l’Unità 7.5.11
Napolitano risponde sul referendum: «Io vado a votare. Sono un elettore faccio sempre il mio dovere»
Oggi il via libera
Ultimo passaggio alla Consulta Il neo-presidente: non si può fermare il voto
La sfida del Pd
«Faremo di tutto per ottenere il quorum»
Votata all’unanimità la relazione del segretario. «Saremo il centro dell’alternativa riformista»
Botta e risposta con Vendola, poi il chiarimento. Le primarie dopo programma e alleanze
Bersani: «Pd sarà il primo partito» Ma l’ipotesi del voto si allontana
La «sfida» di Bersani: «Pd primo partito e centro dell’alternativa riformista». La minoranza interna apprezza. Votata all’unanimità la relazione del segretario. Botta e risposta con Vendola, poi il chiarimento.
di Simone Collini
Bersani chiede che il governo si presenti dimissionario alla verifica parlamentare prevista tra due settimane, ma in realtà né il leader del Pd né i membri della Direzione a cui sta parlando si fanno troppe illusioni sul fatto che si vada a votare in tempi brevi. Non a caso la relazione del segretario e poi la discussione a porte chiuse che si sviluppa al terzo piano del Nazareno sono tutte impostate su quel che dovrà fare il partito da qui fino al prossimo autunno: sull’organizzazione interna, sul programma di governo, sulle alleanze. In questi giorni il Pd, assicura Berani «farà di tutto per raggiungere il quorum» (un sondaggio appena arrivato al Pd gli fa dire che è «difficile ma non impossibile») ma neanche dopo il referendum, è la convinzione che circola ai vertici del partito, ci sarà un atto di resipiscenza da parte del governo.
E allora c’è tempo per organizzarsi: in autunno si farà una conferenza programmatica sul partito che non sarà, avverte il segretario «un congresso scimmiottato»; c’è tempo per lavorare alle alleanze evitando gli errori del passato: la «carovana» dell’Unione e l’esperienza del ‘93-‘94, quando i Progressisti vinsero le amministrative e poi persero clamorosamente le politiche (viene evocata da D’Alema, Fioroni e altri, al che Bindi ricorda che «il Pd nel '93 non c’era e non è cosa buona fare questi automatismi»; e c’è tempo, se non si andrà a votare nei prossimi mesi, per ingaggiare la «sfida» che per Bersani ora è a portata di mano.
LA SFIDA, PD PRIMO PARTITO
La fase è da stato di grazia come poche altre volte, col centrosinistra vittorioso alle amministrative e col Pd unito come non mai: dopo sei ore di dibattito la relazione del segretario viene votata e approvata all’unanimità. Dice Bersani sottolineando che in caso di crisi di governo «la strada maestra è il voto»: «Si apre una nuova fase per il Paese, dobbiamo essere all’altezza delle nuove responsabilità. La nostra sfida è essere il primo partito e il soggetto primario dell’alternativa democratica e riformista». Sulla sua scrivania c’è da qualche giorno un sondaggio secondo il quale il Pd ha già superato il Pdl (29,2% a 27,5%) ma il leader democratico sa che il dato va stabilizzato lavorando sul partito e su un «nuovo patto per l’Italia» da discutere poi con tutte le forze di opposizione. «Non ripercorreremo strada dell’Unione, il Paese non ha bisogno di generiche carovane ma di una rotta decisa».
Un’impostazione che piace alla minoranza, con Veltroni che apprezza la relazione del segretario e insiste sul «profilo riformista» del Pd e con Fioroni che esclude un congresso del Pd a breve e invita invece Bersani a candidarsi alle primarie per la premiership non perché lo dice lo Statuto («definizine burocratica e usurante»): «Noi dobbiamo avere il coraggio di scegliere Bersani come candidato perché se c’è un gruppo dirigente unito e coeso sarà in grado di farlo vincere e far sì che il Pd abbia un solo candidato». Parole interpretabili anche come una rinnovata richiesta a coinvolgere nella gestione del partito la minoranza interna, ma che in ogni caso Bersani liquida con un «prima viene il programma e poi le persone». Il leader del Pd sa che guidando il «primo partito» le sue chance aumentano, ma per ora sta fermo al solito «io ci sono, ma non mi metto davanti al progetto».
Un altro esponente politico che chiede di svolgere subito le primarie, Vendola, si è risentito per una frase di Bersani sul fatto che l’affidabilità politica di Sel verrà valutata prima del voto: «Dichiarazine un po’ pelosa e meschina nei miei confronti, nessuno nel centrosinistra può mettersi in cattedra e considerare gli interlocutori come alunni da sottoporre agli esami». Il leader del Pd spiega dopo la Direzione che si è trattato di un «fraintendimento»: «Non sono un maestrino, ma dobbiamo fare un patto chiaro ed esigibile». Vendola apprezza e ringrazia per il «chiarimento». Ma sia nella Presidenza di Sel (riunita sempre ieri) che nella Direzione del Pd, più d’uno prevede un lavoro duro per arrivare a un programma di governo condiviso e confessa che non sarà poi così drammatico, se non si andrà alle urne in tempi rapidi.
Corriere della Sera 7.6.11
Vendola-Bersani, scontro sull’ «affidabilità» Il duello sul «profilo di governo»
Il leader di Sel: non accetto esami. Il segretario pd: mai più carovane. E D’Alema litiga con l’ «Unità»
di Monica Guerzoni
ROMA — La Grande Paura dei democratici affonda radici nel biennio 1993-1994. Quando i progressisti, dopo aver vinto le Amministrative, si schiantarono alle politiche con la gioiosa macchina da guerra guidata da Occhetto. Evocato prima da D’Alema, poi da Fassino, quindi da Fioroni e Anna Finocchiaro, il fantasma della sconfitta aleggiava ieri sulla direzione nazionale, finché la presidente Rosy Bindi non si è incaricata di scacciarlo: «Posso ricordare che il Pd nel ’ 93 non c’era? Non è cosa buona fare questi automatismi...» . I democratici non hanno dimenticato e le loro riflessioni sono variazioni sul tema «come non ripetere gli errori del passato» . Bersani dice di avere le idee chiare e festeggia il «risultato eccellente» . Ha ritrovato l’unità del partito, ma deve vedersela con i potenziali alleati: Vendola che lo insulta da sinistra e i centristi di Casini che lo punzecchiano da destra. Colpa di D’Alema, che ha criticato «pigrizie, furbizie e terzoforzismi» del nuovo polo tirandosi dietro le repliche infastidite dell’Udc. E al leader di Sel non è piaciuto quel passaggio dell’intervista di domenica al Corriere in cui il leader del Pd dice che toccherà, prima del voto, verificare l’affidabilità di Vendola e compagni. Che «spocchia» , si arrabbia il presidente della Puglia. La parte dello «scolaretto» gli sta stretta e pretende scuse democratiche per la «dichiarazione un po’ pelosa e meschina» di Bersani. Finché alle sei del pomeriggio il segretario derubrica il caso a «fraintendimento» e ci scherza su: «Non sono un maestrino che detta i compiti...» . Spazza via l’immagine del leader in cattedra, però pianta ben saldi i paletti per un «patto forte ed esigibile con il Paese per un progetto di governo impegnativo» . Ma sia chiaro che l’Unione non tornerà, Bersani non ha alcuna intenzione di guidare «generiche carovane» con dentro tutti gli oppositori di Berlusconi. La svolta maggioritaria ricompatta le anime del Pd, però infastidisce le altre forze delle opposizioni, che soffrono il ritrovato protagonismo dei democratici. «Vogliamo essere il primo partito, si apre una nuova fase per il Paese— guarda alle Politiche Bersani —. Il Pd deve investire su se stesso» . Tre i fronti aperti per il rilancio dell’iniziativa riformista. Impegno per il referendum, programma per l’alternativa e consolidamento del Pd. Entro giugno tornerà a riunirsi la direzione, poi Bersani lancerà una conferenza nazionale che «ci aiuti a migliorare» . Applausi, voto e relazione approvata all’unanimità. Anche Veltroni loda Bersani, ben contento che il segretario abbia ragionato di partito aperto, messo «in sicurezza» le primarie e chiarito che le alleanze vengono dopo il programma. Quanto alla premiership, Bersani è in campo. Persino Fioroni lo incorona, però lo sfida a candidarsi alle primarie: «Con un gruppo dirigente unito le vincerà» . La via maestra sono le elezioni. Ma D’Alema sa che ottenerle non sarà facile e ribadisce la disponibilità a un governo di fine legislatura: «Mi aspettavo che mi attaccasse Cicchitto, ma non l’Unità...» . L’affondo è per Francesco Piccolo che ha definito «disarmante» la sua strategia. D’Alema vi ha colto un sintomo di «primitivismo politico pericoloso» e il direttore Concita De Gregorio ha precisato: «Nel commento di Piccolo non c’erano insulti...» .
il Riformista 7.6.11
Dal colloquio con Maroni all’unanimità del Pd Bersani pensa al 13 giugno
Il segretario incassa il disco verde di un partito unito (e stappa una birra). Quel faccia a faccia del 2 giugno col ministro dell’Interno, che andrà a votare ai referendum
di Tommaso Labate
qui
http://www.scribd.com/doc/57264372
il Fatto 7.5.11
Morti clandestine
di Furio Colombo
Frasi belle e nobili sono state scambiate fra lo scrittore Claudio Magris e il presidente della Repubblica. Bella e memorabile la frase di Magris (“democrazia è mettersi nella pelle degli altri, anche di quei naufraghi in fondo al mare”), bello il fatto che Giorgio Napolitano abbia fatta sua quella frase. Perché il tema, è la strage di migranti nel Mediterraneo. L’Italia però è un’altra, ambigua e confusa da una politica folle.
Lo dimostra una breve intervista con il ministro Frattini, nella stessa pagina, (Il Corriere della Sera, 6 giugno). Dice il ministro degli Esteri: “Stiamo raccogliendo le prove che questi profughi sono spinti sulle barche anche a forza dal regime libico”. Nel suo candore di esecutore di ordini, Frattini dimentica che la frase, identica, è già stata detta da Bossi e da Maroni, ed è diventata un titolo a piena pagina su La Padania fin dall’inizio della rivolta libica. Era accompagnata dalla precisazione che i profughi erano in realtà ergastolani liberati di proposito dalle carceri libiche. Perché questa stramba invenzione leghi-sta? Per impedire che si creasse un senso di accoglienza e di solidarietà verso chi fugge dalla guerra. In tanti, poi, non solo Frattini e non solo la Lega, ma anche grandi giornali super partes, hanno finto di dimenticare che i sopravvissuti al mare che riuscivano ad aggrapparsi agli scogli italiani, se non erano criminali mandati apposta da Gheddafi erano “clandestini” da rimandare indietro subito, “senza se e senza ma” (cito da Roberto Maroni ). Qualcuno ricorda la nobile frase “foera di ball” di un ministro della Repubblica? Qualcuno, in questo Paese, ha cancellato il reato assurdo e giuridicamente impossibile di “clandestinità” prima che lo facesse la Corte europea? Qualcuno ha annullato il trattato di fraterna alleanza Italia-Libia (votato con slancio e fervore da quasi tutto il Parlamento appena due anni fa), o vuole ricordare le feste italiane al criminale a cui la Nato, Italia inclusa, sta dando ora la caccia? L’unica cosa da chiedere a Frattini è di non inquinare gli interventi di Magris e Napolitano contro l’indifferenza, è di non ripetere invenzioni e bugie copiate dalle ossessioni della Lega, e dal magistero di Bossi e Borghezio. È ciò che ha reso indifferente l’Italia come forma di distacco da un governo assurdo.
l’Unità 7.5.11
Caro Pd, è il momento dei progetti e delle idee forti
di Marco Simoni
Ragionando in maniera stilizzata, sono tre le principali interpretazioni dei recenti risultati elettorali. La prima è quella di D’Alema, Bersani e le persone a loro vicine: la vittoria dell’opposizione è un dato politico generalizzato, dipeso dalla incompetenza del governo e cementato dalla posizione visibile del Pd come alternativa. Discende da questa interpretazione una ovvia conseguenza. Alle comunali il doppio turno ha consentito la somma di voti anti-Berlusconi, che ormai sono maggioritari (e questo dato è considerato come acquisito da questa interpretazione) ma alle politiche il doppio turno non c’è ed è dunque necessario varare l’alleanza più ampia possibile per consentire ai voti di sommarsi e vincere le elezioni. In questo modo si rimanda a dopo la vittoria la soluzione di eventuali problemi politici, per questo i sostenitori di questa tesi rimangono sempre vaghissimi sulle cose da fare quando al governo. La seconda interpretazione del voto, di buona parte delle stampa di centrosinistra e dei leader più giovani del Pd come Renzi, Civati o Scalfarotto, pensa che la vittoria sia dipesa soprattutto dalla capacità dei candidati a sindaco di mobilitare tutto l’elettorato di centrosinistra, e di averlo fatto con un profilo convincente e autonomo e quindi in grado di spostare anche qualche voto dal centrodestra. Secondo questa interpretazione la partecipazione diffusa è stata una causa prima della vittoria. Ne discende che concludere alleanze in maniera indipendente dal coinvolgimento degli elettori è un suicidio politico, e che invece enfasi prioritaria andrebbe rimessa nelle primarie, o altre forme di cessione di sovranità dai gruppi dirigenti agli elettori, per determinare le linee guida, e sopratutto leadership e candidati.
