venerdì 22 aprile 2011

l’Unità 22.4.11
Massimo Rendina
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA
ORA DOBBIAMO REINVENTARE LA RESISTENZA
È urgente creare il fronte della rigenerazione democratica con tutti i partiti, gruppi civili e cittadini del paese. Rinnovare l'impegno democratico.


Repubblica 22.4.11
Nel Paese di Ponzio Pilato
di Ezio Mauro


Siamo così arrivati al dunque: la Costituzione nella sua essenza, nei suoi princìpi, nel suo fondamento. Quindi la natura della Repubblica, l´equilibrio tra i poteri che si bilanciano a vicenda, il concerto istituzionale che dovrebbe dare forma repubblicana alla democrazia quotidiana del nostro Paese. Questo è il senso – più simbolico che concreto, per ora, e tuttavia oltremodo significativo – dell´ultima iniziativa della destra berlusconiana: riscrivere l´articolo 1 della Carta Costituzionale, per sovraordinare gerarchicamente il Parlamento agli altri poteri dello Stato.
Come al solito, e come avviene normalmente per ogni legge ad personam, si parte con un test, perfettamente coerente con i propositi del leader, ma tecnicamente irresponsabile. In questo caso è una proposta firmata da un deputato del Pdl che si muove «a titolo personale», senza impegnare direttamente il partito, in modo che il vertice possa saggiare le reazioni e decidere poi se cavalcare fino in fondo l´iniziativa o attenuarla, o farla cadere. O più semplicemente, come ha fatto ieri Berlusconi, prendere le distanze dal modo e dal momento della proposta, non certo dalla sostanza. Come sempre i deputati ignoti a Roma, o i candidati consiglieri comunali di Milano interpretano non solo e non tanto la volontà del Capo.
Ma interpretano anche il suo sentimento politico più profondo, e portano alla luce le pulsioni nascoste e gli obiettivi reali, insieme con l´urgenza di uno stato di necessità. Il risultato è quello che avevamo prefigurato da tempo. Poiché l´anomalia berlusconiana cresce di giorno in giorno, andando a cozzare contro i capisaldi della Repubblica (il controllo di legalità, l´autonomia della magistratura, il sindacato di costituzionalità, l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), la destra sta proponendo il patto del diavolo al sistema democratico. Costituzionalizza l´anomalia, smetti di considerarla tale, introiettala: ne risulterai sfigurato ma pacificato, perché tutto finalmente troverà una sua nuova, deforme coerenza, e si riordinerà nella disciplina al nuovo potere, riconosciuto infine come supremo.
La questione sostanziale è la separazione dei poteri, il loro reciproco bilanciamento. Quando emblematicamente si vuole porre mano al primo gradino dell´edificio costituzionale, è per cambiare l´equilibrio dell´intero ordinamento. Ecco il senso della «centralità del Parlamento» inserita nell´articolo 1. E l´autore della proposta lo spiega con chiarezza: «Il Parlamento è sovrano, e gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura, consulta e presidenza della Repubblica». Questo perché, secondo il Pdl, oggi il Parlamento «è troppo debole» ed è «tenuto sotto scacco da magistratura e Consulta».
Va così a compimento quel tratto di "populismo reale", o realizzato, che trasforma una legittima cultura politica – la demagogia carismatica – in sistema, in forma di Stato. E prevede, fin dalla Costituzione, che il voto popolare trasfiguri con la sua unzione la maggioranza vincitrice nel dominus non soltanto del governo, ma di tutto l´ordine costituzionale, sovraordinando come logica conseguenza il Capo di quella maggioranza ad ogni altro potere, e liberandolo da ogni controllo. Si supera così il principio costituzionale secondo cui la sovranità non "emana" dal popolo verso i vincitori delle elezioni, ma nel popolo "risiede" anche dopo il voto, perché il popolo continua ad esercitarla, a «contrassegno ineliminabile – come dice il dibattito nella Costituente - del regime democratico».
È la negazione di quel "concerto" che deve guidare i vertici dello Stato nell´esercizio delle loro potestà, per una concezione antagonista e gerarchizzata delle funzioni e delle istituzioni che, se si introduce il principio di primazia e dunque di soggezione, devono subordinarsi e accettare il comando. Ed è anche la trasformazione – metapolitica a questo punto – del presidente del Consiglio in Capo, titolare di comando, supremazia e privilegio sugli altri poteri dello Stato. Con questa mutazione, cambia la natura stessa del sistema. Formalmente, siamo sempre nella democrazia parlamentare, potenziata semmai dal richiamo formale del Parlamento come fondamento dell´intero sistema repubblicano. Di fatto, com´è ben evidente dalla prassi di questi anni che con la riscrittura della Carta diventerebbe meccanismo costituzionale, entreremmo nella fase di un inedito bonapartismo costituzionale: con l´istituzionalizzazione del carisma e con il leader eletto dal popolo che in quanto vincitore e Capo della maggioranza parlamentare si pone al vertice dello Stato libero da ogni bilanciamento. Fino a prevalere sullo stesso Presidente della Repubblica, addirittura per definizione gerarchica.
