mercoledì 25 maggio 2011


l’Unità 25.5.11
Da Sestri a Castellammare: esplode la rabbia degli operai. Sono 2551 i tagli previsti
Scontri e proteste In Campania occupato il comune. Alta tensione a Genova: feriti e contusi
La rivolta operaia contro la chiusura di Fincantieri
«Questo non è un piano industriale, ma una dichiarazione di guerra»
Il sindaco di Genova chiede a Fincantieri l’immediato ritiro del progetto di chiusura degli impianti. L’amministratore delegato Bono rispetti gli impegni
di Giuseppe Vespo


Pretendiamo il ritiro del piano Fincantieri, perché chiudere due stabilimenti e mandare via 2.551 persone su 8mila non è un piano industriale, è una dichiarazione di guerra. Significa rassegnarsi all’idea che il Paese non abbia più speranza di rilanciare la sua capacità storica di costruire navi. A Genova e in Italia questa capacità è indubbia e ancora oggi vive nell’alta professionalità del lavoro legato al porto e al mare. Quel piano cancella tutto questo e non lo possiamo accettare».
Sindaco Vincenzi, lei ha detto: «O ci sarà una trattativa vera o sarà sciopero generale». Su cosa si può trattare? «Non accettiamo l’idea che si possano chiudere i cantieri invece di renderli più competitivi. Ciò non vuol dire che non siamo consapevoli delle difficoltà del settore e dell’esigenza di riorganizzarlo. Di questo si discuteva fino a qualche settimana fa, e per questo nel 2008 abbiamo iniziato a lavorare all’accordo di programma per il “ribaltamento” a mare del cantiere di Sestri Ponente. La competitività di quel sito è legata infatti alla sua trasformazione logistica: bisogna portare la piattaforma vicino al mare per lavorare le navi più grandi e più moderne. Il governo e l’azienda hanno lavorato con noi a quel progetto, per il quale sono stati stanziati e sono pronti 71 milioni di euro».
Poi che cosa è accaduto?
«Proprio per sbloccare i fondi prima dell’annuncio del piano industriale, poche settimane fa abbiamo ricevuto in Comune i manager della Fincantieri. Quella è stata l’ultima volta in cui ci hanno rassicurato sul futuro dello stabilimento. In quell’occasione, non potendo essere presente, l’amministratore delegato Giuseppe Bono mi fece recapitare una lettera in cui confermava il suo impegno a dare seguito all’accordo di programma».
Era il 13 maggio, e dopo?
«Vorrei capire cosa è successo».
È per questo che ha parlato di beffa e di presa in giro alla città? «Sì. Fino a due settimane fa azienda e governo sembravano pronte a sedersi a un tavolo per dare una nuova mission al cantiere di Sestri. Vogliamo sapere chi ha deciso il cambio di rotta: l’ha voluto il governo, che è il primo azionista di Fincantieri, o l’ha deciso il management senza consultare nessuno? Ormai la confusione è tanta che la Lega, che pure esprime il sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, scende in strada con gli operai per chiedere le dimissioni dell’ad Bono. Io non chiedo le dimissioni di nessuno, chiedo all’azionista Tremonti se il governo ha deciso di chiudere i cantieri o se questo piano è solo un modo di alzare l’asticella per vedere fin dove si può arrivare. Ma se fosse così sarebbe irresponsabile».
La reazione degli operai è stata durissima. È preoccupata? «Molto, e non solo per le proteste di questi giorni. La chiusura di Sestri e il ridimensionamento di Riva Trigoso interessano migliaia di famiglie. E penso anche ai i lavoratori extracomunitari che si sono integrati grazie al lavoro che hanno trovato nell’indotto. Oggi (ieri, ndr) in testa al corteo con cui gli operai hanno chiesto al governo l’apertura di un tavolo c’erano dei lavoratori del Bangladesh».
Chi ci sarà all’incontro del tre giugno?
«Mi aspetto che ci sia almeno Tremonti, che con il Tesoro controlla Fincantieri. Le parole del ministro Romani ai lavoratori non bastano più: troppe volte, anche in Parlamento, ha dato rassicurazioni». Più in generale, come giudica il governo?
«Molto distante. Mi può anche andar bene un esecutivo di centrodestra, purché sappia curarsi del Paese. Non è questo il caso. Avevo accolto come un’inversione di tendenza l’inserimento nel Milleproroghe del finanziamento per la piattaforma di Sestri Ponente. E invece...».
Molte città hanno appena rinnovato le amministrazioni. Ma non sembra un buon periodo per fare il sindaco... «È vero. Mai come in questi anni i Comuni hanno sofferto l’impoverimento delle loro risorse e della conseguente capacità di dare risposte ai cittadini. Anche per le città più virtuose, quelle che come Genova hanno i bilanci ancora in ordine, è sempre più difficile andare avanti. Soprattutto se manca un governo nazionale all’altezza della situazione, capace di esprimere un’idea di Paese».

Corriere della Sera 25.5.11
Il mito del Rex sconfitto dai nuovi concorrenti cinesi Ancora nel 2004 l’azienda sfornava portaerei. La Vincenzi: per Sestri stanziati 70 milioni
di Giuseppe Sarcina


Fincantieri rinuncia alla sua anima genovese, l’equivalente di Mirafiori per la Fiat o, risalendo nel tempo, di Ivrea per Olivetti, Bicocca per Pirelli. Il piano dell’amministratore delegato Giuseppe Bono «taglia» , (nel senso che chiude e butta la chiave in mare), lo stabilimento di Sestri Ponente (771 dipendenti, più altri 2.500 dell’indotto) e «ridimensiona» quello di Riva Trigoso, sul golfo del Tigullio a poche gallerie da Moneglia. Un tratto di penna che cancella un secolo e mezzo di lavoro, di storia industriale. Nel pomeriggio inoltrato, di ritorno dalla manifestazione di protesta nel centro di Genova, i delegati sindacali della Fiom, Giulio Troccoli, 57 anni, operaio di quarto livello a 1.400 euro netti al mese, e Diego Delzotto, 37 anni, impiegato con un stipendio di 1.350 euro, mostrano com’è cambiato il cantiere di Sestri. La banchina su cui, nel 1932, fu assemblato il leggendario «Rex» , il più veloce transatlantico dell’epoca, è oggi occupata dalle officine di saldatura. I pezzi vengono trasferiti uno a uno da gru gigantesche nei bacini di carenaggio, scavalcando la ferrovia che taglia in due l’impianto. Una dispendiosa assurdità sia per gli esperti di «logistica» sia per qualsiasi persona di buon senso. Ma questo cantiere diviso a metà dai binari è forse l’immagine migliore della nuova crisi di Fincantieri. Una delle ultime aziende di Stato che mescola lo stile antico delle partecipazioni statali con scatti gestionali «alla Marchionne» . Quel gruppo che ancora nel 2004 presentava all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, addirittura una portaerei, la «Cavour» varata a Riva Trigoso, è lo stesso che oggi arretra drammaticamente davanti ai concorrenti coreani e cinesi. Oltre a Sestri va chiusa anche Castellammare di Stabia (630 addetti). In totale gli «esuberi» previsti sono 2.551 da individuare tra gli 8.311 dipendenti distribuiti in otto stabilimenti: Monfalcone, Marghera, Ancona, Palermo, Castellammare di Stabia, Muggiano (La Spezia), Riva Trigoso e Sestri Ponente. L’azienda ha presentato l’intervento come inevitabile, a fronte del dimezzamento della domanda mondiale di navi, tra il 2007 e il 2010. I bilanci di Fincantieri fanno paura, soprattutto per la progressione delle perdite: 64 milioni nel 2009 e 124 nel 2010. In mezzo c’è il tiro alla fune con i sindacati, sui carichi di lavoro e sulla produttività. Ma finora la corda non si era spezzata. Adesso a Genova è il momento dei «cattivi» pensieri. Il primo lo tira fuori esplicitamente il sindaco Marta Vincenzi (Pd): «A gennaio il governo ha stanziato 70 milioni per costruire una banchina nel mare davanti al cantiere di Sestri, In questo modo la fabbrica potrebbe tornare a crescere, superando la strozzatura dei binari. L’obiettivo sarebbe entrare nel mercato della riparazione delle navi più grandi e quindi riuscire a sopravvivere. Perché non si procede?» Il sindaco ha cercato il ministro Tremonti, perché l’azionista principale di Fincantieri è il Tesoro. Ma finora i due non si sono parlati. Il contatto, invece, è stato già stabilito con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Ieri pomeriggio nell’anticamera del sindaco era in attesa Pierluigi Vinai, vice presidente della Fondazione Carige e soprattutto uomo di fiducia dell’ex ministro (ligure) Claudio Scajola. Il secondo sospetto viene gridato in faccia all’ex deputato leghista Edoardo Rixi dagli operai e dagli impiegati nel corteo di ieri: Fincantieri e il governo di centrodestra hanno voluto salvare il Nord-Est, da Monfalcone a Marghera, scaricando i tagli sulla «rossa» Liguria (oltre che sul Sud). Per venirne fuori, però, i sospetti non bastano, anche se fossero fondati. Ci vorrebbe anche qualche idea compatibile con la logica economica e industriale. Un’alternativa, o un correttivo, al «piano Bono» . I sindacati sostengono che Fincantieri è rimasta intrappolata da scelte che oggi non rendono più: costruzione di navi da crociera e appalti militari. Mentre si può diversificare in altri settori: le piattaforme off-shore, le cisterne per trasportare gas liquido o prodotti chimici, persino i traghetti. Secondo Bruno Manganaro, responsabile cittadino della Fiom per la cantieristica, Sestri ha le competenze tecniche per fare tutto ciò. Anche con i binari di mezzo.

l’Unità 25.5.11
Intervista a Massimo D’Alema
«Ovunque si respira l’aria del cambiamento. E il governo non durerà»
Il presidente del Copasir: «I toni di Berlusconi? È sempre stato estremista a travolgerlo è il fallimento del suo progetto, la propaganda non basta più» «Le regole vanno cambiate, siamo pronti ma non so se ci siano le condizioni»
di Simone Collini


Si parte dalle amministrative ma inevitabilmente si finisce per parlare anche di come sarebbe «dannoso e umiliante per il Paese» andare avanti così altri due anni e dell’enorme «responsabilità» che hanno ora le forze di opposizione. Massimo D’Alema non vuole infatti dare nulla per scontato sui ballottaggi («sono un po’ superstizioso...»). Ma dice che in ogni caso è necessario aprire una nuova pagina. Quella del «dopo Berlusconi».
Dice che i tempi sono maturi?
«Ho girato molto per la campagna elettorale e ovunque si respira il clima dei momenti importanti. Si capisce che la maggioranza degli italiani vuole un cambiamento. Al Nord si avverte quasi un senso di liberazione, di riscatto, c’è la voglia di sentirsi capitale morale dopo che per tanto tempo l’immagine è stata decisamente diversa. E si capisce. Lunedì dopo aver girato per la provincia di Mantova ho chiuso la giornata a Desio. È a pochi chilometri dalla villa di Macherio e da Arcore. Si può capire con quale spirito vada alle urne per il ballottaggio chi in questi anni ha visto il proprio nome associato a certe vicende». Sarà stato a contatto con elettori di centrosinistra, il loro entusiasmo non è garanzia che l’opposizione ai ballottaggi vada bene come al primo turno. «L’opposizione dà la sensazione di grande serenità. Quando si vedono tante persone sorridenti è il segnale che si può vincere. Come nelle partite di pallone. È chi perde che tira calci. È quello che accade in questi giorni». La destra però ora potrebbe cambiare tattica e recuperare i consensi persi al primo turno, non crede?
«Il risultato del primo turno non è figlio di una campagna elettorale sbagliata. È bizzarro il discorso secondo il quale Berlusconi ha sbagliato i toni. Non mi ricordo ne abbia mai avuto di diversi. Berlusconi moderato, ma quando è stato? Me lo sono perso. Altre volte questi toni hanno funzionato. Ma la questione vera, di fondo, di questo voto è il fallimento della destra e di Berlusconi al governo. Un fallimento che non è più possibile coprire con promesse o artifici propagandistici. Emerge drammaticamente dalla condizione della società italiana e da dati impressionanti forniti da Istat, Corte dei conti, agenzie di credito internazionali».
C'è però una crisi economica di cui bisogna tener conto. «La crisi è internazionale e l’Italia è il fanalino di coda dei Paesi Ue. Si è registrato un distacco crescente rispetto agli Stati avanzati. Il problema è che il governo ha fornito la vulgata, falsa, che in questa crisi noi ce la caviamo meglio degli altri. E non ha saputo far fronte a un nostro specifico problema nazionale, ridare slancio all’economia. Di fronte a questo la destra e Berlusconi che si era presentato come l’uomo in grado di modernizzare il Paese hanno fallito. La società è ferma, crescono drammaticamente le ingiustizie e le diseguaglianze (unica crescita che hanno assicurato), siamo di fronte a una pubblica amministrazione inefficiente, a una perdita di credibilità internazionale che si riflette basta guardare la Borsa anche sui mercati finanziari. Berlusconi perde per questo, per l’azione fallimentare del governo. E ciò pone, al di là del tema delle amministrazioni locali, la questione di quale prospettiva si apra nei prossimi giorni». Dice Berlusconi che non ci saranno ripercussioni sul governo. Lei che dice? «Che Berlusconi si è talmente messo in gioco che il risultato non potrà non avere conseguenze politiche, al di là di quello che pensa lui. E che in ogni caso non è ragionevole restare con un governo così due anni ancora. Già non avevano particolare slancio e credibilità. All’indomani di un risultato per loro deludente perché non mi pare si stiano dimostrando in grado di un grande recupero rischiamo di trovarci un governo senza fiato e incapace di dare risposte al Paese. Un governo in balia dei cosiddetti Responsabili. E un premier messo nella condizione di non avere altra alternativa che acconsentire a tutte le richieste che gli verranno avanzate. Un mercato allarmante per il Paese».
Però, come dimostra il voto di fiducia, i numeri per andare avanti li hanno. «Il ricorso ai voti di fiducia è una dimostrazione di debolezza. Volevano solo tentare di bloccare il referendum. Ed è vergognoso come stiano cercando di evitare il giudizio dei cittadini su un tema, il nucleare, che era stato presentato dal governo come la principale scelta di modernizzazione. Ora è stata frettolosamente accantonata per paura del quorum non sul nucleare, ma sul legittimo impedimento, perché Berlusconi non ha altra agenda in testa che quella riguardante le sue vicende personali». Insisto, Berlusconi ha i numeri in Parlamento per non cadere.
«Berlusconi è il primo a sapere che rischia: i ministeri al Nord, la sanatoria sulle multe, sta tentando di tutto, siamo ai saldi di fine stagione. Ed è ridicolo che dica che bisogna andare avanti per le riforme, non fatte finora. Perfino i suoi hanno smesso di andargli dietro, perfino Alemanno o Formigoni gli danno sulla voce, si permettono di contraddirlo. Sono segnali forti di una prossima caduta».
E l'opposizione, in tutto questo?
«Ha una grande responsabilità. Auspico da parte di tutto il nostro elettorato, ai ballottaggi, uno sforzo a concentrare i consensi sui candidati alternativi alla destra, sia quando sono come in molti casi del Pd, sia quando non lo sono. Sapendo che dopo ci sarà un delicato e importante passaggio, per noi».
Pensa sempre che sia possibile un'alleanza col Terzo polo? «La credibilità di una convergenza di tutte le forze democratiche si è dimostrata innanzitutto nel confronto con gli elettori. Noi abbiamo proposto una prospettiva per l’Italia, e abbiamo vinto. Vuol dire che è considerata importante dai cittadini. E ora dobbiamo insistere su questo. Una grande alleanza democratica, vasta, per ricostruire il Paese dopo Berlusconi, per fare le riforme e realizzare il processo di ricostruzione democratica, per ripristinare le regole fondamentali di cui il Paese ha bisogno».
La Lega propone di cambiare la legge elettorale: lei che dice? «Sicuramente c’è la necessità di una riforma elettorale, non so se ci siano le condizioni. Di certo, non si può andare avanti così. O andiamo a elezioni, che sarebbe la scelta più limpida, oppure serve una soluzione utile per il Paese, con un governo che si occupi di cambiare la legge elettorale e poi porti al voto».
Con magari un nuovo partito, nato dalla fusione di Pd e Sel, come ipotizza qualche giornale? «Un nuovo partito lo abbiamo già costruito e in queste elezioni si è dimostrato una forza vitale, in crescita. Il Pd è il primo partito nella gran parte delle principali città italiane. Non si può dare sempre la sensazione che si ricomincia da capo. Abbiamo collaborato positivamente con altre forze, c’è stato un grande spirito unitario. Bisogna continuare così, perché questa è la condizione per essere credibili agli occhi dei cittadini».

Repubblica 25.5.11
Bersani: col decreto cittadini scippati. Ma per l´avvocato Pellegrino il quesito sulle centrali non sarà cancellato
Referendum, il Senatur si smarca e apre al Sì La Cei: l´acqua deve restare bene comune
di G. D. M.