La terza analisi, condivisa anche da me, si fonda su due persuasioni. La prima è che sia fuorviante far discendere da interpretazioni del voto amministrativo conseguenze sulle strategie per le elezioni politiche: basti ricordare l’euforia per il 1993 dei sindaci e la sconfitta del 1994. La seconda è che un sindaco deve fronteggiare centinaia di importanti questioni quotidiane e alcune scelte strategiche. Il governo che uscirà dalle prossime elezioni, al contrario, dovrà affrontare molte decisioni strategiche per far uscire l’Italia dalla stagnazione economica per le quali è fondamentale non solo avere una idea politica che marchi una distanza chiara dai programmi economici degli ultimi 15 anni. Ma soprattutto è necessario siglare un patto chiaro con gli elettori se si vuole avere la speranza di riuscire ad approvare riforme profonde ed efficaci. In poche parole, senza la politica dei progetti e delle idee forti, qualsiasi tattica non porta lontano.
Corriere della Sera 7.6.11
Meglio votare, fa bene a tutti
di Gian Antonio Stella
D ice il ministro della Salute Ferruccio Fazio che per lui votare ai referendum sarà «un bel problema» perché è residente a Pantelleria: «Spero di farcela, ma se non vado a votare non sarà per motivi ideologici» . I suoi colleghi Maurizio Sacconi, Altero Matteoli, Giorgia Meloni e Claudio Scajola spiegano invece che no, loro non ci andranno alle urne proprio per far fallire le consultazioni. Sulla stessa posizione sta Roberto Formigoni. Che a chi gli rinfacciava che «è grave che chi riveste un ruolo istituzionale dichiari di non voler partecipare a un istituto democratico che permette a tutti i cittadini di dire la propria» , ha ricordato piccatissimo che «ai sensi delle leggi vigenti non vi è alcun obbligo per i cittadini di andare a votare» . Compreso, ovvio, «il cittadino Formigoni» . Il quale, dieci anni fa, quando il governo di sinistra fece esattamente come stavolta quello di destra e cioè rifiutò di abbinare le elezioni e il referendum sulla devolution lombarda fortissimamente voluto dal governatore e dalla Lega per non favorire il superamento del quorum, era furente: «Un killeraggio» . In realtà, come ricordava un giorno Filippo Ceccarelli, «chi è senza astensionismo scagli la prima pietra» . Pier Ferdinando Casini, per dire, oggi si batte perché tutti vadano a votare ma sulla procreazione assistita era favorevole all’astensione pur avendo sostenuto nel 1997, quando l’invito ad «andare al mare» aveva mandato a monte, scusate il pasticcio, 7 quesiti, che «è sempre un giorno triste, quando le urne vengono disertate» . E Piero Fassino, che a quell’appuntamento del 2005 era impegnatissimo a superare il quorum sulla procreazione, aveva due anni prima spiegato, a proposito dell’estensione dell’articolo 18 alle piccole imprese: «La strategia passa attraverso la richiesta ai cittadini di non partecipare» . Perfino i radicali, che più coerentemente hanno sostenuto il valore democratico del voto referendario, hanno qualcosa da farsi perdonare. Fu Marco Pannella, infatti, a ventilare per primo l’ipotesi dell’astensione per far fallire lo scontro sulla scala mobile nel 1985. E da allora è sempre andata così. Da una parte quelli che vogliono vincere «pulito» con il quorum, dall’altra quelli che non vogliono rischiare di perdere e puntano a sommare il loro astensionismo a quello fisiologico. Indifferenti all’accusa, volta per volta ribaltata, di essere dei «furbetti» . Prima delle parole dette in questi giorni da Giorgio Napolitano, un altro presidente si era speso per la partecipazione. Carlo Azeglio Ciampi: «È ovvio che l’astensione è legittima, ma io ho votato per la prima volta a 26 anni, perché prima in Italia non era dato, e da allora l’ho sempre fatto perché considero il voto una conquista e un diritto da esercitare» . Ecco, per costruire una democrazia compiuta, quali che siano i referendum sul tavolo, i valori in gioco, gli schieramenti politici, si potrebbe partire da qui. Dalla necessità di salvaguardare uno strumento di partecipazione che, dopo 24 fallimenti consecutivi a partire dal 1995, non possiamo più permetterci di mandare a vuoto. Certi cattolici come Mario Segni, controcorrente rispetto alle stesse scelte della Chiesa, decisero ad esempio di andare a votare anche sulla fecondazione assistita. Votarono da cattolici, non da atei, laicisti, anti-clericali. Ma votarono. Convinti che, se avessero vinto nelle urne, sarebbe stata una vittoria più bella che non quella ottenuta col trucco.
Repubblica 7.6.11
La posta in gioco della sinistra
di Mario Pirani
La prima volta che ho votato correva l´anno 1947. Da allora infinite volte la mia generazione si è recata alle urne e ha fatto l´abitudine all´alternarsi – a seconda della propria collocazione – di giornate speranzose a ritorni di profondo sconforto.
Talvolta, peraltro, primavere fruttuose si estendevano per più di una legislatura e il nostro Paese conosceva Repubblica e Costituzione, ricostruzione e miracolo economico, le riforme del primo centro-sinistra, l´approdo all´Europa unita. Se ricordo queste tappe non è per abbandonarmi ad un compiacimento cronologico ma per respingere la tentazione emozionale che vedo emergere talora a sinistra di leggere le elezioni del 29 maggio come qualcosa di assolutamente nuovo, staccato dal passato e soprattutto dalla Storia, con alle spalle un periodo buio e negativo, senza lasciti da conservare o personalità da apprezzare. Varrebbe anche per noi e non solo per il Nuovo Messico, l´epigrafe di Cormac McCarthy, "questo non è un paese per vecchi" ?
Eppure né uomini né cose stanno così. Certo, il quindicennio berlusconiano è il peggiore che abbiamo attraversato in tutta la nostra vita , tanto che alla fine tememmo di non arrivare in tempo (almeno per la nostra biografia) all´appuntamento con l´atteso ritorno della "felicità della democrazia", per dirla con quell´ indovinato titolo apposto al dialogo di Ezio Mauro con Gustavo Zagrebelsky (ed. Laterza). Quella "felicità" del 2 giugno ´46 quando vinse la Repubblica o del 7 giugno del ´53 col fallimento della legge truffa o del 12 maggio del ´74 quandò trionfò il divorzio.
Vivere, per contro, la vittoria odierna come un drastico disconoscimento dei padri, disancorata dalla storia passata, priva, quindi, da ogni implicita responsabilità ereditata, con masse in preda non alla felicità ma alla euforia degli inconsapevoli può comportare pericoli non avvertiti. Uno di quei casi, come intimava Stalin ai suoi adepti, in cui la "vertigine del successo" può condurre al suo rapido e inatteso rovesciamento.
Cerchiamo, quindi, di analizzare a mente fredda qualche punto del quadro attuale, partendo dalle straordinarie affermazioni di Milano e Napoli ma contestando l´ipotesi che esse racchiudano in sé il compiuto significato della vittoria della sinistra. Ora, almeno altrettanto apportatrice di un rovesciamento straordinario della realtà precedente sono quelle bandiere del Pd e dei suoi alleati issate su tutte le torri civiche dei capoluoghi di Regione del Nord e del Centro, nessuna esclusa. Un ritorno a lontane primavere rivissuto da generazioni che forse non ne hanno neppure il ricordo ma che da quell´album di famiglia discendono. Un discorso anche culturale da ricomporre come un puzzle. Non è una operazione facile e presuppone la consapevolezza di alcune verità che l´euforia dilagante può mal sopportare. In primo luogo il rovinoso declino del Pdl e l´erosione della Lega portano la firma di Berlusconi e Bossi, nel senso che gli errori politici, i comportamenti indecenti, i disegni esclusivamente personali, le parole scriteriate del primo e la remissività sostanziale del secondo, contraddittoria con le ragioni fondanti del suo movimento, hanno finito per provocare un´esondazione da risentimento diffusa in tutta la Padania con un´onda lunga che ha raccolto nuova linfa nella Capitale del Mezzogiorno e in Sardegna. Dico questo non per smorzare gli entusiasmi ma perché è indispensabile tener presente che le vittorie amministrative non si sono mai tradotte per automatismo in vittorie nelle elezioni politiche. Tanto più oggi quando non vi è stato un rinnovamento generale della sinistra ma un crollo autoprovocato della destra. I voti confluiti a sinistra da questa parte vanno considerati al massimo un prestito condizionato.
Un passo avanti di qualità davvero innovativa, peraltro, la sinistra nel suo assieme l´ha fatto ed esso rappresenta un apporto proprio, un valore aggiunto decisivo per un risultato così esteso. È un apporto dovuto ai Vendola, ai Pisapia, ai de Magistris che sono riusciti ad imprimere e ad imporre la contendibilità se non del Pd, almeno dello schieramento di cui resta parte essenziale. Ne avevamo indicato invano a suo tempo l´indispensabilità democratica per liberare il nascente partito riformista dai lacci e lacciuoli burocratico-politichesi che ne avrebbero soffocato ogni slancio creativo. Sono prevalse, invece, fino a ieri miserrime competizioni per piccoli poteri spartitori, con delusione dei militanti residui. Fino a quando una operazione intuitiva e senza regole precostituite che ha unito – questa sì – Napoli e Milano, Cagliari e Torino, organizzazioni di partito e coalizioni estemporanee, ha dato vita ad una inedita Opa che con grandissima e positiva sorpresa ci ha fatto riscoprire la permanente esistenza di un substrato politico e valoriale, pronto al risveglio se si sente coinvolto.
Mantenere, consolidare, allargare questo capitale fino a ieri inespresso è la posta in gioco cui è chiamata la sinistra se vuole riproporsi per il governo del Paese. Impresa ancora ardua perché non sono state rimosse le cause che portarono ai passati rovesci del centro-sinistra e che l´elettorato non ha dimenticato. Anche coloro che oggi hanno cambiato opinione per votare un sindaco, non è affatto detto siano già convinti a ripetere la scelta se la prospettiva di governo resterà incerta, confusa e litigiosa. Non credo, però, che il fulcro del dissidio siano le alleanze: se il Pd con il Terzo polo o con le nuove sinistre o con tutti e due. No, lo scoglio più impervio sarà il populismo che non è una brutta parola ma un appeal potente di consenso e aggregazione, soprattutto nei periodi di crisi economica grave. Esso si mescola allora con la richiesta forte di rottura, con il rifiuto delle compatibilità economiche preesistenti, con rivendicazioni comprensibili per la sete di giustizia sociale sottostante. A volte gonfia il vento delle sinistre radicali, come oggi in Italia , più sovente accompagna sconvolgimenti di massa con spostamenti inversi, dalla sinistra democratica e socialista verso le destre estreme. E´ quanto sta avvenendo in Europa, dall´Olanda alla Scandinavia, dalla Francia all´Austria e all´Ungheria che ha sconciato l´entrata nell´Ue con una riforma costituzionale parafascista, fino al paradosso della Spagna dove le piazze fitte di giovani "indignati", impoveriti, incerti sul futuro si accompagna col trionfo di destra nelle amministrative.