C´è un´altra questione, che non riguarda solo le istituzioni, ma chiama in causa tutti noi. Come dovrebbe essere ormai evidente, la destra oggi al potere sta saggiando il perimetro del sistema, per vedere se i muri maestri reggono, o se per sfuggire alle difficoltà del suo leader gli sfondamenti sono possibili. Purtroppo, ha verificato negli ultimi due anni che ogni forzatura è praticabile, perché le anomalie in Italia non vengono più chiamate con il loro nome, perché ogni superamento del limite non viene giudicato, anzi viene derubricato a "conflitto", mettendo sullo stesso piano chi deforma e chi difende le regole. Le stesse regole che hanno retto il sistema per decenni, sono ormai considerate in fondo come un´ossessione privata e residua di pochi ostinati, insultati di volta in volta come "bardi", "puritani", "parrucconi", secondo la necessità di difesa del leader. Anzi, è nato il concetto nuovissimo di "regolamentarismo": è il richiamo alle regole, o alla legalità, o al diritto, trasformato in ideologismo, in burocraticismo, noioso e antiquato freno capace solo di impacciare e limitare la spada populista del comando. Una spada che se invece fosse libera e fulgida potrebbe tagliare d´un sol colpo - tra gli applausi generali, e a reti unificate - i nodi intricati della complessità contemporanea, che la politica si attarda ancora a cercare di sciogliere, perché è stata inventata per questo, prima che la riformassero.
Di chi sto parlando? Di chi ha responsabilità istituzionali, prima di tutto, e magari tace per tre giorni davanti ai manifesti ignobili sui giudici brigatisti del Pdl a Milano, e si muove solo dopo che il Capo dello Stato è intervenuto con una netta condanna. È un problema di responsabilità, com´è evidente, e di autonomia. E si capisce a questo proposito come uno degli obiettivi della destra sia stato in quest´ultimo anno quello di de-istituzionalizzare – senza riuscirci – il presidente della Camera, proprio per depotenziare questa assunzione autonoma di responsabilità istituzionale: mentre con il presidente del Senato ovviamente il problema non si pone.
Ma il tema della responsabilità, e della coscienza del limite riguarda anche la cultura, gli intellettuali italiani. Sempre pronti a parlar d´altro, a trasformare tutto in "rissa", senza distinguere chi ha lanciato il sasso e chi ha reagito, anzi invitando sempre tutti a rientrare ugualmente nei ranghi, a darsi una calmata come se fossimo davanti ad una questione di galateo e non di sostanza democratica, o come se la difesa della legalità o delle istituzioni potesse o dovesse essere messa sullo stesso piano degli attacchi. Com´è evidente, non è qui un problema di destra o sinistra. Si può essere di destra, io credo, ma dire no a certe forzature e agli eccessi che danneggiano il Paese e indeboliscono la qualità della democrazia. Il discorso vale anche per i corpi intermedi, per l´intercapedine liberale che un decennio fa il Paese aveva e che oggi non si vede, per quel network che si considera classe dirigente, e che per diventare establishment non solo da rotocalco dovrebbe dimostrare di avere a cuore certo i suoi legittimi interessi, ma talvolta anche l´interesse generale. Vale infine per la Chiesa, che ha scambiato in questi anni con questa destra, sotto gli occhi di tutti, i suoi favori in cambio di legislazioni compiacenti, e che oggi sembra incapace di una libera e autonoma lettura di ciò che sta accadendo in Italia.
Questi silenzi, queste disattenzioni, questa finta neutralità tra la forza e il diritto lasciano non soltanto solo – com´è destino al Colle – ma fortemente esposto agli attacchi, alle polemiche e alle insofferenze il Presidente della Repubblica. Il quale si trova spesso a dover intervenire per primo e in prima persona per segnalare che si è passato un limite, perché nessuno ha sentito il dovere di farlo prima di lui: che è il garante supremo, ma non può essere l´unico ad avvertire una responsabilità che è generale, e ci riguarda tutti.
Si tratta, semplicemente, di aver fiducia davvero nella democrazia. Di credere quindi che le anomalie vadano chiamate per nome, che le forzature debbano essere segnalate come tali a un´opinione pubblica che – se informata – saprà giudicare autonomamente: nulla di più. Sapendo che la destra sta giocando una partita per lei decisiva e che questi eccessi nascono in realtà dal profondo delle sue difficoltà, perché il rafforzamento numerico frutto della compravendita nasconde una debolezza politica ormai evidente. Dunque, la partita è aperta. Dipende da ognuno di noi giocarla (per la parte che ci compete) o accettare di vivere nel Paese di Ponzio Pilato.