Il leader leghista: "Sull´acqua avevo detto a Silvio di varare una norma, la colpa è di Fitto"
Di Pietro chiede a Napolitano di fermare "la legge immonda" contro la consultazione

ROMA - Referendum maltrattati, dimenticati, oscurati. Ma se le condizioni politiche cambieranno davvero lunedì sera allora torneranno in auge e diventeranno uno snodo di nuovi equilibri. Lo si capisce bene dalle aperture clamorose di Umberto Bossi. «Alcuni quesiti sono attraenti - dice a sorpresa il leader della Lega -. Come quello sull´acqua». È un invito a votare sì al quesito sulle rete idrica pubblica, un invito che potrebbe trascinare gli elettori del Nord a votare anche per gli altri due quesiti in ballo: nucleare e legittimo impedimento.
Intorno all´endorsement del Senatur si possono scatenare le fantasia più galoppanti ma anche più verosimili. Pier Luigi Bersani ha da tempo sentenziato che la vera spallata per Berlusconi potrebbe arrivare dai referendum del 12 e 13 giugno. E il sostegno leghista ai quesiti (o almeno a uno) lascia presagire nuovi assetti e un nuovo fronte contro il Cavaliere dove il Carroccio recita una parte inedita. «Avevamo detto a Berlusconi di fare una legge sull´acqua - ricorda Bossi non facendo sconti - e noi l´avremmo appoggiata, poi si è messo di mezzo Fitto e alla fine nessuno l´ha fatta». Passa in secondo piano, dopo questa parole, la prima reazione del leader leghista alla domanda sui referendum: una sonora pernacchia.
Il quesito sull´acqua attrae anche altri e può trascinare l´intero pacchetto. «L´acqua è questione di responsabilità sociale e bene comune, è necessario che vi sia responsabilità verso i beni comuni. E che rimangano e siano custoditi per il bene di tutti», dice monsignor Mariano Crociata, Segretario generale della Cei. I vescovi si schierano dunque per il sì. Difendendo lo strumento referendario: «Rappresenta una delle forme della volontà popolare, è da apprezzare».
Per avere più spazio sulla tv pubblica a due settimane dal voto, i comitati referendari sono stati rcevuti dal direttore generale della Rai Lorenza Lei. Hanno ottenuto garanzie su un´immediata attenzione sulla loro battaglia. Dopo una pacifica occupazione di Viale Mazzini i comitati per il sì hanno incontrato la manager e le risposte sono state positive. Antonio Di Pietro, il principale promotore dei referendum, ha chiesto a Napolitano e alla Cassazione di fermare il decreto omnibus, che contiene anche la moratoria del programma nucleare, «una legge immonda». La questione di fiducia posta dal governo, incalza Pier Luigi Bersani, è «uno scippo fatto al popolo italiano di poter decidere sul nucleare». E il presidente degli Ecodem Fabrizio Vigni condanna l´ultimo passaggio parlamentare: «Si sono inventati il trucco della abrogazione solo temporanea delle norme. Come se non bastasse, imponendo il voto di fiducia, hanno impedito alla Camera di poter discutere e decidere».
L´avvocato Gianluigi Pellegrino, che ha scritto il parere pro veritate per conto del Movimento difesa del cittadino, è convinto che il decreto non cancelli affatto il quesito. «Il referendum si farà, questa legge non cambia niente», assicura a Repubblica Tv. E il fronte del centrodestra s´incrina non solo dal lato leghista. Francesco Storace annuncia il Sì della Destra al quesito sull´acqua e sul nucleare.
(g. d. m.)

Corriere della Sera 25.5.11
Ma sull’atomo la scelta finale è della Cassazione
di  Maria Antonietta Calabrò


ROMA— Il referendum sul nucleare si terrà comunque? Cioè, nonostante l’approvazione definitiva che avverrà oggi di norme ad hoc nel decreto legge omnibus? Potrebbe anche essere, ma la partita è aperta. Quando la nuova legge verrà firmata dal capo dello Stato (e quindi promulgata), a queste domande dovrà rispondere l’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione. Da più di trent’anni infatti (dopo la sentenza della Consulta numero 68 del 1978) solo un’abrogazione tout court della norma su cui si chiede il referendum può arrestare la consultazione popolare. Ma nel caso in cui all'abrogazione si accompagni anche la promulgazione di una nuova disciplina, il referendum si potrebbe svolgere proprio sulle nuove norme approvate. L'organo incaricato di valutare se l’intervento legislativo «soddisfa» o no il quesito referendario è appunto la Cassazione, per la quale stanno preparando i ricorsi gli avvocati del comitato per il «Sì» , a cominciare da Alessandro Pace (legale dell’Idv) e Gianluigi Pellegrino (Movimento difesa del cittadino). La situazione dal punto di vista giuridico è questa. L’articolo 5 della nuova legge, nei commi dal 2 al 7, abroga tutte le norme che oggi regolano l'insediamento di centrali nucleari, con una precisa riproposizione dei contenuti del quesito referendario, in tal modo accogliendo le richieste dei promotori. Però il comma 1, pur affermando di non procedere con l'attuazione di un piano energetico comprensivo di centrali nucleari, aggiunge che ciò avviene in attesa di una fase di approfondimento in tema di «sicurezza nucleare» . Quindi la scelta del nucleare non viene esclusa totalmente, ma solo sospesa: è la cosiddetta moratoria contro cui i referendari hanno anche sollevato un conflitto di attribuzione che verrà discusso il 7 giugno. Ma c’è un secondo problema. I promotori del referendum intendono sottoporre al giudizio della Cassazione anche il comma 8. Secondo questa norma, fortemente innovativa, l’approvazione del piano di «strategia energetica nazionale» diventa un atto amministrativo del premier (non c’è più alcuna legge da promulgare in materia, le Camere sono solamente «sentite» ), che non esclude, nel medesimo piano, eventuali centrali nucleari. Con la sentenza 28 del 2011 la Consulta, invece, ha dichiarato ammissibile il referendum in quanto «il quesito mira a realizzare un effetto di ablazione puro e semplice della disciplina concernente la realizzazione e gestione di nuove centrali nucleari» .

il Riformista 25.5.11
Ballottaggi e nuovi scenari
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/56214242

Repubblica 25.5.11
La rabbia degli “Indignatos” che contagia l’Europa
di Bernard Guetta


Una rivoluzione sta sorgendo in Europa. Non è violenta, ma pacifica. Non aspira a conquistare il potere, ma contesta le logiche economiche che fanno del mercato una potenza cui i governi devono inchinarsi. Sebbene - detto in altri termini - non sappia quello che vuole, essa sa di non volere più il mercato re, questo monarca anonimo che coi suoi "timori" o la sua "fiducia" decide le sorti del mondo.
Confusa e profonda a un tempo, questa rivoluzione si estende a tutto il continente, a incominciare da Puerta del Sol, la grande piazza di Madrid dove dieci giorni fa alcune centinaia di giovani hanno piantato le loro tende per gridare la rabbia di una generazione che sotto i 25anni è disoccupata al 50%. Sostenuto dall´immediata simpatia delle famiglie, che non possono ammettere di veder precluso fino a questo punto il futuro dei loro figli, questo movimento di protesta è cresciuto in fretta, attirando un numero crescente di aderenti ed espandendosi a una sessantina di altre città. In due parole, ha attecchito a tal punto che questi "indignati" - come hanno voluto chiamarsi, con riferimento al titolo del best-seller di Stéphane Hessel - hanno creato una nuova realtà politica.
Ecco cosa dimostra il successo di questa nuova piazza Tahrir: un´economia che offre solo prospettive di regresso sociale, e condanna un governo socialista a imporre drastiche misure di austerità per evitare il "panico" dei mercati, "non funziona". «Il liberismo non funziona», sostiene questo movimento, e lo dice con lo stesso tono di tranquilla evidenza a suo tempo usato da Margaret Thatcher per dichiarare: «Il comunismo non funziona». E questa constatazione ha dato luogo a non poche evoluzioni politiche.
È questa la causa della sconfitta dei socialisti spagnoli, che alle elezioni comunali e regionali di domenica scorsa sono rimasti indietro di dieci punti rispetto alla destra; ma anche di quella della destra tedesca, che dall´inizio dell´anno sta perdendo un Land dopo l´altro; e del precipitare della disgrazia di Silvio Berlusconi alle elezioni amministrative di dieci giorni fa; e della discesa agli inferi dei liberal-democratici britannici, colpevoli di aver approvato le restrizioni di bilancio volute dai loro alleati conservatori.
Questa constatazione giustificata penalizza le maggioranze al governo, sia di destra che di sinistra, costrette a sottostare alle ingiunzioni del mercato. Ma non è tutto. La presa d´atto dell´inefficienza della mano invisibile del mercato suscita il desiderio di nuove offerte politiche; determina in Germania il sorpasso dei Verdi rispetto ai social-democratici, relegati al secondo posto tra i partiti d´opposizione; restituisce spazio ai raggruppamenti a sinistra della sinistra; accomuna nella stessa riprovazione tutte le élite, e infine risuscita, un po´ dovunque in Europa, l´estrema destra. Quest´ultima squalificata dopo la fine della guerra, ora è uscita dall´ombra, perché gli effetti perversi della globalizzazione - deindustrializzazione europea, disoccupazione, peggioramento del tenore di vita - hanno rimesso in voga il cocktail avvelenato dei primi tempi del fascismo, ove alla nostalgia per lo Stato-provvidenza si univano temi quali la difesa dei confini nazionali entro i quali era avvenuto il suo sviluppo, il nazionalismo, le accuse indiscriminate ai politici ("tutti marci"), la lotta per il mantenimento delle conquiste sociali, la xenofobia.
L´Europa sta vivendo un momento inquietante: la rabbia senza prospettive, le attese senza una speranza tangibile rischiano di precipitarla in una crisi politica di grande portata. Se non troverà i suoi punti di riferimento, la rivoluzione che sta sorgendo rischia di perdersi in una palude senza scampo. Il pericolo è tanto grande da esigere una risposta urgente.
È urgente insistere su un punto: se anche le sinistre devono inchinarsi davanti ai mercati, non è perché sono vendute o cieche, ma perché dati i rapporti di forze, non hanno scelta. Tra democrazia e mercato il rapporto di forze si è ormai rovesciato. I pubblici poteri di uno Stato nazione - le istituzioni dello Stato, il governo - non possono fare granché a fronte del denaro, che è libero di andare a cercare i rendimenti più alti dove meglio crede. Nel caso europeo, i pubblici poteri dovrebbero avere dimensioni continentali per poter fronteggiare col loro peso un mercato globalizzato. Ecco perché dobbiamo costruire un´Europa politica in grado di regolamentare il mercato. Non di abolirlo, perché il comunismo "non funziona", ma di canalizzarlo e di domarne la forza, dato che anche il liberismo "non funziona".
Il crollo di Wall Street lo aveva dimostrato. Ma dopo il salvataggio da parte degli Stati, il potere del denaro si è lanciato in un nuovo assalto contro di essi, oggi un po´ più logorati dagli sforzi per ovviare ai guasti da quello stesso potere provocati.
O la sinistra è europea, o non è. A questo deve tendere oggi il nostro impegno.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 25.5.11
Netanyahu: per la pace pronti a dolorose rinunce Ma non dice quali
Benjamin Netanyahu parla al Congresso Usa e riscuote applausi. «Siamo pronti a dolorosi compromessi per la pace, ma non torneremo ai confini del 1967». La leadrship palestinese: pessimo discorso.
di Virginia Lori


Sì ad uno Stato palestinese, ma con confini negoziati, che non saranno mai quelli del 1967, «indifendibili» per Israele. Il premier Benjamin Netanyahu, parlando al Congresso Usa, in quello che lui stesso aveva definito alla vigilia il «discorso della vita», si è detto pronto a «dolorosi» compromessi per raggiungere la «storica» pace con i palestinesi. Non precisa quali siano però, pone molte condizioni, e non arretra rispetto alle posizioni già note. «Gerusalemme non deve mai più essere divisa», e rimarrà la capitale indivisibile d'Israele, che sarà «generoso» sull' entità territoriale del futuro Stato palestinese, ma «fermo» rispetto ai confini. Impossibile tornare a quelli «indifendibili» del 1967. Quanto alle colonie in Cisgiordania, «il loro status verrà deciso tramite negoziati». Alcune comunque «resteranno fuori dai confini israeliani».
APPLAUSI BIPARTISAN
Sul tema dei rifugiati il premier sottolinea che la questione riguarderà il futuro Stato palestinese e dovrà «essere risolta al di fuori dei confini d'Israele». Il leader israeliano condanna l'intenzione dell' Autorità nazionale palestinese (Anp) di chiedere all’assemblea generale dell’Onu in settembre il riconoscimento unilaterale del proprio Stato indipendente , qualora non si raggiunga un’intesa prima. «La pace non può essere imposta ma deve essere negoziata», aggiunge Netanyahu, che esorta ancora una volta il presidente dell'Anp, Abu Mazen, a «strappare» l'accordo con Hamas. Hamas «non è un partner per la pace», dal momento che resta «impegnato nella distruzione d'Israele», ed è anzi l’equivalente palestinese di Al Qaeda.
Se il colloquio con Obama venerdì scorso era stato teso ed i partecipanti non avevano nascosto che erano emerse forti divergenze d’opinione, ben diverso il clima ieri al Congresso, dove Netanyahu ha riscosso applausi bipartisan dai parlamentari di entrambi i partiti, democratico e repubblicano. L'intervento del primo ministro è stato brevemente interrotto da un piccolo gruppo di contestatori. Netanyahu ha atteso che i manifestanti fossero allontanati dalla platea riservata agli ospiti e poi ha ripreso a parlare, senza commentare l'accaduto.
Delusione a Ramallah. «Netanyahu ha posto altri ostacoli sulla strada della pace», commenta il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen. «Non abbiamo in Israele un partner per la pace», commenta il capo negoziatore Saeb Erekat.

La Stampa 25.5.11
Dossier immigrazione
Profughi, ne muore uno su 4
Una ong: spediti a forza dal Colonnello sui barconi verso l’Italia, 1400 scomparsi nei naufragi
di Francesca Schianchi


RAPPRESAGLIA Fortress Europe: «Sono usati come bombe umane contro i missili della Nato»
RASTRELLAMENTI Kinsley, camerunense «Ci hanno preso a Misurata fatti salire coi fucili puntati»

Come una tomba a cielo aperto. Che, tra onde e flutti, risucchia continuamente vite e speranze: sempre di più, un numero spropositato negli ultimi cinque mesi, come in vent’anni di sbarchi nel mar Mediterraneo non si era mai visto. Almeno 1.408 uomini, donne, bambini hanno perso la vita al largo di Lampedusa, solo da gennaio ad oggi. Una strage silenziosa che, se si allarga lo sguardo a tutto il bacino del Mare Nostrum, comprendendo nel calcolo anche lo stretto di Gibilterra e le isole greche dell’Egeo, aumenta fino a 1.510 morti. Almeno: perché non è da escludere ci siano stati altri naufragi fantasma, di cui non sappiamo nulla e che non rientrano nella macabra contabilità.
A diffondere questi dati sconvolgenti è l’osservatorio Fortress Europe, che monitora la stampa internazionale raccogliendo notizie su vittime dell’emigrazione nel Mediterraneo, rilanciati dall’agenzia giornalistica «Redattore sociale». Stando a questi numeri, aggiornati al 21 maggio, in questi primi mesi del 2011 sono scomparse più persone di quante non abbiano trovato la morte nel Mar Mediterraneo in tutto il 2008, quando le vittime furono 1.274 a fronte di 36.000 sbarchi in Sicilia. E i 1.408 morti contati finora nel canale di Sicilia sono il 93% dei 1.510 di tutto il Mediterraneo.
Due sono le rotte verso l’Italia dei migranti dall’inizio di quest’anno: dalla Tunisia, con 25.000 sbarchi circa, e dalla Libia, con 14.000 arrivi. Di quelle 1.408 persone strappate ai barconi dal mare, solo 187 venivano dalla Tunisia e ben 1.221 dalla Libia. Una differenza notevole: nella drammatica lotteria delle traversate, una persona su 130 destinata alla morte sulla rotta tunisina, addirittura una su 11 su quella libica, qualcosa come dodici volte di più.
Secondo l’analisi dell’osservatorio, c’è una spiegazione: mentre da Tunisi le partenze sono spontanee, con equipaggi che, pur improvvisati e mal addestrati, dedicano qualche attenzione alla sicurezza, dalla Libia, denuncia Fortress, i passaggi sarebbero spesso organizzati dal regime, pronto a «rastrellare» persone dai quartieri africani e costringerle a imbarcarsi, in condizioni pericolose e precarie, per inviare in Italia più migranti possibile, come ritorsione per i bombardamenti. Il «Redattore sociale» racconta l’esperienza Kingsley, camerunense giunto a Lampedusa il 1˚ maggio da Misurata e oggi accolto in un centro d'accoglienza del Nord: prelevato dalla sua casa, caricato su un camion container insieme ad altre centinaia di persone, trattenute per più di un mese in un'area controllata da militari «con la fascetta verde al braccio, erano di Gheddafi», circa 1.500 persone e tantissimi bambini, e infine imbarcati. «Ci hanno diviso: 320 su una barca, 280 sull’altra. Avevamo paura di morire in mare, ma non avevamo scelta, avevamo i fucili puntati addosso», racconta. E riporta la frase detta scherzando dai militari al porto, prima della partenza: che l’ordine di far partire verso l’Italia tutti gli africani arrivava dal raiss stesso. Kingsley è arrivato, ma lui e i suoi compagni di avventura facevano bene a temere: il peschereccio con 320 passeggeri a bordo, ricorda, è colato a picco portando con sé tuttiquanti.
Dal 1994 a oggi sono 5.622 le persone morte nel Canale di Sicilia, lungo le rotte da Libia, Tunisia ed Egitto verso il sudest dell’isola, Lampedusa, Pantelleria, Malta. Negli ultimi anni, si sono contati 236 annegati, 413 nel 2003, 206 nel 2004. Il numero è più che raddoppiato nel 2007 (556 vittime), poi 1.274 nel 2008, per scendere dal maggio 2009, con l'entrata in vigore dell’accordo con la Libia che ha fatto diminuire gli sbarchi. Nel 2009 i morti sono stati 425, per diminuire sensibilmente nel 2010 (20 persone hanno perso la vita). Ma dall’inizio di quest’anno gli sbarchi sono ripresi nuovamente, e con loro uno stillicidio continuo di vittime.

