni – esattamente il 17 febbraio del 1992 veniva arrestato Mario Chiesa e cominciava “Mani Pulite” – la politica ha fatto di tutto per favorire i “mariuoli” anziché la legalità. Portando l’Italia sul lastrico. Se il governo Napolitano-Monti-Passera vuole essere credibile, ed evitare la sacrosanta rabbia del “Terzo Stato” che monta, ha una strada maestra: abrogazione delle leggi ad personam, manette a evasori e per falso in bilancio e ostruzione di giustizia. Eccetera. La legalità presa sul serio.

il Fatto 3.1.12
Igienista mentale cercasi
di Marco Travaglio


   Ci eravamo lasciati a fine anno con un auspicio: un’igienista mentale per aiutarci a pensare e a parlare meglio. Al momento, quell’augurio rimane una pia illusione. Prendete i 15 miliardi stanziati da B. e confermati (almeno per ora) da Monti per acquistare 131 cacciabombardieri Usa: ma siamo matti? Prendete la decisione del Parlamento e del Csm, confermata (almeno per ora) dalla ministra Severino, di mettere il bollino di scadenza ai magistrati dopo dieci anni, smantellando così i pool specializzati nelle Procure (per mafia, corruzione, evasione, reati finanziari, salute e sicurezza sul lavoro, abusi sessuali e su minori): ma siamo matti? Prendete i titoli di alcuni giornali sui botti di Capodanno che han fatto morti, feriti e danni un po’ dappertutto.   Com  ’è noto, duemila sindaci – compresi Fassino a Torino ed Emiliano a Bari – avevano vietato il lancio di petardi, mortaretti e altre diavolerie esplosive. Poi, anche nelle città del divieto, i botti sono scoppiati lo stesso. Titoli della Stampa: “Botti, il divieto inutile”, “Il flop delle ordinanze anti-petardi”. Titoli Libero: “I botti scoppiano in faccia ai sindaci”, “Napoli non perde il vizio di sparare. Altro che Rinascimento di De Magistris”. Ma siamo matti? Con la stessa logica, siccome ogni giorno qualcuno muore ammazzato, bisognerebbe titolare: “Omicidio, il divieto inutile”, “Uccisi Tizio e Caio: il flop del codice penale”, “Gli assassini sparano in faccia a chi ha vietato l’assassinio”. “Napoli non perde il vizio di uccidere. Altro che Rinascimento di de Magistris”. Ma anche: “Roma non perde il vizio di uccidere. Altro che Rinascimento di Alemanno”. Vietare le attività illecite o pericolose (qual è sicuramente il lancio di botti) è giusto a prescindere dall’effetto del divieto: che poi, se viene violato, non è colpa di chi l’ha imposto, ma di chi l’ha violato. Altrimenti, siccome si continua a spacciare droga, a rubare, a rapinare, a truffare, a pagare tangenti e a evadere le tasse, tanto vale abrogare il codice penale, risparmiando fra l’altro un sacco di soldi destinati a forze dell’ordine, questure, caserme, procure, tribunali e carceri. Nell’ultimo numero del 2011, Il Giornale diretto da zio Tibia Sallusti titolava: “La caduta di Berlusconi: è stata la culona”. La suddetta, per chi non lo sapesse, è la cancelliera tedesca Angela Merkel che, secondo un’indiscrezione raccolta dal nostro giornale, il Cavaliere avrebbe definito “culona inchiavabile” in una telefonata intercettata e finita agli atti dell’inchiesta della Procura di Bari sulle escort di Tarantini, ma segretata perché penalmente irrilevante. Quando lo scrivemmo, il Giornale si affrettò a precisare in una decina di articoli che ci eravamo inventati tutto. Mai una personcina corretta ed elegante come B. aveva o avrebbe potuto dare della “culona”, per giunta “inchiavabile”, alla Merkel, di cui è notoriamente amico e alleato nel Partito popolare europeo. Ora, con agile piroetta, Tibia ribalta tutto: dà per scontato che la telefonata esista e addirittura fa proprio il grazioso epiteto, rilanciandolo in un titolone cubitale a tutta prima pagina. Dimentica soltanto di avvertire i suoi lettori che aveva ragione il Fatto, mentre il Giornale, tanto per cambiare, raccontava palle. È una vera fortuna che la fama del Giornale come testata involontariamente satirica sia ormai nota in tutto il mondo, dunque anche in Germania. Altrimenti ve l’immaginate che farebbe un governo il cui capo viene definito “culone” o “culona” dal giornale di proprietà della famiglia del premier di un paese alleato? Nel migliore dei casi richiamerebbe l’ambasciatore e aprirebbe una crisi diplomatica, con richiesta ufficiale di scuse; nel peggiore dei casi partirebbe con i bombardamenti. Ecco perché B. aveva deciso di comprare quei caccia: temeva che qualcuno lo sentisse parlare.

La Stampa 3.1.12
Intervista
Camusso: no a scadenze l’Europa può attendere
“I soldi per aiutare il lavoro? Se non ci sono si possono trovare”
di Paolo Baroni


Serve un piano per il lavoro» dice Susanna Camusso. Perché la situazione è grave e di qui in avanti non può che peggiorare. Non occorre ridurre le tutele, nè aumentare il debito pubblico, di certo però sulla trattativa col governo non può pendere ancora la spada di Damocle dell’Europa. «La fretta produce sempre cattivi accordi».
Segretario, cosa vi fa dire che la crisi è così grave?
«I numeri delle ore di cassintegrazione e delle aziende in crisi confermano brutalmente che per il terzo anno di fila la cassa integrazione è a livelli record: 1 miliardo di ore e quasi 10mila fabbriche interessate. A questo bisogna poi aggiungere il numero di vertenze di grandi gruppi che si stanno aprendo e che producono sempre un trascinamento su fornitori e piccole imprese. L’altro fattore che preoccupa è il continuo calo dei consumi: il dato del 2011 rischia di rafforzarsi e porta con se la chiusura di una infinità di piccoli esercizi commerciali».
Siamo nel tunnel della recessione.
«Si. E credo che andrebbe fatto qualche ragionamento sul fatto che se piccole e medie imprese ormai da tre anni sono con la cassintegrazione in deroga probabilmente si tratta di aziende che non hanno più uno spazio di attività: la riduzione della produzione, che tutti i dati dall’autunno in poi hanno iniziato a dare, sta diventando insomma strutturale».
Il governo questa situazione ce l’ha presente?
«Bisogna farglielo capire, ma spero proprio che questa situazione ce l’abbia presente. Anche gli ultimi dati di Confindustria, del resto, non danno una fotografia molto diversa. E’ evidente però che una cosa il governo ha gravemente sottovalutato, ed è un problema che resta aperto: nel cambiare così bruscamente, ed erroneamente, le norme pensionistiche non ha infatti tenuto conto dei contraccolpi sul mercato del lavoro. C’è un mondo, che non è fatto - come dice il presidente del Consiglio - dei lavoratori in mobilità, ma che è fatto di migliaia di lavoratori che stavano in un piccolo esercizio, in una piccola attività, che hanno deciso di licenziarsi perché avevano abbastanza vicino il traguardo di una pensione che ora non arriva invece più. Ed ora non solo sono disoccupati, ma avendo 58-59 anni nessuno offre più loro un posto. In un mercato del lavoro così debole è stato un grosso errore prolungare di 5-6 anni l’età della pensione».
Nella telefonata con Monti vi siete limitati agli auguri oppure avete già fissato dei temi o delle date per incontravi?
«No, non abbiamo accennato a date: ci vedremo nei prossimi giorni. Io l’ho presa come una conferma dell’impegno del governo ad aprire il confronto».
Confronto che secondo il premier dovrà avvenire con tempi rapidi, perché il 23 vuole andare a Bruxelles con qualche novità anche sul lavoro.
«Credo che continuare a farci dettare i tempi da Bruxelles sia un altro errore, fatta la manovra non doveva arrivare il momento del confronto con l’Europa come ci hanno detto nei loro messaggi di fine anno sia Napolitano che Monti? Nelle trattative si può fissare la data di inizio, non quella di chiusura, e l’esperienza della manovra di dicembre ci dice che occorre fare le cose per bene, non con urgenza. Perché non stiamo facendo teoria ma stiamo discutendo delle condizioni materiali delle persone in difficoltà, perché non hanno il lavoro, o lo stanno perdendo o non sanno con quali regole vi entreranno».
A parte le diatribe sull’articolo 18, è pensabile avviare un discorso a tutto campo sulla materia lavoro, senza pregiudizi o veti?
«Il Paese è messo molto male, la preoccupazione è alta, il tema dell’occupazione è un grande dramma per la maggior parte degli italiani che non hanno nessun bisogno di sentirsi raccontare delle favole come quella che bisogna intervenire sull’articolo 18. Bisogna discutere dei problemi che abbiamo non di quelli che non abbiamo».
Quindi?
«Bisogna ragionare sugli ammortizzatori per trovare una soluzione che copra davvero tutti. E poi occorre dare risposte ai giovani e avviare un piano per l’occupazione, perché dire investimenti ed infrastrutture non basta».
Ma per fare questo servono risorse. E Monti non ne ha.
«Si, se però pensano di prenderli ancora ai lavoratori non iniziamo nemmeno a discutere. Ci sono tante cose che si possono fare e tante risorse da reperire senza aumentare per forza il debito pubblico. Se si discute di mercato del lavoro bisogna parlare anche di legalità e di sommerso: basterebbe regolarizzare tutti gli immigrati per avere 5 miliardi. Un piano per la difesa del territorio convogliando su un progetto nazionale tutte le risorse che oggi vengono disperse in mille rivoli consentirebbe di crare molti posti di lavoro, stabili, per tanti giovani».
Se al dunque vi fosse proposto uno scambio?
«Nelle trattative ci sono sempre degli scambi quantitativi. Però se mi si propone di aumentare l’indennità di disoccupazione in cambio della rinuncia alla norma antidiscriminatoria sui licenziamenti dico di no. Non è scambiabile, anche perchè nessuno finora ha dimostrato che riducendo i diritti aumentano i posti».

il Fatto 3.1.12
“Ancora sacrifici? È peggio che negli anni Cinquanta”
Landini: “L’esempio di Lama e di Di Vittorio? Dal Quirinale uso strumentale della storia”
di Giorgio Meletti