l’Unità 22.4.11
Scagnozzi in libertà
Carta, ora tocca all’Art. 94
di Marcella Ciarnelli


Sembra che non debba esserci più giorno senza una proposta di modifica della Costituzione. Le norme che sono andate bene per tanti anni, pur nell’equilibrata consapevolezza che nulla è intoccabile e cambi in meglio fossero possibili, specialmente in conclusione di un costruttivo confronto, d’improvviso non funzionano più. Almeno così sembra. Dopo l’uscita clamorosa del deputato Remigio Ceroni, che ieri ha festeggiato il suo compleanno sommerso dall’improvvisa popolarità guadagnata con l’estemporanea idea di voler cambiare la Costituzione già dal suo primo articolo. E dopo Ceroni, peraltro sconfessato anche dai suoi, è arrivato il tempo di Luciano Sardelli, presidente dei Responsabili che ha messo giù qualche idea per cambiare l’articolo 94 della Carta, quello che detta le regole per la fiducia al governo, all’atto della formazione e nel suo percorso che, se accidentato, com’è noto può anche portare ad una conclusione anticipata dell’esperienza. E’ tempo, dunque, della «sfiducia costruttiva» che costituirebbe un altro tassello per arrivare a riaffermare la centralità del Parlamento, obbiettivo simile a quello del Ceroni, ma anche per assicurare la continuità del governo. Si prevede, allora, che nel caso di una mozione di sfiducia i parlamentari abbiano l’obbligo di proporre già un’alternativa ed anche un leader. Quindi il presidente del Consiglio cessa dalla carica solo se «il Parlamento in seduta comune approva una mozione di sfiducia motivata, contenente l’indicazione del successore, con votazione per appello nominale a maggioranza dei suoi componenti». Il nuovo premier se votato scalza il precedente. E i ministri decadono. Un automatismo in cui sfugge il ruolo del presidente della Repubblica. Al di là della norma, uno studio da affidare agli esperti, resta il fatto che non passa giorno senza che la Costituzione venga messa in discussione. Piccoli costituenti crescono. Cosa non si fa per un po’ di popolarità. E magari una poltroncina.

il Fatto 22.4.11
“Il mio inciucio con D’Alema: vi presento il patto delle riviste”
Flores d’Arcais e il dialogo con il Lìder Maximo
di Paolo Flores d’Arcais