La Stampa 25.5.11
Intervista
“Ora è più facile partire ma il viaggio è un azzardo”
Laura Boldrini: sono quasi tutti in cerca di asilo umanitario
di Francesca Paci


CARRETTE A BUON MERCATO «Usano vecchi pescherecci dismessi per spendere meno e caricare più persone»

Era la fine degli anni 90 quando l’Italia scopriva attraverso gli occhi degli abitanti di Lampedusa le spettrali carrette del Mediterraneo. Un esodo impermeabile alla paura che Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha raccontato nel libro Tutti indietro , onde di uomini e donne differenti accomunati dalla stessa disperata determinazione.
Cosa è cambiato in questi dodici anni di sbarchi?
«Ciò che non è cambiato è il bisogno di chi rischia la vita in mare. Per il resto invece, all’inizio anni 2000 i flussi erano più misti, sulla stessa barca si trovavano migranti economici e richiedenti asilo. Poi, quando la traversata si è fatta troppo rischiosa, sono aumentati i richiedenti asilo, quelli che non avevano altra chance. Nel 2008, prima dei respingimenti, oltre 30 mila dei 36 mila arrivati in Italia chiesero asilo e la metà di loro ottenne una qualche protezione. Il drastico calo degli sbarchi seguito ai respingimenti dimostra che negli ultimi anni il Mediterraneo era diventato la via dell’asilo».
Perché è cresciuta così tanto la pericolosità delle traversate in mare?
«Da principio venivano usati gommoni artigianali che caricavano 70, 80 persone. Oggi dalla Libia partono vecchi pescherecci in disuso stipati di gente e privi di qualsiasi condizione di sicurezza. Inoltre il viaggio non costa più 1200 dollari come un tempo ma molto meno, qualcuno ha raccontato d’aver dato tutto ciò che aveva ed essersi imbarcato con pochi soldi».
Quanto pesa la crisi libica sui flussi?
«Il 26 marzo è arrivato il primo barcone dalla Libia, fino a quel momento avevamo accolto soprattutto giovani tunisini in cerca di lavoro. Da allora sono sbarcate 14 mila persone, inizialmente somali, eritrei, ivoriani poi anche immigrati del Bangladesh in fuga dalla tragedia libica. Ci tengo a ricordare però che si tratta di 14 mila persone su un totale di oltre 850 mila scappate dalla Libia soprattutto via terra. L’Europa ridimensioni le sue paure perché la Tunisia e l’Egitto, i Paesi confinanti dove si sta rifugiando la maggioranza dei profughi, hanno mantenuto le frontiere aperte nonostante le proprie difficoltà interne».
Il regime libico sta usando i flussi?
«Come Unhcr non abbiamo informazioni, ma a sentire le testimonianze sembrerebbe che ci sia una regia perché i flussi sono strutturati in modo tale da non lasciare spazio a partenze spontanee. Pare che le persone vengano raggruppate a Zanzur o al porto di Tripoli, caricate a scaglioni e messe in mare».
Che notizie avete dei naufragi fantasma, quelli che svaniscono nel nulla?
«A quanto ci risulta, dalla Libia sarebbero partiti senza mai arrivare 1200 migranti, compresi i 250 morti nel naufragio del 6 aprile vicino a Lampedusa. Ma parliamo dei soli di cui possiamo ricostruire frammenti di storia».
Crede che la situazione si aggraverà?
«Dipende dalla guerra in Libia. Noi esortiamo tutte le navi commerciali e militari in transito nel Mediterraneo a incrementare la collaborazione nei soccorsi. Oggi qualsiasi carretta in partenza dalla Libia è di per sé a rischio».

La Stampa 25.5.11
Non facciamo figli e gli stranieri ci imitano
L’Istat: nel 2010 il tasso di natalità più basso del decennio “Adesso gli immigrati non bastano più a colmare il gap”
di Raffaelo Masci


LE RAGIONI DEL CROLLO Sotto accusa la precarietà causata dalla crisi economica

Che le cicogne non frequentassero granché i cieli d’Italia, era noto. Ma mai come lo scorso anno - testimonia l’Istat nel suo Bilancio demografico nazionale - il crollo della natalità è stato così evidente, con un tasso del 9,3 per mille, il più basso del decennio (in numeri assoluti vuol dire 7 mila bambini in meno). Le italiane che facevano pochissimi figli (1,3 per donna) ne fanno adesso ancora meno (1,29) e le donne straniere che nello slancio della nuova patria volevano riprodursi hanno sedato questo entusiasmo, al punto che neppure i loro figli riescono a compensare il decremento dei nostri.
Ad abitare il patrio stivale nel 2010 eravamo comunque 60 milioni 626 mila 442 persone, 286 mila in più dell’anno precedente, pari a un incremento dello 0,5% - rileva l’Istat - tutto ascrivibile all’aumento degli immigrati stranieri, che si sono registrati nelle nostre anagrafi in ragione di 38 mila al mese, in media. Insomma: noi diminuiamo e facciamo sempre meno figli, gli stranieri che erano sempre di più anno dopo anno, continuano - loro sì - a crescere, ma di figli non ne fanno più tanti neppure loro. L’Istat non si sbilancia, ma fa capire che questa raggelata della natalità è strettamente connessa con la crisi economica.
In piena precarietà lavorativa, diventano precarie anche le famiglie, tant’è che diminuiscono i matrimoni e aumentano le convivenze in tutte le grandi città, ma soprattutto a Roma, Torino, Milano, Genova. Le famiglie più numerose - si fa per dire sono quelle della Campania, della Puglia e della Calabria, dove il numero medio dei componenti è - rispettivamente - di 2,8, 2,7 e 2,6 membri. In fondo alla classifica la Liguria, con 2 membri di media, il che è leggibile come un aumento delle coppie senza figli, ma anche delle famiglie monogenitoriali.
Gli stranieri, che sono il 7,5% della popolazione, si concentrano da Roma in su: 10,3% della popolazione nel Nord-Est contro il 2,7% di quella delle Isole. Dove c’è più ricchezza ci sono più stranieri e dove ce n’è di meno, invece, emigrano anche i locali, tant’è che solo nel 2010, 400 mila italiani si sono spostati dal Sud al Nord (soprattutto in Toscana, Umbria, Emilia e Lombardia), giovani nella quasi totalità e spesso con un buon livello di istruzione.
A perdere abitanti - dice ancora l’Istituto di statistica sono due categorie di centri abitati: alcune grandi città, e i piccoli borghi di montagna: Torino perde il 2,2% della popolazione, Genova il 3%, Napoli il 3,5% e Catania addirittura il 7,2%. Le altre - Milano, Roma, Bologna, Firenze - crescono ma al di sotto della media nazionale (0,3% contro lo 0,5%) e solo per effetto delle migrazioni. Continua, invece, lo spopolamento dei borghi piccolissimi, sotto i duemila abitanti, specialmente delle zone montane, che perdono quasi il 4% della popolazione già esigua. Gli italiani, semmai, preferiscono vivere nelle cittadine intorno ai 20-30 mila abitanti: piccole ma servite.

l’Unità 25.5.11
Il paradosso di Milano
Zingari e centri sociali: la destra chiede voti per i propri fallimenti
di Dijana Pavlovic


In 20 anni il centro destra ha governato Milano riuscendo a trasformare i fallimenti della propria politica sociale in formidabili strumenti di raccolta del consenso.
Gli zingari sono stati il cavallo di battaglia di De Corato e del suo attuale sfidante alla carica di vicesindaco, il leghista Salvini. Prima gli annunci terroristici: 40.000 zingari invadono Milano, all’epoca dell’ingresso della Romania nella Comunità europea, poi i numeri paurosi sulla presenza dei rom: 10.000 zingari a Milano, smentiti clamorosamente dal censimento fatto dal prefetto di Milano, commissario straordinario per l’emergenza rom, nel 2008: in città gli zingari nei campi regolari, quindi residenti milanesi, sono 1331 (di cui circa la metà italiani e 601 minori). Nei campi irregolari i rom sono 788 (dei quali 109 sono italiani, 381 extracomunitari e 307 comunitari, per lo più rumeni; i minori sono 299). Su questo “esercito” di meno di 800 persone si è esercitata la ferocia di De Corato che si vanta di averli sgomberati per 500 volte negli ultimi tre anni. Un’operazione fallimentare, perché i rom cacciati da una parte andavano da un’altra, con un costo sociale altissimo per la comunità rom: i bambini perdevano la scuola e gli adulti i loro precari lavori. Ma anche un’operazione tutt’altro che priva di costi per i cittadini: da un lato la campagna allarmistica ha prodotto l’aumento della paura (mentre diminuiscono i reati aumenta il senso di insicurezza, dati della polizia), dall’altro ha messo le mani nelle nostre tasche con una spesa, solo per gli sgomberi, che ha superato i cinque milioni di euro.
Ragionamento analogo vale per i centri sociali nati da un altro fallimento: la totale assenza di una politica per i giovani, l’eliminazione degli spazi collettivi, il vuoto culturale, la criminalizzazione del dissenso delle ultime generazioni sono stati trasformati in un altro spauracchio sul quale lucrare consenso a un costo altissimo per la comunità che non vede nei giovani il futuro sul quale investire ma un elemento di pericolo per la propria tranquillità.
Così zingari e centri sociali sono diventati armi elettorali anziché problemi sociali da affrontare e risolvere positivamente con un’altra visione della comunità e un diverso uso delle risorse economiche.
Tutto ciò, oltre a essere pericoloso per l’effetto che produce a livello di senso comune e cultura collettiva della nostra comunità, è reso più odioso per la scelta cinica di usare i più deboli contro i deboli, perché è la popolazione più fragile, per condizioni sociali e culturali, a essere più esposta alle politiche incivili di un’amministrazione capace di raccogliere consenso solo sull’odio e sul razzismo.

Repubblica Firenze 25.5.11
Lo sgombero ieri all´alba
Piazza Beslan, blitz alla tendopoli dei somali
In giunta Renzi ha invocato il pugno duro contro la linea più morbida del suo assessore
di Ernesto Ferrara


I vigili arrivano all´alba, quando i 15 fra somali ed eritrei accampati di fronte alla Fortezza da sabato ancora dormono. E cominciano a sgomberare: via tende, materassi, scatolette di cibo. Tensione, urla, spintoni. Finisce con 5 feriti di cui 4 vigili.

E´ un blitz in piena regola quello andato in scena alle 5.30 di ieri in piazza Bambini di Beslan. Circa 40 vigili urbani affiancati da agenti dei carabinieri e della Digos si sono presentati per sgomberare gli immigrati che da sabato scorso dormivano in una tendopoli abusiva per protesta contro le politiche sulla casa del Comune. Donne, bambini, somali ed eritrei con lo status di richiedenti asilo che chiedono da tempo un alloggio fisso e un biglietto per andare all´estero e di fatto però girano da un´occupazione abusiva all´altra sostenuti dal Movimento di Lotta per la Casa.
Nella notte fra lunedì e martedì avevano fatto festa: canti e balli fino all´alba. Erano in 15 o 20. Quando sono arrivati i vigili ieri molti di loro dormivano ancora. Gli agenti del reparto antidegrado, alcuni in borghese altri in divisa, hanno cominciato a sbaraccare le tende (una delle quali adibita a mensa) e ripulire la piazza da rifiuti, suppellettili, borsoni. Hanno sequestrato coperte, tende e altri oggetti e avrebbero anche bucato i palloni da calcio rinvenuti. Immediatamente è partito il tam tam del Movimento di Lotta per la Casa e sul posto sono accorsi altri profughi, una settantina. Non sono mancati i momenti di tensione. Alcuni profughi sono stati identificati, potrebbero essere denunciati per occupazione abusiva e resistenza a pubblico ufficiale. Quattro vigili ricoverati, uno è finito in terra forse spinto, ha battuto la testa ed è stato sottoposto a Tac cranica, anche due ufficiali in ospedale. Ma le versioni sono discordanti: il Movimento di Lotta per la Casa sostiene che nessun vigile sia stato spinto, i profughi denunciano di essere stati svegliati con i calci, di aver subito furti e minacce. «Ci hanno picchiati», dice Adam, un profugo. «Escludo categoricamente che da parte nostra ci siano state condotte aggressive o violente. Casomai abbiamo dovuto far fronte alle reazioni altrui», dichiara la comandante dei vigili Antonella Manzione, che ha condotto l´operazione. Il Movimento parla di «operazione criminale». Alla fine però lo sgombero è riuscito solo in parte: con una colletta i profughi e il Movimento hanno riacquistato e rimontato le tende dopo un sit in di protesta. Per tutto il giorno l´assessore al sociale del Comune Saccardi e il collega della Regione Allocca hanno trattato coi profughi proponendogli: due giorni ancora poi una sistemazione temporanea, era l´accordo. Ma ieri sera in giunta il sindaco Renzi ha imposto il pugno duro correggendo la rotta di Saccardi, difesa dalla collega Di Giorgi: se ancora stamani saranno lì sarà interpellata la questura, impossibile tollerare una tendopoli di fronte alla Fortezza nel giorno del rinnovo dei vertici della società che gestisce il polo fieristico.

Repubblica Firenze 25.5.11
L´idea di un´agenzia di Torino proposta ora anche a Firenze: a far da guida saranno stranieri di seconda generazione
Quel "grand tour" nella città etnica
Da S.Lorenzo a via Palazzuolo: via alle passeggiate migranti nei quartieri
di Riccardo Bianchi


Un tour alla scoperta del mondo restando in piazza, entrando nei negozi africani di via Palazzuolo o passeggiando tra le mille lingue del mercato di San Lorenzo. Non è una provocazione, ma il progetto dell´Agenzia Viaggi Solidali di Torino, che a breve darà il via anche a Firenze alle «Passeggiate migranti», un´esperienza nata qualche mese fa nel capoluogo piemontese e pronta a partire anche a Milano e Roma. Si tratta di un viaggio nei quartieri popolati da immigrati. E per presentarli al meglio, le guide saranno persone del luogo, cioè gli immigrati stessi, che mostreranno quei dettagli di interculturalità che sfuggono quando si cammina veloce per quei vicoli visti centinaia di volte, ma mai osservati con la curiosità del turista.
I percorsi su Firenze sono due e sono pronti, anche se qualcosa potrebbe cambiare per comprimere ciascun viaggio in una mezza giornata. Tutto si aggirerà intorno alla stazione di Santa Maria Novella e la partenza sarà proprio in via Palazzuolo, uno dei luoghi più multietnici della città, con una sequenza ormai ininterrotta di esercizi commerciali gestiti da donne straniere. Da lì il gruppo si sposterà a San Lorenzo, che racchiude tutta la storia dell´immigrazione fiorentina, dalle pelletterie degli iraniani degli anni ‘80 fino ai coloratissimi banchi di bigiotteria dei bangladeshi. Infine un salto alla chiesa russo-ortodossa. Il secondo tragitto è legato alle religioni: unirà musulmani ed ebrei, il centro centro islamico, la sinagoga e il quartiere ebraico, tra gli odori del cibo kosher, per poi concludersi alla mediateca regionale, all´archivio video del festival dei popoli.
I ragazzi delle scuole saranno i primi ad essere coinvolti: «E´ pensata come una attività formativa pratica all´intercultura» spiega il presidente di Viaggi Solidali, Enrico Marletto: «Si scoprono elementi di realtà lontane accanto a quella italiana. A Torino, per esempio, una signora ha provato che il salame rumeno si sposa benissimo con le orecchiette alle cime di rapa». Cucina, tradizioni, modi di vivere. Tutto sarà mostrato, raccontato e spiegato, per accettare le differenze.
L´agenzia sta cercando le guide, in autunno partiranno i corsi di formazione e agli inizi del 2012 le passeggiate, in collaborazione con alcune associazioni tra cui Oxfam Italia. Anche la comunità delle Piagge di don Santoro è stata coinvolta, proprio perché il quartiere è uno dei più popolati dagli immigrati, e potrebbe ospitare un altro tragitto. Ma a fare da ciceroni ci saranno anche italiani, le menti storiche di questi luoghi; come Leonardo «Papa Leo» Landi, operatore sociale e grande conoscitore di via Palazzuolo, o Roberto Menichetti da vent´anni barrocciaio di San Lorenzo.

Corriere della Sera Roma 25.5.11
Cortei nella Capitale scontro sindaco-prefetto
Pecoraro: «Il nuovo protocollo non è una priorità» Alemanno: «Non sono d’accordo, il problema è aperto»
di Paolo Foschi


«Io non considero oggi il nuovo Protocollo sui cortei come una priorità, tenuto conto anche che c'è da parte di tutti rispetto per quello che abbiamo stipulato l'anno scorso» , dice il prefetto Giuseppe Pecoraro. «In questo caso non sono d'accordo col mio amico Giuseppe Pecoraro. Credo che tutti i cittadini romani vogliano un regolamento più stringente rispetto all'amministrazione dei cortei» , replica un’ora dopo Gianni Alemanno. Il botta e risposta, inatteso, è andato in scena ieri mattina. E ha riaperto il dibattito su una questione che sta molto a cuore al sindaco. Appunto la regolamentazione dei cortei. Alemanno da tempo ripete che vorrebbe norme più restrittive rispetto a quelle concordate l’anno scorso, grazie alla mediazione del prefetto, con i sindacati. Ma ieri Pecoraro ha gelato le attese del Campidoglio. «La situazione che c’è oggi, a parte l’ultimo corteo dello sciopero generale del 6 maggio, non mi sembra preoccupante e non mi sembra che ci siano tanti cortei. C’è da parte di tutti il rispetto del protocollo firmato e criticità non ce ne sono state. È ovvio che se sussistono manifestazioni non autorizzate ci saranno le denunce dovute» , ha detto il prefetto intervenendo a un convegno organizzato dalla Cgil e aggiungendo poi che non servono «nuove regole» . Alemanno, che secondo i suoi stessi collaboratori è rimasto spiazzato dall’uscita di Pecoraro, ha invece insistito: «È un problema aperto e forte in una città soffocata dal traffico e che non può sopportare tutte le manifestazioni che ogni giorno bloccano la citta» . Sindacati e centrosinistra si sono schierati dalla parte del prefetto. «Grande saggezza nelle parole del prefetto» , ha commentato Claudio Di Berardino, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, «le priorità sono altre. Con l’autoregolamentazione che ci siamo dati abbiamo raggiunto il punto massimo oltre cui non c'è nulla per garantire allo stesso tempo tutti i diritti» . «Comprendiamo l'esigenza di ricerca del consenso da parte del sindaco, ma riconfermiamo la posizione già espressa in sede di confronto in Prefettura e cioè: Roma con molta fatica si è data delle regole ed a quelle regole noi ci siamo sempre attenuti. Il problema vero è che una volta fatte le regole bisogna farle rispettare.... ma quello non è compito del sindacato» , ha aggiunto Luigi Scardaone della Cgil. Per il Pd e Sinistra e libertà, «il prefetto ha ragione, il sindaco persegua le vere priorità della città che sono tutt’altra cosa rispetto ai cortei» . Ironico il commento di Vincenzo Maruccio, Idv: «Nello stesso giorno in cui si scaglia contro il prefetto Pecoraro, Alemanno propone una manifestazione tutta sua, contro il suo Governo che vuole spostare alcuni ministeri a Milano. Siamo alle comiche» Per Alessandro Onorato, Udc, invece «il nuovo Protocollo è una priorità» . E per Federico Guidi, Pdl, «un'ottima strada sarebbe quella di introdurre il pagamento dei servizi pubblici a carico degli organizzatori dei cortei e delle manifestazioni. Molte delle proteste che tengono in ostaggio i romani si incanalerebbero in forme meno invasive per la città e altrettanto efficaci per rappresentare le ragioni dei manifestanti» .