Ancora sacrifici? La ricetta è vecchia e inutile”. Il leader della Fiom Maurizio Landini non accusa direttamente il presidente della Repubblica, ma la sua risposta suona secca come una fucilata.
Nel messaggio di Capodanno Napolitano invoca la capacità dei lavoratori di “fare sacrifici”, come nel Dopoguerra con la Cgil di Giuseppe Di Vittorio e negli anni ’70 con Luciano Lama.
La storia andrebbe utilizzata per quello che è, in modo non così strumentale. Non credo che dobbiamo discutere sul rapporto tra Di Vittorio e la Dc di De Gasperi, o sulla svolta dell’Eur del ’77. Dico solo che nel ’77 c’era la scala mobile, si andava in pensione con 35 anni di anzianità e non c’era la precarietà di oggi. Negli anni ’50 dovevi avere un impiego per alzarti oltre la soglia della povertà, oggi puoi essere povero anche lavorando. In quei tempi richiamati come esempio di eroica povertà la situazione sociale era meno drammatica.
Il premier Mario Monti ha fatto eco al Quirinale invitando i sindacati a non evocare i conflitti sociali.
Appunto. Non ci sono rischi da evocare, la disgregazione sociale è in atto, con un aumento delle diseguaglianze senza precedenti. Chi invita i sindacati ad assumere un “ruolo nazionale”, dovrebbe ricordare che in questi ultimi quindici-venti anni c’è stato un trasferimento di 10-12 punti di prodotto interno lordo, oltre 150 miliardi all’anno, dai salari al profitto. Con un crollo degli investimenti sia pubblici che privati.
Per Napolitano c’è l’esigenza pressante di aumento della produttività del lavoro.
Ecco, appunto, basta che non pensi anche lui ad aumentare la produttività con più sfruttamento, cioè lavorare di più a parità di salario. Un operaio Volkswagen lavora meno, prende più soldi, e l’azienda produce e vende più auto. L’operaio produce più valore aggiunto perché l’azienda ha investito. Se non investi, come ha fatto la Fiat, puoi solo chiedere agli operai di fare meno pause.
Il ministro del Lavoro Elsa Fornero vuole un accordo sul lavoro. Lei che cosa si aspetta?
Non so, vedo che finora questo governo ha solo colpito chi lavora, con aumenti delle tariffe, dell’Iva, tassando la prima casa, tagliando sulle pensioni. Adesso temo che si vogliano tagliare le aliquote contributive, mentre bisognerebbe portarle per tutti al 33%, sennò si abbassa ulteriormente la pensione a chi oggi è giovane.
Lei che cosa proporrebbe sul mercato del lavoro?
Ce ne sono di cose da cambiare. Estendere gli ammortizzatori sociali, ridurre la precarietà e la dualità del mercato del lavoro. Ma non togliendo diritti a chi ce li ha. Bisogna unificare i diritti dei lavoratori, non creare nuove divisioni. E comunque questa discussione non affronta il nodo vero della crisi.
Quale?
C’è il rischio concreto di scomparsa del sistema industriale. Non ci sarà ripresa senza un piano straordinario di investimenti pubblici e privati. E questo chiederemo con la manifestazione nazionale dei metalmeccanici dell’11 febbraio prossimo a Roma.
Che cosa volete?
Faccio l’esempio della mobilità sostenibile, che va perseguita con un investimento straordinario non solo in infrastrutture ma anche in prodotti e tecnologie. Riguarda le auto, i treni, le navi, tutti comparti industriali in sofferenza. Se non interviene lo Stato, i privati non faranno niente. Una delle ragioni della crisi italiana è il ritardo negli investimenti in ricerca. Il governo deve fare qualcosa.
In particolare?
Noi chiediamo al ministro Corrado Passera di convocare un tavolo su Fincantieri e uno su Fiat, dove c’è anche una questione di democrazia. Fiat ha cancellato il contratto nazionale e 40 anni di contrattazione aziendale, hanno fatto il referendum a Pomigliano sotto ricatto (vota sì o ti chiudo) ma adesso sul nuovo contratto firmato a dicembre il referendum non si fa. La Fiat pretende di decidere che la Fiom non abbia vita nei suoi stabilimenti: questo non ha precedenti. La democrazia non è solo un problema tra Fiom e Fiat, è una questione di tutti.
Perché?
Se dobbiamo intervenire sulle ragioni vere della crisi bisognerà pure che la gente si esprima. O tutto finisce nel lasciar fare al governo tecnico, che tecnico non è visto che fa fior di scelte politiche? Vorrei capire se oggi l’interesse generale su cui ci si chiede di avere un “ruolo nazionale” è scritto nelle lettere della Banca Centrale Europea o non è piuttosto la creazione di posti di lavoro.
Il discorso di Capodanno di Napolitano è anche un’operazione politica?
Non mi sfugge. E pone un problema politico: i referendum di giugno scorso e le elezioni amministrative hanno posto una domanda di cambiamento a cui la politica non ha risposto. È un errore. La democrazia non è pericolosa.

l’Unità 3.1.12
Politica e classi sociali
Se i partiti non riescono più a dare voce alle fasce deboli


Il voto “di classe”? Esiste eccome, perché le “classi” sono cambiate rispetto al passato ma non sono una categoria da seppellire. Semmai si tratta di affinare gli strumenti per disegnare la composizione della società e soprattutto a questo deve pensare la politica per dare rappresentanza alle istanze che arrivano dalle fasce più deboli della popolazione.
È il quadro che emerge dai numeri e dalle analisi condotte da Carlo Buttaroni, pubblicata ieri su l’Unità. Oggi riproponiamo i grafici sul voto alle elezioni politiche del 2006 e del 2008 per categorie sociali perché, a causa di un errore tecnico, quelli usciti sull’edizione di ieri contenevano degli errori (di cui ci scusiamo con i lettori).
Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo come sottolinea il dossier si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro (casalinghe, pensionati, disoccupati).
«Classi oggettivamente interessate alle politiche economiche e sociali della sinistra rimarca il presidente di Tecné, Carlo Buttaroni che tuttavia “soggettivamente” si sono dimostrate, nell’ultimo decennio, sensibili al richiamo berlusconiano. Non sono, quindi, le “classi” a essere superate, benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni, ma appare inadeguata la capacità di interpretarne il connotato politico».

l’Unità 3.1.12
Liberazione, l’editore chiede un incontro con Malinconico


«Piena disponibilità a valutare tutte le proposte utili a trovare positive soluzioni che, nell'ambito delle scarsissime risorse economiche disponibili, salvaguardino la continuità editoriale, l'occupazione, il pluralismo dell'informazione». Lo dichiara Mrc Spa, la società editrice di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista che dal 1 ̊ di gennaio non è più in edicola, ma solo «on line». Mrc Spa si legge in una nota chiede «un urgente incontro al sottosegretario Malinconico per sollecitare le risposte ai quesiti da tempo avanzati ed il ripristino del fondo per l'editoria». L’assemblea dei lavoratori di Liberazione, che dopo la rottura delle trattative con l’editore e la sua decisione unilaterale di sospendere le pubblicazioni dal 1 ̊ gennaio, ha deciso di occupare la sede della redazione, ha preso atto del comunicato aziendale. « È un primo segnale, benchè molto flebile afferma Carla Cotti del Cdr che riteniamo effetto della nostra mobilitazione a difesa della presenza di Liberazione in edicola e dei posti di lavoro e della solidarietà ricevuta». Ieri anche la Cgil ha sollecitato il governo a integrare immediatamente il Fondo per l’Editoria.

l’Unità 3.1.12
Ospedali psichiatrici, un morto in Sicilia Marino incontra Monti


«L'incontro con il presidente Monti è stato molto proficuo e sicuramente utile per superare l'attuale realtà degli Ospedali psichiatrici giudiziari». Ad affermarlo è il senatore Ignazio Marino, ricevuto da Monti per illustrare il lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sugli Opg . «Anche ieri denuncia Marino un internato è morto nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel corso del mese di gennaio la Commissione d'inchiesta inviterà in audizione i ministri della Salute Balduzzi e della giustizia Severino, al fine di individuare assieme a loro il percorso più efficace e rapido arrivare a chiudere questi luoghi che rappresentano una vergogna per il nostro Paese».

La Stampa 3.1.12
Intervista
Ignazio Marino (Pd) “Troppi piccoli ospedali e interventi inutili”
di F. Ama.


Ufficialmente si doveva parlare di ospedali psichiatrici giudiziari durante l’incontro di ieri mattina tra il presidente del Consiglio Mario Monti e il presidente della commissione di inchiesta sul servizio sanitario nazionale Ignazio Marino. Così è stato, e probabilmente la chiusura delle strutture avverrà in tempi rapidissimi, ma durante il colloquio si è parlato anche di sprechi sanitari ed è molto probabile che il governo stia preparando una riorganizzazione per arrivare ad un risparmio che preveda maggiore efficienza senza approvare ulteriori tagli.
Di quali sprechi nella Sanità ha parlato con il presidente Monti?
«Sono molte le aree in cui la spesa può essere razionalizzata. Solo nel 2011 in Italia sono stati eseguiti 400 mila interventi chirurgici d’elezione, vale a dire quelli programmabili, non d’urgenza. In genere si viene ricoverati già la notte prima in ospedale. Questo costa allo Stato circa 900 euro a persona, soldi totalmente buttati perché il ricovero è del tutto inutile da un punto di vista sanitario e nessun paziente, se potesse scegliere, chiederebbe di rimanere per un giorno in ospedale anziché a casa propria. Ma quello che più è scandaloso è che la Regione più virtuosa è il Friuli dove in media ci si ricovera circa un giorno prima e che esistano invece Regioni come il Lazio dove la media è di un ricovero 2,8 giorni prima, vale a dire 3 mila euro buttati a paziente. O alcune Regioni del Sud dove il ricovero preoperazione arriva anche a 6 giorni prima, 6 mila euro a paziente buttati».
In totale quanto si potrebbe risparmiare eliminando i ricoveri prima degli interventi non urgenti?
«Almeno 400 milioni di euro ma in realtà molto di più perché gli interventi inutili sono tantissimi. Prendiamo le colicistectomie, ad esempio. In Italia la degenza media è di quattro giorni. In Paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti nemmeno un giorno. Come mai? Sono meno capaci i nostri medici? Ci mancano i tecnici o i professionisti? Non credo proprio. Il nostro è un problema di organizzazione. Questo ci costa altri 400 milioni di euro».
Quali sono gli altri sprechi di cui ha parlato al presidente Monti?
«Gli ospedali al di sotto dei cento posti letto privi di una Guardia con anestesista e rianimatore 24 ore su 24. In tanti muoiono perché vengono trasportati in queste strutture dove non possono ricevere l’assistenza necessaria e devono essere trasferiti altrove, una perdita di tempo che può rivelarsi fatale. In questo caso il risparmio ammonterebbe a molti miliardi di euro. Oppure i parti cesarei, una cifra spropositata e inutilmente onerosa il nostro 37% rispetto al tetto del 13% previsto dall’Oms. E poi lo 0,5% del Fondo Sanitario Nazionale speso in consulenze, altri 500 mila euro di risparmi possibili».
Gli sprechi sono più diffusi nel pubblico o nel privato?
«E’ difficile rispondere a questa domanda. Sprechi ce ne sono sia nel pubblico sia nel privato, basti pensare ai tagli cesarei del privato o alle operazioni inutili del pubblico».
In totale quanto si potrebbe risparmiare con le razionalizzazioni nella Sanità?
«Circa 15 miliardi che potrebbero essere usati per rendere più moderne le strutture, premiare il personale che lavora meglio, acquistare nuove apparecchiature e eliminare il ticket».
Il presidente Monti è d’accordo?
«Non dipende da lui ma dall’intero governo una decisione ma il suo approccio culturale mi è sembrato chiaro: andare verso un migliore e più efficiente utilizzo delle risorse disponibili piuttosto che procedere ad ulteriori tagli in un settore che ne ha già subiti troppi».

La Stampa 3.1.12
«Una riforma inutile che non servirà proprio a nessuno»
5 domande a Domenico De Masi


Il professor Domenico De Masi è esperto di sociologia del lavoro ma anche ideatore del concetto di «ozio creativo» che elogia la lentezza e il tempo senza orologio.
Aspetti decisamente distanti dalla liberalizzazione degli orari delle attività commerciali.
«Ed è un vero guaio, tanto più che la riforma non risolverà per niente i nostri problemi economici. Anzi, al danno finanziario si aggiungeranno quelli sulla qualità della vita».
Perché?
«Il presupposto di partenza è sbagliato: produciamo di più per consumare di più. Non è vero, e lo dimostra il fatto che il nostro Paese è in continua decrescita. E poi: il reddito pro capite in Italia è di 35 mila dollari, in Cina di 4 mila dollari, in Brasile 7 mila e in India di 2 mila e 500 dollari. Non può crescere ancora, tanto più che il costo del lavoro è altissimo: a Milano un operaio costa 24 dollari, in Brasile 11, in Corea del Sud 4 e in Cina 1 solo dollaro. Il primo mondo, l’Occidente, non serve più: il terzo mondo si produce le cose da solo. Assurda quindi la corsa alla produzione e al commercio senza limiti di orario».
Gli economisti ritengono possa favorire lo sviluppo, perché lei è contrario?
«Il problema di questo governo tecnico di bocconiani è la convinzione che tutto possa essere affrontato da un punto di vista economico-produttivo, dimenticando gli altri aspetti, quelli della metaeconomia».
E cioè?
«Al di là dell’economia ci sono settori come la salute, la psicologia, la letteratura, la psicoanalisi, l’estetica, che non possono essere assolutamente trascurati. Per vivere meglio non è necessario lavorare incessantemente, produrre incessantemente: occorre anche vivere bene. Non si deve per forza andare al ristorante e spendere tanto denaro: si può mangiare anche a casa, insieme agli amici, ascoltando della buona musica».
In un mondo dove tutto corre, tutto è a passo accelerato, non è un po’ un’utopia?
«È questione di cultura: dovremmo essere educati a gustare i bisogni non da un punto di vista quantitativo ma più introspettivo. Non solo, serve una rieducazione riferita a un mondo pensato come qualcosa che non può crescere all’infinito. E poi, guardi, a farci rimanere con i piedi per terra ci pensa proprio la realtà: la Cina è al primo posto per la produzione delle nanotecnologie e al terzo per le biotecnologie. Competere con queste realtà non ha senso. Come non lo ha aprire più a lungo i negozi sperando di poter svuotare i magazzini, che invece resteranno pieni». [G. LON. ]

il Fatto 3.1.12
Nero ungherese, la svolta autoritaria di Orban
Con la nuova costituzione, poteri eccezionali all’esecutivo
Riaffiora il germe dell’antisemitismo
di Piero Benetazzo