Il dilemma si porrà subito anche per noi: giovani disoccupati, precari, nuovi poveri, operai su cui incombe la crisi chiederanno provvidenze almeno di mantenimento in un periodo in cui per sfuggire alla sorte della Grecia, gli italiani saranno chiamati ad uno sforzo fiscale aggiuntivo e non lieve (40 miliardi di euro all´anno). La sinistra è in grado di dare una risposta socialmente accettabile ed economicamente sostenibile? Le ali radicali saranno in grado di liberarsi senza perdere di slancio di un Dna condizionato dal populismo? Un difficile cammino di ripresa e sviluppo è stato indicato dal governatore Draghi. Le risposte politiche ed economiche della sinistra sono però tutte da scrivere. Altre volte ne è stata capace, con la solidarietà dei patti sociali e con i duri impegni per agganciarsi all´euro. Frattanto la destra, terrorizzata dalla sconfitta, orfana di Belusconi e liberatasi dei rigori di Tremonti, potrebbe moltiplicare le risposte populiste anti-europee, esaltando il razzismo e la chiusura nazionalista. Grandi responsabilità e tempi difficili gravano sui vincitori delle ultime elezioni.
il Fatto 7.6.11
Chiesa, in che mondo convivi?
di Marco Politi
Dalle alte cattedre, i papi parlano di coppie e convivenza e il mondo vero si trova da un’altra parte. C’è una distanza siderale tra la Chiesa dottrinaria e la vita reale di uomini e donne, giovani e maturi, per come si svolge nel secolo XXI, tale da scoraggiare persino il dibattito.
In Croazia, ancora una volta Benedetto XVI – come prima di lui papa Wojtyla – ha condannato le convivenze associandole alla leggerezza incosciente di chi “riduce l'amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita”. Ha ragione Paola Concia a rispondere con una battuta: “Giusto, lasciamo che si sposino le coppie gay”.
PERCHÉ la famiglia che è descritta dai pulpiti non ha nessun contatto con quello che avviene nella società. Lasciamo stare gli atteggiamenti soggettivi e le ebbrezze passeggere. Il nodo di fondo è che è saltato il vecchio impianto della famiglia – come si è retta ancora fino alla II guerra mondiale – dei contadini, degli operai, dei borghesi grandi e piccoli che si sposavano tra i venti e i trent’anni. Che avevano di fronte a sé il binario di prospettive sostanzialmente stabili, consuetudinarie, senza grandi scosse culturali.
Questa famiglia non c’è più. Cos’è capace di dire la Chiesa-istituzione ai giovani uomini e alle giovani donne che riescono a crearsi una vita economicamente più o meno “sistemata” (e spesso meno che più) sul finire dei trent’anni se non intorno ai quaranta? Cosa dovrebbero fare nei due decenni di intervallo fra la pubertà e il matrimonio o la convivenza? “Peccare” solitaria-mente o in due, correndo poi al confessionale… attendere il principe azzurro e la regina dei sogni?
C’è un parlare astratto dai pulpiti che chiude gli occhi dinanzi alla realtà, niente affatto composta nella sua grande maggioranza da “peccatori” o edonisti, ma da uomini e donne che cercano la loro strada. E ritengono positivi i rapporti prematrimoniali, mettersi alla prova, sperimentare la vicinanza dei corpi e dei temperamenti perché non ha senso imbarcarsi in naufragi.
Il vecchio modello non si reggeva su anime più virtuose, ma sul mero fatto della subordinazione della donna, che una volta entrata nella struttura del matrimonio “lì stava”, mentre l’uomo proseguiva sentendosi garantita comunque una propria libertà. Non è più così. Il divorzio è stato assunto da centinaia di milioni di persone – del tutto pacate, equilibrate, non consumiste – come un dato di valore. Giustamente. Il disvalore è il fallimento di un legame, la fine di un progetto, il deteriorarsi di una vita insieme. Non la presa d’atto responsabile della fine. Sciogliere un rapporto quando non c’è più “comunione” e comunicazione è positivo, liberatorio, vivificante.
SI VIVE insieme in molti modi, oggi. Si formano coppie eterosessuali o gay fortemente solidali, che accettano anche la prospettiva che un domani le vie possano separarsi. Perché si è cresciuti con ritmi diversi, perché non si condivide più lo stesso progetto.
Ci si sposa, ci si separa, si convive, si vive da soli, ci si risposa, si vive in case separate. Il modello Mulino Bianco non esiste più. Da tempo. Non è il segno di un arbitrio sfrenato. È il prodotto di una società che rende tutti più mono-nucleari. Una società segnata fortemente anche dall’incertezza economica. Una società più mobile, più liquida.
QUANDO IL cardinale Bagnasco descrive la gioventù italiana come “generazione inascoltata”, senza futuro – cogliendo l’angoscia derivante dalla perenne precarietà – bisogna poi capire (come fanno da decenni i parroci) che è tramontato il contesto in cui coppie speranzose si accostavano all’altare o andavano in municipio appena superati i vent’anni.
Vuol dire che la Chiesa non ha più spazio per trasmettere valori evangelici nei rapporti tra uomo e donna, tra persona e persona, tra genitori e figli? Niente affatto. Ha moltissimo da dire sul rispetto, la tenerezza , l’amore, il perdono, la cura, la pazienza, lo sforzo, la solidarietà, il sacrificio, la condivisione, la responsabilità. Tutto ciò che attiene al nocciolo di quel comandamento senza tempo che dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Perché, come spiegano gli esegeti, soltanto riconoscendo l’Altro simile a me, io e noi possiamo vivere in pace, in serenità.
E moltissimo, naturalmente, può venire da un messaggio religioso per la dimensione educativa, quel mondo complicato, affascinante, sempre da esplorare in cui i genitori fanno crescere i figli in modo che siano maturi e in-dipendenti.
Però per ritrovare l’ascolto delle nuove (e meno nuove) generazioni la Chiesa dovrebbe abbandonare l’ossessione di controllare il territorio della sessualità e dei rapporti interpersonali come è stato nei secoli passati. Quella stagione non tornerà più. I ragazzi che osannavano Wojtyla al giubileo di Tor Vergata , poi sotto le tende facevano felici all’amore.
Se poi l’uso delle parole papali deve servire per perpetuare il veto ad una legislazione sulle coppie di fatto, è ora che si dica basta a quei politici, che legittimamente vivono la propria vita e poi pretendono – tra una baciata di pila e l’altra – di ingabbiare di veti le esistenze altrui.
il Fatto il Riformista e l’Unità 7.6.11
Italia e Vaticano una “coppia di fatto”
di Paolo Izzo
Lavorano nella stessa città, dove convivono in regime di... spartizione dei beni, disponendo dell'esistenza dei loro sudditi. Se capita loro di litigare, fanno presto pace scambiandosi qualche regalo importante, sempre sacrificando la gente comune. Si assistono e si aiutano vicendevolmente nelle avversità, soprattutto quando si tratta dei loro figli maggiori che, nei viaggi all’estero, ne combinano e ne dicono di tutti i colori, riempiendo di gossip tutti i quotidiani. La loro unione, non scevra di scheletri nell’armadio (chi è senza peccato...) è stata spesso osteggiata da pochi fanatici invidiosi, subito messi a tacere: perché il loro amore è più forte, invincibile. Forse il segreto sta nel fatto che lei è più giovane e debole (a lui piacciono più giovani e deboli) e lui ricco, potente... divino. Ma non si sposeranno mai ufficialmente, è il loro unico vezzo. Italia e Vaticano. Di fatto, una coppia.
endo dell’esistenza dei loro sudditi. Se capita loro di litigare, fanno presto pace scambiandosi qualche regalo importante, sempre sacrificando la gente comune. Si assistono e si aiutano vicendevolmente nelle avversità, soprattutto quando si tratta dei loro figli maggiori che, nei viaggi all’estero, ne combinano e ne dicono di tutti i colori, riempiendo di gossip tutti i quotidiani. La loro unione, non scevra di scheletri nell’armadio (chi è senza peccato...) è stata spesso osteggiata da pochi fanatici invidiosi, subito messi a tacere: perché il loro amore è più forte, invincibile. Forse il segreto sta nel fatto che lei è più giovane e debole (a lui piacciono più giovani e deboli) e lui ricco, potente... divino. Ma non si sposeranno mai ufficialmente, è il loro unico vezzo. Italia e Vaticano. Di fatto, una coppia.
l’Unità 7.5.11
Intervista a Shulamit Aloni
«Israele non è le sue armi. Chi lo dice ci porta al disastro»
Appello al mondo: «Sostenete la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese»
La scrittrice fondatrice di «Peace Now» ha firmato un manifesto di intellettuali israeliani per chiedere il rispetto delle frontiere del ’67. «Sì a uno Stato palestinese, basta apartheid»
di Umberto De Giovannangeli
L’altro Israele alza la voce, scende in strada e si ribella: «Dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. I governanti d’Israele hanno solo un disegno in testa e lo perseguono con ogni loro atto: il disegno del Grande Israele. Ne faranno un ghetto atomico in guerra con il mondo». L’altro Israele, quello che l’altra sera ha dato vita a una manifestazione di massa conclusasi in piazza Yitzhak Rabin, nel cuore di Tel Aviv, si riconosce nelle affermazioni di Shulamit Aloni, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace adesso). «Chi persegue la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, chi opprime un altro popolo afferma Aloni coltiva l’illusione che la sicurezza d’Israele possa reggersi sulla forza delle armi. Ma questa è una illusione che ha già prodotto disastri e altri ne provocherà ancora, se il mondo non farà sentire la sua voce di protesta. A cui deve unirsi l’Israele che non accetta di essere complice di questi crimini».
Shulamit Aloni è una delle venti personalità israeliane tra cui l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente dell’Accademia delle Scienze di Israele Menahem Yaari che hanno firmato un appello ai leader europei affinché appoggino la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente sulla base del confini del 1967, quando verrà presentata a settembre alle Nazioni Unite. Il nostro colloquio parte da qui.
Qual è il senso di questo appello e delle mobilitazioni di piazza che ne sono seguite? «È l’affermazione di un concetto fondamentale che rappresenta il vero discrimine oggi...».
Quale sarebbe questo concetto?
«La pace, una pace giusta, fondata sul principio di “due popoli, due Stati”, non è una concessione che Israele fa al “Nemico”, e neanche un atto di giustizia. È semmai un sano atto di “egoismo”...».
In che senso? «Nel senso che solo riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, integro territorialmente, solo così Israele potrà difendere il bene più prezioso: la sua democrazia. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. Non c’è democrazia in uno Stato che impone a un altro popolo un regime di apartheid. Da qui nasce l’appello e le mobilitazioni che l’hanno seguito. Il passaggio chiave è questo: come cittadini israeliani dichiariamo che se e quando la Nazione palestinese dichiarerà uno Stato sovrano e indipendente, che vivrà a fianco di Israele in pace e sicurezza, appoggeremo questa dichiarazione e riconosceremo uno Stato palestinese basato sui confini del 1967, e chiediamo alle Nazioni del mondo di dichiarare la loro volontà a riconoscere uno Stato palestinese indipendente basato su questi principi».
Il presidente Usa, Barack Obama, non sembra essere di questo avviso... «Rispetto la sua posizione e ho anche apprezzato alcuni passaggi del suo recente discorso in cui ha fatto riferimento ai confini del ‘67. Ma il presidente Obama sa bene che gli appelli alla ragionevolezza rivolti a più riprese agli attuali governanti d’Israele sono puntualmente caduti nel vuoto. Per questo occorre cambiare registro, e dimostrare a questi oltranzisti che si è capaci di dire basta. Se non ora, quando?».
La destra israeliana non ha nascosto il suo scetticismo, se non la sua contrarietà, verso le rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo...
«Il mio atteggiamento, e per fortuna non sono la sola a pensarlo, è diametralmente opposto: la “primavera araba” può avere ricadute importanti per l’intera regione e anche per Israele. In Piazza Tahrir, il cuore della rivoluzione egiziana, non ho visto bruciare una bandiera israeliana. E questo è un segnale di straordinaria importanza che noi israeliani non dovremmo sottovalutare. Io sono con loro, e non sento minimamente nostalgia per i raìs che hanno spazzato via dalla scena».