Alla fine del nostro incontro-scontro di martedì scorso, Massimo D’Alema mi ha proposto di realizzare insieme – ItalianiEuropei e MicroMega – una serie di confronti tematici. Non me lo aspettavo. Ma sono stato ben felice di accettare e di ribadirlo qui, avanzando anche modalità e temi. Propongo quattro incontri, ai quali ogni volta partecipino, oltre lui e me, altre due personalità che Italianieuropei e MicroMega, rispettivamente, considerino particolarmente rilevanti per i temi in questione: lavoro, giustizia, informazione e riforma istituzionale, oggi assolutamente obbligati e prioritari.
So già che molti lettori di questa testata storceranno la bocca, e che pioveranno critiche e financo contumelie contro un dialogo che giudicano inutile con i rappresentanti della “Casta di sinistra”. Del resto critiche e financo contumelie non erano mancate sul sito di MicroMega al solo annuncio del dibattito dell’altro giorno all’Alpheus (che ringrazio per l’ospitalità). Ma trovo che il rifiuto aprioristico del confronto sia segno di debolezza e confini spesso con l’autolesionismo. Il giorno prima del dibattito con D’Alema era a Milano per un dialogo con Stéphane Hessel, autore delle poche ma imperdibili pagine di Indignatevi! (in Francia ha venduto finora un milione e novecentomila copie, ma quello è un paese che ha tagliato la testa al re). Un uomo straordinario: dottorando alla Scuola normale superiore, decide di entrare nella Resistenza, è uno dei collaboratori di De Gaulle, durante una missione viene arrestato dalla Gestapo. Torturato, viene deportato a Buchenwald. Il giorno precedente l’impiccagione riesce a scambiare la propria identità con quella di un compagno morto di tifo, poi fuggirà da due diversi lager. Diplomatico della nuova Francia, è uno degli estensori della “Dichiarazione universale dei diritti” del 1948, e sarà uno dei più stretti collaboratori di Mendes-France , la figura più grande della sinistra francese (e a mio parere europea) del dopoguerra.
Quest’uomo fuori del comune, che sta conoscendo a 93 anni un successo editoriale da leggenda, si rammaricava di non riuscire a discutere pubblicamente con i critici del suo libro, intellettuali parigini molto noti che preferivano lanciare accuse pesantissime sui giornali ma poi sottrarsi al confronto. Nei tre giorni precedenti, del resto, avevo partecipato alle “Giornate della laicità” di Reggio Emilia, dove il successo clamoroso di pubblico era stato pari solo alla pesantezza dell’anatema lanciato dalla Curia contro i “laicisti atei fondamentalisti che rifiutano il dialogo”. Peccato che in quanto curatore del festival avessi invitato quindici cardinali quindici, il direttore dell’Osservatore Romano, quello di Avvenire, il responsabile della sala stampa vaticana, l’ex responsabile della medesima, il predicatore del Papa, e insomma “tutto il cucuzzaro”. Il rifiuto del confronto c’è stato, sistematico, ma da una parte sola, quella della Chiesa gerarchica, non degli atei “enragés”.
Ho l’impressione che quanti nell’opposizione civile che si esprime nella piazze e nei movimenti rifiutano il confronto con i dirigenti dei partiti, mostrino la stessa debolezza, la stessa paura, la stessa scarsa considerazione per le proprie idee, degli intellettuali parigini che evitano di incrociare gli argomenti con Hessel e dei cardinali che si rifugiano nel l’anatema per evitare il faccia a faccia con le De Monticelli e gli Odifreddi.
Non c’è un solo lettore di questo quotidiano che non consideri una tragedia la prospettiva che Berlusconi vinca di nuovo le elezioni: cambierebbe la Costituzione (peggio che in Ungheria), conquisterebbe la Corte costituzionale, diventerebbe presidente della Repubblica, e insomma imporrebbe per via legale il fascismo post-moderno a cui da sempre aspira. E non c’è un solo lettore, immagino, che non capisca come eventuali liste di movimenti non potranno mai da sole vincere la prossima consultazione elettorale. Berlusconi sarà sconfitto solo se partiti e liste civiche parteciperanno insieme ad una coalizione, ciascuno con il proprio profilo e la propria identità, dando così motivazione al voto, e rappresentanza, per tutte le variegate sensibilità dei cittadini “repubblicani”. E’ questione di semplice pallottoliere, non sono necessarie neppure le tabelline. Perciò il confronto fra movimenti e partiti si deve fare. Senza infingimenti e diplomatisti, ma lo si deve fare. Con l’attuale legge elettorale (che il narcisocrate di Arcore vuole addirittura peggiorare!) è impensabile avere schieramenti omogenei. Bisogna sapersi unire sull’essenziale e coltivare – non come male minore ma come ricchezza – le differenti sensibilità che circolano tra i cittadini elettori. Lo schieramento del golpismo strisciante ci riesce benissimo: da “Dio patria e famiglia” a “col tricolore mi ci pulisco il culo”, eppure come un sol uomo contro il comunismo (ormai introvabile) e per l’evasione fiscale (più fiorente cha mai).
Possibile che noi “repubblicani” non siamo in grado di fare della realizzazione della Costituzione la bandiera comune? Le concrete scelte di governo dipenderanno poi dai risultati che le diverse anime della coalizione, in leale competizione, avranno conseguito. Ma per poter governare bisogna sconfiggere la macchina da guerra del putiniano di Arcore, e per riuscirci è necessario che nessuna forza “repubblicana” – partito o lista civica – venga discriminata o si autoescluda. Ne va della democrazia stessa.