Nessuno è riuscito a fermarlo, né le continue manifestazioni di protesta, né le lettere di Hillary Clinton, di Barroso degli altri leader europei, né le migliaia di dimostranti, ieri davanti al Parlamento. Il premier ungherese Viktor Orban – che ha a disposizione due terzi del Parlamento – ha trascinato il suo paese, passo passo, verso una forma di autoritarismo che, dice lo scrittore Gyorgy Konrad, sconfina nella dittatura. Orban dice di voler fare uscire il paese dalla “melma” del lascito comunista, di voler rigenerare la nazione.
MA LE LEGGI approvate e la Costituzione – entrata ieri in vigore – danno all’esecutivo poteri eccezionali, che incidono profondamente nel sistema del checkes and balances: i giudici vengono nominati dal governo, le funzioni della Corte costituzionale sono limitate e “sorvegliate”, una Commissione governati-va, con ampi poteri, sorveglia la stampa, la Banca centrale perde la sua indipendenza. Hillary Clinton ha espresso “la fondata preoccupazione per le libertà democratiche” ora in pericolo, ma Orban si è vantato di un “cambio di sistema che mostrerà all’Europa le virtù finora inespresse” della nazione ungherese. In attesa, una massa di giudici è stata costretta alla pensione (sostituiti da altri di nomina governativa) molti giornalisti sono stati licenziati, la stazione radiofonica Klubradio ha perso le sue frequenze per eccesso di criticismo verso il governo e per “l'appoggio di ambienti diplomatici stranieri”, il partito socialista già al governo e nel Parlamento europeo, viene considerato erede del vecchio regime e “responsabile di tutti i crimini commessi dal comunismo”.
Non è chiaro come la Comunità europea reagirà: la svolta contrasta con gli stessi principi a cui si è ispirata l’adesione dell’Ungheria all’Europa, che dunque potrebbe, in teoria, essere sospesa. Ma la Comunità non si è mossa quando Orban, già in “piena azione”, aveva assunto, all’inizio dello scorso anno, la sua Presidenza. Oggi la maggiore preoccupazione sembra essere soprattutto la perdita dell’indipendenza della Banca Centrale che rende complicati e difficili i rapporti con il Fmi e le istituzioni finanziarie europee e quindi più tormentata la grave crisi finanziaria ed economica che attraversa l’Ungheria con il debito pubblico più alto di un paese dell’Est, degradato a “livello spazzatura” e con una crescita praticamente inesistente.
Ma in realtà l’aspetto più inquietante è quella che è stata definita la “guerra culturale” per rinvigorire una nazione che si ritiene vittima della Storia (punita da un trattato di Versailles che le ha sottratto ampie porzioni di territorio e quasi la metà della popolazione) e inquinata da un dibattito culturale definito “estraneo e cosmopolita”. Si riaffaccia, dunque, lo slogan dell’Ungheria come “nazione cristiana” con tutti i suoi corollari di violento e proclamato antisemitismo: era lo slogan di una minoranza, oggi è programma di governo in un Parlamento dove sono entrati (con ben il 17%) i rappresentanti del vecchio partito filonazista, quello delle “croci uncinate”, che odiano musulmani, ebrei e zingari, si oppongono all’Europa e vogliono la “Grande Ungheria”.
Il governo ha dunque licenziato i direttori di molti dei teatri sparsi per il paese e a Budapest ha velocemente sostituito quello che da anni gestiva il prestigioso Uj Szinhaz con due accesi sostenitori del nuovo trend: il vecchio attore Gyorgy Doerner, conosciuto come il doppiatore di Mel Gibson, che ha promesso di porre fine “all’egemonia liberale degenerata e malsana” e lo scrittore Istvan Csurka che da anni si batte per la Grande Ungheria e per “strappare” la nazione dal controllo degli ebrei e rafforzare finalmente una “borghesia cristiana”. Nel frattempo si annuncia che la statua di Attila Jozef sarà rimossa: poeta proletario con debolezze marxiste non è degno di sedere davanti al Parlamento. Ma c’è un ultimo aspetto che promette nuove tensioni: da oggi viene abolita la parola Repubblica, si parla solo di “Ungheria”, con l’accento dunque sulla dimensione etnica, un paese che si ripromette di rappresentare tutti gli ungheresi a cui si estende il diritto di voto ovunque essi siano. Si allargano dunque i confini, entra nel dibattito l’ultima grande questione nazionale del Centro Europa.

l’Unità 3.1.12
I fuochi di Teheran spingono Israele a un passo dalla guerra
L’Iran lancia ancora missili nel Golfo Persico: questa volta a lungo raggio Fonti di Tel Aviv: «L’intervento? Non è questione di se, ma di quando»
di Umberto De Giovannangeli


Quei missili possono raggiungere i Paesi del Golfo alleati degli americani e le unità navali in pattugliamento nello Stretto di Hormuz dove transita un terzo dei rifornimenti mondiali di petrolio. Quei missili a lungo raggio sono la nuova sfida lanciata da Teheran a Usa e Israele. Dopo aver lanciato l’altro ieri un missile a medio raggio, implicita risposta alle ulteriori sanzioni adottate dagli Stati Uniti contro il suo controverso programma nucleare, l'Iran ha effettuato ieri «con successo» il lancio di prova di un missile balistico a lungo raggio nel corso delle esercitazioni navali che sta compiendo nel Golfo Persico.
«Abbiamo lanciato un missile a lunga gittata costa-mare denominato Qader (la cui precedente versione aveva un raggio d'azione di 200 chilometri), che è riuscito a distruggere bersagli predeterminati nel Golfo», scrive l'agenzia iraniana Irna citando il vice comandante della Marina Mahmoud Mousavi. Poche ore prima l’ammiraglio Mousavi aveva annunciato il lancio di prova del Qader (Capace) e di un altro missile balistico a lungo raggio, il Nour. Il collaudo era già stato annunciato e poi smentito due giorni fa. Teheran aveva preannunciato un nuovo doppio test missilistico nel Golfo Persico per ieri. «Il missile "ideato e costruito" in Iran ha spiegato ancora il portavoce delle manovre navali è dotato della più recente tecnologia volta a colpire obiettivi “invisibili” e sistemi intelligenti che provano a interromperne la traiettoria».
Le manovre navali – nome in codice «Velayat 90» si concluderanno oggi, ha aggiunto Mousavi, con un'esercitazione destinata a testare la capacità iraniana di chiudere lo Stretto: «Gran parte delle nostre unità navali si posizionerà in modo tale da rendere impossibile, se Teheran lo riterrà necessario, il transito a qualunque nave». Gli Usa hanno già definito «irrazionale» un'ipotesi di questo genere la cui attuazione, hanno minacciato, «non sarà tollerata». La seconda sfida iraniana è stata resa nota dall'Agenzia iraniana dell'energia atomica che ha comunicato di aver «introdotto nel cuore del reattore di ricerca nucleare di Teheran per verificarne il buon funzionamento» una barra di combustibile nucleare per la prima volta prodotto in Iran. Il test «ha avuto successo».
«Il punto non è più “se” ma “quando” partirà l’attacco. Il conto alla rovescia è iniziato...». La fonte israeliana è di quelle che pesano negli ambienti politici e militari dello Stato ebraico. Con la garanzia dell’anonimato, a l’Unità rivela anche che «gli Usa sono entrati nell’ottica di idee che occorre coordinare con noi tempi, modalità e “paletti” di una operazione che ormai si ritiene inevitabile». 2012: l’anno della resa dei conti con Teheran. I piani di attacco sono già da tempo definiti. Si tratta «solo» di avere la luce verde. Una scelta politica che, rimarca la fonte a Tel Aviv, «Israele intende condividere oltre che con gli Usa, con la Nato, la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, l’Olanda che dovrebbero partecipare, direttamente o indirettamente all’operazione israeliana». Più interlocutorie sono le prese di posizione ufficiali: «Abbiamo letto le notizie delle esercitazioni operate dagli iraniani nello Stretto di Hormuz, compreso il lancio di alcuni missili. A mio modo di vedere – dichiara il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak ciò riflette innanzitutto le difficoltà dell'Iran per l’inasprimento delle sanzioni economiche, comprese le recenti decisioni applicate sull'export di petrolio e la possibilità di applicare sanzioni contro la banca centrale. Dubito – aggiunge Barak che l'Iran possa permettersi di considerare seriamente di chiudere lo Stretto di Hormuz, anche in uno scenario di sanzioni più aspre. Con una mossa del genere, Teheran si metterebbe contro l’intero pianeta».
Fuori dall’ufficialità, Israele si prepara all’attacco. Con l’attivo assenso di Washington. «Se dobbiamo farlo lo faremo», si è lasciato andare, con i suoi più stretti collaboratori, il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta. In attesa, l’industria militare americana fa affari nel Golfo Persico. Primo colpo: Boeing ha concluso un'intesa con il governo saudita per la vendita di 84 cacciabombardieri F-15SA, un contratto del valore tra 29 e 30 miliardi di dollari. La notizia, riportata dal blog dell'autorevole rivista di settore Flight International, è stata confermata alle agenzie di stampa Usa da fonti del Dipartimento di Stato. L'affare ha un importante significato politico perché gli F-15 sono in grado di attaccare l'Iran. Secondo colpo: gli Usa hanno venduto agli Emirati un sistema anti-missile per 3,5 miliardi di dollari. Ed è solo l’inizio.

La Stampa 3.1.12
L’allarme di Hu: la Cina si sta “occidentalizzando”
Il presidente comunista firma un articolo programmatico “Forze ostili all’opera contro di noi, serve più propaganda”
Pechino investe milioni di dollari negli Istituti Confucio nelle università del mondo
di Ilaria Maria Sala


Ha scritto
Sulla cultura: Ideologia e cultura sono fondamentali nella costruzione del socialismo con le caratteristiche nazionali cinesi
Su Internet: Dietro alla espansione della Rete si sta celando un chiaro disegno destabilizzante
Sull’immagine: La visione che il resto del mondo ha della Cina deve venire influenzata da noi

Attenzione: «forze ostili» stanno cercando di «occidentalizzare» la Cina, dice un lungo articolo del Presidente Hu Jintao sull’ultimo numero della rivista Qiushi, o «ricerca della verità», principale organo teorico del Partito comunista cinese, e vanno combattute a suon di propaganda e cultura ufficiale.
L’articolo, immediatamente rimbalzato tanto sui siti di microblogging come Twitter (bloccato in Cina ma utilizzato da molti «scavalcatori» del muro di censura) e Weibo (versione cinese di Twitter) che sulle agenzie di stampa nazionali ed estere, è una specie di conferma di quanto già indicato dalle numerose iniziative volte a rafforzare la propaganda all’interno e all’esterno della Cina, ma aggiunge alcuni nuovi dettagli non pensati certo per compiacere gli osservatori internazionali. Un chiaro disegno destabilizzatore sarebbe, secondo il
Presidente cinese, celato dietro tanto l’espandersi di Internet che di altre «forze ostili» mascherate da cultura pop, che cercano di «occidentalizzare» e perfino dividere la nazione, andando a colpire i campi «ideologici e culturali». Dunque, la risposta della Cina deve essere tanto interna che esterna: all’interno, Hu Jintao ha detto che la «costruzione della cultura è un aspetto fondamentale del concretizzarsi del socialismo con caratteristiche cinesi», utilizzando parole che suonano senz’altro un po’ bizzarre, ma che indicano la volontà di approfondire il lavoro propagandistico per evitare che i cittadini cinesi cerchino altrove stimoli intellettuali che potrebbero portarli a mettere in discussione il sistema.
L’azione, però, deve essere doppia, e deve anche di cercare di cambiare l’immagine cinese all’estero. Quest’ultimo è un progetto intensificatosi dopo che Pechino rimase scioccata davanti all’ostilità con cui la torcia olimpica venne ricevuta intorno al mondo nel 2008. Fu l’occasione per i funzionari del Dipartimento di Propaganda nazionale di vedere, forse per la prima volta, quanto i problemi riguardanti i diritti umani, la questione tibetana e il ricordo di Tiananmen abbia influenzato la visione che il mondo ha del Paese. Reagendo allo choc, Pechino ha deciso di cercare di cambiare quello che l’opinione pubblica internazionale pensa tramite uno dei suoi più affinati strumenti: la propaganda. Con un significativo stanziamento di fondi, ecco che vengono creati numerosi Istituti Confucio in giro per il mondo (una quindicina dei quali anche nelle università italiane, dove offrono corsi di cinese e varie iniziative volte a far conoscere meglio la cultura cinese ufficiale), e si espandono i media cinesi in lingue estere. Infatti Pechino ha stanziato 5.5 miliardi di euro per televisioni in varie lingue (già operative quella in arabo, russo e inglese), e per ampliare gli uffici internazionali dell’agenzia di stampa Nuova Cina, assumendo anche personale non cinese.
La spinta propulsiva della Cina ufficiale verso il mondo continua anche con grossi investimenti nel cinema, visto come un’ulteriore testa d’ariete nell’impegno governativo per diffondere una visione «cinese» delle cose. Così, l’ultimo film di Zhang Yimou, «I Fiori della Guerra», costato 100 milioni di dollari e finanziato dallo Stato, è stato concepito come il candidato cinese agli Oscar, dato che fino ad ora nessun film cinese ha ottenuto l’ambita statuetta americana.
Lo scrittore Chan Koonchung, autore del libro «Shengshi» (un volume di fantascienza, non ancora tradotto in italiano, dove una Cina del futuro domina sul resto del mondo), dice: «La Cina, al momento, ha un bisogno quasi patologico di essere complimentata. L’assenza di approvazione internazionale per la sua politica la sfinisce, la consuma, e per questo stanno investendo tanto nella propaganda all’estero».