Corriere della Sera Roma 25.5.11
Campidoglio e Procura intesa sulla sicurezza
di Lavinia Di Gianvito


Un’intesa tra il Campidoglio e la procura della Repubblica per collaborare in materia di ordine pubblico. Le basi del futuro accordo sono state gettate ieri a piazzale Clodio, dove il procuratore Giovanni Ferrara e l’aggiunto Pietro Saviotti hanno incontrato il sindaco, Gianni Alemanno, accompagnato dal capo di gabinetto Sergio Basile, dalla sua vice Anna Bottiglieri e dal responsabile dell’avvocatura capitolina, Andrea Magnanelli. Il colloquio è durato una mezz’ora, ma è servito a individuare i temi sui quali avviare il confronto. I vertici del Campidoglio e della procura hanno discusso del possibile utilizzo delle riprese a circuito chiuso se, durante le manifestazioni, scoppiano dei disordini. Il Comune ha cinquemila telecamere sparse in città, ma la legge sulla privacy richiede che le immagini siano cancellate entro 24 ore. Nel corso dell’incontro si è ipotizzato di prorogare questo termine ricorrendo a un decreto dell’autorità giudiziaria: i filmati potrebbero essere conservati fino a sette giorni, secondo le necessità di chi indaga. L’altro tema affrontato dai magistrati e dal sindaco è stato quello delle occupazioni di immobili: il tentativo è di coniugare il rispetto della legge con l’esigenza di dare un alloggio a chi non ce l’ha. L’idea di una collaborazione tra il Campidoglio e piazzale Clodio sull’ordine pubblico è nata all’indomani degli scontri del 14 dicembre, il giorno della fiducia al governo, quando fu violata la zona rossa, 23 giovani vennero fermati e poi scarcerati e ci furono polemiche politiche a non finire. All’iniziativa della procura il Comune ha subito risposto in modo affermativo, anche se sono voluti cinque mesi per sedersi insieme attorno a un tavolo. Ieri comunque i primi passi sono stati fatti e adesso toccherà a un tavolo tecnico concordare il contenuto dell’accordo.

Corriere della Sera Roma 25.5.11
«La Resistenza a Roma»

Inaugurazione della mostra fotografica «La Resistenza a Roma. Fatti, luoghi e simboli» . I sedici pannelli della mostra propongono circa 70 immagini tra fotografie, stampe e riproduzione di documenti originali dell'epoca, tratta da archivi storici italiani ed esteri. Fino al 2 luglio. Interverrà Massimo Rendina. Casa della Memoria e della Storia, via S. Francesco di Sales 5. Infoline: 06.6876543.

Repubblica Firenze 25.5.11
La Asl paga ogni anno 800mila euro a tre strutture convenzionate: una è controllata dai familiari del capo della ginecologia del policlinico
Fecondazione, 7 mesi di attesa
Careggi: primo posto libero a dicembre. E le coppie ricorrono ai privati: uno è dei familiari del primario
di Michele Bocci


«Una visita per la fecondazione? Il primo posto libero è a dicembre prossimo. Però forse apriamo nuovi ambulatori e riusciamo ad anticipare un po´». Ieri mattina era questa la risposta dell´addetto del Centro di fisiopatologia della riproduzione umana di Careggi alle coppie in cerca di informazioni. Sette mesi di tempo solo per arrivare a un primo colloquio e alla visita. Poi bisogna fare gli esami ed avviare la procedura per la procreazione medicalmente assistita (pma). «Ma una volta entrati siamo veloci», spiegavano da Careggi. Un´attesa del genere può scoraggiare chiunque, figurarsi le coppie che hanno fretta perché non riescono ad avere figli.
Facile immaginare che si decida di rivolgersi altrove per fare prima. Chi non riesce a fare un figlio cerca spiegazioni rapide e sa bene che la possibilità di riuscita decresce con l´aumentare dell´età. Careggi a Firenze è l´unico centro pubblico che si occupa di pma. «Se c´è bisogno di un aumento della nostra attività discutiamone - spiega il direttore sanitario Valtere Giovannini - I tempi di attesa devono essere rimodulati insieme agli altri servizi di questo tipo già presenti sul territorio».
La Asl di Firenze paga circa 800 mila euro all´anno di convenzione a tre centri privati per assicurare la fecondazione ai toscani. Ognuno di questi fa in un anno più procedure di Careggi (che si fermerebbe a circa 200), parte in convenzione e parte per chi arriva da fuori Regione o comunque paga di tasca propria. Ovvio che lavorano di più se il pubblico è in difficoltà.
La più grande struttura che si occupa di pma è il centro Florence di Fondiaria, che incassa 470 mila euro all´anno dalla Asl e fa circa 300 cicli di fecondazione in convenzione, a cui se ne aggiungono più del doppio per coppie provenienti da fuori. Il centro Demetra lavora poco con la Regione: incassa dalla convenzione 60mila euro all´anno e la gran parte dei suoi pazienti non arrivano dalla Toscana o pagano. Infine c´è il centro Futura, che ha una convenzione da circa 220mila euro. La struttura è divisa in due parti ed è controllata dalla famiglia del numero uno della ginecologia di Careggi, ovvero il professor Gianfranco Scarselli, capo del dipartimento materno-infantile e primario della ostetricia e ginecologia 1, il reparto dove sono in organico i medici del Centro di fisiopatologia della riproduzione. La figlia Benedetta (biologa) è amministratore unico di Futura diagnostica medica - pma, nata nel 2004 con sede a Firenze e un ambulatorio a Empoli e titolare della convenzione con la Asl. Con la sorella Valentina (psicoterapeuta) divide la maggioranza delle quote della società. Chi ha firmato la convenzione con questo centro privato evidentemente ha ritenuto che non vi siano conflitti di interessi se nella stessa famiglia uno dei componenti è al vertice di una struttura pubblica e altri ne possiedono una convenzionata. Per quanto riguarda Futura, che si occupa di varie attività ginecologiche, dalle visite alla diagnosi prenatale, e lavora solo come privato, è nata negli anni Ottanta e oggi uno dei tre consiglieri di amministrazione (e rappresentante) è Benedetta. Il socio principale di questa srl è Futura-pma (con 40%), il 5% delle quote sono in mano alla moglie di Scarselli.

«ha il record di 8 minuti senza fiato, in assetto statico»
«Essere padroni del proprio fiato significa avere una tranquillità psicologica che spesso si traduce in superiorità»
Repubblica 25.5.11
Farfalla senza respirare il record dell´uomo-pesce
di Emanuela Audisio


Dopo l´abolizione dei super costumi i big del nuoto studiano nuove soluzioni per diventare più veloci Il serbo Cavic prova i 50 farfalla in apnea. E va a lezione da Pelizzari, il re delle immersioni
Battere i record senza respirare in piscina arriva l´uomo-pesce
Una tecnica tra agonismo e relax E Hall jr si allenava con la pesca subacquea

Fino all´ultimo respiro. Anzi, senza nemmeno quello. Muti come un pesce. L´ultima frontiera del nuoto è l´apnea. In acqua non bisogna perdere tempo. Il respiro spezza il ritmo, rallenta, muta assetti. La fatica fa il resto: assale e assilla. Ti fa perdere di vista il traguardo. Vuoi essere Phelps, Cielo, sprintare sulle onde? Allora impara a fare a meno dell´aria.
È quello che da stamattina farà il serbo Milorad Cavic, campione del mondo dei 50 farfalla, argento olimpico sui 100 (al fotofinish). A fargli da maestro, a insegnarli trucchi e segreti ci sarà Umberto Pelizzari, il dio dell´apnea, che ha il record di 8 minuti senza fiato, in assetto statico. Quello che sta sopra (Cavic) e quello che sta sotto (Pelizzari) lavoreranno insieme a Lignano Sabbiadoro dove il coach Andrea Di Nino e il suo gruppo, sponsorizzato Arena, sono in ritiro. Per migliorare i record bisogna curare i particolari. Soprattutto ora che il costume tecnologico, molto galleggiante, è vietato. Spiega Di Nino: «Stile libero e farfalla sono le specialità dove si va più forti. Nei 50 un nuotatore di alto livello può arrivare a respirare 2 volte, sui 100 la frequenza sale a 25, si prende aria ogni 4-6 bracciate. È vero che Cavic, a farfalla, non deve girare il capo, ma già tenere la testa avanti cambia l´assetto, si abbassano i fianchi, si alzano le spalle. È un disturbo. Eliminarlo significa poter risparmiare 1-3 decimi. Non solo, anche se sembra un controsenso, stare in apnea significa saper respirare meglio, avere il diaframma rilassato, sfruttare meglio la residua capacità polmonare. E non farsi venire ansie da mancanza di ossigeno, soprattutto quando aumenta l´acido lattico. Non ci sono ancora studi scientifici che certifichino questa applicazione, ma la stanno provando un po´ tutti. Ricordo in America la squadra di Gary Hall jr., 5 ori olimpici, si allenava in mare, facendo immersione lente di pesca subacquea».
Gli Speed and Furious si trattengono. Cesar Cielo, brasiliano, miglior prestazione stagionale nei 50 in staffetta (21"73) il 3 maggio a Rio ha detto: «Ho respirato solo una volta, e domani non lo farò, con l´apnea si apre una nuova finestra di margini di miglioramento». E il giorno dopo quando ha vinto i 50 metri (21"95) ha confermato: «Non ho respirato». Non respira nemmeno la svedese Therese Alshammar, un fenomeno di velocità in stile libero e farfalla. Ma per Umberto Pelizzari, signore dell´apnea, c´è di più. «Ad alto livello ogni dettaglio fa la differenza. Phelps che ha capovolto lo stile di virata, con una fase subacquea da urlo, ha vinto uscendo dall´acqua due metri dopo gli altri. Questo significa che l´apnea, anche come tecnica di rilassamento, può aiutare la performance e ad avere un respiro più corretto. Magari servirebbe a Federica Pellegrini che sui 400 è soggetta a crisi di ansia». E Cavic, che in preparazione dei mondiali di Shanghai da delfino sta diventando un sottomarino, che dice? «Penso che tra un po´ nessun velocista respirerà più. L´apnea rafforza i polmoni, aiuta a tenere rilassato lo stress e mi dà nuove motivazioni. Non ho più di paura di stare sotto a lungo, mi permette nella fase grigia della gara, nell´ultima parte, quando sono più stanco, di reggere meglio. È un vero e proprio allenamento».
La nuova frontiera non è solo riservata al nuoto. Dice Di Nino: «Servirà a tutti gli sport anaerobici dove c´è uno sforzo massimale sui distretti muscolari delle gambe. Penso agli sciatori dello slalom, a uno come Razzoli, a chi tira di scherma, a tutti quelli che devono centrare un bersaglio. Essere padroni del proprio fiato significa avere una tranquillità psicologica che spesso si traduce in superiorità». Fate un bel respiro e poi non fatene più.

l’Unità 25.5.11
L’economista ospite di una giornata di studi dello Spi Cgil
Amartya Sen: «La giustizia nasce dal confronto fra i diritti»
Il premio Nobel, critica l’Ue sulla Grecia: «Con i tagli non si favorisce la crescita e si mette a rischio la libertà». Carla Cantone: «La Fiat aziendalizza i diritti, mentre il sindacato tiene insieme lavoro e democrazia».
di Jolanda Bufalini


Ci sono tre bambini e un solo flauto, la prima bambina dice «sono molto povera, lo devo avere io», è un buon argomento. Ma il secondo obietta: «Sono l’unico a saper suonare, spetta a me». Anche questo è un buon argomento. Il terzo bambino, però, fa presente che il flauto l’ha costruito lui e, solo dopo, si sono fatti avanti gli altri due. Anche questo è un buon argomento. L’aneddoto è stato raccontato ieri da Amartia Sen alla giornata di studi organizzata dallo Spi Cgil a Roma per esemplificare la sua idea di una società giusta, diversa dal modello di un «ipotetico contratto sociale fra la popolazione e lo stato sovrano». Amartia Sen preferisce richiamarsi all’altra corrente del pensiero illuminista, che da Adam Smith a Condorcet arriva sino a Marx, più attenta «alla vita delle persone, al loro benessere, alle loro libertà». La giustizia, dice il premio Nobel economista e filosofo, è il prodotto delle comparazioni dei diversi modi in cui si vive, delle interazioni sociali, dei fattori che hanno un impatto significativo su ciò che effettivamente accade nel mondo.
«Non deve sorprendere dice la segretaria dello Spi Cgil Carla Cantone che un pensatore di importanza mondiale abbia accettato il nostro invito», le sue idee, infatti, «sono caratteristiche della pratica sindacale, la storia della Cgil è storia di conquiste sociali, di rappresentanza democratica, di difesa della Costituzione, di effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica ed economica del paese». Invece oggi, «a partire dalla Fiat, è stata lanciata una sfida, se l’economia si globalizza anche l’organizzazione del lavoro si deve globalizzare. Diritti, salario, professionalità, salute, tutto diventa “aziendale”. Viene negata ogni idea di solidarietà e negato ogni conflitto, il diritto di sciopero ingabbiato nel diktat “prendere o lasciare”».
Al contrario, l’idea di giustizia su cui ragiona Amartia Sen, non è chiusura e localismo ma considerazione di fattori come l’inquinamento ambientale o la disabilità, nelle condizioni di vita concrete. Cita lo studio di una giovane economista di Cambridge, Wiebke Kuklis: in Gran Bretagna il 18 % è sotto la soglia di povertà, cifra che cresce al 23 % se un membro della famiglia non è autosufficiente e, addirittura, al 47 % se si calcolano le spese necessarie per migliorare la vita della persona disabile.
Una visione del mondo che porta l’economista Sen a mettere in guardia l’Europa dalla «passione dei tagli». Fa l’esempio della Grecia, anzi, «in favore della Grecia». «Non si può lasciare che siano le agenzie di rating e i mercati azionari a decidere. Prima della moneta unica la Grecia avrebbe potuto agire sui cambi, ora non può farlo ma non ne ha vantaggi, gli aiuti arrivano come un favore non come un diritto, non esiste una politica europea, né una fiscalità comune». E questo comporta rischi per la libertà e per i diritti sociali, ma comporta anche rischi seri per la crescita: «Dopo la Seconda guerra mondiale ma anche con Clinton negli Usa, il deficit è stato eliminato grazie alla crescita, non puntando tutto sui tagli».

il Fatto 25.5.11
Il miracolo di Sant’Antonio (Gramsci)
Un saggio ripercorre la storia avventurosa dell’egemonia culturale della sinistra, per merito del marxista meno dogmatico del Novecento
di Elisabetta Ambrosi