Chi è
La leader storica dei pacifisti israeliani
Scrittrice, combattente nella guerra d’Indipendenza, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace Adesso), parlamentare per diverse legislature, è stata più volte ministra nei governi laburisti guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Per le sue battaglie democratiche è stata minacciata di morte dall’ultradestra israeliana.
il Fatto 7.6.11
Netanyahu, un negoziatore con il mitra
Lo scrittore Yehoshua attacca la politica del premier israeliano
di Stefano Citati
Benjamin Netanyahu non crede ai palestinesi, non crede alla riconciliazione. Partendo da questo punto la sua strategia è quella di tirare per le lunghe, di arrivare a settembre, alla risoluzione che porterà alla nascita dello Stato palestinese, per iniziare le vere trattative, per ridurre al minimo l’estensione della nuova nazione, che per lui non può essere uno Stato a tutti gli effetti, ma avere solo la consistenza di un’ampia autonomia. Vista sotto quest’ottica la resistenza all’America, alle proposte di Obama, si spiegano con la volontà di prendere tempo e far esaurire le possibilità di trattative, per arrivare a concedere ai palestinesi il 60-70% dei territori occupati della Cisgiordania”. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua è più arrabbiato che stupito dopo l’ennesimo atto di violenza del suo governo che ha sparato addosso ai manifestanti nel Golan; una nuova strage che attira su Israele gli strali della comunità internazionale e la frustrazione rabbiosa dei palestinesi. Dal suo punto di osservazione di Haifa - che lascia piuttosto raramente per rispondere agli inviti internazionali: il prossimo, questo fine settimana, a Marina di Pietrasanta per parlare del progetto del suo prossimo libro - non risparmia critiche al suo premier in modo chiaro e netto, come è nel suo stile.
Visto dall’Italia e più in generale dall’estero, l’atteggiamento di Netanyahu appare spesso ottuso e catastrofico. È lo stesso in Israele?
L’opinione pubblica israeliana è tendenzialmente sbilanciata verso il centro-destra: la loro visione è però quella di non rompere la corda che lega all’America e all’Europa, e per questo la posizione migliore è quella di tenere spesso la testa sott’acqua, in modo da non doversi occupare troppo la situazione. Il timore di Netanyahu, di dover rimpatriare di fatto i coloni è condiviso, ed è questo ostacolo interno che condiziona il modo di fare del premier ben oltre le pressioni internazionali, partendo dalla sfiducia nei confronti della controparte.
Netanyahu non rischia di trovarsi a settembre con uno stato di fatto contro il quale non sarà più possibile trattare?
Tantissimi Stati riconosceranno il nuovo Paese, ma Netanyahu potrà ancora contare sulla debolezza europea: l’incapacità dimostrata finora di sostituirsi agli Stati Uniti, che non possono essere i guardiani del mondo, e di essere un interlocutore credibile e solido, che controbilanci il potere e l’influenza statunitense. Al premier interessa tenere in piedi la facciata del processo di pace senza agire, spostando il pendolo della pace da una parte all’altra senza arrivare a un movimento completo e decisivo, prendendosi tutto il tempo possibile e annacquando le possibilità di uno Stato palestinese forte e completo.
Cosa può rompere questo meccanismo?
Dimostrazioni ripetute e davvero pacifiche dei palestinesi nei territori occupati. Se sapranno scendere in strada con le mani disarmate disinnescheranno la reazione delle forze di sicurezza israeliane e non daranno motivo di essere attaccate e dell’uso della forza. Toglieranno l’alibi a Netanyahu e spezzeranno il meccanismo della risposta violenta . Per cambiare questa atmosfera e questo futuro prossimo questo Israele dovrebbe da subito compiere un gesto unilaterale: fermare e riportare indietro tutti i coloni, anche senza accordi con i palestinesi; sarebbe un segno di volontà seria e responsabile.
Come si vede da Israele il sommovimento del mondo arabo; dà più timori o più speranze. È ancora in una fase interlocutoria, ma la chiave resta l’Egitto, se non diventerà un regime ancor più militare, o fondamentalista, un cambio generale sarà possibile.
Corriere della Sera 7.6.11
Gerusalemme città-stato, storia di un progetto fallito
risponde Sergio Romano
La delicata e infinita questione palestinese, unita al problema di attribuzione della città di Gerusalemme, tra Israele e l’immaginario Stato palestinese, si trascina da molti decenni senza alcuna speranza di giungere a una soluzione. La creazione di una città-stato, Gerusalemme, sotto il controllo delle Nazioni Unite porterebbe a una svolta nei negoziati? Potrebbe essere una soluzione accettabile per lo Stato ebraico? Marco Piselli
Caro Piselli, L o statuto speciale di Gerusalemme era esplicitamente previsto nella risoluzione con cui l’Assemblea generale dell’Onu, il 29 novembre 1947, decise la divisione della Palestina in due Stati, di cui uno prevalentemente arabo e l’altro prevalentemente ebraico. La terza parte della risoluzione è interamente dedicata a Gerusalemme. Ne furono decisi i confini: la vecchia città e tutti villaggi circostanti fra cui in particolare, a sud, Betlemme. Fu stabilito che lo statuto della città sarebbe stato scritto e approvato entro cinque mesi da un consiglio di vigilanza a cui sarebbe spettato il compito di nominare un governatore. Questi non sarebbe stato cittadino di alcuno dei due Stati, avrebbe avuto alle sue dipendenze un corpo amministrativo per il governo della città e un corpo di polizia per assicurare il libero accesso dei fedeli ai luoghi santi, la tutela delle minoranze, l’ordine pubblico, il rispetto delle tre grandi fedi monoteistiche. La città sarebbe stata demilitarizzata e neutrale. Il governatore sarebbe stato assistito da un Consiglio legislativo, eletto su base proporzionale da tutti gli adulti residenti, indipendentemente dalla loro fede religiosa, con competenze deliberative in materia d’imposte. L’istruzione scolastica sarebbe stata impartita in arabo e in ebraico. Lo Statuto della città sarebbe rimasto in vigore per dieci anni e riesaminato, alla fine del periodo, sulla base dell’esperienza degli anni precedenti. Lo Statuto non entrò mai in vigore. Israele proclamò la propria indipendenza il 14 maggio 1948, ma i Paesi arabi non riconobbero la spartizione ed entrarono in guerra contro il nuovo Stato. Il primo conflitto arabo-israeliano si concluse con un armistizio che lasciava la città vecchia alla Giordania e i quartieri occidentali a Israele. Alla fine del terzo conflitto, nel 1967, gli israeliani occuparono anche la vecchia città e proclamarono Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele.
l’Unità 7.5.11
Mobilitazione anti Israele La prima «grana» di Pisapia tra Milano e il medioriente
Una kermesse dedicata ad Israele, lunedì prossimo, che ha scatenato reazioni ed appelli: per Giuliano Pisapia, neo sindaco di Milano, è il primo test «istituzionale» per mediare le ragioni di forze sociali e movimenti.
di Mariagrazia Gerina
Un appello, pubblicato domenica dal Manifesto, che si rivolge direttamente al nuovo sindaco di Milano. Un altro, promosso dal neonato “Comitato No Milano Occupata”, che chiama in causa tutte le istituzioni locali, Regione, Provincia, Comune. E chiede di cancellare l’evento, in nome del popolo palestinese e di Vittorio Arrigoni, l’attivista ucciso a Gaza. Infine, l’annuncio di proteste anti-israeliane, che sta viaggiando nella rete e che alimenta anche preoccupazioni per la sicurezza. Il bersaglio di tutto è la kermesse dedicata a «Israele che non ti aspetti», prevista dal prossimo 13 giugno in Piazza Duomo. Ma che molto probabilmente, proprio per ragioni di sicurezza, ora sarà spostato altrove.
La mobilitazione anti-israeliana, che prevede anche un corteo il 18 giugno, a Milano, è il primo caso delicatissimo che Giuliano Pisapia si trova a gestire da sindaco. E lo fa con rigore istituzionale. «Credo che il ministro degli Interni, le forze dell' ordine e il questore sono i più adatti per ogni decisione sulla base della situazione», risponde ai giornalisti. «Quello che posso dire aggiunge soltanto è che da parte mia ho sempre creduto in due popoli e due Stati e questo continua ad essere il mio impegno per il futuro». Forze dell’Ordine e Questura di Milano hanno già fatto le loro valutazioni. Ma la decisione di spostare l’evento sarà ufficializzata solo nei prossimi giorni.
In ogni caso, la manifestazione resterà aperta a tutti e «non blindata», fanno sapere gli organizzatori. In programma, tra l’altro, un concerto di Noa, una mostra a Palazzo Reale, un'installazione tra piazza Duomo e piazza Castello, una serie di incontri con i principali scrittori israeliani. Nelle settimane scorse, Gideon Meir, aveva annunciato che «probabilmente» sarebbero stati Silvio Berlusconi e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ad aprire la rassegna.
Il culmine invece delle contromanifestazioni dovrebbe essere il corteo già annunciato per il 18 giugno, contro «l’occupazione israeliana di Milano», che dovrebbe partire da largo Cairoli. «Sul percorso che vorremmo si concludesse in centro, però, la questura si è riservata», fanno sapere gli organizzatori.
L’imbarazzo del neo-sindaco, pronosticato ieri dal quotidiano israeliano Yediot Ahronot, non sembra essersi manifestato. La faccenda «potrebbe mettere in imbarazzo il sindaco Pisapia, atteso tra i relatori della rassegna», aveva suggerito il quotidiano, rilanciando allo stesso tempo l’allarme sulla contromobilitazione.
«Il sindaco di Milano ha già chiarito che parteciperà a questa manifestazione come è giusto per il sindaco di tutti i milanesi», interviene il deputato del Pd Emanuele Fiano, preoccupato di censurare «qualsiasi forma di ostracismo verso la manifestazione di Milano» e di ricordare che «la conoscenza è l'unico antidoto contro l'odio e la guerra».
La Stampa 7.6.11
Il sindaco «Due popoli e due Stati resta il mio impegno»
Milano - dice Giuliano Pisapia è una città aperta e accogliente verso tutti, nessuno escluso. Vorrei che diventasse sempre più anche una città del dialogo e della pace». E riferendosi a facinorosi e teste calde, ha aggiunto che «è chiaro che bisogna tenere tutti la testa sulle spalle». Quanto al trasferimento, «credo che il ministro degli Interni, le forze dell’ordine e il questore siano i più adatti per ogni decisione. Quello che posso dire è che ho sempre creduto in due popoli e due Stati e questo continua ad essere il mio impegno per il futuro».
La Stampa 7.6.11
lI summit dell’Opec
Primavere arabe e petrolio Il mix che fa tremare i Grandi
Le rivolte nel Maghreb e in Medio Oriente hanno alzato il prezzo del greggio Domani a Vienna l’incontro dei Paesi produttori sempre più divisi dalla politica
di Maurizio Molinari
Arabia Saudita Riad vuole far pagare a Washington il sostegno alla cacciata di Mubarak e i dubbi sul Bahrein Iran L’obiettivo di Teheran è tenere alto il valore dell’oro nero. Le fratture interne però minano la linea dura di Ahmadinejad
Domani a Vienna il vertice dell’Opec. Dall’inizio delle rivolte la produzione di petrolio è scesa di 1,4 milioni di barili al giorno
Washington teme la vendetta saudita, la Libia è presente con due delegati che sostengono tesi opposte, l’Iran guida la seduta puntando a mettere in difficoltà l’Occidente e sullo sfondo i più timorosi di una spaccatura sono i cinesi: il summit ministeriale dell’Opec che si apre domani a Vienna riassume e rispecchia le tensioni politiche internazionali innescate dalle rivolte arabe ruotando attorno all’interrogativo se far scendere o no il prezzo di 100 dollari a barile che minaccia la ripresa globale.
«Il tema in cima all’agenda è l’impatto del prezzo del petrolio su una crescita ancora debole - spiega Amy Myers Jaffe, analista di punta sui temi energetici del Baker Institute della Rice University di Houston in Texas - e dunque conterà la decisione presa dagli unici Paesi produttori che possono aumentare le estrazioni, anzitutto Arabia Saudita e subito dopo Kuwait ed Emirati Arabi Uniti». Se il prezzo del barile oscilla attorno ai 100 dollari e il 29 aprile è salito fino a 113,93 - il livello più alto degli ultimi due anni - è a causa delle rivolte arabe che hanno bloccato la produzione di 1,4 milioni di barili al giorno, secondo una valutazione del «Petroleum Policy Intelligence» britannico. Da qui l’auspicio dell’Agenzia internazionale per l’energia di «un urgente intervento per immettere più greggio sui mercati per far abbassare i prezzi che minacciano le maggiori economie» con un aumento di produzione che, per l’Eurasia Group di New York, dovrebbe portare l’Opec ad arrivare a 29,9 milioni di barili al giorno con l’aumento di 1 milione di barili rispetto a quanto avvenuto in maggio.