Repubblica 3.1.12
Così Freud ha inventato il thriller dell’anima
Li leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere e alle loro angosce
Scritti con stile elegante parlavano non di mostri ma di gente perbene che si poteva anche incontrare nei salotti
Ecco i "Racconti analitici" del padre dell’inconscio che fondarono una nuova disciplina e un nuovo genere
di Melania Mazzucco


Nel 1936 uno dei candidati al premio Nobel per la Letteratura, proposto da Romain Rolland, era un anziano psicoanalista viennese: Sigmund Freud. Era stato candidato dozzine di volte al Nobel per la Medicina, che con suo grande dispiacere gli fu sempre negato, perché il suo lavoro "non era basato su prove scientifiche". In suo sostegno erano stati sottoscritti pubblici appelli: tra i firmatari figurano i principali scrittori dell´epoca, da Alfred Döblin a Jakob Wassermann, da Knut Hamsun e Lytton Strachey fino a Thomas Mann. Questi, maliziosamente, firmò purché la candidatura di Freud fosse al Nobel per la Medicina. Con ciò, riconosceva che lo psicoanalista poteva rappresentare un rivale temibile. Il premio per la Letteratura del 1936 fu assegnato a Eugene O´Neill. E Freud rimase senza Nobel: la sua opera era considerata troppo romanzesca per essere scientifica, e troppo scientifica per essere letteraria.
Ripensavo a questa vicenda leggendo la dotta introduzione di Mario Lavagetto ai Racconti analitici di Freud, appena pubblicati da Einaudi nella collezione dei Millenni. Con la consueta acutezza Lavagetto - anch´egli, come Freud, uno scrittore anomalo, che ha regalato alla letteratura italiana, e non solo alla storia della critica, dei gioielli fin dai tempi della Gallina di Saba - affronta la questione centrale dell´opera del fondatore della psicanalisi. Che cosa sono davvero le Krankengeschichten di Freud? Qual è la loro natura? E come dobbiamo chiamarle? Storie cliniche? Casi clinici? Studi? Lavagetto le intitola racconti.
I primi - i quattro casi femminili di isteria - apparvero nel 1895. Erano il frutto eretico di un genere codificato che aveva già prodotto i suoi classici. Fra questi, la Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing (1886), la più straordinaria enciclopedia della devianza mai scritta, nella quale l´autore descriveva, col distacco di un entomologo, innumerevoli casi di zoofilia, coprofagia e via dicendo. Qualcosa di simile aveva fatto in Italia anche Cesare Lombroso, che aveva raccolto storie di perversione e follia tra i bassifondi della società: ma la formazione positivistica e deterministica gli impediva di riconoscere nei suoi casi comportamenti universali e perfino la comune umanità.
Freud scriveva per illustrare le sue nuove teorie. I suoi casi avevano uno scopo "dimostrativo". Divennero subito tutt´altro. Krafft-Ebing li stigmatizzò come "favole scientifiche". I lettori, in un certo senso, fecero lo stesso. Le "favole" - inizialmente rivolte al pubblico dei medici della psiche - attirarono l´attenzione dei profani. Erano scritte con stile elegante, chiaro. Parlavano non di mostri - come quelli di Krafft-Ebing e Lombroso - ma di gente perbene che tutti avrebbero potuto incontrare nei salotti. Le leggevano uomini e donne in cerca di spiegazione al loro male di vivere. Le reazioni degli uni e degli altri costrinsero Freud a interrogarsi di continuo sui suoi metodi e a difendere e motivare le sue scelte, tanto che nei testi inserì una quantità di riflessioni "metaletterarie". Benché insistesse a sminuire le sue capacità artistiche e a prendere le distanze dalla letteratura, questa si affaccia spesso nella teoria psicanalitica - offrendole chiavi interpretative, archetipi, immagini, personaggi - e Freud non era ignaro delle sue doti.
Lui stesso si assimilava al romanziere: nell´Introduzione alla storia di Dora del 1905, esprimeva il timore che sarebbe stata vista dai lettori "non come un contributo alla psicopatologia della nevrosi ma come un roman à clef destinato al loro divertimento". Proprio come un romanziere riassumeva, censurava, montava e manipolava la sua materia. Era consapevole che - non potendo riferire il contenuto delle sedute così come si erano effettivamente svolte nel suo studio nel corso di settimane, mesi, a volte anni - la narrazione del caso diventava un´interpretazione e una costruzione: un´opera.
Ciò che costituiva una debolezza scientifica è anche la ragione del suo fascino. La lettura della storia dell´Uomo dei Lupi, il giovane russo che a quattro anni sognò sette lupi bianchi che lo fissavano accoccolati su un albero, restituisce ancora il piacere di quella che fu una delle più avvincenti avventure intellettuali del Novecento. I pazienti fobici, ossessivi, nevrotici di Freud, e il medico che ne raccoglie le angosce, le narra, le spiega e narrandole le guarisce, diventano i protagonisti di un´indagine sull´anima, l´infanzia, la sessualità, la vita - ciò che costituisce anche la materia della letteratura. Freud si paragonava a chi tenta di risolvere un puzzle, a un archeologo che riporta alla luce la città di Pompei, disseppellendo quanto la lava ha nascosto. In realtà usa una strategia narrativa simile a quella del coetaneo Conan Doyle: si tratta di trovare un colpevole che ha agito nell´ombra.
Lo psicoanalista svolge la funzione dell´investigatore. Il lettore viene preso nel meccanismo. Vuole sapere cosa è successo e perché. E Freud interroga, accumula indizi, esplora mondi sotterranei e inaccessibili (l´inconscio, il sogno), guida se stesso, il paziente e il lettore attraverso un labirinto di segni e alfabeti di lingue ignote (le strutture della psiche e il suo funzionamento) e infine consegna a sé e a noi la sua spiegazione. La forza catartica di queste storie resta immutata anche dopo che la teoria di Freud è diventata nozione comune, dopo cent´anni di discussioni e aggiustamenti, dopo che i costumi sessuali e la società sono profondamente mutati.
Quando Freud pubblicò i suoi racconti, doveva tranquillizzare il lettore, attenuare, smussare: il pubblico restava traumatizzato dalle rivelazioni sulla sessualità infantile, l´ambivalenza delle pulsioni, la libidine etc. Oggi la "verità" di Freud suona come la spiegazione di un giallo, che ci interessa meno dei personaggi, del loro desiderio di conoscenza e del loro dolore. E la commedia umana che Freud mette in scena fra il 1895 e il 1920 - negli anni in cui, come osserva Lavagetto, si attua la rivoluzione estetica che scardina la rappresentazione classica basata sulla verosimiglianza e sulla causalità, e in cui nasce la nuova letteratura - ancora turba, appassiona e coinvolge.

l’Unità 3.1.12
Zarathustra: Così parlò Carl Gustav Jung
Esce l’immenso commento al libro più conturbante di Nietzsche, nato
in un seminario tenutosi dal 1934 al 1939. Fu una scelta problematica, ma necessaria: nelle parole del filosofo c’era la diagnosi di una catastrofe
di Romano Màdera


A cinquanta anni dalla morte, la statura di Jung continua a crescere: nel mondo con la pubblicazione del Libro Rosso e in Italia, finalmente, con la traduzione, per Bollati Boringhieri, del primo volume dell’immenso commento a Così parlò Zarathustra, il libro più conturbante e misterioso della filosofia poetante di Nietzsche. L’edizione inglese era apparsa già nel 1988, due volumi per un totale di 1600 pagine! La mole può spaventare, ma è un segno: per Jung non c’è stato un pensatore a lui contemporaneo, neppure Freud, così decisivo. Per questo in uno dei suoi seminari zurighesi, seguito e incalzato da un gruppo scelto di analisti, di allievi, di amici (ci sono fra gli altri Aniela Jaffé, Marie-Luise von Franz, Olga Frö be-Kaptein, la fondatrice di Eranos, Barbara Hannah, Joseph Henderson, Emma Jung, Erich Neumann...), Jung decide di commentare riga per riga il testo di Nietzsche. Lo deve fare in inglese, che conosce bene ma non è comunque la sua lingua madre, perché il suo è un pubblico internazionale. Si tratta di uno sterminato dialogo, leggendolo si partecipa dal vivo a uno scambio che va dal ricamo di citazioni da testi della storia delle religioni e della filosofia, alle battute di spirito e alle osservazioni di buon senso. La scelta di commentare Nietzsche è in se stessa, in quel momento storico il seminario si svolse dal maggio del 1934 al febbraio del 1939 fortemente problematica: il nazismo, complice la sorella di Nietzsche, cercava di appropriarsi del filosofo come di un suo precursore, la febbre di una violenza inarrestabile si comincia a percepire in Europa. Ma proprio qui sta l’interesse vitale dell’analisi dello Zarathustra: Nietzsche si presenta come un caso che in se stesso rappresenta un dramma storico, che ha le sue radici negli spasimi di una civiltà che sperimenta il crepuscolo dei suoi dei ed è afferrata dai mostri che non ha saputo affrontare. Dice Jung, nel seminario dell’8 febbraio del 1939: «Forse sono l’unico che si prende la briga di entrare così nel dettaglio dello Zarathustra fin troppo, qualcuno potrebbe pensare. Così nessuno comprende realmente fino a che punto Nietzsche fosse a contatto con l’inconscio e dunque con il destino dell’Europa in generale». Sarà l’ultimo mese del seminario. La guerra è alle porte. Jung sa di affrontare nell’individuo Nietzsche e nella sua opera, una condensazione esplosiva di un percorso secolare: la civiltà cristiano-borghese, come la chiamerà Karl Löwith, un altro grande commentatore di Nietzsche, è ormai travolta. La crisi del mito cristiano sentita personalmente sia da Nietzsche che da Jung, entrambi figli di pastori protestanti spinge alla ricerca di un senso diverso della vita e del mondo. Ciò che è stato rimosso o represso l’animalità, gli istinti preme dal basso e travolge i vecchi valori. Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della sregolazione dei sensi, emerge dall’inconscio di un’intera epoca.
LA BESTIA BIONDA
Il Dio del cristianesimo è morto, proclama Nietzsche. Bisogna risolutamente spingersi al di là della legge del bene e del male, trasvalutare i valori fino ad ora ritenuti sacri, capovolgerli. Un’altra umanità si annnuncia: la «bestia bionda», il superuomo della volontà di potenza, che vuole la vita per come essa è, senza sconti, finte pacificazioni, imbellettamenti. Jung capisce di trovarsi di fronte a un gigante del pensiero, ne soppesa il fascino ma non si lascia sedurre. Sa che la pretesa di Nietzsche di scrivere le sue opere con la sua vita e, insieme, al contrario, di voler separare la sua vita dai suoi scritti, è ingannevole. La psicologia analitica non è riduttiva, non spiega l’opera con la psicopatologia, ma non accetta neppure che il contesto storico-biografico dell’opera venga cancellato. La corrispondenza non è immediata. Il filosofo del sì alla vita in ogni suo aspetto, per tremendo che sia, compensa l’uomo Nietzsche, malato in ogni sua fibra, fisica e psichica, preda dell’esaltazione, scisso dai suoi istinti, incapace di principio di realtà, tragicamente inadatto alla Terra che predicava di venerare. «Egli parlava di dire Sì e visse una vita di No», scriveva Jung. La pazzia che inghiottì gli ultimi dieci anni di vita del filosofo, probabilmente dovuta alle conseguenze della sifilide, era, secondo Jung, da sempre latente: per cancellare le sue debolezze si rifugiò in una specie di eroismo inflazionato, nemico dell’umano. La sua dottrina voleva essere un sofisticato, e spiritualmente maturo, superamento dell’epoca cristiana e del suo platonismo per le masse, in realtà presagiva le convulsioni di un mondo che sarebbe stato inghiottito dall’acciaio e dal fuoco di due guerre mondiali. Jung capì a fondo che l’annuncio di Nietzsche era solo la diagnosi di una catastrofe: se il Dio muore allora si rimane senza orientamento. In realtà il senso non può morire, esso rinasce in una nuova forma dall’anima dell’uomo, una nuova figura del divino è necessaria e si rielabora nell’inconscio. Alla morte di Dio nietzscheana, Jung risponde con le immagini del Sé, di una nuova totalità umana che emerge dalla psiche collettiva e inviduale. Alla volontà di potenza Jung riconosce una parte importante, come peraltro aveva già fatto Adler, ma ne vede i rapporti con le altre forze psichiche: con la sessualità indagata da Freud, con la tendenza a trasformare creativamente, come nella sua psicologia. La volontà di potenza è solo una parte della energia psichica. All’idea dell’eterno ritorno che vuole per sempre ciò che accade, Jung risponde con le indagini sull’inconscio collettivo, comune all’intera specie, con la teoria degli archetipi. Alla celebrazione del superuomo, Jung indica la via della terra, dell’intero della personalità che vive solo integrando, sempre di nuovo, la propria ombra, le parti difficili da accettare del proprio sentire. Solo così esse non si proietteranno sugli altri alimentando la fame infinita di capri espiatori, di annichilimento dei nemici, di guerre a ripetizione. È la teoria del processo di individuazione.
Questi seminari rivelano, a una lettura attenta, un confronto sistematico di Jung con Nietzsche che ne fa una delle pietre miliari della cultura filosofica e psicologica del Novecento: il caso Nietzsche è la storia dell’Occidente colta in una svolta drammatica, ancora in corso.