Una sera d’estate, profumo di resina e mare, il sollievo di una guerra mondiale alle spalle. Voci di intellettuali, discussioni non troppo animate (sul vincitore sono quasi tutti d’accordo), per assegnare il primo premio Viareggio del dopoguerra. Siamo nel 1947, e il presidente Leonida Répaci annuncia il titolo vincente, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Un’eccezione alla regola: non si tratta di un’opera letteraria e l’autore è scomparso da dieci anni. Eppure il filosofo sardo sembra quasi materializzarsi come “una presenza invisibile al nostro tavolo”. Con conseguente generale commozione, “che supera le contrapposizioni ideologiche dei vari membri della giuria”. Un po’ come San Gennaro, Antonio Gramsci, quel giorno come nei decenni a venire, sembra compiere il miracolo di sciogliere le divergenze e aggregare idealmente sulla sua figura il partito comunista italiano. È un miracolo “pilotato”, però, dal segretario Palmiro Togliatti. Che decide di usare la figura moralmente irreprensibile dell’autore dei Quaderni dal carcere come il perno su cui far ruotare il partito.
“Operazione Gramsci”: così definisce la strategia di Togliatti Francesca Chiarotto, nel saggio dall’omonimo titolo Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, uscito per Bruno Mondadori (pp. 240, euro 20). Un’operazione riuscita secondo l’autrice, perché, partendo dall’assegnazione del Premio Viareggio – secondo alcuni manovrata proprio dal segretario – approda nel porto del più grande partito comunista d’occidente.
Le tappe di questa felice via crucis ideologica, al termine della quale si crea l’“icona Gramsci”, sono i sei volumi dei Quaderni, usciti tra il 1948 e il 1951, divisi volutamente per temi. Anche qui, sostiene Chiarotto, non tanto per ragioni di censura, quanto per facilitarne la lettura e la diffusione. Acuta anche la scelta della casa editrice: sotto l’ombra dello struzzo Einaudi, l’operazione ideologica su Gramsci acquista legittimità culturale, senza assumere le sembianze di un’operazione platealmente politica.
LA MESSA IN PRATICA di una “paziente ricostruzione di un’egemonia culturale”, condotta capillarmente sul territorio anche attraverso case di cultura, biblioteche popolari, organizzazioni di massa consente al Pci di dialogare con la società italiana di quei decenni. In questo abile lavoro di soft power, la figura di Gramsci diventa fondamentale quando si tratta di non restare travolti dai fatti del 1956. L’autore dei Quaderni svolge poi anche un’altra funzione: quella di terreno ideologico, ma non direttamente politico, su cui dialogare con altre culture, quella liberale e cattolica. La storia iniziata col premio Viareggio si interrompe con la caduta del Muro. Anzi, ancor prima con l’avvento degli anni Ottanta. Quando, mentre Gramsci impazzava all’estero , dai paesi arabi al Giappone, nell’Italia del craxismo e dell’edonismo reganiano in salsa nostrana, “l’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa o, peggio, della discoteca”, come scrive nel saggio introduttivo Angelo d’Orsi. Il silenzio si interrompe negli anni Novanta e Duemila, quando però ritroviamo non più un Gramsci “martire, nazionale e popolare”, il “fratello maggiore di Togliatti”, ma un Gramsci neutralizzato sul piano politico, forzato fino a diventare liberale e ad uso del grande pubblico deideologizzato. Tanto che la nota invettiva contro gli indifferenti finisce prima sul palco di San Remo e poi in volumetto per Chiare Lettere, che diventa un successo editoriale. D’Orsi spiega così i motivi del revival: “Gramsci ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che non sia più la presa del Palazzo d’Inverno ma nasca da un lungo processo di preparazione culturale”.
QUELLO CHE è meno chiaro per i due autori è come mai, mentre ritorna come icona pop, il filosofo sardo sia diventato invece un personaggio scomodo per la sinistra. Tanto che, alla nascita del Pd, nel pantheon democratico si dà la preferenza a Don Milani, Kennedy o Popper. Come dimostra un imbarazzato Veltroni nel 2000, quando, nel corso di un convegno gramsciano, si schiera a favore di Rosselli “dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno né l’altro”. In fondo, chiosa Chiarotto, “Rosselli è quello che ha preso il fucile per andare in Spagna a combattere con i repubblicani”. Gramsci diventa specchio della confusione ideologica dell’oggi.
Mentre il dogmatismo ideologico di ieri almeno una cosa l’aveva capita: che la politica senza intellettuali di massa, tra l’altro spariti da un pezzo, è destinata a morte certa.
Insomma, cari giurati dei premi letterari, se squilla il telefono potete stare tranquilli. Ma anche no.
Operazione Gramsci FRANCESCA CHIAROTTO, BRUNO MONDADORI, 233 PAGINE, 20 EURO

Corriere della Sera 25.5.11
Anche Morin si indigna. E si impegna con Hessel
di Stefano Montefiori


PARIGI — Stéphane Hessel (93 anni) e Edgar Morin (89) insieme per un nuovo libro di impegno civile e politico. Il successo straordinario e internazionale di Indignatevi! (tre milioni di libri venduti da ottobre in Europa, circa 30 traduzioni, a giugno in Cina e Usa) ha riportato in libreria altre opere di Hessel, come Dalla parte giusta pubblicato in Italia da Rizzoli, e Impegnatevi! con Gilles Vanderpooten (Salani) e ha spinto gli editori a contendersi un autore diventato preziosissimo. Così Claude Durand, della casa editrice Fayard, ha invitato al ristorante Hessel e il suo amico Morin per convincerli a scrivere un libro a quattro mani. Entrambi hanno accettato e «Aux actes citoyens!» (strizzata d’occhio al passaggio della Marsigliese) dovrebbe essere pronto per la prossima rentrée litteraire, a settembre. L’inedita collaborazione tra Stéphane Hessel e Edgar Morin è frutto di un’amicizia ormai trentennale. Dopo l’exploit di Hessel, anche il sociologo e filosofo Morin ha avuto grande successo in Francia nelle ultime settimane grazie al libro «La Voie» , abilmente presentato dal suo editore Fayard come una sorta di prolungamento di Indignatevi!. La campagna pubblicitaria del saggio di Morin cita in effetti apertamente Hessel: «Non accontentiamoci di indignarci! Hessel provoca un sussulto, Morin indica la strada (la voie, ndr)» . Uno sfruttamento che ha provocato le proteste di Sylvie Crossman e Jean-Pierre Barou, i fondatori della piccola casa editrice «Indigène» di Montpellier corresponsabile del fenomeno Hessel (sono loro ad avere pubblicato Indignatevi!. «Così si svaluta il libro di Hessel, usandolo comunque a fini pubblicitari» , ha detto la Crossman. Ma al di là delle liti e delle manovre editoriali, Hessel e Morin hanno deciso di sancire la stima reciproca con un’opera che sarà breve, sull’esempio di Indignatevi!, non più di una sessantina di pagine. In attesa della nuova uscita, l’impazzimento collettivo per Hessel è comunque lungi dal placarsi, come dimostrano le manifestazioni degli «Indignados» di Puerta del Sol a Madrid. «Molti di loro tengono in mano il mio libretto — ha detto ieri Hessel— sono felice che il mio messaggio sia stato raccolto da così tanti giovani europei» . In Spagna il libro di Hessel è stato tradotto in castigliano, catalano, basco e galiziano. «Ho molta fiducia nella gioventù spagnola — aggiunge Hessel— nel loro modo di mobilitarsi in modo pacifico. Li esorto a rimanere vigilanti contro tutto ciò che rischia di nuocere allo sviluppo della democrazia, a rispettare i valori della Resistenza, a difendere i più deboli e a non farsi manipolare dalle forze del denaro» . Mentre a Parigi, alla Bastiglia, cominciano i primi assembramenti ispirati a Hessel e in solidarietà con i giovani spagnoli, a Figueras, nel nord della Catalogna, i manifestanti esibiscono, accanto all’immagine di Gandhi, un grande ritratto di Stéphane Hessel.

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 25.5.11
La Crusca presenta la tre giorni per i 700 anni della morte
In viaggio con Dante
Le città del poeta: non solo Firenze e Ravenna. Anche Bologna (per gli studi) e Roma (per la politica)
di Nicoletta Maraschio, Presidente dell’Accademia della Crusca


Iniziano con dieci anni di anticipo gli eventi per il settimo centenario della morte di Dante e partono da Ravenna dove ieri mattina è stata presentata la prima edizione di Dante 2021» , festival di tre giorni diretto dall’Accademia della Crusca che, a cadenza annuale, preparerà le celebrazioni per i 700 anni dalla scomparsa del poeta fiorentino, a cominciare dall’ 8 settembre prossimo. Al centro del programma l’eredità linguistica dell’autore della Divina Commedia, intesa anche come fattore di unità nazionale, proprio nell’anno del 150esimo anniversario. temi: la lingua delle Costituzioni italiane; l’Italia di Dante tra realtà e ideale; i dialetti: riflessi del trattato ora’, a ancoi ‘ oggi’ fino a veggia botte’), una componente importante di quel multilinguismo che non piacque per nulla Bembo e che tante polemiche suscitò nel corso del Cinquecento, quando si discuteva accanitamente di cosa dovesse essere l’italiano, strumento espressivo rappresentativo di una cultura di un sentire, ai quali ancora, per altri tre secoli, non sarebbe corrisposta una unità politica. Se la nascita e la morte acquisiscono un valore simbolico superiore, allora Firenze e Ravenna hanno in questo vasto insieme un significato del tutto particolare. Ed è bello che le due città, da qualche mese, stiano lavorando insieme a un progetto ambizioso: Dante 2021. Verso il VII centenario della morte di Dante Alighieri. Il festival, la cui prima edizione si svolgerà a Ravenna Se non ci fosse che un solo motivo per riconoscere l’importanza di Firenze nella storia italiana basterebbe aver dato i natali a Dante Alighieri e, grazie anche a lui, alla lingua che è alla base della nostra identità nazionale. Ed ha un grande significato che proprio nell’anno del 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia, le due «patrie» Dante si uniscano nel progetto comune Dante 2021. Ma quante sono le città di Dante? A girare per l’Italia le tracce del suo passaggio sono molte e largamente diffuse, soprattutto nel Nord. Certo l’esilio, ma anche lo studio (Bologna) e gli incarichi politici (Roma). Le vicende biografiche si riflettono nei tanti dialettismi della Commedia (da mo’ e issa dantesco De vulgari eloquentia. E poi musica, teatro, balletti L’inferno, di Emiliano Pellisari). Tra protagonisti, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e gli attori Pamela Villoresi e Virginio Gazzolo. Verrà promossa anche una mostra «dantesca» di artisti contemporanei, italiani e stranieri, e Premio Dante-Ravenna dedicato a chi, in ambiti e con strumenti diversi, si sia distinto nella diffusione della lingua, della letteratura e dei valori civili di Dante. Firenze, città natale di Dante e Ravenna, sua seconda e ultima patria, si uniscono così in un nuovo progetto comune, che consolida un rapporto di amicizia e collaborazione culturale. dall’ 8 al 10 settembre prossimo, sarà incentrato soprattutto sull’importanza linguistica dell’opera di Dante, sulla sua straordinaria visione poetica, sul suo contributo determinante alla creazione della lingua italiana, fattore decisivo della nostra identità nazionale. Per questo, Ravenna ha chiamato Firenze e l’Accademia della Crusca. Più di 400 anni fa, nel 1595, durate la preparazione del loro Vocabolario, gli Accademici inventarono la prima edizione critica della Commedia con l’obiettivo di avvicinarsi, attraverso la filologia, al testo autentico dell’opera. E già molti anni prima, Lionardo Salviati, il padre fondatore della Crusca, aveva scritto che Dante era un «miracolo» e che il «divino poema» era opera non superata «da alcuna in qual si voglia idioma composta» . Una conferma si ha da un semplice dato quantitativo: nelle prime quattro edizioni del Vocabolario (quelle digitalizzate e interrogabili attraverso il sito dell’Accademia www. accademiadellacrusca. it) Dante è l’autore più citato dopo Boccaccio, con oltre 60mila occorrenze. È anche grazie al recupero e al rilancio della Crusca che la lingua di Dante costituisce il nucleo fondamentale per l’italiano contemporaneo. Il festival prevede naturalmente spettacoli e letture dantesche ma si apre anche a momenti di riflessione su aspetti centrali della nostra lingua di oggi, da quella della Costituzione al rapporto sempre fertile tra italiano e dialetti.

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 25.5.11
E alla Nazionale si celebra il Vate dell’Unità


Opere d’arte, sculture, incisioni, fotografie, libri, cartoline, piccoli cimeli. Con protagonista assoluto Dante Alighieri. È la mostra che si inaugura il 31 maggio (ore 12) nella Tribuna Dantesca della Biblioteca Nazionale e propone un viaggio che dal Medioevo giunge al Risorgimento, quando il padre della lingua e idealmente della nazione diventa simbolo delle aspirazioni civili e identitarie. Assumendo anche il ruolo di guida ideale per i più importanti scrittori, intellettuali e storici: Leopardi, Foscolo, Monti, Mazzini, Tommaseo, de Sanctis. In particolare, a Firenze, la figura di Dante si riconcilia con la memoria della città. Nel 1888 nasce la Società Dantesca italiana e nel 1889 la Società Dante Alighieri, sotto la guida di Giosuè Carducci. L’esposizione, dal titolo Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’ 800 presenta, tra i dipinti, quelli di Carl Vogel von Vogelstein, Domenico Morelli, Francesco Saverio Altamura, Federico Faruffini, Gaetano Previati e poi le sculture di Vincenzo Vela, Pio Fedi e Paolo Troubetzkoy. Per tutta la durata della mostra (fino al 31 luglio) sempre alla Biblioteca Nazionale, sarà possibile assistere alla Maratona infernale: in 7 ore di video, trasmesse continuativamente, per la regia di Lamberto Lambertini, ideatore del progetto insieme a Paolo Peluffo, lo spettatore sarà proiettato in una rilettura in chiave contemporanea dei trentaquattro canti dell’Inferno. R. C.

La Stampa TuttoScienze 25.5.11
È vero che c’è chi nasce per rubare e uccidere?
Lombroso continua a far discutere psicologi e neuroscienziati Ecco come nacque l’identificazione tra epilessia e criminalità
di Francesco Monaco neurologo


«Che brutto ceffo!», è l'espressione «lombrosiana» più semplice e universalmente comprensibile, ovvero del modo di pensare di Cesare Lombroso (1835-1909), professore di psichiatria e antropologia criminale a Torino dal 1887, e uno dei più famosi neuropsichiatri del mondo. Tale affermazione si basa sul presupposto che esista una corrispondenza tra struttura anatomica del cervello (e del suo involucro, cioè il cranio e quindi il volto) e comportamento. Nel proporre questa teoria Lombroso si pose, in buona fede, come sostenitore di un'ipotesi biologica (geneticamente determinata) della malattia mentale, ma soprattutto, della cosiddetta «devianza» e quindi della criminalità, con poco spazio per attenuanti psicologiche o sociologiche. In altri termini, secondo Lombroso, criminali si nasce.
E' indubbio che una tale teoria (peraltro non sufficientemente scientifica) l’ha reso un personaggio discusso e per certi versi scomodo. Possiamo oggi veramente credere che «un brutto ceffo», cioè un individuo con fronte stretta e bassa, grosse sopracciglia, sottigliezza delle labbra, sporgenza degli zigomi, deformità del naso, prognatismo, sia sinonimo di «ladruncolo» o «vero delinquente» o comunque uno di cui non fidarsi? O, al contrario, possiamo escludere a priori che una persona di aspetto che definiremmo normale non sia un serial killer? Provate a ragionare sulle notizie di cronaca nera e vedrete che le vostre certezze dimuiniranno.
Ad un secolo dalla morte del nostro, tuttavia, il suo pensiero continua a permeare ogni settore della cultura e delle scienze e, per quanto negata razionalmente, la sua influenza è ancora fuori discussione. Non per nulla nel mondo anglosassone, così severo nel giudicare gli scienziati «stranieri», Lombroso è considerato uno studioso degno del massimo rispetto.
Le sue teorie nascono su basi darwiniane e positiviste, ovvero: 1) l'uomo discende dalle scimmie e quindi il criminale non è altro che un individuo regredito allo stato primitivo e 2) tutto può e deve essere osservato e descritto anche matematicamente. Ma è altrettanto vero che esse furono influenzate dalla situazione politica e culturale italiana dopo l'unificazione e che questa, a sua volta, fu la causa del suo successo. Infatti, dopo l'Unità le differenze tra il Nord ed il Sud divennero drammaticamente evidenti e i numerosi problemi sociali relativi ai «briganti» catturarono l'attenzione di Lombroso. La sua idea del «criminale atavico» divenne popolare perchè respingeva l'idea che il crimine facesse parte dei problemi della società, permettendo alla classe dominante di negare ogni responsabilità. A questo proposito ricordo che nel Museo di Psichiatria ed Antropologia di Torino sono conservati 904 teschi di cosiddetti briganti da lui raccolti e che un prete di Napoli ha richiesto che vengano seppelliti con una cerimonia religiosa. Allo stesso tempo il sindaco di Motta Santa Lucia, il paese calabrese nativo del brigante Giuseppe Vilella (il primo sul cui cranio Lombroso effettuò le valutazioni antropometriche), e discendente della stessa famiglia, ha richiesto che i resti dell’antenato tornino al luogo di origine.
Bisogna tuttavia riconoscere che le teorie lombrosiane rappresentarono il tentativo rivoluzionario e ben riuscito di incorporare gli studi criminologici nel campo delle scienze psicologiche e mediche, ovvero di «medicalizzare» il crimine, e quindi renderlo passibile di terapia: per quanto discutibili, i manicomi criminali sono la logica conseguenza del pensiero lombrosiano e all'inizio furono concepiti come un'alternativa al carcere più idonea a curare i criminali con disturbi mentali. Sfortunatamente, Lombroso ipotizzò poi una connessione tra la personalità criminale e l'epilessia, malattia caratterizzata spesso da crisi con perdita parziale o totale della coscienza, a volte accompagnate da gesti o atti dei quali il soggetto non serba memoria. Lombroso sottolineò che alcuni «crimini passionali» rappresentavano degli equivalenti di crisi epilettiche, concetto non lontano da quello moderno di crisi con componente affettiva (tipo i «déja vu»), per le quali proponiamo il termine più consono, mutuato dalla filosofia della mente, di «qualia emozionali epilettici». Tali teorie esercitano ancora oggi una profonda influenza negativa sia sull'opinione medica che su quella pubblica, contribuendo alla stigmatizzazione dei pazienti con epilessia. Come neurologi, non possiamo ignorare questa «area grigia» della scienza positivista del XIX secolo e per questo in un articolo sulla rivista «Epilepsia» abbiamo riportato, traducendoli in inglese, i passi dei lavori di Lombroso in cui si parla dei rapporti tra epilessia e criminalità.
La relazione tra Lombroso e l’epilessia inizia con un episodio di assoluta attualità. Il 13 marzo 1884, nella caserma di Pizzofalcone (Napoli) il soldato calabrese Salvatore Misdea, affetto da epilessia, uccide 7 camerati e ne ferisce 13, risparmandione solo due perché calabresi come lui.
Lombroso è nominato perito e nella perizia scrive: «La stessa fisognomia, le stesse anomalie dei denti, la stessa vanità, pigrizia, amore per l'orgia. Non mancava nulla: Misdea invero portava nel volto, nel teschio e nei suoi comportamenti gli aspetti del criminale nato estesi a tutto il corpo ed identificati al massimo grado». Il Misdea verrà quindi condannato e fucilato. Fu allora che nella mente di Lombroso balenò l'idea che «la grande criminalità fosse una forma di equivalenza di epilessia» e che la «pazzia morale» fosse una forma di «epilessia larvata cronica», stabilendo una «perfetta identità» tra il crimine e l'epilessia. Va anche detto che allo stesso tempo ipotizzò che epilessia e genialità potessero essere collegate, come nel caso di Lev Tolstoj, che Lombroso incontrò a Mosca nel 1897 e che nel suo libro «L' uomo di genio» definì un «genio prodotto dalla pazzia epilettica». Inoltre, a riprova della sua serietà intellettuale, riscontrò in successivi studi in alcuni pazienti con epilessia un correlato anatomo-patologico delle sue speculazioni teoriche (studiando campioni autoptici di cervelli). Verosimilmente, l'unico messaggio residuo di questa eredità lombrosiana nel 2000 è il seguente: i neuroscienziati e i criminologi possono oggi concordare sulla sua intuizione che in certi e limitati casi un cervello con una data alterazione anatomica può causare l'epilessia (e ciò e a volte dimostrato con la risonanza magnetica): ma rimane inaccettabile e politicamente incorretta l'ipotesi che i soggetti con epilessia possano diventare dei «mostri», capaci di crimini brutali in quanto portatori congeniti di un cervello«cattivo».
Le brillanti e a volte affascinanti intuizioni di Lombroso riuscirono a catturare l'immaginazione di artisti ed intellettuali: esempi sono «La resurrezione» di Tolstoj, «I miserabili» di Victor Hugo e «La bestia umana» di Emile Zola. Freud lo definì «grande e fantastico». Tuttavia ricordiamo che le sue teorie sulle basi biologiche della delinquenza contribuirono a creare un'atmosfera culturale favorevole alle politiche di eugenetica e persino dello sterminio del periodo nazifascista. Pertanto, il dibattito su Lombroso è lontano dall'essere concluso e la controversia sulla sua scientificità rimane in alto mare.