Tutti gli occhi sono puntati sui sauditi, che appartengono al G20, perché fino a gennaio sostenevano la necessità di tenere il prezzo attorno ai 50-60 dollari, ma da quel momento in poi hanno taciuto, facendo coincidere il silenzio su questo tema con le ripetute critiche pubbliche a Washington sulla gestione delle rivolte arabe. Riad era infatti contraria alla rimozione di Hosni Mubarak dall’Egitto e ha poi sostenuto con l’invio di carri armati la repressione della rivolta in Bahrein, sfidando palesemente le richieste Usa di non intervento. «Il disaccordo sta nel fatto riassume Amy Myers Jaffe - che per l’amministrazione Obama le rivolte arabe riducono l’influenza iraniana in Medio Oriente mentre per i sauditi rischiano di aumentarla». Senza contare il fatto che la monarchia wahhabita si sente direttamente minacciata dalle istanze democratiche che spazzano i Paesi confinanti, dal Bahrein allo Yemen. «I sauditi si trovano in una posizione che consente loro di far pagare un prezzo a Washington per il sostegno alle rivolte arabe - osserva Paul Roberts, autore del volume “End of Oil” - ma l’esperienza ci dice che alla fine faranno soprattutto i loro interessi economici e il passato suggerisce che prezzi troppo alti non giovano agli interessi dei produttori».
Il nodo però sta proprio nella definizione di «prezzi alti» perché, aggiunge Roberts, «negli Anni Novanta i produttori pensavano fossero 30 dollari a barile, ma poi si accorsero di averli molto sottostimati ed ora sono alla ricerca di una nuova banda di oscillazione» condizionata «dalle richieste in crescita da parte delle economie emergenti, a cominciare dalla Cina, e dai maggiori costi di estrazione in Kazakhstan e Siberia, assai più alti rispetto al Medio Oriente». Ironia della sorte vuole che il fronte pro prezzi alti sia guidato dall’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, presidente di turno dell’Opec per la prima volta dal 1975, e dunque «se i sauditi scegliessero di sostenere tale posizione si troverebbero in sintonia con i loro più acerrimi rivali» osserva Myers Jaffe. «Iran e Nigeria vogliono i prezzi alti perché il loro bilancio dipende molto dal greggio - aggiunge Roberts e non badano troppo ai danni che ciò arreca a Usa, Ue, Giappone e anche Cina». Sulla posizione di Teheran pesa tuttavia l’interrogativo delle tensioni interne al regime perché Ahmadinejad avrebbe voluto essere lui a presiedere il summit - e per questo si era autonominato ministro del Petrolio ma poi ha dovuto fare marcia indietro su richiesta del Consiglio dei Guardiani - la maggiore autorità legale della Repubblica Islamica - assegnando l’interim a Mohammad Aliabadi che potrebbe non perseguire la strategia di scontro diretto con l’Occidente auspicata dal Presidente.
A complicare ulteriormente il summit c’è il fatto che la Libia sarà presente con due delegati, uno mandato dal regime di Muammar Gheddafi e l’altro designato dal governo dei ribelli di Bengasi, con il conseguente rischio di una spaccatura fra i 12 membri perché al momento solo tre di loro - Qatar, Emirati Arabi e Kuwait - si sono schierati, con aiuti militari o economici, a sostegno della rivolta mentre l’Algeria sul fronte opposto è stata la più esplicita nel denunciare le «interferenze straniere in Libia». Poiché proprio il greggio libico costituisce gran parte degli 1,4 milioni di barili mancanti a causa delle rivolte, il rischio di una sovrapposizione fra crisi militare e definizione dell’output collettivo esiste.
Tanto più che è la prima volta dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein - nell’agosto 1990 - che l’Opec si trova spaccata a causa di un conflitto arabo. «Ma proprio per il fatto che ciò che manca sul mercato è il petrolio leggero libico potrebbe esserci un compromesso» suggerisce Myers Jaffe, riassumendolo così: «Usa, Ue e Giappone hanno greggio leggero nei loro depositi e potrebbero metterlo sul mercato ricevendo in cambiodai sauditi greggio di tipo diverso, per ricostituire le loro scorte». Sempre ammesso tuttavia che Riad voglia tendere la mano all’amministrazione Obama, la cui maggiore preoccupazione è un’estate con il prezzo della benzina oltre la pericolosa soglia psicologica dei 4 dollari a gallone, vissuta come un incubo dalle famiglie del ceto medio.
La Stampa 7.6.11
La Cina minaccia l’Europa “Chiudiamo lo spazio aereo”
Ultimatum di Pechino contro la tassa sulla CO
di Luigi Grassia
La guerra commerciale fra la Cina e l’Occidente, o almeno l’Europa, non scoppierà per contrasti sull’industria della manifattura, i dazi, il dumping o il cambio con lo yuan, ma su un fronte che nessuno si immaginava, quello dei cieli. Ieri a Singapore al congresso mondiale delle Iata (la federazione delle compagnie aeree) un delegato di Pechino ha detto chiaro e tondo che se l’Ue, come è già deciso, introdurrà dal 1˚ gennaio una tassa sulle emissioni di anidride carbonica di tutti i voli intercontinentali da e per l’Europa, la Cina per ritorsione chiuderà il suo spazio aereo a tutte le compagnie europee. E non è la boutade isolata di un funzionario. Il direttore della Iata, l’italiano Giovanni Bisignani, fa notare che una settimana fa, nell’indifferenza generale, «una delegazione governativa di cinesi, convocata da Bruxelles per far conoscere il funzionamento del nuovo sistema di “emission trading”, non ha voluto nemmeno ascoltare, e se n’è andata minacciando l’embargo».
Forse in Europa si è preferito far finta di niente perché si contava sul fatto che un accomodamento, alla fine, si sarebbe trovato; ma Bisignani, che è al timone della Iata da dieci anni, dice che l’Ue si fa delle illusioni: «Ho visto i cinesi cambiare. Anni fa erano concilianti, adesso si sentono cresciuti di forza e manifestano un’aggressività non controllata. Non sono abituati a un confronto politico dialettico». A quanto sembra la politica europea delle emissioni di CO, fatta per anni in solitario, come se il resto del mondo non esistesse, o come se fosse destinato ad accodarsi in un secondo tempo, sta andando a sbattere contro un muro. Oltre alla Cina hanno già detto no all’Ue gli Stati Uniti, la Russia, il Giappone, l’India, l’Australia e un centinaio di altri Paesi. Pechino è la prima a passare alle vie di fatto.
Bisignani valuta che in gioco ci siano «diversi miliardi di euro» che le compagnie straniere dovrebbero pagare in Europa se il nuovo schema di compravendita delle emissioni entrasse in vigore. L’opinione che ne ha il direttore della Iata non è positiva: «In Europa dalle compagnie aeree vengono già scremati in forma di tasse 5,4 miliardi di dollari l’anno, quando il totale degli utili di tutte le compagnie della Iata è stimato in 4 miliardi nel 2011. Il settore è già sovraccarico di tasse». Non ha senso aggiungerne altre. I 4 miliardi di utili di quest’anno sono una frazione dei 18 miliardi del 2010 e sono calcolati supponendo un prezzo medio del petrolio di 110 dollari per barile.
Ma se il greggio arriva a 130 le compagnie vanno in rosso, e se il barile supera i 130 dollari è un bagno di sangue. «In dieci anni alla Iata sono stato costretto a sovrintendere al fallimento di 40 compagnie - dice Bisignani -. Ho paura che ci avviamo a un’altra crisi con decine di chiusure» se arriva un’altra scossa al mercato, come una nuova corsa del petrolio o una guerra commerciale Europa-Cina.
Eppure in dieci anni di gestione di Bisignani la Iata ha superato due grandi crisi (quella post-2001 e quella post-2008) aumentando la produttività del lavoro del 67%, un tour de force ai limiti del possibile. «Dieci anni fa il punto di pareggio dei bilanci delle compagnie era col barile na 25 dollari, oggi è a 130» vanta il numero uno.
Ma a tutto c’è un limite. Fra l’altro, il traffico passeggeri globale è tornato sì ai livelli pre-crisi, ma nel frattempo c’è stata una redistribuzione delle quote di mercato e dei profitti, a danno di Europa e Nord America e a vantaggio delle compagnie aeree cinesi, di Singaporee di alcune mediorientali come Emirates.
A parziale riconoscimento di questa situazione, al posto di Bisignani, il cui mandato scade con questo convegno della Iata, verrà preso (oggi l’investitura ufficiale) da un certo Tony Tyler che pur essendo europeo guida la Cathay Pacific di Hong Kong.Il baricentro sè è spostato lì.
l’Unità 7.5.11
La magistratura ha già disposto la riesumazione di Allende
Nuovo fascicolo sulla morte del premio Nobel, su richiesta del Pcc
Pablo Neruda, la fine misteriosa del poeta In Cile l’inchiesta aperta 40 anni dopo
Un’iniezione letale ad opera degli 007 di Pinochet o solo un aggravamento nei giorni subito dopo il golpe di un fisico già minato. Il Cile, alle prese con la propria storia, vuole chiarire i dubbi sulla fine del grande poeta.
di L. S.
C’è chi ha vissuto due o più vite, ma in pochi sono morti più di una volta. Uno di questi è il presidente cileno Salvador Allende, morto nel Palazzo della Moneda l’11 settembre del 1973. La storiografia parla di un suicidio con quell’Ak47 regalatogli da Fidel Castro, come estremo atto contro il golpe militare di Augusto Pinochet. Qualche giorno fa un’inchiesta tv ha messo in dubbio la ricostruzione del suicidio di Allende e avviato la riesumazione del suo corpo. Un altro uomo che si appresta a morire una seconda volta è il poeta cileno e comunista Pablo Neruda. Una settimana fa il Partito Comunista Cileno (Pcc) ha presentato un esposto per la riesumazione anche del corpo del Nobel per la letteratura 1971. Morte naturale o assassinio?
Il dubbio è anche qui frutto di indagini giornalistiche e di un clima politico che, in un Paese governato dalla “nuova” destra del presidente Sebastián Piñera, sta portando tutto il Cile a una frenetica corsa per fare i conti col proprio passato. Il poeta sarebbe morto la sera del 23 settembre '73, intorno alle 22,30, nella clinica privata Santa Maria di Santiago, per l’aggravarsi del tumore che lo aveva invaso mesi prima.
Per il referto della clinica Santa Maria, Neruda era in stato catatonico da parecchi giorni. Ma è questa circostanza a non combaciare con due testimonianze, arrivate quasi 40 anni dopo. Quella dell'autista di Neruda, il 65enne Manuel Araya Osorio, e quella dell'ex ambasciatore messicano in Cile, Gonzalo Martinez. Quest'ultimo, figura discussa della politica messicana, ha ricordato la sua ultima conversazione con il Nobel avvenuta il giorno prima della morte. «Non era né pelle e os-
sa né catatonico – ha detto Martinez -. Anzi, eravamo pronti a caricarlo su un aereo». Il presidente messicano Luis Echeverria gli aveva fatto pervenire la proposta: siamo pronti a ospitarti in Messico. Per Echeverria – tutto fuorché un comunista – l'idea di “salvare” Neruda equivaleva a rifarsi a quanto fatto da un suo predecessore, Lazaro Cardenas, che negli anni '40 aprì le porte del Messico a centinaia di repubblicani spagnoli in fuga da Franco. E poi Echeverria aveva già un aereo a Santiago per riportare in patria alcune opere dei muralisti esposte in quei turbolenti giorni proprio in Cile. Ma davanti a quella proposta, altrettanto chiara fu la risposta del poeta: «Oggi no, magari lunedì». Neruda non voleva abbandonare il suo Paese in ginocchio. «Era perfettamente lucido», insiste Martinez. Il giorno appresso, la morte.
«Verso le 4 del pomeriggio – afferma l'ex autista del poeta stava dormendo. Ero lì e un uomo entrò nella stanza e gli fece un'iniezione all'altezza dello stomaco». Da lì, un rapido peggioramento. Adesso, il Pcc si chiede: chi era quell'uomo che fece l'iniezione? Ecco perché il giudice Mario Carroza ha deciso di dar seguito all'esposto, chiedendo alla clinica Santa Maria le cartelle cliniche di Neruda, soprattutto quelle degli ultimi 12 giorni, il tempo intercorso tra il golpe di Pinochet e la morte del poeta.
Come per la famiglia Allende, anche la Fondazione Neruda non dà credito a questa nuova ipotesi. Il premio Nobel era malato, questo è certo. Che le sue condizioni fossero peggiorate con la notizia del golpe, anche questo trova traccia nelle cartelle cliniche. Ma nel Cile di oggi, alle prese con una crisi sociale che la crescita economica non è riuscita a cancellare, il passato sembra archiviabile solo se “morto due volte”.
il Riformista 7.6.11
Armenia
Grossman, la verità negata riaffiora trent’anni dopo
di Giancarlo Mancini
qui
http://www.scribd.com/doc/57264372
Repubblica 7.6.11
Che cos’è la realtà?