il Fatto 3.1.12
Ancora su Ezra Pound
risponde Furio Colombo


Sul Fatto del 20 dicembre, rispondendo a una lettrice, Furio Colombo ha usato accuse infamanti e denigratorie nei confronti di Ezra Pound. Colombo dimentica che questo artista combatté tutta la vita contro l’usura e il capitalismo. Possiamo dire che Pound ci aveva visto chiaro e in tempi non sospetti. Era stato decretato pazzo (dal Dipartimento di Giustizia americano, dopo la guerra, ndr) per avere individuato nella “usurocrazia” la causa principale della degenerazione sociale e delle guerre.
Giovanni

TORNO sull’argomento, sollecitato anche da altre lettere (che mi danno torto, ma solo in nome della grandezza poetica di Pound, non per la condanna delle sue idee politiche) perché Giovanni, in un testo molto più lungo, che mi scuso di avere ridotto ad alcune frasi chiave, invece di accettare la distinzione fra il poeta (grande, e ovviamente riconosciuto come tale nel mondo) e il propagandista fascista (è del propagandista che ho detto “squallido”) propone tre Ezra Pound : il poeta da celebrare, il fascista da rifiutare, ma anche il grande predicatore contro l’usura da non dimenticare. Giovanni trascura il fattore cruciale: non c’è stata una coincidenza occasionale fra le idee di Pound e il fascismo, ma piuttosto una voluta e accettata identificazione. Non si può dire di Pound che “aveva visto giusto in tempi non sospetti”. Quei tempi erano più che sospetti. Erano tempi di razzismo e persecuzione accettati e vissuti come impegno politico. Infatti “usura” e “capitalismo” significavano ebrei, in tempi di persecuzione razziale tedesca, italiana (Pound viveva nell’Italia fascista delle peggiori leggi razziali) e di tutta l’Europa occupata dai nazisti o dai fascisti. E infatti la frase-chiave del regime era la denuncia del “complotto giudaico-plutocratico - massonico”. Vorrei ricordare che l’Italia, nei giorni di Pound, diffondeva, sui muri e nelle scuole, manifesti che mostravano un volto satanico con la scritta: “ecco l’ebreo, colui che vuole la guerra”. Penso perciò che non si possa dire di Pound che “aveva visto giusto in tempi non sospetti.” Purtroppo, per quanto grande fosse il suo genio, è vero il contrario: aveva visto e abbracciato una propaganda indegna, nel tempo peggiore dell’intero secolo in cui ha vissuto.


l’Unità 3.1.12
L’intervista. Ursula Le Guin
L’Eneide narrata da Lavinia
Parla la scrittrice californiana femminista, anarchica e autrice pioniera dei romanzi
di fantascienza. Stavolta guarda al passato e porta alla ribalta la moglie di Enea. «Quale traguardo per le donne di oggi? Non dover mai indossare un burqa né fisico né morale»
di Maria Serena Palieri


URSULA LE GUIN
BERKELEY, 1929
Figlia di Alfred Kroeber, un’autorità nel campo dell’antropologia, e della scrittrice Theodora Kroeber, Ursula Le Guin vive nell’Oregon, si definisce anarchica e femminista ed è una dei rari esponenti della letteratura utopica moderna. Ha vinto cinque premi Hugo e sei premi Nebula i massimi riconoscimenti della letteratura fantastica ed è considerata una delle principali autrici viventi di fantascienza. La profondità e attualità dei suoi temi, che spaziano dal femminismo all’utopia e al pacifismo, hanno reso i suoi romanzi noti e apprezzati ben oltre il tradizionale circolo di lettori di genere. Tra le sue opere si ricordano in particolare «La mano sinistra delle tenebre» (1969) e «I reietti dell’altro pianeta» (1974). Dal terzo e quarto libro del ciclo fantastico di «Earthsea» pubblicato tra il 68 e il 72 - è stato tratto nel 2005 il film di animazione «I racconti di Terramare» diretto da Goro Miyazaki, figlio del maestro Hayao Miyazaki.

Ci voleva una scrittrice della Napa Valley, California, e glottoteta, cioè esperta in una forma di esperanto, così come creatrice di prodigiosi mondi d’invenzione come l’Earthsea del suo ciclo più celebre, insomma ci voleva qualcuno che viene da un altro cosmo per dare voce a Lavinia, la moglie laziale di Enea, da duemila e trent’anni sepolta silente nelle pagine dell’Eneide. Ci voleva in altre parole Ursula K. Le Guin, scrittrice di culto per molte generazioni, con il suo romanzo Lavinia, uscito negli Usa nel 2008 e ora in libreria da noi (Cavallo di ferro, traduzione Natascia Pennacchietti e Costanza Rodotà, pagine 315, euro 16,00). Lavinia è un romanzo che, per il tramite della figlia del re Latino, ci racconta appunto in modo inedito la nascita della nostra civiltà. E così Ursula K.Le Guin, ora, ce ne spiega la genesi.
Nell’«Eneide» virgiliana Lavinia è menzionata undici volte, soprattutto come promessa sposa di Enea. Non ha voce e i suoi unici segni di vita sono un timido rossore e gli occhi modestamente rivolti in basso. Perché ha deciso di dedicarle un romanzo di 314 pagine? E cosa può dirci Lavinia che Virgilio non ci abbia già detto?
«In realtà, io non ho deciso nulla. Ma rileggendo l’Eneide mi sono interrogata su Lavinia chi fosse davvero, come fosse, cosa pensasse dell’uomo venuto da Troia e molto presto lei ha cominciato a parlarmi. Tutto ciò che dovevo fare era ascoltare cosa avesse da dirmi. (E leggere qualcosa sul Lazio nell’Età del Bronzo!)».
Che differenza c’è tra scrivere un libro ambientato in un mondo immaginario, come lei ha fatto con i suoi romanzi fantasy, scrivere un romanzo di fantascienza ambientato nel futuro o in un presente parallelo, come lei ha anche fatto, e scrivere un romanzo come questo, storico, ambientato nel passato?
«La differenza è davvero piccola, una volta che chi scrive ha creato appieno e con chiarezza l’ambiente, il mondo del suo romanzo, sia con un solido lavoro di fantasia sia con una ricerca storica sul luogo e il tempo».
Lei ha raccontato di avere riletto in latino, in quest’occasione, il poema di Virgilio. E, se non sbaglio, si è laureata con degli studi sul nostro Risorgimento. Vado errata? E qual è in ogni caso il suo legame con il nostro paese?
«Sono laureata in realtà in letteratura rinascimentale francese e italiana. Ed è una laurea che ho conseguito un bel pezzo fa. In realtà, poi, temo di poter leggere meglio Petrarca che l’Unità. So del vostro Risorgimento, dunque, quello che può sapere ogni persona interessata a tutti i grandi movimenti di liberazione europei del XIX secolo. La mia conoscenza imperfetta del latino mi concede solo una lettura molto lenta, ma questo è un buon modo di leggere Virgilio».
Negli ultimi vent’anni, grazie a Harry Potter, il fantasy è diventato un vessillo globalizzato. Le piace il ciclo della Rowling? Sente qualche somiglianza con lei?
«Per dirla schietta, no. Però sono felice che il fantasy alla fine venga visto per ciò che è sempre stato, una delle più antiche e grandi forme letterarie».
Lei è anarchica e femminista. E ha quasi 82 anni. Nel corso della sua vita ha visto il mondo migliorare o peggiorare?
«L’anarchismo è un meraviglioso attrezzo con cui criticare tutte le altre teorie politiche. Il termine femminismo viene usato in così tante accezioni, molte ostili, ed è usato con tanta incuria, spesso tanta ignoranza, che non ha senso dire di qualcuno che sia femminista, oppure no. L’unico suffisso in “ista” che accetto come etichetta è quello della parola “taoista”. Quanto al “mondo” sta andando verso tempi duri davvero, perché per almeno duecento anni non abbiamo usato la Terra in modo saggio e responsabile».
Le donne occidentali oggi quale traguardo dovrebbero porsi?
«Non indossare mai, mai, mai un burqa. Né un burqa fisico né mentale né morale né religioso». Doris Lessing anche lei femminista, anche lei, tra le altre cose, scrittrice di fantascienza in tempi recenti ha espresso un giudizio drastico sulle giovani scrittrici inglesi: colpevoli, a suo dire, di frivolezza e vittimismo. Cosa ne pensa?
«Forse Doris Lessing non ricorda più quanto difficile sia la vita per i giovani, giovani scrittori, giovani scrittrici. Ma devo aggiungere che il binomio “frivolo e vittimista” descrive una bella fetta della narrativa contemporanea, scritta da uomini come da donne, da giovani come da vecchi, e non solo inglesi. Non possiamo però essere tutti profondi e generosi come José Saramago. E lui ci ha messo cinquanta-sessant’anni per conquistare quella saggezza e quella gentilezza».
Quali sono, se ci sono, gli errori piccoli, grandi, enormi compiuti dal femminismo?
«Non mi piace generalizzare. Posso dire che non credo che il femminismo abbia fatto grandi errori. Credo che molti uomini facciano un grande errore nel considerarlo ostile a se stessi e che molte giovani donne facciano un grande errore a pensare di non averne bisogno e che esso non abbia niente a che fare con loro».
Lei ha confessato che in questa parte della sua vita preferisce scrivere poesia anziché prosa. L’età e la condizione fisica influenzano la creatività di uno scrittore? Scrivere un romanzo lungo è anche una prova di forza fisica?
«Proprio così. Anche una novella chiede una pazzesca chiamata alle armi di tutte le mie energie vitali. Un romanzo però chiede che io mantenga energia e forza a pieno ritmo per mesi o per anni. Solo nel pieno della mia forza fisica, corporea, potrei cominciarne uno nuovo, sapendo che acquistando velocità mi trascinerebbe con sé. Ma la mia energia è esaurita da svariati acciacchi dell’età e non posso più intraprendere lunghi viaggi. Mi mancano molto, i lunghi viaggi.
Quando una poesia viene da me porta con sé la sua stessa energia, mi prende e mi porta con sé è come lottare con un angelo che ti trasporta in cielo».