Terra 25.5.11
Meropur, cinque anni di allarmi inascoltati
di Federico Tulli


Terra 25.5.11
Al Reggio FilmFest il cinema è italiano
di Alessia Mazzenga

qui
http://www.scribd.com/doc/56187126

martedì 24 maggio 2011

l’Unità 24.5.11
Il rapporto dell’Istat
Perché l’Italia ha bisogno degli immigrati
di Nicola Cacace


Bisogna ringraziare l’Istat per la diffusione periodica di dati sulla realtà socio-economica spesso ignorati dal dibattito politico. Il Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010, è prezioso per la ricchezza e la tempestività dei dati, anche se illustra un Paese più povero, con potere d’acquisto calato, con giovani, donne e Mezzogiorno sempre più colpiti da una crisi ormai svincolata da un resto d’Europa che, a parte Grecia e Spagna, ha ripreso a correre molto più di noi. I giovani che soffrono tra disoccupati, inattivi e “Neet” (inoccupati che non studiano e non lavorano) sfiorano i 4 milioni, senza parlare di altri milioni di precari. Il paradosso è che i giovani pur essendo merce rara da quando la natalità si è dimezzata, nel ’75, da un milione a mezzo milione di nati l’anno non trovano lavoro in un sistema che non cresce come quello italiano. Il Rapporto accenna ad un “mercato del lavoro duale” senza spiegarlo bene, ci dà due dati, intimamente connessi, senza spiegarne la logica che li lega: «nel biennio 2009-10 l’occupazione si è ridotta di 532mila unità e nel 2010 l’occupazione straniera è aumentata di 183mila unità». Come si spiegano i due dati? Col doppio mercato del lavoro, quello degli italiani che nel biennio ha perso 892mila occupati e quello degli stranieri che nel biennio ne ha guadagnato 360mila. I 532mila occupati in meno del biennio vengono da una forte riduzione degli occupati italiani e da un consistente aumento degli stranieri, perché il mercato dei lavori ”umili”, abbastanza insostituibili come badante, edile, manovale, addetto alla pulizia, etc. tira anche in periodi di crisi mentre quello dei lavori più qualificati tira solo quando il sistema paese è in salute. Non è che gli stranieri tolgono lavoro agli italiani. Il flusso di immigrati che ha invaso l’Italia nel decen-
nio è attratto dal buco demografico che crea un vuoto, soprattutto di offerta di lavori “umili”, che gli immigrati riempiono. Poiché nel decennio i giovani italiani di 15-30 anni si sono ridotti più di 2 milioni, per il dimezzamento delle nascite, nel decennio sono entrati quasi 4 milioni di immigrati, di cui quasi più di 2 milioni lavorano. È il buco demografico che ha fatto dell’Italia il Paese col più grande tasso di immigrazione del mondo occidentale, al pari di Paesi di immigrazione storica come Australia e Canada, avanti agli stessi Usa e ad altri paesi europei a bassa natalità come Spagna, Portogallo, Danimarca e Regno Unito. Peccato che neanche l’attenta Istat, non abbia spiegato agli italiani che gli immigrati “invadono” e invaderanno il Paese sinchè la natalità non riprende, perché il Paese ha bisogno di loro, non perché siamo maestri di ospitalità. E naturalmente la Lombardia ne ha bisogno più della Campania.

l’Unità 24.5.11
Rapporto Istat È allarme sugli squilibri di genere. Tutta al femminile l’assistenza in famiglia
Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore  alla cura informale (welfare non pagato)
Crisi, donne le prime vittime Fuori dal lavoro se sono incinte
Nel 2010 800mila donne hanno dichiarato di essere state costrette almeno una volta a lasciare il lavoro per via di una gravidanza. In aumento le dimissioni in bianco. Eppure restano i pilastri della rete di aiuti informali.
di Bianca Di Giovanni


Per le donne italiane la crisi è un tunnel ancora senza uscita. Rispetto alle loro «sorelle» europee le condizioni di lavoro sono peggiori su tutti i fronti: qualità dell’attività, salario medio (-20% rispetto agli uomini italiani), difficoltà di coniugare tempi di vita con quelli di lavoro. Le madri soffrono più delle single, le giovani nonne a loro volta hanno più difficoltà delle madri, con i nipotini da accudire e spesso anziani genitori da curare. nelle coppie c’è una forte asimmetria tra i ruoli maschili e femminili: e più si va avanti con l’età più l’asimmetria aumenta. Nel 2010 il sesso cosiddetto debole ha dedicato due miliardi di ore al lavoro di cura informale (cioè non pagato) su tre miliardi complessivi. Ma il dato più allarmante sta nella mancanza di libertà di scelta: molte italiane sono costrette a lasciare il lavoro contro la loro volontà, quando restano incinta. Nel biennio 2008-9 erano 800mila ad ammettere questa dura realtà: o licenziate o costrette a firmare dimissioni in bianco.
RAPPORTO
Un quadro forsco, quello scattato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat presentato ieri dal presidente dell’Istituto Enrico Giovannini, al presidente della Camera Gianfranco Fini alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. «I giovani e le donne hanno prospettive sempre più incerte di rientro nel mercato del lavoro ha detto Giovannini e ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità». I numeri sulla dicotomia tra mondo del lavoro e ruolo femminile appaiono disarmanti. Quelle 800mila costrette a starsene a casa, senza un reddito proprio, rappresentano l’8,7% delle donne che lavorano o hanno lavorato in passato: una quota rilevante. «Oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio si legge nel Rapporto non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne. A subire più spesso questo trattamento non sono quelle delle vecchie generazioni, ma le più giovani (segnale di una tendenza in aumento, ndr), cioè il 13% delle madri nate dopo il 1973; le residenti nel Mezzogiorno e le donne con un titolo di studio basso». Tra le madri espulse contro la loro volontà, solo il 40% riesce a trovare un’altra attività dopo che il figlio è cresciuto, ma quel dato è il saldo di una distanza abissale. Su 100 madri licenziate, riprendono a lavorare 51 nel nord e soltanto 23 nel Mezzogiorno. Le «dimissioni in bianco» stanno diventando un male endemico nel mercato del lavoro della Penisola.
La famiglia sottrae le donne al lavoro, ma è solo nel nucleo familiare che si ritrova quella rete di aiuti che spesso difende gli individui dalla crisi. in Italia è sempre stato così. E anche nel 2010 i cosiddetti «care giver» (quelli che assitono altre persone gratuitamente) sono aumentate, ma raggiungono sempre meno famiglie. «Le persone che si attivano nelle reti di solidarietà sono aumentate in misura significativa scrivono i ricercatori Dal 20,8% del 1983 al 26% 25 anni più tardi. Di contro sono diminuite le famiglie aiutate (dal 23,3% al 16,9%), soprattutto tra quelle di anziani». Il fatto è che la strututra famigliare si è modificata, parcellizzandosi sempre di più: diminuiscono le persone con cui condividere le cure, il numero di figli diminuisce e i genitori risultano sempre più bisognosi di attenzione.
L’assistenza alle famiglie con anziani viene fornita per lo più dalle reti informali (il 16,2% nel 2009). La quota di quelle raggiunte dal pubblico è di circa la metà (7,9%), mentre arriva al 14% quella a carico del privato. «Nel Mezzogiorno sono state aiutate meno famiglie, per quanto i bisogni siano stati maggiori continuano i ricercatori a causa di una povertà più diffusa, delle peggiori condizioni di salute degli anziani e un maggior numero di disabili». La distanza con il Nord est, regione ad alto livello di assitenza, è ancora aumentata.

l’Unità 24.5.11
Meno risparmi più povertà Italia lontana dall’Europa
Circa un quarto della popolazione sperimenta il rischio di povertà o esclusione. Il risparmio viene eroso, mentre la ripresa è ancora troppo fiacca per creare ricchezza. Giovannini (Istat): Paese vulnerabile.
di Bianca Di Giovanni


Nel biennio della crisi l’Italia ha perso oltre 500mila posti di lavoro, di cui più della metà a sud. Dietro le cifre secche si profila un impoverimento generalizzato del Paese. Stando all’ultimo rapporto Istat «circa un quarto delle popolazione (il 24,7%) sperimenta il rischio di povertà o esclusione». I segnali di una crisi profonda del tessuto sociale e produttivo ci sono tutti: bassa produttività, stallo dell’occupazione, calo del potere d’acquisto delle famiglie, aumento dell’indebitamento. Una condizione che ci allontana dalla media Ue, dove il rischio di povertà è del 23% più basso.
Mezzo milione di giovani under-30 ha perso il posto negli ultimi due anni, e chi ha un lavoro, in un caso su tre, può contare solo su un contratto «debole», a termine o di collaborazione. Nella fascia d’età tra i 18 e i 29 anni sono sfumati 182mila posti di lavoro (l’anno prima erano stati 300mila). In complesso tra i giovani l’occupazione cala 5 volte di più che nella media nazionale. Nel 2010, è occupato circa un giovane ogni due nel Nord, meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno.
Insieme alla precarietà crescono anche i fenomeni di scoraggiamento, tanto che il numero di chi né studia né ha un'occupazione, tra i 15 e i 29 anni, nel 2010 sale ancora, superando quota 2,1 milioni, vale a dire uno su cinque. L’anno prima erano 134mila in meno. Il fenomeno dei cosiddetti Neet (not in education, employment or training) è aumentato nel 2010 soprattutto tra i giovani del Nord-est (area particolarmente colpita dalla crisi economica) e si è diffuso anche tra gli stranieri, altra categoria «debole» che ha pagato un prezzo altissimo alla recessione. Gli immigrati guadagnano in media il 24% in meno degli italiani, e anche quando hanno studiato riescono a trovare solo lavori poco qualificati. La composizione di genere dei Neet è molto interessante. Tra loro, l’87,5% degli uomini vive con almeno un genitore, mentre tra le donne ancora nella famiglia d’origine la quota si ferma al 56%. Insomma, molte «scoraggiate» sono donne sposate o che comunque convivono con un partner con o senza figli. Nel 2010 erano 450mila. Il reddito a disposizione delle famiglie è tornato a crescere nel 2010, dopo una diminuzione l’anno prima. Ma l’aumento dell’inflazione ha comunque ridotto il loro potere d’acquisto di mezzo punto percentuale. Nel 2009 il calo era stato di oltre il 3%. Dunque, nessun recupero, ma ancora retrocessione. Anche la storica propensione al risparmio dell’Italia ha subito uno stop, tornando a livelli di 20 anni fa.
VULNERABILE
Uno scenario sociale di un Paese che, pur essendo uscito tecnicamente dalla recessione, cresce ancora troppo poco per garantire nuova ricchezza alle famiglie. «Il sistema Italia appare vulnerabile, e più vulnerabile di qualche anno fa ha spiegato Giovannini Se, però, alcuni aspetti della situazione attuale appaiono simili ad allora, è anche evidente che per fronteggiare le recenti difficoltà l'economia e la società italiana hanno eroso molte delle riserve disponibili. Ad esempio, le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per sostenere il loro tenore di vita e i vincoli di finanza pubblica rendono minimi gli spazi di manovra della politica fiscale». Per Giovannini l'Italia «ha bisogno di prendere coscienza dei propri problemi e dei propri punti di forza per mobilitare le tante risorse disponibili e accelerare il passo, in tutti i campi». Uno dei ritardi storici del paese riguarda il livello di produttività, che è fermo a 10 anni fa. Il sistema delle imprese mostra reazioni in chiaro-scuro: c’è un drappello di piccole e medie imprese che ha innovato ed è cresciuto, mentre le grandi hanno reagito molto male alla crisi globale.

La Stampa 24.5.11
L’Istat: sono 2,1 milioni i ragazzi che non studiano e non lavorano. In 800 mila senza impiego perché mamme
Crisi, pagano giovani e donne
Redditi in calo: più debiti e meno risparmi per mantenere il tenore di vita
Intervista
“Dove l’istruzione è di qualità migliore il Pil corre di più”
di Tonia Mastrobuoni


Eric Hanushek Sarà ospite oggi del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo

È uno dei maggiori studiosi al mondo del rapporto tra istruzione e crescita economica. Sarà ospite del convegno della Fondazione per la scuola della Compagnia Sanpaolo su «La sfida della valutazione» che si apre oggi a Torino. Ma l’arrivo dell’economista di Stanford Eric A. Hanushek nel giorno del rapporto dell’Istat è l’occasione per allargare il campo dalla stretta analisi sugli effetti benefici dell’istruzione a uno sguardo sul futuro del Paese.
Professore, c’è un rapporto tra la pessima media che risulta ormai ogni anno dai test Pisa Ocse sui rendimenti scolastici degli studenti italiani e il decennio di «crescita perduta», certificata dall’Istat?
«C’è un rapporto chiarissimo che rileviamo da tempo tra i tassi di crescita dei Paesi dell’Ocse e i risultati dei test Pisa. I paesi che fanno meglio, soprattutto nelle scienze, sono quelli che crescono di più. È un grande problema per l’Italia, all’inverso, avere da dieci anni risultati sotto la media Ocse. Se fosse come la Finlandia, i benefici sul Pil sarebbero di 16 miliardi di euro».
Fino agli anni Duemila il sistema scolastico finlandese era considerato pessimo. Adesso è in cima alla lista dei Paesi con i migliori rendimenti. Come ha fatto?
«A mio parere il loro segreto è l’importanza capitale che hanno assegnato alla scuola e al miglioramento dell’insegnamento, in questi ultimi anni. Così sono riusciti a conquistare per le scuole, ad esempio, i laureati migliori».
In Italia non avviene spesso.
«Infatti. E aggiungerei un altro elemento: i sindacati degli insegnanti in Finlandia lavorano assieme alle scuole per migliorare la qualità delle lezioni».
Quindi, come bisogna procedere?
«La prima cosa da fare è misurare il livello degli studenti. Poi bisogna premiare gli insegnanti che fanno bene il loro lavoro e aiutare quelli che non lo fanno bene a trovarsi un’altra occupazione...»
In Italia è inimmaginabile.
Anche negli Stati Uniti c’è un dibattito su questo. È anche un problema culturale, ovvio, oltre che sindacale. Ma per gli Usa abbiamo calcolato che se si sostituisse il 5-10% degli insegnanti peggiori con insegnanti di livello medio, le scuole americane raggiungerebbero la Finlandia. E lo stesso discorso vale per l’Italia. Si tratta di un cambiamento piccolo ma che avrebbe effetti enormi».
Come sono gli insegnanti italiani?
«Mancano troppi elementi per valutarli. Quando è stato fatto, finalmente, negli Stati Uniti, c’è stata una drammatica presa di coscienza su quanto fosse stato importante farlo...» C’è una polemica sull’Invalsi italiano, c’è chi la sta boicottando.
«Lo so. Ma torno a dire che i test misurano cose importanti. Le persone che hanno punteggi più alti guadagneranno di più, nella vita, avranno carriere migliori. Si possono sempre migliorare, ma non bisogna mai dire che i test non contano. È falso».

La Stampa 24.5.11
Rassegnazione, male italiano
di Irene Tinagli


Tutti a casa». Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.