Searle: "come l´immaginazione costruisce il mondo"
di Maurizio Ferraris
Il filosofo spiega le sue tesi: "Non ci sono solo gli oggetti fisici ma anche quelli sociali, come le promesse e i debiti Che ci condizionano quanto le case e gli alberi"
"I fatti istituzionali esistono solo nella misura in cui sono riconosciuti o accettati da altri membri della comunità"
"I soldi non sono favole, ma in economia se fai in modo che la gente creda in una situazione, questo avrà effetto sul suo comportamento"
Il mondo intorno a noi è pieno di oggetti fisici, come tavoli e sedie. Ma è pieno anche di promesse, debiti, denaro e matrimoni. Sono oggetti sociali. Da una parte, la loro esistenza sembra essere più tenue di quella degli oggetti fisici, perché, per esempio, non si inciampa in un matrimonio se non metaforicamente. Ma dall´altra possono rivelarsi anche più drammaticamente solidi degli oggetti fisici, perché non possiamo più rimangiarci una promessa, una volta che l´abbiamo fatta, a meno di passare per bugiardi: è diventata anch´essa un pezzo di mondo esterno, proprio come gli alberi e le case. Ecco il campo della "ontologia sociale", una disciplina filosofica nata all´inizio del Novecento e rilanciata da una quindicina d´anni nel dibattito internazionale da uno dei maggiori filosofi contemporanei, John Searle, della Università di Berkeley. La posta in gioco, resa drammaticamente attuale dall´incrocio tra economia, media e politica nel mondo contemporaneo, è capire quanto solida sia la realtà sociale, e in particolare quanto la sfera della "documentalità", delle iscrizioni che popolano la nostra vita e riempiono le nostre tasche, i nostri portafogli e i nostri telefonini, possa costituire un baluardo contro la riduzione postmoderna del mondo a favola.
Diversamente dagli uragani, che sono oggetti fisici, le crisi economiche, che sono oggetti sociali, esistono solo perché ci sono uomini che credono che esistano. Ora, nel tuo ultimo libro, Costruire il mondo sociale (Cortina 2010) scrivi che "la recente crisi economica dimostra come il denaro e altri strumenti della realtà sociale sono il risultato di una massiccia immaginazione". Non è un po´ eccessivo?
«Non voglio dire che i soldi sono come le favole, ma che in economia, se riesci a fare in modo che la gente creda in una situazione, questo avrà un effetto sul suo comportamento. Proprio per questo gli Stati Uniti hanno adottato recentemente una politica economica concepita proprio per fare in modo che la gente creda qualcosa in cui altrimenti non avrebbe creduto. Il punto è che bisogna comunque dare delle solide prove del fatto che l´economia sta migliorando, in modo da sollecitarne l´immaginazione e portarla a pensare che in futuro le cose miglioreranno. In questo modo – per usare il gergo degli economisti – riesci ad alzare il livello di fiducia dei consumatori, e questo è il primo passo della ripresa economica».
Ma, appunto, bisogna dare solide prove, altrimenti siamo al postmodernismo, alla idea secondo cui tutta la realtà – compresi i tavoli, le montagne e le malattie – è socialmente costruita, grazie all´azione della persuasione, dei media e del potere politico ed economico.
«La posizione dei postmoderni è davvero troppo idiota per essere commentata. Non c´è dubbio che ci sia una realtà fisica bruta. Il problema dell´ontologia sociale, appunto, è come creiamo una realtà sociale e istituzionale a partire da quella fisica».
In questo senso, l´idiozia – o, per essere più garbati, la fallacia – postmoderna non riguarda solo i filosofi, ma anche certi politici. Penso al consigliere di Bush Carl Rowe che nel 2002, prima della guerra irachena, disse al giornalista Ron Suskind "Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora". Ma nella tua versione, non basta che ci sia un dottor Stranamore o un Grande Comunicatore che decide che le cose stanno in un certo modo.
«Certo, e il denaro è l´esempio più ovvio: la carta moneta non può funzionare come denaro, a meno che non sia collettivamente accettata, a meno che non ci sia un riconoscimento collettivo della sua funzione. Dunque, la cooperazione umana è il primo passo, anche se non l´unico, nella creazione di un´ontologia sociale».
Sì, certo non l´unico. Perché se dovessimo limitarci alla cooperazione non spiegheremmo altri elementi centrali della storia e della società come il conflitto, lo sfruttamento, la volontà di potenza, la dialettica tra signore e servo e la polarità tra amico e nemico, e ridurremmo la costruzione della realtà sociale a un barbecue tra amici. Da questo punto di vista, è interessante il fatto che per dare consistenza pubblica alle loro intenzioni gli uomini abbiano inventato quell´ingrediente essenziale che sono i documenti. Pezzi di carta, files di computer, o anche solo iscrizioni nella testa delle persone, che fanno sì che, per esempio, una nostra promessa continui a valere anche se abbiamo cambiato idea. Ed è per questo che gli archivi e i documenti sono così cruciali nel mondo sociale.
«Certo, ma come spieghi che nelle società senza scrittura ci siano capi, proprietà privata e matrimoni, pur non avendo documenti scritti che li certifichino? Il documento è qualcosa di aggiuntivo rispetto allo status che gli sta a fondamento».
Si potrebbe dimostrare facilmente che riti, tatuaggi e altri accorgimenti fungono da documenti: una danza prende il posto di un timbro, un tatuaggio fa la vece di una carta di credito. E poi non trovi che i documenti abbiano una vita indipendente rispetto alle intenzioni di chi li ha emessi?
«A volte i documenti acquisiscono una vita indipendente. Così, negli Stati Uniti la patente ti fornisce poteri ulteriori rispetto al permesso di guidare, per esempio certifica la tua età qualora tu voglia comprare alcolici. Quindi è indubbio che talvolta i documenti sembrano acquisire una vita indipendente dalle intenzioni di chi li ha emessi. Tuttavia la loro caratteristica generale sta nell´indicare uno status che esiste indipendentemente dai documenti».
Non ne sono del tutto sicuro. Immaginiamo un matrimonio in cui però, a un certo punto, venga somministrata nello champagne una sostanza, chiamiamola "amnesina", che provoca oblio totale a tutti i presenti, sposi e testimoni compresi, e in cui i documenti scompaiano. Si può dire che questo matrimonio di cui si è persa qualunque memoria esiste realmente?
«Questo è un altro modo di dire che i fatti istituzionali esistono solo nella misura in cui sono riconosciuti o accettati da altri membri della comunità. E questa constatazione ci riporta alla prima domanda sull´ontologia sociale. Un esempio persino più drammatico di questa caratteristica della realtà sociale è l´esistenza delle corporations. La corporation non ha altra esistenza che non sia quella della sua rappresentazione. Ossia, né l´edificio dove ha sede, né le persone che ne fanno parte sono la corporation: sono membri o parte delle proprietà possedute dalla corporation. Ma la corporation di per sé non ha realtà fisica indipendente – ha solo cose come debiti, diritti, obbligazioni contrattuali e le proprietà che possiede».
Mi limito a una considerazione finale: Le corporations, come le società in generale, non esistono fuori della loro rappresentazione. Ma questa rappresentazione non ha una semplice esistenza mentale: è fatta di documenti, che esistono tanto quanto i tavoli e le sedie. È proprio per questo che 100 euro reali sono diversi da 100 euro immaginari.
Repubblica 7.6.11
Il saggio di Michele Battini sul pensiero di Halévy e sulle sue dottrine
Ecco i veri maestri del liberalismo
L’autore ci invita a cercare una soluzione alla tirannia del dogma del mercato, guardando al socialismo fondato sulla filosofia di Adam Smith e di John Stuart Mill
di Nadia Urbinati
L´autunno del 2008 passerà alla storia come il mese del great slump (il grande crollo). Trovarvici in mezzo, ha significato vedere gli effetti disastrosi della più potente ideologia del ventesimo secolo, quella della deregulation, quella che ha comandato di trattare il credito come una merce eguale alle altre, di negoziarlo su mercati privi di controlli, con l´esito di fare dell´"industria bancaria" (come viene chiamata negli Usa) un´industria altrettanto pericolosa di quella nucleare.
Questa ideologia, spiega Michele Battini nel suo ultimo libro, Utopia e tirannide: Scavi nell´archivio Halévy (Bollati Boringhieri, pagg. 384, euro 26), aveva messo radici alla fine degli anni ´70, quando Paul Volcker era stato nominato presidente della Federal Reserve, avviando le politiche di liberalizzazione estrema e riducendo i diritti sociali a una variabile del bilancio federale. In quegli stessi mesi, nel Regno Unito, la signora Thatcher aveva iniziato a picconare l´edificio del Welfare. Volcker era stato allievo, e Thatcher fervente ammiratrice, di Friedrich von Hayek, il maestro della scuola neomarginalistica. Proprio nel ´79, Hayek aveva licenziato il suo capolavoro, Legge, legislazione e libertà, un poderoso attacco a quello che egli chiamava il "miraggio" della giustizia sociale. L´utopia illuministica che il legislatore possa organizzare la società e costruirla attraverso il diritto avrebbe, pensava Hayek, l´effetto perverso della tirannia. Dagli anni della Guerra Fredda, la cosiddetta «democrazia totalitaria» era divenuta l´ossessione di tutti i neoliberali, da Talmon a Furet a Berlin. Hayek metteva in dottrina quella visione, sostenendo che tra il Welfare State delle democrazie occidentali e la pianificazione totalitaria sovietica, non vi era differenza di sostanza.
Battini mette in discussione questo paradigma e, sulla scorta di altri pensatori, come Karl Polanyi, Marcel Mausse e Amartya Sen, vede proprio nell´utopia del mercato autoregolato (ma in realtà imposto dal potere politico) una nuova forma di dispotismo sociale. Si mette allora a seguire una strana pista. Non lo convince, ad esempio, che tutti i maestri del neoliberalismo invochino l´autorità di un grande storico francese, Elie Halévy, ebreo e amico di Carlo Rosselli, uno dei massimi studiosi dell´utilitarismo e del socialismo europeo dal Settento al Novecento. Ad Halévy si ispirarono i teorici dell´utopia del mercato, a partire da Raymond Aron, il quale aveva pubblicato, postumi, due capolavori: L´era delle tirannie e la Storia del Socialismo europeo, considerati pietre miliari della critica liberale dell´utopia sociale come generatrice di tirannide. Attraverso un lungo lavoro d´archivio, Battini risale alle fonti otto e novecentesche dell´opera di Halévy e, soprattutto, scopre che Aron e i suoi collaboratori non inclusero alcuni manoscritti importanti del maestro; inoltre operarono modifiche e interpolazioni (per esempio, tolsero il capitolo sulla comune natura universalistica e illuministica dell´economia classica e del socialismo, molte pagine su Marx e sulla cooperazione sociale).
Scrive Battini che Aron non poteva ammettere che Marx potesse essere schierato «sul versante dell´internazionalismo e della libertà», come aveva scritto Halévy. Per i dottrinari del mercato, doveva esistere solo un socialismo, quello dispotico e comunitario; non poteva essercene un altro, anch´esso erede dei Lumi ma perché erede della rivoluzione dei diritti. Questo liberalismo sociale portava non a Stalin, ma a Hobhouse e i liberalsocialisti britannici. Restituendoci un Halévy completo, Battini ripercorre in modo originale le vicende di entrambi i socialismi, quello statalista e quello liberale. A quest´ultimo, alleato naturale della democrazia, fondato sulla filosofia dei sentimenti morali di Adam Smith e il liberalismo di John Stuart Mill, l´autore ci invita a guardare nella ricerca di una soluzione alla tirannia incubata dal dogma del mercato. Questo liberalismo, che coltivò il modello della cooperazione e dell´economia mista, ha cercato di tener insieme i due principii di distribuzione delle ricchezza: lo scambio e il bisogno. Battini mostra in sostanza come la tirannide dei moderni non nasca dall´«utopia della giustizia» ma dalla violazione del principio della reciprocità sociale sul quale si regge lo scambio e, appunto, la giustizia.