Corriere della Sera 3.1.12
Scienza, sorgente della libertà
La ricerca abitua all'autocritica e al confronto di opinioni
di Edoardo Boncinelli


La nostra, si dice spesso, è la società della conoscenza, alimentata primariamente dai progressi della scienza portata avanti soprattutto, anche se non esclusivamente, nei laboratori dove si studiano fisica, chimica e biologia del nostro tempo. Tante cose si sono dette della scienza, dei suoi poteri e dei limiti, ma fare di tanto in tanto il punto su questo non è fuori luogo. Innanzitutto: che cos'è la scienza di oggi, piuttosto che quella di ieri o dell'altro ieri? È sostanzialmente un'impresa collettiva e progressiva, finalizzata a comprendere gli aspetti riproducibili del maggior numero possibile di fenomeni naturali e a comunicare a tutti il risultato in maniera riassuntiva e non contraddittoria, in modo di mettere in linea di principio chiunque in condizione di fare predizioni ed eventualmente costruire «macchine», materiali o mentali.
È una definizione un po' lunga e articolata, ma non può essere diversamente, se non si vuole perdere l'essenza del fenomeno, complessa e articolata al giorno d'oggi come non mai e in continua evoluzione. In tale definizione sono contenute alcune specifiche parole chiave. Impresa collettiva, per esempio, che sta a significare non solo e non tanto che oggi la ricerca si fa prevalentemente in gruppo, ma soprattutto che il controllo dei risultati ottenuti e della maniera di comunicarli è opera della comunità degli scienziati del mondo. L'impresa è poi progressiva perché, contrariamente a molte affermazioni correnti, la grande scienza va solo avanti, aggiungendo ogni giorno nuovi tasselli al corpus delle conoscenze acquisite: Einstein non ha cancellato Newton, e la meccanica atomica non ha vanificato l'opera della meccanica classica; l'ha soltanto aggiornata per far fronte e nuove esigenze e renderla idonea a nuovi ambiti di applicazione. In questa sede non possiamo soffermarci sul significato del criterio della riproducibilità nella scienza, ma non possiamo non ribadire l'importanza della comunicazione — chiara, concisa e non internamente contraddittoria — dei risultati ottenuti, pensata primariamente per gli addetti ai lavori, ma potenzialmente alla portata di tutti, uomini o donne, giovani o vecchi, iniziati o non iniziati, credenti o non credenti in una qualsiasi confessione. La comunicazione deve essere concisa per ovvi motivi pratici, ma soprattutto non deve essere internamente contraddittoria. Questo requisito apparentemente pleonastico distingue invece la scienza dalla maggior parte delle pseudoscienze, le quali contengono spesso affermazioni contraddittorie, e quindi non sperimentalmente verificabili, e un certo numero di definizioni ambigue che ne impediscono l'effettiva valutazione anche solo dal punto di vista logico. Il test finale è rappresentato poi dalla capacità di fare previsioni (e non solo di spiegare ciò che è avvenuto quando è già avvenuto, come fanno molte pseudoscienze) e di realizzare qualcosa di concreto, che può essere una vera e propria macchina o una procedura di calcolo oppure anche soltanto un ragionamento probatorio.
Detto ciò, cos'è che fa concretamente la scienza? Produce conoscenza, conduce ad applicazioni pratiche e dà un contributo significativo alla cultura. Vediamo uno per uno i tre punti. In primo luogo è lì per produrre e accumulare conoscenze certe e affidabili, anche se non ci potrà mai offrire quella Verità assoluta di cui tutti parlano ma che non è certo di questo mondo. Si dice spesso che le verità della scienza sono settoriali e temporanee. Benissimo, ma qualcuno mi sa indicare quale attività umana è in grado di offrire di più?
È perfettamente inutile ricordare le applicazioni pratiche che la scienza mette continuamente in campo, che qualcuno giudica perfino eccessive e incalzanti, ma vogliamo parlare un po' più distesamente dei contributi che la scienza ha dato e dà in continuazione alla cultura, prendendo spunto anche dal bel libro di Gilberto Corbellini, Scienza quindi democrazia (Einaudi, pp. XXVI-166, € 10). La scienza contribuisce in modo sempre più significativo alla cultura. Basti pensare a quante parole del nostro linguaggio quotidiano — vita, energia, evoluzione, mente, coscienza, sviluppo e via discorrendo — sono nate o si sono sviluppate in ambito scientifico. Ma è soprattutto la disposizione mentale tipica della scienza e dello «spirito scientifico» che si impone all'attenzione. I suoi capisaldi — razionalità, senso critico, capacità di mettersi in discussione, disponibilità a essere giudicati e ad ascoltare gli altri con mente aperta in un atteggiamento non aprioristico — sono anche il fondamento dello spirito democratico. O almeno così dovrebbe essere.
Non è un caso, come dimostra Corbellini con ricchezza di esempi, che i Paesi di più vecchia e solida democrazia sono anche quelli che più coltivano e tengono in considerazione scienza e spirito scientifico. Mentre in Italia «il degrado dell'etica pubblica e l'evaporazione del senso civico dipendono in buona parte da una tradizione sociale e antropologica refrattaria a empirismo e pragmatismo, e dall'assenza di un'educazione all'etica della responsabilità che ha messo le radici proprio nei Paesi dove la scienza si è sviluppata e diffusa». Ci sono però buone ragioni per ritenere che rimettere la scienza al centro possa ancora «creare benessere, libertà ed eguaglianza (morale e di opportunità)».

Corriere della Sera 3.1.12
Kavafis: tutta la vita in 10.800 secondi
È il tempo necessario per leggere tutte le sue opere Un «mago» che sa fondere suoni e sentimenti
di Ezio Savino


Diecimilaottocento secondi, tre ore. A tanto ammonta, in tempo crudo di lettura, il patrimonio poetico di Costantino Kavafis: 154 composizioni da lui «riconosciute», come prole legittima, per una somma di circa 2.700 versi. Ho regolato il cronometro sulla voce recitante di Giorgio Savvidis, editore ed esegeta del poeta alessandrino: la si ascolta sul website dell'Archivio Kavafis, è pura musica ellenica. Savvidis modula una riga in quattro, pastosi secondi, cesellando le pause, le rime, i contrappunti, gli sconfinamenti di un verso nel successivo, il gran campionario armonico di Kavafis, mago del suono. Il poeta s'ingegna sulle parole come il gioielliere, con il suo monocolo, lavora sulle gemme e sulle perle. Scarta le più opache. Riposiziona le altre, perché ne sprizzino barbagli di luce nuova. Incastona il frammento nell'ambra dorata di quel suo greco ipnotico, forgiato ad hoc. Si va dai 70 versi di «Miris: Alessandria, 340 d.C.», ai 4 di «Piacere»: ma il suo respiro aureo è di una ventina.
Concisione, trasparenza cristallina, leggibilità da incanto. Nessun bisogno di note esplicative a inciampo del godimento. È il primo segreto della fortuna planetaria di Kavafis. Tre ore di poesia. Un po' di più, se aggiungiamo i carmi da lui ripudiati, o lasciati a mezzo. Può sembrare un lasso esiguo. Invece è immenso, vale una vita. Ce lo garantisce Kavafis, in «Dalle nove». È solo, nella casa di Alessandria. Alle nove accende il lume (non ci sono lampadine elettriche nel suo salotto-bazar di Rue Lepsius, una rinuncia che il futurista Tommaso Marinetti, alessandrino come Kavafis e suo ammiratore, biasimava). E si presenta l'effigie del suo giovane corpo. Gli rammenta i piaceri, le stanze chiuse e odorose degli amori clandestini di un momento, le strade, i caffè, i teatri dei giorni andati. Poi sgrana il rosario delle memorie tristi, dei lutti, delle lacerazioni. Alle dodici e mezzo, il congedo. Com'è volato il tempo. Sono volati gli anni di un'esistenza intera. Kavafis è il signore del tempo. «Quando diciamo "Tempo" intendiamo noi stessi — scrive annotando Gioia Eterna di Ruskin —. La maggior parte delle astrazioni sono solo nostri pseudonimi. È superfluo dire "Il Tempo non ha falce né denti". Lo sappiamo. Il tempo siamo noi».
Poesia e vita. Poeta: così è scritto nell'ultimo passaporto di Costantino Kavafis, alla dicitura «professione». Una qualifica fantasiosa per un documento burocratico, ma che gli si pennella addosso come un abito di sartoria. L'altra, invece, quella reale (impostagli dalla decadenza economica della famiglia greca d'origine, un tempo florida) gli andava stretta. Era impiegato presso il Terzo Ciclo delle Irrigazioni, a Ramleh, quartiere di Alessandria d'Egitto, la sua città, dove era nato nel 1863, e dove sarebbe morto, cancro alla gola, nel giorno del settantesimo compleanno.
Esordì come copista calligrafo. Si pensionò da vicedirettore di una sezione in cui, poliglotta, correggeva la corrispondenza estera, tiranneggiando un paio di dattilografi. Maniaco del dettaglio, spediva i sottoposti nelle stanze accanto per togliere o aggiungere una virgola. «Mr Kavafis, Lei penelopizza il mio lavoro!» sbottò una volta un suo travet. L'intrusione della mitologica tela nella routine da scrivania avrà forse strappato un sorriso a quel volto che le foto ritraggono compassato, un cerone di mestizia e depressione. Ma la poesia irrompeva anche in ufficio. Si ricordano certe sue estasi istantanee, le braccia che scattano in alto, i pugni che frustano l'aria: il trionfo del poeta predatore, che agguanta l'attacco giusto, la chiusa impeccabile, la formula ispirata. Salvo poi sudarci sopra per un'eternità, variando a tratti di penna anche le parole già stampate, nella nevrosi spietata di chissà quale perfetta utopia.
Quando una poesia di Kavafis era finita? Quando lui usciva dalla «legatoria», stanza assolata sul retro del suo appartamento, s'infilava il soprabito sgualcito e bussava al libraio-tipografo. Consegnava il foglietto con le rime tornite esclamando: «Lo prenda, mi brucia la mano come un carbone acceso!». Ma era fuoco provvisorio. Rovistava nelle ceneri fredde, a distanza di anni, cercando la sua fenice, il verso ideale. Distribuiva a mano copie singole e fascicoli delle sue poesie ai più fidati, a qualche rivista. Di venderle, neppure a parlarne. Era un alibi: spesso richiedeva la pagina a chi l'aveva spedita. Intanto, raccontava storie. Un altro suo fascino che strega chi lo legge. Non sappiamo se, come fa Stephen King, pregasse ogni mattina il suo dio: «Dammi oggi una buona storia».
Certo è che il cielo, in quest'arte, ha baciato Kavafis. Ambienta le sue poesie «storiche» nell'ellenismo, lo strascico favoloso di secoli che seguì imprese e morte di Alessandro, con i regni fieri, possenti o fantocci dei suoi diadochi, in Macedonia, in Siria, nell'Alessandria caput mundi dei tempi, finché il trono passò a Roma. Di quest'epoca, e della seguente bizantina, Kavafis si sentiva sopravvissuto e profeta. Sradicato, però, come i suoi Posidionati. Li celebra nella poesia omonima: ex greci che avevano colonizzato il golfo tirrenico, imbarbarendo lingua e costumi. Per riattizzare le memorie ancestrali e non sentirsi più stranieri in patria, i Posidionati celebravano un'annuale festa ellenica, con cetre e flauti, corone di fiori e giochi. Una finzione nostalgica. Noi ascoltiamo di quegli uomini antichi, ma sentiamo che sotto chitoni e tuniche c'è Costantino, con la sua passione tenera e tragica di ricostruirsi un'identità, anche a costo di inventare una lingua fittizia.
Nei suoi testi, date e particolari storici sono impeccabili. Gli accademici gli bollavano presunti sgarri, ma lui rintuzzava con note piccate. In «Re alessandrini», lo splendido ragazzo Cesarione sfavilla in un manto di seta rosata. Un anacronismo? No, la Cina era lontana, ma la greca Chio produceva il tessuto secoli prima che i monaci importassero il baco. Nella splendida «Artefice di crateri», un artigiano dell'argento scolpisce sul vaso le fattezze del ragazzo amato, il suo piede che gioca nell'acqua. Era caduto in battaglia, l'efebo, molti anni prima. Lo scultore invoca la Memoria, che gli ridia l'immagine del viso, delle carni adorate. La magia si compie. I secoli si annientano. Nel petto dell'artista antico è murato il cuore di Kavafis.