Repubblica 24.5.11
Il 18,8% di ragazzi in Italia lascia gli studi subito dopo gli anni dell´obbligo e non cerca lavoro. In un anno il numero dei "Neet" è salito di 134.000 unità
Quei sedicenni annoiati che abbandonano la scuola così cresce la marea degli "inattivi": 2,1 milioni
di Maria Novella De Luca


Una generazione rassegnata alla precarietà che non dà nessun valore all´educazione
Gli esperti: "Aprire le aule, siamo l´unico paese che taglia l´istruzione in tempo di crisi"
Il fenomeno della dispersione scolastica è forte anche nelle regioni ricche del Nordest

ROMA - La crisi arriva tra i 16 e i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare faticosa, noiosa, staccata dalla realtà, i prof, poveracci, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe, e il lavoro poi, un miraggio, una chimera, e studiare o non studiare in fondo è lo stesso. Storie di ragazzi che un giorno hanno detto no. Che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe. Di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classe, voti, giudizi. Ma anche le cose belle della scuola, come le gite, gli amici, lo sport. C´è un numero enorme di giovani (il 18,8%) che in Italia continua ad abbandonare gli studi, subito dopo gli anni dell´obbligo, e che a vent´anni, quando si entra nell´età adulta, si ritrova sperduto, senza nulla in mano. Perché se è vero che il diploma conta poco, e la laurea poco di più, non averli vuol dire essere fuori, diventare invisibili, drop out, pronti ad entrare nell´esercito crescente dei Neet, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni, così si legge nel rapporto Istat 2011, che non lavorano, non studiano, non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli sfiduciati. in una parola Neet: not in education, employment or training. In un anno oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
C´è chi si aliena davanti al computer, nello stile degli hikikomori, quegli adolescenti che decidono che il mondo è nella loro camera da letto e nei rapporti virtuali della Rete. Oppure ci sono gli altri. Come Antonio, Camilla, Sharon, Lorenzo: basta entrare in un centro commerciale per trovarli. Passano il tempo guardando le cose, le merci, gli oggetti, ma non spendono, perché i soldi non ci sono, e i pochi a disposizione servono per il cellulare. Eccoli, a Roma, Cinecittà Due, megastore vicino agli storici studi cinematografici, ma loro non ci entrano, meglio l´aria condizionata indoor, la musica diffusa, l´odore di Big Mac. Camilla, 18 anni: «Facevo l´alberghiero, ma ero sempre l´ultima della classe. Mi annoiavo. I professori mi trattavano male. A mia madre hanno detto che non riuscivo ad apprendere. Insomma che ero cretina. Ho lasciato, mi sono iscritta al collocamento, e adesso quando capita faccio la cameriera nei bar... Tanto anche se avessi preso il diploma avrei fatto comunque la cameriera». Diversa (ma uguale) la storia di Lorenzo, che di anni ne ha 17, Ipod nelle orecchie, e fino a gennaio scorso studente del liceo scientifico "Isacco Newton". «I miei genitori dicono che sono pazzo. Che finirò male. Ma io a scuola non ce la facevo più. Non mi interessa. Non mi servirà a trovare lavoro. Mio zio ha un´officina, magari mi aiuta. Però i miei compagni li vedo: li aspetto ogni giorno alle 13,30 all´uscita e ci andiamo a prendere una birra».
Storie normali. Di ragazzi normali. Per i quali però, spiega Milena Santerini, docente di Pedagogia Generale all´università Cattolica di Milano, «la scuola ha perso completamente di significato, la spiegazione non si trova soltanto nei dati economici, nella mancanza di cultura delle famiglie d´origine, è che i giovani non capiscono più il senso di passare tanto tempo tra i banchi, tra professori che utilizzano un linguaggio anni luce lontano dal loro, in una società che anno dopo anno svaluta sempre di più il ruolo della cultura». E una fascia di giovanissimi, forse la più fragile, ormai cresciuta nella rassegnazione al precariato, aggiunge Milena Santerini, «alla prima difficoltà lascia, pensando magari di potercela fare con altri mezzi, in una visione irrealistica di sé e del mondo che li circonda».
Certo, non ci sono soltanto i potenziali Neet tra coloro che abbandonano la scuola. Perché la dispersione scolastica, il fenomeno è noto, è alta e costante anche nelle regioni ricche, dove il lavoro, seppure più scarso, c´è ancora. E allora i teenager del Nord Est mollano e vanno a bottega, racconta lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, che ne ha seguiti diversi nelle industrie del bresciano e del vicentino. «Questi ragazzi non capivano proprio perché continuare a perdere tempo all´istituto tecnico, quando potevano entrare nell´aziendina di famiglia e farsi le ossa, avendo anche un po´ di soldi in tasca. Non ho visto alcuna nostalgia della scuola in loro, ma anzi l´orgoglio di chi ha abbandonato un luogo da ragazzi, con i compiti, i prof, per entrare prestissimo nel mondo adulto... Ma questi sono i "fuggitivi" più fortunati. Chi lascia la scuola e non ha il paracadute del lavoro rischia grosso, rischia la deriva, il branco, rischia di deprimersi e chiudersi in se stesso».
E allora le famiglie corrono ai ripari. «I miei dicono che potrei fare due anni in uno privatamente, mi aiuteranno...». «Siamo l´unico paese in Europa che in tempo di crisi ha tagliato sulla scuola - dice sconfortato un pedagogista famoso, Benedetto Vertecchi - e poi ci meravigliamo se gli studenti se ne vanno. Apriamo le aule il pomeriggio, facciamoli suonare, fare teatro, laboratori, rendiamo la scuola un contenitore di vita e non soltanto di nozioni. I ragazzi non fuggiranno più. Ci hanno provato in Finlandia e il tasso di dispersione è drasticamente crollato. Perché non possiamo provarci noi?».

Repubblica 24.5.11
Alcolismo
Ragazzine dal bicchiere troppo facile
Prima causa di morte per under 24, cresce l´abuso tra le teenager. Ma l´accesso ai servizi per farmaci e psicoterapie resta scarso
Ora è disponibile in farmacia anche un medicinale in fascia A (ovvero gratis)
di Emilio Radice


«L´abuso di alcol è un grande problema, eppure nessuno dice nulla sul fatto che ogni giorno anche i giovanissimi vengono raggiunti da almeno dieci minuti di pubblicità che ne incentiva il consumo». Ad affermarlo non è uno qualunque ma il professor Mauro Ceccanti, docente di metodologia clinica e di semeiotica medica presso l´Università La Sapienza di Roma, nonché responsabile del Centro di riferimento alcologico della Regione Lazio. Poi il professor Alfio Lucchini, psichiatra, presidente nazionale della Federserd (l´associazione che rappresenta gli operatori dei Sert) aggiunge le cifre: «In Italia muoiono ogni anno circa 30.000 persone a causa dell´alcol, e l´alcol è la prima causa di decesso fra i giovani sotto i 24 anni. Secondo le stime dell´Istituto superiore di Sanità sono a rischio di abuso alcolico il 18,5% dei ragazzi e il 15,5 delle ragazze sotto i 16 anni di età. E, attenzione, la diffusione dell´alcol nella popolazione femminile non solo è in aumento ma avviene prevalentemente nell´età adolescenziale».
Sono dati e cifre che allarmano, diffuse in occasione di un recente incontro organizzato dalla casa farmaceutica Merck Serono per ufficializzare l´ingresso in fascia A di un prodotto, l´Acamprosato, da utilizzare nel contrasto alla alcol-dipendenza. Dunque, anche per l´alcol al pari di altre sostanze che creano dipendenza, si conferma la linea di considerare l´abuso cronicizzato non più come una devianza comportamentale ma, piuttosto, come una vera e propria malattia, da curarsi con tutti i mezzi a disposizione, farmaci compresi. Perché - come ha spiegato il professor Ceccanti - ogni uso, e a maggior ragione ogni abuso, esce alla fine dalla sfera dei comportamenti volontari, entra in profondità nella fisiologia del nostro corpo, ne modifica a volte in modo irreversibile gli equilibri e arriva persino a incidere sulla struttura genetica. Un esempio banale? Circa il 50% delle popolazioni orientali non può bere alcol perché sprovvista degli enzimi che metabolizzano l´acetaldeide. Insomma, come il precetto islamico di rifiuto dell´alcol ha prodotto tale incompatibilità genetica, così pure, al contrario, un consumo alcolico abituale produce l´effetto contrario. Insomma il dna - ha aggiunto il docente - non può essere considerato come una fotografia fissa e inalterabile dell´individuo». E l´abuso crea disastri, da combattere sia con psicoterapie che con medicine.
Ne dovrebbe derivare anche un approccio culturale, e politico, diverso verso tutto il tema tossicodipendenze. Ma, purtroppo, oltre la sfera specialistica e medica più informata - come ha spiegato Lucchini - il caos determinato dall´intreccio di competenze è incredibile: sopra e prima dei malati e dei medici ci sono, ognuno con i suoi delegati ad hoc, la Presidenza del Consiglio, il ministero della Salute, quello dell´Interno, quello dei Trasporti, le Regioni, i Comuni�risultato: «In Italia almeno un milione di persone ha bisogno di essere curata subito, adesso, e invece presso i nostri servizi alcologici - spiega il professor Lucchini - sono in trattamento non più di centomila pazienti, di cui solo 23mila anche con medicine». Cosa bisognerebbe fare nell´immediato per organizzare una risposta più efficace? «Bisogna migliorare gli accessi ai servizi».
E qui siamo tirati in ballo un po´ tutti, perché alla porta di un centro di trattamento anti-alcol si arriva per varie strade, fra cui la prima è la famiglia, poi i medici di base, poi la scuola� Ma occorre sensibilità e informazione, perché il pericolo è diffuso e dissimulato fra di noi. Si calcola che in Europa fra i 5 e i 9 milioni di bambini vivono in famiglie con problemi di alcol. Ma, dato ancor più preoccupante, sta aumentando in modo impressionante l´abuso di alcol fra i giovanissimi, associato ad altre droghe (soprattutto cocaina e amfetamine) e alla dipendenza da comportamenti compulsivi. «L´alcol - conclude Lucchini - ha un effetto fasico, eccitativo/sedativo, e come modulatore dei comportamenti ben si sposa con problematiche tipiche dei nostri tempi, come la dipendenza da Internet, lo shopping compulsivo, il gioco d´azzardo».

La Stampa 24.5.11
Milano
In un anno 6000 aziende fondate da musulmani
Crescita vertiginosa, doppia rispetto a quella assicurata dagli italiani
di Fabio Poletti


Silvio Berlusconi ha ragione ma sbaglia mira. Non è Giuliano Pisapia a volere una moschea in ogni quartiere di Milano. E’ il cardinale Dionigi Tettamanzi: lo ha detto il 6 dicembre del 2008 in occasione del discorso alla città per Sant’Ambrogio: «C’è bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della città, specie per le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam». Lo ha detto nel 2008 e lo ripete da allora, una convinzione che si è fatta ancora più forte dopo quella estemporanea preghiera in faccia al Duomo di un centinaio di musulmani, il 4 gennaio di due anni fa. Perché a Milano dove Umberto Bossi teme possa venire costruita la «più grande moschea di Europa», per ora di moschee non ce n’è nemmeno una. I tre centri islamici più attivi - via Porpora, viale Jenner, via Quaranta - non sono luoghi di preghiera. I musulmani dopo essersi inginocchiati all’Arena, al Palasharp, in qualche sottoscala, nella vicina moschea di Segrate sul confine tra Milano e la Milano 2 di Silvio Berlusconi, aspettano ancora di sapere dove possano riunirsi in santa pace per celebrare le loro funzioni.
Nel programma di Giuliano Pisapia si parla della necessità di costruire «un grande centro di cultura islamica che comprenda, oltre alla moschea, spazi di incontro e di aggregazione». Un po’ più generico di quanto già deciso dalla Giunta di Letizia Moratti nel Piano di governo del territorio approvato di fresco. Che possa piacere o meno, la necessità di un centro religioso islamico sembra evidente. Non fosse altro che a Milano e provincia ci sono 371 mila 670 extracomunitari censiti nel 2008 e oltre 40 mila clandestini. Quelli che spaventano di più non devono però essere i fedeli dell’Islam. Ma quei 19 mila e 425 extracomunitari denunciati e 6 mila e 25 arrestati nel 2006 - l’annus horribilis della criminalità a Milano - per rapine, furti in casa e stupri. Praticamente i due terzi dei responsabili di reati in città. Anche se allora questi numeri non sembravano preoccupare troppo il Prefetto Gian Valerio Lombardi: «Stiamo come in Europa, se non meglio».
Perché se gli extracomunitari che delinquono sono tanti, quelli che fanno girare l’economia anche in tempi di crisi sono molti di più. A Milano le imprese crescono al ritmo dell’1,8% all’anno. Quelle gestite da extracomunitari crescono del 3,2%, quasi del doppio. E tra le 17 mila aziende gestite da stranieri gli egiziani, presumibilmente musulmani, sono i più attivi con 4344 imprese, seguiti dai cinesi con 2675 e dai marocchini anche loro fedeli di Allah con 1438. Dal 2000 a oggi le aziende di ristorazione etnica sono cresciute del 72% in tutta Italia, del 147% in Lombardia, secondo la Camera di Commercio a Milano. Tanto che in città il 20% dei ristoranti sono gestiti da stranieri, come il 43% delle gastronomie, il 34% dei punti vendita ambulanti, il 15,5% delle macellerie, il 10% dei bar. Il loro lavoro a livello nazionale - secondo Banca d’Italia - vale 35 miliardi di euro l’anno, il 3,2% del Pil.
Ma se gli extracomunitari producono tanto, non è detto che siano i primi a beneficiare del loro lavoro. Secondo l’Istat il 42,3% degli immigrati svolge una mansione inferiore al loro grado di istruzione, guadagna il 24% in meno degli italiani che diventa il 30% se si calcolano le sole migranti donne. In compenso secondo l’Istat dal 2009 a oggi l’occupazione degli stranieri è aumentata di 183 mila unità ma «in più della metà dei casi in professioni non qualificate». Non solo il loro lavoro fa girare l’economia ma rimpingua le casse dell’Inps garantendo la pensione agli italiani. Gli extracomunitari in pensione erano in tutta Italia 96 mila nel 2007, destinati a diventare 252 mila nel 2015. Ma secondo la Caritas gli iscritti obbligatoriamente all’Inps erano 1 milione e 400. Segno che molti di loro dopo aver versato i contributi non percepiranno la pensione, perché faranno ritorno nel loro Paese. L’Inps ringrazia di certo. I pensionati italiani pure. Non si hanno invece conferme se, come sostiene l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio, «i fondamentalismi islamici, in primis Al Qaeda e lo stesso Al Zawahiri sarebbero felicissimi se Pisapia diventasse sindaco. E’ come se sul Duomo sventolasse la bandiera islamica».

Corriere della Sera 24.5.11
«In seminario accadevano cose terribili»
di Erika Dellacasa

qui
http://www.scribd.com/doc/56128346

il Fatto 24.5.11
“Un’infame emergenza non ancora superata”
Pedofilia, la Chiesa studia come collaborare con la giustizia civile. Nuova accusa per don Seppia
di Giovanna Gueci


“Linee guida” contro la pedofilia dei preti. È questo – spiega il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, in apertura della 63° Assemblea Generale dell’Episcopato Italiano – l’obiettivo a cui anche il nostro Paese lavorerà per far fronte a quella che lo stesso Bagnasco non esita a definire “l’infame emergenza che la Chiesa italiana è impegnata a fronteggiare e che non è stata ancora superata”. E per l’Italia, è ancora Bagnasco a rivelarlo, proprio su questo fronte è al lavoro da più di un anno su mandato della Presidenza Cei, un gruppo interdisciplinare di esperti. “L’esito dei lavori – promette il presidente della Conferenza Episcopale Italiana – sarà presto portato all’esame dei nostri organismi statutari”.
Un lavoro sul quale è stato mantenuto il riserbo e che dovrà aiutare i singoli vescovi - responsabili a trattare i delitti di abuso sui minori - nella salvaguardia delle vittime e delle loro famiglie, ma che servirà soprattutto a chiarire una volta per tutte la collaborazione con gli inquirenti, resi quasi sempre impotenti dalla procedura tutt’ora in vigore: quella che prevede, a fronte di un episodio di pedofilia, la richiesta di indagine canonica da parte del vescovo direttamente all’ex Sant’Uffizio, senza una comunicazione alla Cei.
L’esigenza sembra essere quella di allinearsi alle Conferenze episcopali nel mondo, ma soprattutto di poter costituire una “banca dati”, attraverso la raccolta di informazioni a livello nazionale, la denuncia di eventuali connivenze religiose e la collaborazione con la giustizia civile.
OGNI PAESE, comunque, non solo l’Italia, dovrà, attraverso le rispettive Conferenze Episcopali, rendere compatibili con la propria legislazione nazionale le Norme emanate il 21 maggio 2010 per aggiornare il “motu proprio” di Benedetto XVI “Sacramentorum sanctitatis tutela” del 30 aprile 2001, fino a raggiungere, entro il maggio 2012 (così chiede la circolare della Congregazione della dottrina per la fede della scorsa settimana) un orientamento comune all’interno di ogni Conferenza Episcopale nazionale.
L’intervento del cardinal Bagnasco (un “fuori programma” rispetto all’ordine del giorno dei lavori della Cei, riunita fino a venerdì) segna una forte inversione di tendenza proprio in ambito episcopale, perché, anche in assenza di un monitoraggio del fenomeno, non lascia spazio a numeri e statistiche: “Anche un solo caso sarebbe troppo – afferma Bagnasco –. Quando poi i casi si ripetono, lo strazio è indicibile e l’umiliazione totale. I danni a giovani vite e alle loro famiglie sono incalcolabili e a loro non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”.
Parole accorate, inequivocabili, che arrivano insieme alla decisione della Procura di Genova di contestare a don Riccardo Seppia (il parroco di Genova arrestato con le accuse di violenza sessuale su minori e cessione di stupefacenti) il reato di induzione alla prostituzione. La nuova contestazione è nata dopo le dichiarazioni di un ragazzino egiziano, che ha detto agli inquirenti di aver partecipato a un’orgia con il parroco e con un altro minorenne albanese e di aver ricevuto per questo rapporto del denaro. Il sacerdote nega l’accusa, che lo vede coinvolto insieme al suo amico ed ex seminarista Emanuele Alfano, 24 anni, accusato a sua volta di favoreggiamento e induzione alla prostituzione.
   IL PRESIDENTE dei vescovi italiani, che anche in veste di arcivescovo di Genova, era andato a presentare personalmente la sua solidarietà alle vittime e a tutta la comunità parrocchiale di don Seppia la sera stessa dell’arresto, ha ribadito “il grido amaro che già è risuonato nel-l’assemblea dello scorso anno: sull’integrità dei nostri sacerdoti non possiamo transigere, costi quel che costi”. Anche se, ha voluto concludere, questi crimini che pure sono commessi da uomini di Chiesa, non sono connotativi della Chiesa, come qualcuno vorrebbe sostenere. “Le ombre, anche le più gravi e dolorose, non possono oscurare il bene che c’è”. Tempestivamente la Curia Generalizia dei salesiani si è affrettata a condannare le dichiarazioni del vice provinciale della Congregazione per l'Olanda, padre Herman Spronck, che ha sostanzialmente difeso in un’intervista un suo confratello, il quale ritiene accettabile la pedofilia e ha militato in un movimento a suo favore.