Corriere della Sera 7.6.11
«È il volto di Majorana, 10 punti uguali»
L’analisi dei carabinieri su uno scatto del 1955 in Argentina: forti compatibilità ereditarie
di Fiorenza Sarzanini
ROMA— Dieci punti «coincidenti» e una «compatibilità ereditaria» . È stato questo a convincere i magistrati romani a riaprire l’inchiesta sulla scomparsa di Ettore Majorana. A rispolverare, due mesi fa, quel fascicolo vecchio di 73 anni. Perché la sorte del geniale fisico catanese sparito il 25 marzo del 1938, è un mistero che sembra non avere fine. Ipotesi e suggestioni non sono mai state sufficienti a chiarire se davvero possa essere morto suicida gettandosi dal postale sul quale si era imbarcato a Palermo con destinazione Napoli o se invece abbia deciso di far perdere le proprie tracce alimentando così il suo mito e la leggenda sulla sua figura. Ci hanno provato storici, giornalisti, scrittori del calibro di Leonardo Sciascia a indagare su questo giallo, a cercare una strada per arrivare alla verità. E tre anni fa è bastata la consegna di una foto scattata in Argentina nel 1955 per tracciare un nuovo percorso da seguire. Ora si scopre che in realtà quella fotografia potrebbe davvero dare una svolta alla nuova indagine condotta dal procuratore aggiunto di Roma Pierfilippo Laviani, determinato a tentare ogni possibilità pur di afferrare la traccia giusta. I rilievi effettuati dai carabinieri del Ris di Roma hanno infatti fornito «dieci coincidenze» tra l’immagine acquisita tre anni fa e quelle del fisico siciliano. Ma soprattutto hanno verificato una «compatibilità» tra l’uomo ritratto in quella istantanea e suo padre Fabio Massimo, evidenziando «la trasmissione ereditaria» . Indizi indispensabili per decidere di andare avanti e disporre accertamenti in Sudamerica, lì dove Majorana potrebbe aver deciso di nascondersi e di costruirsi una nuova identità. Verifiche per scoprire se proprio dall’altra parte del mondo possa esserci la sua tomba. Comincia tutto nel 2008 quando un uomo telefona alla trasmissione di Raitre Chi l’ha visto? e dice di essere convinto di aver frequentato Majorana, anche se lui ha sempre detto di chiamarsi signor Bini. La sua testimonianza è riportata sul sito internet del programma: «Sono partito per il Venezuela perché non andavo d’accordo con mio padre, era l’aprile del 1955. Arrivato a Caracas, sono andato a Valencia con Ciro, un mio amico siciliano, che mi presentò un certo Bini. Ho collegato Bini e Majorana grazie al signor Carlo, un argentino. Mi disse: "Ma lo sai chi è quello? Quello è uno scienziato. Quello ha una capoccia grande che tu neanche ti immagini. Quello è il signor Majorana". Si erano conosciuti in Argentina. Era di media altezza, con i capelli bianchi, pochi e ondulati. Capelli bianchi di chi aveva avuto i capelli neri. E si vedeva dal fatto che portava sempre l’orologio sopra la camicia e per lavarsi le mani si apriva le maniche della camicia e aveva i peli neri. Era timido, preferiva stare in silenzio e se lo invitavi al night non veniva. Poteva avere sui 50 -55 anni. Parlava romano ma si vedeva che non era romano. Si vedeva anche che era una persona colta. Sembrava un principe. Io certe volte gli dicevo: "Ma che cavolo campi a fa. Ti vedo sempre triste". Lui diceva che lavorava, andavamo a mangiare, poi stava 10-15 giorni senza farsi sentire. Aveva una macchina gialla una Studebacker. Pagava solo la benzina, altrimenti sembrava che non avesse mai una lira. Ogni tanto gli dicevo: "Ci tieni tanto alla tua macchina e c’hai tutta sta carta". Erano fogli con numeri e virgole, sbarramenti. Lui non voleva mai farsi fotografare e siccome dovevo prestargli 150 bolivar gli ho fatto una specie di ricatto, in cambio gli ho chiesto di farsi fare una foto con me per mandarla alla mia famiglia. Era più basso di me. Quando ho trovato la foto ho deciso di parlare, sennò era inutile che dicevo che avevo conosciuto Majorana» . Quella foto è stata portata nei laboratori dell’Arma e sottoposta a decine di comparazioni. I primi raffronti sono stati effettuati con l’immagine comparsa sui cartelloni poco dopo la sparizione. Occhi, naso, bocca, orecchie, fronte, mento: ogni altezza e larghezza è stata analizzata. E il risultato è apparso sorprendente agli specialisti guidati dal colonnello Luigi Ripani. Perché la linea del naso, che fa un piccola curva verso sinistra, appare identica, così come la parte alta del padiglione auricolare che piega leggermente verso l’interno. Il «signor Bini» ha i capelli bianchi e nell’immagine scattata mostra un’età vicina ai 50 anni. Majorana al momento della sparizione ne aveva 31 ed era castano scuro, ma anche l’invecchiamento effettuato al computer ha fornito elementi positivi. Indizi che nella relazione consegnata ai magistrati consentono di «non poter escludere che il soggetto sia proprio Majorana» . Quanto bastava per decidere di andare oltre e confrontare la foto consegnata dal testimone e quelle del padre Fabio Massimo, ma anche del fratello Luciano forse il più somigliante ad Ettore. Ed è stato proprio questo lavoro a fornire ai magistrati il tassello per decidere di affidare ai carabinieri verifiche ulteriori in Argentina e Venezuela. Scrivono infatti gli specialisti del Ris: «Dalle sovrapposizioni sono emerse similitudine somatiche compatibili con la trasmissione ereditaria padre-figlio» . Il «signor Bini» potrebbe dunque essere proprio Majorana. Il fisico potrebbe effettivamente aver deciso di costruirsi una nuova vita in Sudamerica sfuggendo alla notorietà ma continuando a svolgere i suoi studi. Riuscire a rintracciare la sua tomba a distanza di così tanti anni non appare impresa facile. Ma con i risultati già raggiunti i magistrati romani hanno ritenuto che valga comunque la pena di tentare.
l’Unità 7.5.11
Robert Darnton Parla lo storico statunitense, autore di un saggio sul futuro del libro (Adelphi)
A Monza Se ne parla anche in un convegno: «digitalizzare e democratizzare», ecco il segreto
Una biblioteca digitale universale sarà la Repubblica delle lettere
Robert Darnton, studioso dell’Illuminismo e autore del saggio «Il futuro del libro», ci parla di come potrà sopravvivere l’oggetto libro. Anche lui ha partecipato al Forum in corso a Monza (fino a oggi).
di Oreste Pivetta
Quanto potrà durare il libro? Parliamo dell’oggetto, tante pagine di carta e una copertina di cartoncino. Nato sei secoli fa, dall’invenzione di Gutenberg (i caratteri mobili), prospera ancora: quest’anno supererà nel
mondo il tetto di un milione di titoli. Ha resistito, nel corso del Novecento, alle guerre, all’atomica, al cinema, alla radio e alla televisione. Sta combattendo forse la battaglia decisiva, alle prese con smodate passioni elettroniche. Robert Darnton, americano, studioso dell’Illuminismo (vedi il suo bellissimo libro, Il grande massacro dei gatti), direttore del sistema bibliotecario dell’Università di Harvard, ci consiglia di non drammatizzare: «Carta e digitale possono coesistere, come dimostrano i buoni rapporti tra cinema e letteratura, tra quotidiani e televisione. Anzi carta e digitale possono spalleggiarsi a vicenda, spronando alla lettura». Il problema della durata però non si può eludere ed è doppio: viene da chiedersi non solo per quanto tempo ancora si stamperanno libri, ma anche quanto resisteranno quelli già stampati, cioè la nostra storia, in fila negli scaffali delle biblioteche, nei cassoni dei magazzini, alle prese con l’umidità, con le muffe, con i roditori, persino con l’aria secca e con l’oscurità dell’oblio. Senza contare gli uomini, i nemici più pericolosi, inventori tanto dei roghi quanto dell’online e della fede nella famosa «chiavetta» che in tasca dovrebbe custodire centinaia e centinaia di pagine.
E se la perdi? O se improvvisamente perde lei, la chiavetta, la sua memoria? Domande serie che hanno indotto l’Unesco e la regione Lombardia a organizzare un convegno e domande che si sono posti coltissimi studiosi, tecnologi, bibliografi, direttori di biblioteche, quasi duecento, alla Villa Reale di Monza, altro reperto storico, costruita in tre anni dal Piermarini (tra il 1777 e il 1780), in perenne restauro, rallentato dalla cronica povertà dei mezzi (l’ultimo progetto prevede un investimento di un centinaio di milioni, se ne sono trovati per ora venti: miserie, con il corollario di veder un pezzo della villa trasformato in una beauty farm).
Le risposte stanno in molti buoni propositi, ma anche in un’opera colossale: la «biblioteca universale» è meno lontana di quanto si pensi. Grazie alla digitalizzazione. Perché nessuno si sogna di ipotizzare la fine del libro, ma tutti si danno un imperativo: digitalizzare. Per conservare, scambiare, liberare e, naturalmente, commercializzare. Lo sostengono direttori o ex direttori di biblioteche come Bruno Racine (direttore della Bibliotheque de France), come Antonia Ida Fontana, italiana ex direttrice della Nazionale di Firenze, come Milagros del Corral, presidente del comitato scientifico, a capo del convegno. Lo pensa Antonio Skarmeta, lo scrittore cileno di Antofagasta. Lo pensa e lo testimonia con il suo lavoro Robert Darnton (anche nella sua ultima raccolta di saggi, Il futuro del libro, edito da Adelphi), perché Darnton è impegnato in un progetto straordinario, che parte, come dice lui, dalla «coalizione di tutte le più importanti fondazioni americane», disposte a contribuire economicamente, e delle principali biblioteche universitarie, disposte a metterci i libri. E le fondazioni in Italia? Me lo chiede il professore americano. Meglio tacere, non parlare di coalizioni. «Il nostro risultato – spiega Darnton – sarà una biblioteca digitale enorme a disposizione di tutti: digitalizzare e democratizzare, perché digitalizzare è ormai necessario, ma conta di più democratizzare. Solo così si realizzerà la Repubblica delle Lettere». Darnton torna al primo amore di studioso, l’Illuminismo. Per questo sogna una grande alleanza, pensando pure a un monopolista come Google: «Google ha fatto miliardi controllando l’accesso all’informazione e ora li investe nel controllo dell’informazione stessa». Google ha creato Google Book Search, ormai la più grande biblioteca digitale, sette milioni di volumi, grazie ad accordi con le università e copiando anche opere coperte da copywright (che le lobbies editoriali, Disney in testa, tendono a inasprire), salvo poi, davanti ad una class action di autori ed eredi giungere, ad un complesso accordo, diventato «Google Settlement». Il fatto è che Google vuole guadagnare e che in virtù di quell’accordo sono tutti nelle mani di Google, ormai in condizioni di insuperabile monopolio, pronto a spartirsi la parte più ghiotta del bottino, salvo un ultimo ostacolo: l’authority per la libera concorrenza, che in America funziona e che vede l’impresa della Silicon Valley senza competitori. Darnton, quando pensa a Google, sogna milioni di libri a disposizione di tutti e spera nella generosità, nell’altruismo: «Google non si faccia pagare. Noi professori viviamo anche di utopie». Darnton conta anche sulla collaborazione con Europeana, la biblioteca digitale del vecchio continente. Ma l’Europa dei libri funziona male come quella politica: il bilancio è di una decina di milioni di libri digitalizzati, pochi rispetto al patrimonio comune, con la Francia che dà il massimo contributo (Sarkozy ha stanziato 750 milioni di euro) e l’Italia in coda.
Darnton non nasconde il proprio amore per il vecchio libro di carta, da leggere in qualunque luogo, le cui pagine sono buone pure per i nostri appunti, resistente nei secoli, denso persino per il profumo delle carte e degli inchiostri cui il lettore non saprebbe rinunciare. Ci racconta di un editore che pubblica solo on line e che regala ai suoi abbonati la boccetta di un aroma che evoca quella di un libro ad apertura di pagina. Allora? Si continuerà seguendo strade diverse. Nasceranno libri digitali, sempre nuovi libri verranno digitalizzati, ma a lungo si continueranno a stampare libri di carta destinati a una lettura appassionata. D’altra parte, come ci ricorda Darnton, gli amanuensi sono rimasti all’opera fino all’inizio dell’Ottocento: piccoli libri di poche pagine scritti a mano costavano ancora meno.