Versi inediti e testi rari dell'autore di «Itaca»

È dedicato al poeta più tradotto del Novecento, Costantino Kavafis (1863-1933), il secondo volume della nuova collana «Un secolo di poesia» del «Corriere della Sera», in edicola a partire da oggi (a 7,90 euro più il prezzo del quotidiano). Il volume, intitolato La memoria e la passione, come ha anticipato al «Corriere» il curatore dell'intera collana, Nicola Crocetti, è un'antologia di testi dell'autore greco creata ex novo per questa iniziativa editoriale dal grecista Filippomaria Pontani, e non solo comprende alcune delle poesie più importanti e più belle dell'autore, da «I barbari» a «Itaca» per citarne soltanto due, celeberrime, ma anche numerosi inediti, per l'occasione proposti nella nuova traduzione del curatore Pontani, autore anche dell'introduzione e di una ricca appendice di «note». Ma la raccolta presenta anche numerosi testi in prosa di Kavafis pochissimo conosciuti in Italia o del tutto inediti (dalle «Note di Poetica e Morale», pubblicate postume da Savvidis nel 1983), in cui si rivelano aspetti inattesi della personalità del poeta: il suo amore per «gli scherzi, l'ironia, l'umorismo con parole forbite», per esempio, o la sua commozione per «la bellezza del popolo» e l'irritazione davanti a certa volgarità della ricchezza. Con questo spirito, di divulgazione ma anche di riscoperta (con nuove traduzioni e introduzioni), o di scoperta tout court, sono scelti i testi antologizzati nell'intera collana, che proseguirà la settimana prossima con la terza uscita dedicata a Pablo Neruda (in edicola il 10 gennaio) nel volume Tra le labbra e la voce, curato da Giuseppe Bellini e con l'introduzione di Ranieri Polese. (Ida Bozzi)

Corriere della Sera 3.1.12
Un dizionario cattura le parole in rete
Troppi neologismi e la lingua duole
di Carlo Formenti


Per conquistare uno spazio sulle pagine di un dizionario «classico», un neologismo deve affrontare l'esame severo di linguisti e lessicografi e, in generale, supera la prova solo dopo essere entrato da un pezzo nell'uso quotidiano. Questo scarto fra linguaggio «ufficiale» e linguaggio parlato è destinato ad aumentare nell'era di Internet, visto che il nuovo medium funziona come potente dispositivo di produzione di nuove parole. Per far fronte a tale sfida è nato Wordnik, un dizionario online di nuova generazione che sfrutta algoritmi che monitorano in tempo reale blogosfera, social network, archivi online e quant'altro in cerca di ogni tipo di innovazione linguistica.
Il linguaggio evolve quotidianamente, sostengono gli ideatori del progetto e noi, per essere in sintonia con i suoi mutamenti, aggiungiamo automaticamente i nuovi termini alle nostre voci a mano a mano che entrano in uso, senza sottoporli ad alcun filtro specialistico. Invece che alle tradizionali definizioni, i neologismi vengono associati a esempi tratti dal web per consentire all'utente di comprenderne il significato dal contesto. I linguisti hanno dato pareri contrastanti sull'esperimento: per alcuni si tratta di un lodevole sforzo di creare un dizionario più vicino ai reali interessi della gente; altri sostengono che Wordnik contiene non poche definizioni incomprensibili o scorrette, aggiungendo che non potrebbe essere altrimenti, visto che nessuna macchina può sostituire il lavoro di un esperto lessicografo.
Esiste tuttavia un altro interrogativo che si potrebbe sintetizzare così: è vero che assistiamo al proliferare di neologismi, ma è altrettanto vero che molte di queste parole appaiono destinate a sparire con la stessa rapidità con cui si sono diffuse, restando confinate nell'ambito delle mode culturali, ma, se le cose stanno così, elevandole al rango di voci di un dizionario «generalista» non rischiamo di «imbastardire» (riducendone il rigore e la precisione) il linguaggio più che di innovarlo?

La Stampa 3.1.12
Iofan, l’archistar dell’utopia staliniana
Prima di diventare il costruttore di regime, aveva studiato e lavorato a Roma. Una mostra a Mosca oggi lo celebra
Una figura complessa. Iscritto al Pci, conosceva Gramsci e Togliatti. La moglie era una nobile «bolscevica»
Il capolavoro mancato: la Casa dei Soviet un’opera monumentale che non fu mai costruita
di Anna Zafesova


È vissuto in un palazzo costruito da lui, con vista sul cantiere di quella che avrebbe dovuto diventare la sua opera più maestosa, ed è morto in una casa di cura progettata da lui. La vita di Boris Iofan, nato 120 anni fa, è letteralmente iscritta nella pietra, e il suo destino si può seguire con la guida di Mosca in mano. Architetto dei più importanti monumenti staliniani, e soprattutto autore dell’utopia in pietra e cemento armato del Palazzo dei Soviet, dopo anni di trionfi è stato relegato ai manuali, più di storia che di architettura, come il simbolo della propaganda in mattone della dittatura. Ora il Museo dell’architettura di Mosca gli dedica una mostra, dal titolo eloquente «L’architetto del potere», ma la curatrice Maria Kostiuk nega nostalgie ideologiche: «Non è un tentativo di magnificare Iofan, semmai di svelarlo al pubblico».
Un architetto misterioso, che sfugge alle definizioni. Il suo nome latita nei dibattiti infuocati, creativi e politici, degli anni 20, quando sbarca in una Mosca dominata da personaggi del calibro dei fratelli Vesnin, Moisey Ginzburg o Konstantin Melnikov. È quasi uno straniero, arriva da Roma, dove ha studiato e lavorato per 10 anni, passando prima per Pietroburgo e Parigi. A reclutarlo, nel 1924, è il primo ministro Alexey Rykov, che verrà arrestato (e fucilato) nel 1937, mentre Iofan miete il suo ennesimo trionfo, il padiglione sovietico all’Expo di Parigi, sormontato dalla statua L’operaio e la colcosiana, altra icona del regime. È iscritto al Pci dal 1921, e frequentava Togliatti e Gramsci, ma chi lo conosce dice che non era un fervente comunista, semmai odiava lo zar, memore dei pogrom degli ebrei nella Odessa della sua infanzia. Mosca gli è estranea, e forse anche per questo la cambia con disinvoltura. È sconosciuto, nel suo portfolio una decina di lavori a Roma e dintorni: case, villini, cappelle a Verano, terme e cimiteri a Narni, la centrale elettrica di Acquoria a Tivoli, ma ottiene subito le migliori commesse. Villaggi operai, case di cura per la nomenclatura, accademie e soprattutto la «Casa sul fiume», un gigantesco blocco grigio sulla Moscova, che detta gli standard del lusso comunista. Le stanze sono grandi, e tante, le cucine piccolissime, perché il complesso contiene (oltre a cinema, asili, teatri e tintorie) una mensa. L’uomo nuovo deve preferire l’alimentazione in pubblico all’individualismo borghese, ma gli appartamenti prevedono la stanzetta per la servitù. Iofan viene premiato con un appartamento, e ne diventa uno degli inquilini più longevi: ci abiterà per tutta la vita, mentre la maggioranza dei suoi vicini della nomenclatura verranno prelevati di notte dalla polizia segreta, senza riuscire a godersi la nuova residenza.
Ovviamente il cuore dell’esposizione è dedicato al Palazzo dei Soviet, con il plastico della «torta nuziale» come venne definito sprezzantemente dai colleghi europei, infuriati anche per la bocciatura al concorso di Le Corbusier, questo incubo di quasi 500 metri di altezza – di cui 80 metri occupati da una statua di Lenin con la testa che finiva letteralmente tra le nuvole – che ormai è considerato nella lista dei crimini, per fortuna incompiuti, del comunismo. Il concorso per l’edificio di fronte al Cremlino nel 1932 ha segnato simbolicamente la fine delle sperimentazioni dell’avanguardia, e l’arrivo di un’architettura faraonica, di cui Iofan viene consacrato massimo sacerdote. I disegni – alcuni restaurati per l’occasione – mostrano però un progetto tormentato. Le prime proposte, ancora venate di idee avanguardiste, vengono appesantite man mano che il potere richiede nuove magnificenze. L’altezza aumenta, le statue e i colonnati si moltiplicano, Lenin dal piedistallo all’entrata si sposta in vetta. Nel cantiere, sul sito della cattedrale di Cristo Redentore, fatta esplodere, fervono i lavori, mentre intere fabbriche vengono impegnate per le tappezzerie e le maniglie di bronzo del tempio comunista. «Non è vero che la costruzione si rivelò impraticabile, se non fosse stato per la guerra sarebbe stato realizzata», dice Kostiuk, smentendo una leggenda diffusa a Mosca.
Il progetto si blocca, ma vengono costruite le sette torri che dovevano incorniciarlo. Un’altra idea di Iofan, che però viene brutalmente allontanato dal cantiere del grattacielo più imponente, l’Università. Nel frattempo Stalin muore, Kruscev ne denuncia i crimini, tra i quali l’urbanistica, «espressione di un’architettura della pretenziosità, dell’inverosimile e dell’assurdo, non adatta alle esigenze del popolo sovietico». È un contadino pragmatico, che riempie le città di parallelepipedi a cinque piani che avrebbero portato il suo nome, e trasforma la fossa del Palazzo, già allagata dal vicino fiume, in una piscina all’aperto. Gli edifici staliniani continuano a dominare Mosca e plasmare l’immaginario dei suoi abitanti, ma le torri e i colonnati del «tardo Repressance» diventano una presenza ingombrante urbanisticamente e ideologicamente. Iofan però continuerà a lavorare fino alla morte nel 1976, dedicandosi sia a quartieri periferici che a edifici più prestigiosi.
Merito, secondo Kostiuk, «della felice qualità di adattarsi sia alle esigenze del committente che allo spirito del tempo». Federica Patti, architetto e ricercatrice torinese che per prima in Italia ha indagato i trascorsi romani di Iofan legandoli all’ascesa sovietica, lo descrive come un abile gestore di relazioni: «Distante dal dibattito professionale, ma molto vicino a quello politico». A Roma frequenta sia l’aristocrazia che gli esuli russi spiati dalla polizia politica. Come sua moglie, Olga di Sasso Ruffo, figlia di una principessa russa e cognata di un gran duca Romanov, ma «attivissima propagandista bolscevica» secondo i rapporti degli agenti. Una flessibilità che si manifesta anche nell’arte: dopo gli studi al Regio istituto delle belle arti lavora con Armando Brasini, appassionato di barocco, constatando di avere «gusti artistici divergenti», ma invitando poi il maestro al concorso per il Palazzo (del quale, prima che vincitore, l’«architetto del potere» fu consulente e organizzatore). A Roma viene esposto alle influenze più diverse, dall’Art Nouveau al futurismo, dalle eterne rovine antiche agli incontri con Piacentini e Giovannoni. Fa il volontario ad Avezzano dopo il terremoto del 1915, lavora con le cooperative edili, frequenta i salotti aristocratici e l’ambasciata sovietica, in una breve luna di miele in cui l’Italia da poco fascista e la neonata Urss hanno rapporti politici e commerciali, e un’intensa attrazione ideologica ed estetica.
Un pezzo della storia di Iofan che la mostra al Museo dell’architettura di Mosca rivela al pubblico russo per la prima volta, insieme ad altri aspetti di un architetto famoso quanto sconosciuto. Per Alessandro De Magistris, professore del Politecnico di Milano e massimo esperto italiano dell’architettura sovietica, una commemorazione che restituisce l’immagine complessa di un architetto banalizzato dall’ideologia, tutt’altro che un «becchino dell’avanguardia». E che ha segnato luoghi di Mosca che continuano a essere snodi di storia anche dopo la sua morte. Sul sito del Palazzo dei Soviet è stata ricostruita la cattedrale del Redentore, fatta esplodere per fare spazio al progetto di Iofan. E da due settimane l’opposizione di Mosca si raduna per chiedere le dimissioni di Putin davanti alla Casa sul fiume, che rientra così, grigia e impassibile, al centro della nuova rivoluzione russa.