Corriere della Sera 22.4.11
Renzi, Camusso e il Primo Maggio Battaglia nella (nuova) sinistra
Il sindaco apre i negozi per la festa e cita la legge Bersani. La Cgil si ribella
di Dario Di Vico


Nel Pd finora era stata considerata una questione tutto sommato marginale, ma da qui al Primo Maggio la querelle sull’apertura festiva dei negozi e dei grandi magazzini è destinata a catalizzare l’attenzione e avere più di qualche eco nella campagna elettorale. I protagonisti di quello che si annuncia come un duello rusticano a sinistra sono il giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi e la Cgil di Susanna Camusso. Mentre Renzi è per la libertà dei commercianti di tenere aperto il giorno della festa del Lavoro, il sindacato ha lanciato da tempo una campagna contro il lavoro domenicale e figuriamoci se può transigere sulla sacralità politica del Primo Maggio. Di conseguenza ha indetto, con l’appoggio (tutt’altro che scontato) delle organizzazioni di categoria di Cisl e Uil, uno sciopero del commercio in tutta la Toscana. Per rafforzare la protesta e mettere in difficoltà Renzi, la Cgil ha convocato per il 29 aprile proprio a Firenze l’assemblea nazionale dei lavoratori della grande distribuzione che sarà chiusa dal segretario generale Camusso. E che vedrà sul palco addirittura il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, il quale da tempo ha promesso ai sindacati di promulgare una legge anti-deregulation che in qualche modo vincoli maggiormente i Comuni. E che dunque metta le briglie al primo cittadino di Firenze considerato troppo filocommercianti. Renzi dal canto suo non fa mistero di non amare i sindacati e la concertazione. Durante il suo mandato non ha perso occasione (riorganizzazione asili nido, regole per gli ambulanti, zona a traffico limitato) per ribadire il piglio decisionista e per cancellare i riti della negoziazione preventiva con le categorie, considerati invece inviolabili in una regione rossa. In una recente intervista al Sole 24 Ore, il sindaco ha anche esplicitato la sua visione del sindacato considerato né più né meno come «una casta» . Renzi sostiene che la metà dei sindacalisti «dovrebbe tornare a lavorare» , che la Cgil ha un sistema «di finanziamento e rendicontazione particolare» e che i confederali tanto rappresentativi del lavoro poi non lo sono, visto che per oltre il 50%gli iscritti vengono dai pensionati. Alla decisione di Cgil-Cisl-Uil di indire lo sciopero inizialmente solo per Firenze il sindaco ha replicato che si trattava di un’agitazione «ad personam» e poi maliziosamente ha aggiunto di non aver creato lui le regole per la liberalizzazione delle aperture dei negozi, bensì di averle recepite da una legge che porta il nome dell’attuale segretario del Pd ((l'ex ministro Pier Luigi Bersani). È vero che Renzi ha avanzato alla Cgil una proposta di mediazione, far lavorare il Primo Maggio solo gli interinali e non le commesse assunte a tempo indeterminato, ma i sindacalisti l’hanno letta come un’ulteriore provocazione. «E quando è troppo, è troppo» ha commentato Franco Martini, segretario generale della Filcams Cgil. Incassando subito dopo la solidarietà del «grande vecchio» della cooperazione toscana Turiddu Campaini, che ha fatto sapere che comunque lui non aprirà i supermercati Coop il giorno della festa del lavoro. Con questi presupposti (e anche se a Firenze non si vota) lo scontro tra Cgil e Renzi è destinato a movimentare ancora una volta la scena interna al Pd. Se infatti il sindaco fa, come sembra, del dissidio con la Cgil una sorta di campagna per la rottamazione bis, il sindacato diretto dalla Camusso non ha nessuna intenzione di arretrare. E anzi interpreta il no al lavoro festivo come «una riflessione sui modelli di consumo» , caricandolo dunque di una valenza politico culturale decisamente in contrasto con l’impostazione liberista del sindaco. Da Roma i vertici del Pd cercheranno di confinare la tenzone a livello locale ma è difficile che il segretario Bersani non venga tirato in ballo per difendere l’omonima legge.