La fuga di Antonione
di Alessandra Longo


Tanto giù di umore che volentieri farebbe a meno degli ultimi appuntamenti elettorali prima del voto. Così descrivono Roberto Antonione, candidato sindaco per il centrodestra a Trieste, e beniamino del premier. Difficile reggere il secondo tempo della competizione quando il primo round è finito 27 a 40 a favore di Roberto Cosolini, il candidato del centrosinistra. Antonione non è riuscito a fare nessun apparentamento e si è parecchio irritato. Davvero surreali le foto diffuse da «Il Piccolo». L´ex sottosegretario di due governi del Cavaliere viene sorpreso nel cuore della città vecchia dopo l´infruttuoso incontro con il leader di una lista locale che detiene l´undici per cento dei voti, (e poteva forse rimetterlo in gioco). Vede le telecamere e scappa. Un´autentica corsa a gambe levate, come un rapinatore dopo un colpo.

il Fatto 24.5.11
I Radicali denunciano in Procura l’invasione in tv del Cavaliere


Ieri mattina Emma Bonino e Marco Cappato hanno depositato una denuncia alle Procure della Repubblica di Roma e di Milano “contro Berlusconi e i direttori dei Tg che venerdì 20 maggio hanno trasmesso le pseudo-interviste registrate del presidente del Pdl”. Nell’esposto i Radicali rilevano come “gli interventi di Berlusconi nei Tg siano, per temi trattati, scenografia con tanto di simbolo elettorale alle spalle e montaggio del registrato, dei veri e propri spot elettorali assolutamente vietati nei notiziari”. Nell’esposto si evidenzia come, “se fosse stato Berlusconi a pretendere dai direttori dei telegiornali, mediante costringimento o induzione determinato dalla sua qualità, la contestuale messa in onda di questi spot, non ci sarebbe nulla di diverso - per la struttura della condotta, le qualità soggettive dei protagonisti e le evidenti utilità di cui ha beneficiato il presidente del Pdl - dalla concussione che i Pm di Milano hanno contestato al premier allorquando contattò telefonicamente il questore per far affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti, in contrasto con le norme di settore. Qualora invece i direttori dei tg fossero stati pienamente consenzienti e compartecipi allora sarebbe abuso d’ufficio”.

Corriere della Sera 24.5.11
La mente umana: siamo tutti animali razionali ma non troppo
di Maria Teresa Cometto


S appiamo che ci farebbe bene seguire una dieta sana, decidiamo di farlo, ma presto torniamo ad abbuffarci di junk food. I nostri risparmi sono stati bruciati dalla Bolla di Internet nel 2000, dalla Bolla immobiliare nel 2008, eppure oggi corriamo ancora a investire a qualsiasi prezzo in una dot. com di moda come Linkedin. E che dire degli uomini di potere che non sanno calcolare costi-benefici del dar sfogo alle loro pulsioni e per dieci minuti di piacere si rovinano la carriera? Le teorie classiche della razionalità non sanno spiegare perché gli uomini spesso si comportano in modo apparentemente contrario ai loro interessi. Ma negli ultimi dieci anni — da una parte per la spinta di eventi come lo scoppio delle bolle speculative in borsa e dall’altra grazie all’evoluzione di nuove discipline come la neuroscienza — è esploso un nuovo filone di ricerca, che parte dal concetto di «razionalità limitata» , introdotto per la prima volta dal Nobel per l’economia Herbert Simon (premiato nel 1978 e scomparso nel 2001). Quali sono gli sviluppi di questi studi nei campi più diversi — psicologia, filosofia, economia — e quale impatto possono avere sul futuro di quest’ultima disciplina, è stato il tema di un seminario all’Istituto italiano di cultura di New York. È stato il debutto pubblico della Herbert Simon Society, il club che raccoglie i principali economisti e studiosi di scienze cognitive del mondo, fondato due anni fa da Riccardo Viale, direttore dell’Istituto oltre che professore di Metodologia delle scienze sociali all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Fondazione Rosselli di Torino. Proprio nel capoluogo piemontese si terrà l’anno prossimo una conferenza internazionale sugli stessi temi; ieri si sono confrontati personaggi del calibro di Daniel Kahneman, secondo psicologo dopo Simon a ricevere il Nobel per l’economia; il pioniere dell’intelligenza artificiale Edward Feigenbaum, professore di Computer science alla Stanford University; l’economista della Luiss Massimo Egidi e il neuroscienziato dell’Università di Parma Giacomo Rizzolatti, famoso per aver scoperto i «neuroni specchio» , base fisiologica per spiegare perché proviamo empatia per i nostri simili, cioè sappiamo metterci nei panni degli altri. «Il concetto di razionalità limitata è spiegato dalla metafora delle forbici di Simon— ha detto Viale — una lama è la natura del nostro modo di ragionare e prendere decisioni con tutti i limiti di tempo e dati disponibili, l’altra lama è la natura dell’ambiente in cui prendiamo le decisioni. A volte la prima lama si combina bene con la seconda e le forbici della razionalità funzionano, altre volte non succede. Dipende dalla nostra capacità di adattarci all’ambiente» . Molti gli interrogativi aperti, con conseguenze anche sul piano politico. L’economia comportamentale, per esempio, cerca di misurare in modo diverso dal Pil, il prodotto interno lordo, il benessere degli individui e della società e di proporre strategie per aumentarlo con l’aiuto della psicologia. «Ma qual è il criterio oggettivo per questa misurazione?— si è chiesto Kahneman. Non lo sappiamo ancora. Dai miei esperimenti emerge che è molto diverso partire dall’osservazione di come la gente vive, minuto per minuto, piuttosto che da come la gente pensa di vivere o si ricorda delle esperienze fatte» .

Corriere della Sera 24.5.11
Dialoghi a Pistoia sulla natura umana
L’illusione di manipolare il corpo
Lo sforzo ridicolo di cancellare i segni del tempo. Trascurando lo spirito
di Marc Augé


Anticipiamo una sintesi del testo della conferenza sul tema «Quando il corpo parla» , che l’antropologo Marc Augé terrà sabato 28 maggio a Pistoia, in piazza del Duomo (ore 21), nell’ambito della manifestazione «Dialoghi sull’uomo» , che è in programma nella città toscana da venerdì 27 a domenica 29 maggio. Questa seconda edizione dell’evento, ideato e diretto da Giulia Cogoli, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia, è intitolata «Il corpo che siamo» . Partecipano tra gli altri: Umberto Galimberti, Marco Aime, Carlo Petrini, David Le Breton, Roberta De Monticelli, Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Stefanie Knauss.

In Togo, ho assistito a numerose sedute di «possessione» e ho creduto di potervi scorgere un rapporto particolare con il tempo. Quando infatti i pensionanti di un convento cominciano a danzare seguendo il ritmo imposto dai colpi dei tamburi, non si sa su quale cadrà una divinità, un vodun, per «cavalcarlo» e sconfiggerlo. Nella regione di Anfouin, nei conventi c’erano soltanto ospiti donne, ma era un fenomeno recente e altrove si trovavano ancora pensionanti maschi. Uomini o donne che fossero, erano tutti vodunsi, cioè «donne del vodun» . La metafora sessuale era esplicita, così come quella della cavalcatura e del cavaliere. La donna era posseduta e poteva entrare in uno stato di trance più o meno pronunciato: ma quando ne usciva e ritornava in sé, almeno ufficialmente aveva dimenticato tutto di quell’episodio. Questa necessità dell’oblio è attestata dovunque: è uno dei criteri determinanti dei fenomeni di possessione, che li distingue radicalmente dal sogno di cui, al contrario, è auspicabile conservare nella memoria anche i minimi particolari. Tuttavia era possibile anche un’altra lettura della possessione che corregge la metafora del cavaliere e della sua cavalcatura: in essa scorge soltanto un’immagine, perché in realtà il vodun si trova nel rene del posseduto e nel momento della possessione gli sale nella testa. Ora, se si accosta quest’osservazione a tutte le indicazioni che presentano gli dèi, i vodun, come uomini antichi, antenati, non si può che essere sensibili alla nostalgia che li induce a riprendere possesso di un corpo da cui forse non sono mai stati del tutto assenti. Ma il vodun non è una persona semplice, spesso assomma in sé molteplici identità ed entrambi i generi. Inoltre bisogna fare molta attenzione al fatto che non è mai la totalità della persona che ritorna nel corpo di un vivente. È soltanto una parte, certamente essenziale, ma che ha appunto bisogno di un corpo e di pochi altri elementi per rifare una persona completa. La possessione ideale, insomma, è quella in cui si è posseduti solo da se stessi, e non spossessati da se stessi, ma alla riconquista del proprio passato più lontano. Se l’oblio s’impone dopo la possessione, allora, non è perché non ci si può ricordare lla presenza di un altro in sé, ma al contrario perché non bisogna credersi un dio troppo a lungo, cioè non bisogna tollerare in sé la presenza di un morto. Di tanto in tanto si ascoltano dotte discussioni sugli effetti e sul ruolo della possessione. In Brasile, nei culti consacrati ai caboclo dai fedeli dell’umbanda, questi erano abbastanza evidenti: la celebrazione settimanale dava un orizzonte festivo alla routine quotidiana. Tutte le donne, di modestissima estrazione, che nella vita quotidiana si vestivano in maniera più o meno funzionale, in occasione delle sedute si trasformavano in reginette di bellezza: l’abbigliamento da possessione era particolarmente elegante, il trucco curato. E quando i corpi si accasciavano, oppure si dibattevano, quando le donne che non erano ancora entrate nel gioco della possessione venivano in aiuto alla loro compagna, il carattere sensuale dello spettacolo era avvertibile da tutti Appena sopraggiungeva il momento dell’arrivo del caboclo, nell’istante stesso in cui s’impadroniva del corpo della sua «cavalcatura» , esplodeva un applauso generale. La performance proseguiva, e dal quel momento in poi era attribuita al caboclo, che poteva discorrere e danzare fino a quando i canti si spegnevano, i corpi si placavano, la rappresentazione si concludeva, e si passava ai pasticcini. Ma i caboclo non andavano via subito: restavano ancora un po’ per partecipare alla festa e al banchetto. Una sera, ho chiacchierato con una donna della quale sapevo che sua figlia, scolara mediocre, le dava qualche preoccupazione. Ma in realtà quello che conversava con me era il suo caboclo, non ancora andato via. Abbiamo bevuto qualcosa insieme ed egli mi ha confidato, ricorrendo alla solita metafora: «Il mio cavallo è molto seccato; ha dei problemi con sua figlia…» , prima di scendere nei particolari. Una o due volte, la mia interlocutrice è stata sul punto di sbagliarsi e dire «io» anziché «lei» , ma si è ripresa, e di lì a poco è arrivata la fase finale, quella in cui la posseduta torna in se stessa, e deve per forza dire di aver dimenticato tutto. A quel punto abbiamo potuto passare a parlare della figlia che andava male a scuola, come se non avessimo ancora affrontato l’argomento. Tutte le esperienze di possessione hanno alcuni tratti comuni. Postulano una continuità fra via e morte, dèi e antenati, identità e alterità, che corrisponde a un mondo dell’immanenza in cui il corpo umano, superficie su cui si iscrivono segni decifrabili dagli specialisti, è portatore di messaggi che occorre saper decifrare per sopravvivere come individui o come collettività. La malattia e la morte stessa sono dei segni. La possessione è un segno provocato. Il sogno è una ricerca di segni. La nascita stessa è portatrice di segni che peseranno sul destino dell’individuo. Nel mondo dell’immanenza si passa il tempo a decifrare l’ineluttabile. In un certo senso si potrebbe pensare che l’interpretazione dei segni affretti l’avvento del destino, proprio come al contrario i rituali detti di inversione possono scongiurare le grandi catastrofi. Ma d’altra parte si vede bene che ciò che è scritto è scritto, o, più precisamente, che tutto ciò che accade era scritto; se la lettura retrospettiva è nondimeno importante, è perché dimostra che l’avvenimento non è stato pura contingenza, che tutto resta nell’ordine. Questo incessante richiamo all’ordine delle cose può eventualmente risultare tragico per i singoli, ma al tempo stesso relativizza la portata delle vicende individuali e suggerisce che tutto può sempre ricominciare e che nulla, neanche la morte, è mai definitivo. Si potrebbe dire che oggi, nelle aree più privilegiate del pianeta globale, ci sforziamo di far produrre al corpo umano i segni che idealmente gli assicurerebbero l’eterna giovinezza, o più modestamente l’eccezionale longevità che da lontano può sembrarne l’equivalente. Agiamo quindi all’indietro rispetto alla logica degli africani: per mezzo di diete e di interventi d’ogni genere, creiamo noi stessi i segni per non doverli interpretare. Questo sforzo un po’ ridicolo si ricollega alla grande intuizione che si trova al cuore di tutti i miti, in tutte le pratiche rituali: noi non siamo altro che il nostro corpo. Ma di questa intuizione ignora la conseguenza più saggia, e cioè: accettiamo il nostro corpo così com’è, accettiamo il passare del tempo. E non dimentichiamo il detto scientifico che riecheggia l’intuizione pagana: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. (Traduzione di Marina Astrologo)

Corriere della Sera 24.5.11
Se antisemitismo fa rima con islamofobia
di Luigi Manconi e Tobia Zevi


La provvisoria vittoria dell’America di Obama su Al Qaeda, celebrata nell’immenso cantiere di Ground Zero, non può cancellare i molti detriti di quella tragedia tuttora presenti nelle società occidentali. Anche sotto la forma antica dell’ansia da complotto e del sospetto verso i possibili autori. A partire dalla fobia antisemita: gli ebrei si sarebbero tenuti lontani dalle Torri Gemelle in quel fatidico undici settembre, perché informati dell’attacco, se non coinvolti in esso. Da quel giorno, poi, l’islamofobia si è nutrita della minaccia del terrorismo, della confusione tra straniero e musulmano, della presunta inadattabilità (meglio: inconciliabilità) dell’Islam rispetto ai costumi occidentali. Quella data fornisce dunque una suggestione importante: anti-semitismo e anti-islamismo, diversi per storia e contenuto, hanno molti punti di contatto. Un sentimento che ha attraversato tragicamente la storia europea e un’ostilità che negli ultimi anni ha preso quota con particolare veemenza e capacità di diffusione. Secondo una ricerca recente, commissionata dal comitato torinese «Passatopresente» (discussa lunedì 16 maggio alla Camera dei deputati, tra gli altri da Gianfranco Fini e Adriano Prosperi), la sovrapposizione tra i due fenomeni all’interno della società italiana risulta tanto intensa da apparire sorprendente. Sono le stesse persone a provare avversione, più o meno accentuata, verso ebrei e musulmani, una maggioranza di intervistati che si riconosce in alcuni connotati specifici (etnocentrismo, autoritarismo, sfiducia). L’islamofobia sembra oggi più capillare e radicata dell’antisemitismo, sempre più concentrato su Israele e sul conflitto israelo-palestinese che non sugli stereotipi classici dell’antigiudaismo europeo e cristiano. Le due pulsioni sono trasversali agli orientamenti politici: anche a sinistra è fortissima la diffidenza nei confronti dei musulmani, mentre a destra non manca una fetta consistente che si dichiara favorevole allo Stato d’Israele, ma che rivela tracce preoccupanti di antisemitismo. Si evidenziano, inoltre, alcuni meccanismi comuni. Sia l’Islam sia l’ebraismo godono di una simpatia maggiore rispetto ai singoli membri delle due comunità, il che contraddice l’ipotesi ottimista per la quale il pregiudizio va sradicato moltiplicando le occasioni di incontro. Non sempre è così. Peraltro, la parte più consistente del campione intervistato è persino favorevole alla costruzione delle moschee, bersaglio di molta agitazione xenofoba. La maggioranza degli italiani ritiene che le due tradizioni siano state importanti nella costruzione dell’identità europea, ma crede che i due gruppi siano tendenzialmente chiusi (pertanto disponibili al complotto) e conservatori, poco affidabili sul piano della lealtà nazionale, sfruttatori della loro condizione di vittime, e ne teme la dimensione non stanziale. Tutto ciò induce a una breve considerazione politica. La destra, che tende a blandire l’ostilità nei confronti di stranieri e musulmani, si trova oggi a dover «sorvegliare» un sentimento talmente diffuso da rivelarsi non più solamente incivile, ma addirittura pericoloso, nel momento in cui l’afflusso straordinario di persone dal Nord Africa deve essere comunque gestito. Ma anche la sinistra deve fare i conti con quel fenomeno: sebbene l’insieme degli elettori la consideri meno affidabile nell’affrontare il tema dell’immigrazione, la maggioranza di chi sceglie quella parte politica coltiva un pregiudizio radicato nei confronti dei musulmani (e, per altro verso, di Israele). Un bel grattacapo per tutti.
Luigi Manconi: A Buon Diritto onlus
Tobia Zevi: Associazione di cultura ebraica Hans Jonas