Corriere della Sera 7.6.11
Il cervello non vuole rimpianti
Così sfugge al senso di colpa. E accetta anche scelte egoiste
di Massimo Piattelli Palmarini
Tutti conosciamo la sensazione di rimpianto che si accompagna al pensiero «Ah, se solo avessi ….» . E conosciamo l'imbarazzo, a questa intimamente legato, di non essere stati all'altezza di quanto altri si aspettavano da noi. Ebbene, nell'ultimo numero della rivista specializzata Neuron, un gruppo di economisti e neuropsicologi dell'Università dell'Arizona, delle Università di Nimega e di Goteborg e del California Institute of Technology, riporta di aver scoperto le basi cerebrali dei processi che portano ad evitare queste sgradevoli emozioni e delle decisioni sottostanti. In sostanza, mediante la risonanza magnetica funzionale, hanno scoperto che la scelta di cooperare con un partner economico attiva zone cerebrali diverse da quelle attivate dal rifiuto di cooperare, quando, cioè, si fanno scelte squisitamente egoiste, con conseguente senso di colpa. Una complessa serie di esperimenti di laboratorio, caratterizzata da questi autori come una «triangolazione» (economica, psicologica e neurologica), costituisce oggi il piu'recente anello scientifico di una lunga catena di dati e di ipotesi sui motivi dei comportamenti di cooperazione, ovvero di competizione, e del senso di colpa generato da quest'ultimi. Lascio la parola all'economista svedese Martin Dufwenberg, docente all'Università dell'Arizona. «Evitare il senso di colpa è un processo psicologico studiato da gran tempo. In collaborazione con l'economista italiano Pierpaolo Battigalli della Bocconi, abbiamo costruito in questi ultimi anni un modello matematico complesso dell'impatto che questi processi psicologici possono avere sulle decisioni economiche. Il lavoro adesso pubblicato su Neuron rivela per la prima volta le basi cerebrali di questi processi» . Passo a intervistare il suo co-autore (con Luke Chang e Alex Smith) e collega Alan Sanfey che divide il suo tempo tra l'Università dell'Arizona, l'Università di Nimega e l'Università di Trento a Rovereto (insignito l'anno scorso con il premio scientifico della Provincia di Trento), uno dei massimi rappresentanti del campo chiamato neuro economia. Mi risponde: «Ci si chiede da tempo come mai la gente cooperi così spesso con altri, anche quando una scelta egoista porterebbe loro maggiori guadagni. Evitare il senso di colpa per la mancata cooperazione sembra essere una buona spiegazione. Adesso abbiamo visto, in situazioni sperimentali ben controllate, che le decisioni di tipo altruistico sono correlate all'attivazione cerebrale specifica dell'insula, dell'area motoria supplementare, la corteccia prefrontale dorso laterale, e la giunzione temporo-parietale. Invece, le decisioni di tipo egoista accompagnate da senso di colpa attivano la corteccia ventromediale e dorsomediale e il nucleus accumbens» . Chiedo a Dufwenberg e Sanfey di tradurre in termini comprensibili il significato di queste attivazioni cerebrali. In sostanza, l'insula e'una regione associata al dolore e al disgusto e tiene quindi conto dei guadagni perduti e del relativo rimpianto. Altre regioni cerebrali sono invece sensibili all'ottimizzazione dei guadagni, all'autocontrollo e a quanto i risultati collimano con le aspettative. I segnali cerebrali ottenuti rivelano un conflitto decisionale tra trasmettere parte dei fondi ricevuti a un fiduciario, nella speranza che questo li restituisca moltiplicati, o invece tenere tutti i fondi per sè. Questi dati rivelano anche un segnale di senso di colpa se il fiduciario, a sua volta, si tiene tutti i fondi ricevuti dall'investitore, violando la fiducia che questo aveva riposto in lui. Quale sarà la svolta successiva? Dufwenberg mi dice che si è rivelato sempre più importante, nelle teorie economiche, tener conto dei fattori psicologici e costruire modelli matematici esatti dell'influenza delle aspettative dei partecipanti sulle decisioni. Non solo, adesso si passa ad un calcolo ancora piu'complesso, cioè le aspettative sulle aspettative degli altri soggetti. «Diventa possibile— nota — introdurre modelli sugli stati psicologici successivi alle decisioni, il senso di colpa in particolare, una prospettiva di enorme interesse. Per le scelte ripetute nel tempo questo fattore diventa molto importante» . Sanfey aggiunge che è importante aver collegato i circuiti cerebrali coinvolti nella valutazione delle aspettative e negli stati affettivi negativi con la decisione di cooperare con altri. «L'altruismo non è solo una faccenda di buoni sentimenti, ma è anche il risultato del senso di colpa conseguente a una scelta egoistica. Infine, i dati neurobiologici e i modelli matematici rendono concetti come colpa, imbarazzo, invidia molto piu'precisi» . Parrebbe, aggiungo io, che si sia scoperta la neurobiologia del buon samaritano.
La Stampa 7.6.11
La nuova morale
“Regole e tabù? Non fanno più per noi”
Sos del Censis : italiani sempre più narcisi e aggressivi Non gestiscono le pulsioni, è boom di droghe e farmaci
di Raffaello Masci
ROMA Regola numero uno: faccio quello che mi pare. Questa è la nuova morale degli italiani: individualismo spinto, insofferenza per le regole, attenzione centrata sui propri bisogni e sul proprio tornaconto, fino al punto di alzare la voce e le mani.
Di fronte a un aumento negli ultimi 5 anni - delle minacce e delle ingiurie del 35,3%, delle lesioni e delle percosse del 26,5% e dei reati sessuali dell’ordine del 20%, il Censis ha provato a indagare sul perché in questo Paese stiamo dando di matto con una frequenza inedita e montante. E ne è nata una indagine - «La crescente sregolazione delle pulsioni» - presentata ieri mattina a Roma.
Il criterio che governa l’agire degli italiani è che ognuno è arbitro unico dei propri comportamenti: decido io cosa è meglio fare. Così pensa l’85,5% degli italiani. Le regole - ovviamente - ci sono ma possano essere aggirate in molte situazioni: sono i vertici delle istituzioni a dare l’esempio in questo senso, dalle moratorie, agli slittamenti, alle deroghe, fino ai condoni.
Se uno vuole divertirsi non può fare a meno di eccedere e trasgredire, pensa il 44,8%. E poiché viviamo in un mondo di prepotenti, è accettabile e ammesso difendersi anche con le cattive maniere, sentenzia un altro 46,4% (ma ben il 61,3% di quanti abitano nelle grandi città, dove i conflitti sono più esasperati).
Se questo vale per le leggi civili, figuriamoci per quelle morali. Tra chi si dice cattolico, per esempio, la doppia morale è la regola: per raggiungere i propri fini bisogna accettare i compromessi secondo il 46,4%, quanto - poi alla morale sessuale, lascia il tempo che trova per il 63,5% degli intervistati, che diventa 80% tra i giovani.
Questo individualismo rende soli e sbandati, ed espone gli italiani a nuove dipendenze e vecchie fragilità psicologiche. Per cui diminuisce in generale il consumo di sostanze stupefacenti (tra il 2008 e il 2009 i consumatori sono calati del 25,7%, passando da 3,9 milioni a 2,9 milioni circa), ma non quello della cocaina - droga dell’aggressività - tant’è che sono aumentati del 2,5% i coicainomani in carico ai Sert. In crescita, invece, i consumi di bevande alcoliche tra i giovani, che si ubriacano regolarmente in misura del 16,6% (oltre un milione in termini assoluti), 1,7% in più rispetto allo scorso anno.
Anche un fenomeno in sé positivo, come i social network, dice il Censis, può celare un sintomo di malessere: la difficoltà a stabilire relazioni reali e la tendenza a sostituirle con quelle virtuali. Dal settembre 2008 al marzo 2011 gli utenti di Facebook sono passati da 1,3 milioni a 19,2 milioni.
Ogni utente trascorre su Facebook mediamente 55 minuti al giorno, è membro di 13 gruppi, e ogni mese «posta» 24 commenti, invia otto richieste di amicizia, diventa fan di quattro pagine e riceve tre inviti ad eventi. La medesima fragilità si esprime nella difficoltà ad accettarsi per quello che si è, e così nel 2010 sono stati circa 450mila gli interventi di chirurgia estetica effettuati in Italia. Anoressia e bulimia sono le prime cause di morte tra le giovani di 12-25 anni, e ne sono colpite circa 200mila donne.
Pulsioni sempre più distruttive evolvono, spesso, in depressione conclamata. Il riscontro è nel consumo di antidepressivi: le dosi giornaliere sono più che raddoppiate dal 2001 al 2009, passando da 16,2 a 34,7 per 1.000 abitanti, ovvero segnando un preoccupante incremento del 114,2%.
«L’Italia - spiega il direttore del Censis, Giuseppe Roma è stato sempre un Paese di individualisti. La stessa crescita economica degli ultimi decenni è nata dal desiderio di mettersi in proprio e progredire. Questo fenomeno - tuttavia - è stato accompagnato da una politica che ha accettato, a fronte della crescita e dello sviluppo, di chiudere un occhio su molte regole. Esistevano, però, allora, vari fattori di coesione sociale che ci consentivano di arginare gli eccessi di questa deriva: la famiglia, la scuola, i partiti, la chiesa. Quando tutto questo è saltato, gli italiani sono stati esposti - senza difese e senza antidoti - a tutte le sollecitazioni della modernità: Internet, i social network, la forte competitività, i raffronti con modelli irraggiungibili, la conflittualità sociale. Lo stress è stato terribile: in qualcuno ha scatenato l’aggressività, in qualche altro la depressione, in molti l’alienazione».
La Stampa 7.6.11
Lo psichiatra Cassano
“In preda alla depressione spesso si abusa di pillole”
di Valentina Arcovio
«Depressione e panico sono ormai patologie da medicina generale. Ma nel 30% dei casi si fa un uso inappropriato di farmaci antidepressivi». A parlare è lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, docente emerito all’Università degli Studi di Pisa.
Aggressivi, depressi e fuori controllo. Oggi la maggior parte degli italiani ha bisogno dello psichiatra?
«Certo che no. Pur con tutti i progressi, abbiamo sempre lo stesso cervello. È la cultura che si inserisce aggiungendo qualcosa alla nostra personalità. Quindi, nessun cambiamento patologico: noi italiani siamo rimasti sempre gli stessi».
Come spiega il disagio testimoniato dall’aumento del consumo di farmaci antidepressivi?
«Non consumiamo più antidepressivi di quanto facciano in Inghilterra o in Francia. Stiamo recuperando terreno, ma ciò non significa che oggi ci siano più depressi di 50 anni fa. Solo che oggi misuriamo il fenomeno che prima non veniva neanche preso in considerazione e abbiamo la possibilità di curare la depressione, cosa che prima non facevamo».
Allora siamo tutti più stressati e ipocondriaci?
«No. Oggi il medico di base è preparato a riconoscere una patologiache prima veniva ignorata prescrivendo un farmaco per curarla. Però non tutti ne fanno un uso appropriato».
In che senso?
«Il 30% degli italiani che assume antidepressivi non porta a termine la terapia. In pratica, si sprecano farmaci perché non si sta attenti alle indicazioni del medico».
Gli episodi di violenza e aggressività non sono sintomo di una società più malata?
«In psichiatria ogni caso deve essere valutato singolarmente. Gli episodi di aggressività o perdita di controllo ci indicano che la nostra società ha un’intelligenza meno sviluppata. C’è un’incapacità cronica di individuare i responsabili dei problemi che oggi ha il nostro Paese. Non abbiamo fatto progressi come Francia e Inghilterra: ci ritroviamo a interagire in contesti nuovi ma con la stessa maturità di prima».
A cosa si riferisce?
«Mi riferisco alla tendenza al non far rispettare le regole. Pensiamo alla differenza tra gli stadi inglesi e quelli italiani: da noi si parla dei casi di violenza ma poi di concreto non si fa nulla per reprimerli, mentre in Inghilterra non c’è questo permissivismo che non porta nulla. Ciò significa che non siamo diventati più violenti ma che continuiamo a lasciare impuniti i responsabili».
Cosa ci dice di anoressia e bulimia?
«Sono disturbi che esistono da sempre, solo che sono cambiati i contenuti. La tv e il pc sono sempre lì a rimarcare che il nostro aspetto non è conforme ai canoni di bellezza».
Cosa ne pensa dei dati sull’abuso di alcol e sostanze stupefacenti tra i giovani?
«Oggi a 14 anni si ha una maggiore autonomia, poi sono aumentate le sostanze pericolose di cui abusare. Il problema non sono i giovani, ma la scarsa capacità della società di far rispettare le regole».
Terra 7.6.11
Epidemia killer in Europa “assolta” anche la soia
di Federico Tulli
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http://www.scribd.com/doc/57264332