Repubblica 22.4.11
I cittadini calpestati
di Stefano Rodotà


Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l´ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare.
Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell´acqua. Le torsioni dell´ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell´emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell´"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull´acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia.
Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell´irrompere continuo della logica ad personam. L´uomo che ogni giorno invoca l´investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini.
Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull´acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell´acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell´abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia.
Caduti i referendum sul nucleare e sull´acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo.
Quest´ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo".
L´aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.
È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull´acqua è bene tornare per un momento sull´emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell´emendamento che prevedono l´abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite «nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell´agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea». E lo farà entro dodici mesi adottando una «Strategia energetica nazionale», per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare «gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum» e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente». Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell´emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l´acqua. Di questo dovrà occuparsi l´ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa.
Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell´opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell´approvazione dell´emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall´obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell´umanità.
Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull´acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l´aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l´opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l´opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l´ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.

Repubblica 22.4.11
Perché bisogna continuare a difendere la libertà della ricerca
Il grottesco paradosso dei "manuali di Stato"
di Carlo Galli


C´è qualcosa di grottesco, ma anche di terribile, nella proposta di legge che alcuni parlamentari di destra hanno firmato, sull´imparzialità dei testi scolastici. Davvero sembra che quella dell´imparzialità dei libri di storia, e dei "professori di sinistra", sia un´ossessione non solo della maggioranza, ma anche del governo: infatti, quello dell´imparzialità è per il ministro dell´Istruzione un problema reale.
Non si può rispondere nel merito agli "esempi di faziosità" che appaiono nella presentazione della proposta. Anzi, si deve rifiutare proprio questo terreno. Per alcuni motivi che alla destra sfuggono, e che vanno ricordati. In primo luogo, la storiografia non è imparziale: tale potrebbe essere solo una cronaca assolutamente puntigliosa, infinita. E, naturalmente, inutile e insensata. La storiografia è invece ricerca mirata, orientata da qualche problema e da qualche valore; è interpretazione. Il che non vuol dire che possa essere delirante, faziosa, folle; anzi, deve essere coerente, logica, revisionabile, falsificabile da nuove prove, da nuove interpretazioni di altri studiosi. In questo rischio di confutazione, in questo dialogo, anche aspro, ma aperto e pubblico, consiste il metodo scientifico, storico-critico, delle scienze umane, che solo chi ne è del tutto all´oscuro può scambiare per partigianeria, da correggere con la goffa pretesa dell´imparzialità.
Che la verità sia dialettica e complessa, sempre da costruire e sempre da modificare, e non una merce da comperare, un oggetto da detenere una volta per tutte, un dogma, sfugge poi alla destra anche riguardo la scuola. L´insegnamento, da quanto si comprende dalla proposta di legge, consiste nell´inculcare nozioni nel cervello dei giovani, come oggetti esterni che entrano a forza in un contenitore passivo. Ovvio, quindi, che il consumatore debba avere qualche garanzia sulla qualità della merce che si porta in casa, che pretenda di sapere se sia avariata, adulterata, dannosa. Che il rapporto educativo sia l´esatto opposto, è un dubbio che non sfiora neppure gli estensori della proposta di legge, i quali ignorano che la parte principale dell´insegnamento non consiste nell´assegnare lo studio di qualche pagina di manuale, ma nell´autorevolezza personale e scientifica del docente che spiega, commenta e approfondisce un tema, e così opera la formazione dei giovani, sollecitandone lo spirito critico, e fa nascere in loro l´abitudine al giudizio informato – che implica appunto il possesso di un metodo, la conoscenza sistematica di nozioni, e il confronto con una varietà di interpretazioni, distinte chiaramente nelle loro premesse e nelle loro conseguenze. Questo delicatissimo processo, del quale fa parte anche la scelta del manuale – fra una molteplicità di testi differenti, di diverso orientamento e di uguale serietà scientifica –, è un atto di libertà sia del docente sia dei discenti: una libertà didattica e civile che è garantita dalla Costituzione come libertà di insegnamento e come libertà di ricerca.
O forse anche queste parti della Costituzione sono non gradite alla destra, proprio come quelle che affermano che la repubblica democratica è fondata sul lavoro, e che le scuole private possono essere istituite solo senza oneri per lo Stato. Forse, allora, c´è, dopo tutto, qualcosa da imparare da questa proposta di legge: non solo come la destra pensa alla scienza e all´insegnamento, ma anche come pensa alla politica e al suo rapporto con la società. Cioè secondo una modalità assai poco liberale e anzi chiusa, sospettosa, difensiva e aggressiva a un tempo. Una modalità autoritaria o da democrazia protetta; che si manifesta nell´istituzione di una commissione d´inchiesta parlamentare su qualcosa che non c´è, e non ci può essere, come l´imparzialità nel pensare la storia (e poi, per fare che cosa: sanzionare autori ed editori? Licenziare professori? Bruciare libri proibiti?); che si rivela nell´idea che debba esistere una verità "oggettiva" o di Stato (sotto le mentite spoglie della "memoria condivisa") che faccia premio sulla libera ricerca, che ne sia l´unità di misura; e che tradisce lo sconcerto davanti alla complessità della scienza e della storia, a cui si risponde non con il confronto dialettico ma con il comando politico. Di una politica che – a colpi di maggioranza o di populismo isterico – si vorrebbe sostituire alla comunità scientifica degli studiosi e alla comunità educativa dei docenti e degli studenti, all´autonomia della società civile.
Alla colonizzazione politica del sapere, che passa attraverso queste intimidazioni, si deve rispondere solo col liberalismo: scrivano anche gli storici non di sinistra dei buoni manuali (come certo sanno fare), e si sottomettano alla comune concorrenza scientifica e didattica per promuoverli e affermarli. Così la società, la scienza e la scuola si arricchiranno invece di impoverirsi come senz´altro avverrà se la proposta di legge avrà seguito.