La Stampa 3.1.12
Craxi-Berlinguer il dialogo impossibile
Il socialista voleva portare nel 1984 l’«avversario» a Milano per fargli capire la nuova Italia
Il comunista arrivò a definire il primo governo a guida Psi come un pericolo per la democrazia
In un saggio di Acquaviva la stagione del «duello a sinistra» uno scontro di linee politiche ma anche di caratteri
di Marcello Sorgi


La storia degli anni più difficili del «duello a sinistra» - gli anni di Craxi e Berlinguer, il «decennio lungo», come fu definito da Gaetano Quagliariello, cominciato con la morte di Moro e la fine del «compromesso storico» e finito con la caduta della Prima Repubblica - rivive in un interessante volume a cura di Gennaro Acquaviva (che in quel periodo fu a fianco del leader socialista al partito e al governo) e Marco Gervasoni, Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, edito da Marsilio.
È un serio tentativo di rileggere in modo non convenzionale l’epoca dei fischi con cui i due leader venivano accolti dalle opposte tifoserie, della rottura più profonda tra i due maggiori partiti della sinistra, della durissima opposizione portata dal Pci berlingueriano al primo governo a guida socialista, fino al tramonto dell'ultima prospettiva unitaria in Europa, travolta, anche questa, dalla tempesta di Tangentopoli che investe in pieno Craxi e il Psi. Un modo di superare, come spiega Acquaviva, «la banalità delle vulgate, come ad esempio quella che tuttora racconta di un dissidio caratteriale esasperato tra Craxi e Berlinguer; o l’altra che imputa l’incomunicabilità tra socialisti e comunisti alle debordanti ambizioni, più da parvenu che da protagonisti, che caratterizzarono allora gli atteggiamenti e i comportamenti del gruppo dirigente del Psi, con ciò muovendo e motivando la dura opposizione condotta, anche dopo il crollo del muro, dai giovani turchi allevati da Berlinguer».
Un lungo solco divideva i due partiti già molto prima dell’inizio del «duello» che ebbe il suo clou nel mezzo degli Anni Ottanta, con lo scontro durissimo sul taglio della scala mobile deciso dal governo Craxi il 14 febbraio 1984, la morte di Berlinguer nel maggio successivo, dopo l’annuncio del referendum che si sarebbe tenuto l’anno dopo e in cui il Pci orfano e ormai post-berlingueriano avrebbe trovato una sconfitta storica.
Ma anche se certo le radici della divisione datavano dal 1956, l’anno dell’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss, e opponevano già Togliatti e Nenni, qualcosa di personale, se non proprio di caratteriale, tra Craxi e Berlinguer c’era di sicuro. Lo dimostrano i molti e gustosi aneddoti, sparsi qui e là tra le pagine degli interventi di Luciano Cafagna, Piero Craveri, Luigi Covatta, Luciano Pellicani, Marc Lazar, per citare i principali, e nelle testimonianze di Emanuele Macaluso, Rino Formica, Claudio Signorile, Gianni Cervetti, Carlo Tognoli, Claudio Petruccioli.
Tra tanti, uno che riguarda il famoso incontro alle Frattocchie, l’antica scuola-quadri del Pci situata in una villa vicino Roma, tra le delegazioni dei due partiti poche settimane prima dell’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi. Con ogni evidenza si trattava di cercare di salvare il salvabile, le amministrazioni di sinistra, la collaborazione internazionale, la convivenza nel maggior sindacato, la Cgil, dall’ondata di polemiche che, si capiva, avrebbe accompagnato la formazione del governo a guida socialista, che Berlinguer sarebbe arrivato a definire «pericoloso per la democrazia».
Come ricordano ancora oggi tutti i presenti all’incontro, tutto si svolse in un’atmosfera gelida. Il leader comunista, intervistato qualche giorno dopo, si rifiutò perfino di commentare il clima, definendolo burocraticamente «né particolarmente accentuato in un senso, né in un altro». Il segretario socialista, per dare un’idea della distanza con il suo interlocutore, riferì di aver trovato Berlinguer «fermo alla televisione in bianco e nero». A un certo punto Craxi, disperato per l’incomunicabilità invalicabile del confronto, si era alzato, aveva preso sottobraccio Alfredo Reichlin, uno dei più importanti componenti della delegazione comunista, e gli aveva chiesto: «Senti, secondo te, ci verrebbe a Milano? Perché gli devo fare vedere e capire certe cose di come sta cambiando l’Italia».
Naturalmente Reichlin non aveva l’autorità per convincere il suo segretario a farsi un giro milanese con il leader del Psi. Ma in conclusione, secondo Cafagna, autore con Giuliano Amato del primo saggio intitolato Duello a sinistra, «l'episodio è interessante per comprendere che tipo di rapporto culturale c'era tra Craxi e Berlinguer».

La Stampa 3.1.12
“Generazione Maya” il futuro che vi aspetta
Vita media, famiglia, salute, cibo, istruzione e lavoro Cosa attende i nuovi nati secondo le ultime ricerche
di Federico Taddia


L’esistenza sarà sempre più lunga e si toccheranno in media gli 81,5 anni
Crescono i rischi di obesità e la pensione non sarà realtà prima dei 70 anni

Caro Alessio, cara Sofia, cari Arianna, Takwa e Andrea, ecco qua il futuro che vi aspetta, a voi e a tutti gli altri fiocchi rosa e azzurri che sbocceranno nei prossimi mesi. Niente oroscopi, cartomanzia o fantapreveggenze: ci pensano i numeri, i dati e i grafici delle ricerche demografiche a disegnare gli scenari che attendono la «Generazione Maya», come qualcuno ha già scherzosamente soprannominato i nati del 2012.
La prima buona notizia arriva dalle statistiche elaborate dall’Onu. I bambini italiani saranno tra i più longevi al mondo, con un’aspettativa media di vita di 81,5 anni: le donne sfioreranno gli 84 anni e gli uomini i 78,5. Ancora lontani dall’aspettativa media giapponese che si aggira sugli 87 anni, ma poco distanti da Svizzera e Francia, che vantano rispettivamente una longevità di 82,4 e 81,8 anni. E sarà un’Italia con molti più nonni che nipoti: secondo l’Istat l’età media della popolazione passerà dai 43,5 anni attuali ai 49,7 del 2065, quando gli ultra 65enni saranno il 33,2% della popolazione rispetto al 20,3% di oggi. Mentre gli under 15, che attualmente sono il 14% dei residenti, sempre nel 2065 caleranno al 12,7% di una popolazione stimata attorno a 61,3 milioni.
Sarà anche un futuro di figli unici quello fotografato dai dati demografici, visto che continua il trend negativo delle famiglie con due o più figli: le mamme sono sempre più spesso di età superiore ai 30 anni, e le nascite avvengono soprattutto da coppie sposate: l’80%, quasi il doppio rispetto a Paesi come Norvegia e Svezia. Ed è proprio il nucleo familiare a occuparsi dei pargoli nei primi anni di vita: secondo i dati Ocse solo il 30% dei bambini fino ai due anni frequenta l’asilo nido, mentre nella fascia successiva, tra i tre e i sei anni, quasi il 100% è iscritto alla scuola d’infanzia.
L’Ufficio Studio Allianz, in una dettagliata analisi sulla società italiana nei prossimi anni, lancia un sasso di ottimismo per quanto riguarda la scolarizzazione delle nuove generazioni: se la media europea parla di un laureato su tre fra i giovani tra i 25 e i 34 anni, in Italia la percentuale è attualmente solo del 20%, ma ben nove punti sopra all’11% registrato nel 2000. Proiettando il trend positivo nel futuro, si può quindi ipotizzare che nel 2030 uno su tre dei bambini nati oggi sarà iscritto all’Università.
Un tasto dolente è invece quello riguardante salute e obesità. L’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, ha già lanciato l’allarme: due terzi dei cittadini europei non raggiunge i 30 minuti di attività fisica al giorno, considerata la soglia minima per limitare le patologie derivanti dalla vita sedentaria. E anche gli italiani, lo sport preferiscono praticarlo davanti alla tv: da uno studio Istat risulta che il 35,5% degli uomini e quasi il 50% delle donne non fa alcun tipo di moto. Tendenza che, se confermata, porterebbe tra circa 45 anni ad avere metà degli italiani con problemi di sovrappeso e patologie legate all’obesità. Potrebbero però cambiare le abitudini alimentari, con meno snack e più cavallette: se da un parte, infatti, il ministro della Salute Renato Balduzzi sta studiando l’ipotesi di tassare il cibo spazzatura per limitarne il consumo, dalla Commissione europea arrivano direttive e fondi per studiare l’inserimento degli insetti anche nelle diete occidentali. La carne sarebbe invece sempre meno gettonata sulle nostre tavole: stando a un’indagine elaborata dall’Eurispes, entro il 2050 saranno 30 milioni i vegetariani in Italia, mentre nel 2000 erano appena 1,5 milioni.
Dalla culla alla pensione il passo invece sarà tutt’altro che breve: con la riforma del welfare tutta in divenire è presto per parlare di numeri, ma è probabile che i nati oggi potranno lasciare il lavoro solo attorno ai 70 anni: arzilli vecchietti pronti a viversi la loro seconda, tarda, giovinezza. Aiutati ovviamente dalle nuove tecnologie, come quelle recentemente presentate da Ibm con «5 in 5», una selezione delle innovazioni che potranno rivoluzionare, o quanto meno migliorare, la nostra vita. Si va dalla luce che si accende col pensiero, al Bancomat che si attiva senza codice pin ma semplicemente riconoscendo l’iride dell’occhio, passando per mail intelligenti anti-spam, cellulari in grado di gestire ogni secondo della giornata e abitazioni che produrranno energia sfruttando tutto ciò che si muove, come gli esercizi ginnici domestici e l’acqua che scorre nei tubi. O magari il movimento di un bambino che impara a gattonare, preferibilmente nato nel 2012.

La Stampa 3.1.12
Il segreto della Luna: è sbilenca
Due sonde della Nasa entrano in orbita per svelare uno dei tanti misteri del nostro satellite
di Valentina Arcovio


L’anomalia Il lato nascosto si è rivelato più spesso di quello che è visibile e tra gli scienziati è cominciata la discussione
L’ipotesi E’ possibile che milioni di anni fa i pianeti fossero due e che poi si siano scontrati e «fusi» l’uno nell’altro

Per un bel po' di anni l'avevamo quasi dimenticata, oscurata da altri corpi celesti considerati ben più affascinanti. Marte per dirne uno. Osservare la Luna sembrava essere diventato solo roba da poeti e romantici e non da scienziati curiosi a caccia di misteri. Eppure, ora questo nostro satellite, la cui conquista davamo quasi per scontata, torna a stuzzicare la nostra fantasia e ci promette nuove sorprese. Prova ne è il rinnovato interesse che le agenzie spaziali di tutto il mondo stanno dimostrando nei riguardi della nostra vecchia Luna.
La Nasa, ad esempio, ha lanciato il 10 settembre scorso dalla base di Cape Canaveral le due sonde gemelle «Grail» (acronimo di Gravity Recovery and Interior Laboratory), che hanno viaggiato per tre mesi e mezzo per poi trovarsi insieme, il giorno di Capodanno, nell'orbita lunare. Non appena avranno raggiunto la posizione ottimale, cominceranno a lavorare in tandem e a partire dal prossimo marzo inizieranno a raccogliere dati che permetteranno di ricostruire la controversa storia della Luna con un dettaglio senza precedenti e, di conseguenza, di studiare meglio sia il nostro pianeta sia il nostro Sistema Solare in generale.
Costata complessivamente 496 milioni di dollari, la missione «Grail» potrebbe far luce anche su un nuovo mistero portato a galla proprio ieri dal «Washington Post». Sembrerebbe, infatti, che il nostro satellite sia sbilenco, cioè che abbia la parte posteriore più spessa del lato anteriore. E nessuno sa ancora il perché, nonostante tutte le missioni lunari effettuate fino ad oggi. Potrebbero essere proprio le due nuove sonde americane a svelare l'arcano, appoggiando o confutando l'ipotesi sconvolgente che circola ormai da un po' nella comunità scientifica, secondo cui, milioni di anni fa, una luna più piccola si sarebbe schiantata sul nostro satellite.
Per quanto gli americani abbiano un grosso vantaggio storico su di noi, l'interesse per la Luna è però anche europeo. Tra il 2016 e il 2018, infatti, l'Agenzia Spaziale Europea ha in programma una missione robotica lunare, la prima per l'Esa. Questa volta al centro dell'interesse c’è il Polo Sud, una regione ancora inesplorata e di grande fascino, perché sembrerebbe nascondere tracce d'acqua. Le ultime scoperte scientifiche, infatti, stanno dimostrando che la Luna non è arida come si pensava e che quindi l'uomo ha davvero tante cose ancora da imparare e da cercare: per esempio il ghiaccio lunare.
Ma il futuro della ricerca sulla Luna non avrà soltanto delle macchine e dei robot come protagonisti. Dopo quasi mezzo secolo l'uomo potrebbe infatti tornare a calpestare il suolo lunare, come fece nel 1969 Neil Armstrong con la celeberrima missione Apollo 11. Tre anni dopo quella storica data, nel dicembre del 1972, la missione Apollo 17 fu l'ultima che portò l'uomo su un altro corpo celeste. Almeno è stato così fino al recente annuncio della Cina di un nuovo progetto che dovrebbe portare un astronauta di Pechino sul suolo lunare tra otto-nove anni.
L'interesse, comunque, non è soltanto di tipo scientifico. Guardando ancora più in là nel futuro, infatti, è possibile che il nostro satellite si trasformi in un laboratorio per testare nuove tecnologie oppure una tappa intermedia per nuove e interessanti missioni su altri corpi celesti. Prima di tutto per l’attesa e storica missione umana su Marte.