l’Unità 22.4.11
«Chi nasce o cresce
in Italia deve essere italiano»

qui
http://www.unita.it/immigrazione/chi-nasce-o-cresce-br-in-italia-deve-essere-italiano-1.285738

«Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo?»
I cristiani «indifferenti, distratti, pieni d’altro» . Quanta gente andrà a messa in questi giorni in Occidente? «I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare»
l’Unità 22.4.11
In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II, il Papa si sofferma sui temi più critici
Oggi in tv risponde alle domande di sette fedeli nella trasmissione «A sua immagine»
Ratzinger: Wojtyla riscatta la Chiesa dalla vergogna dei suoi peccati
Satana mette ancora alla prova la Chiesa ma Dio l’aiuta a resistere
Gli errori vergognosi della Chiesa, l’indifferenza dei credenti e di un’Europa secolarizzata: è la denuncia di Papa Ratzinger durante il «giovedì santo». Il grazie al «beato» Karol Wojtyla. Oggi le risposte tv «A Sua Immagine».
di Roberto Monteforte


«Non siamo forse noi, popolo di Dio diventati in gran parte un popolo dell'incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l'Occidente, i paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo?». Parole amare, preoccupate e severe quelle pronunciate ieri da Papa Benedetto XVI durante la solenne messa del «crisma», della benedizione degli oli santi, celebrato nella basilica di san Pietro con il quale ha aperto il solenne rito del Triduo pasquale che si concluderà domenica. E’ la Chiesa che di fronte alla sfida della secolarizzazione che pare soccombere, provata al suo interno, come segnata da una «sonnolenza di fronte al male» aveva osservato mercoledì, durante l’udienza generale.
IL GRAZIE A WOJTYLA BEATO
Cosa sono i cristiani oggi? Cosa testimoniano con la loro vita? Papa Ratzinger invita a riflettere e a reagire. A chiedere a Dio: «Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fà che ti riconosciamo di nuovo!». Invita a pregare perché i credenti tornino ad essere testimoni credibili di Cristo nel mondo. Ma oggi non è così. Nel momento più intenso e solenne per la cristianità il successore di Pietro invita, infatti, ad un esame di coscienza. Cosa sa dire «alla schiera delle persone sofferenti: gli affamati e gli assetati, le vittime della violenza in tutti i Continenti, i malati con tutti i loro dolori, le loro speranze e disperazioni, i perseguitati e i calpestati, le persone con il cuore affranto»? La Chiesa è chiamata a «guarire», a vivere l’«amore premuroso verso le persone angustiate nel corpo e nell’anima». Ma è così? Papa Ratzinger invita a misurarsi con i limiti, le insufficienze, le vergogne umane presenti anche nella Chiesa. Non è neanche stato necessario richiamare lo scandalo dei preti pedofili. Ringrazia e prega per chi nella Chiesa ha dedicato la sua vita a «portare un amore risanatore agli uomini, senza badare alla loro posizione o confessione religiosa». Cita figure di santi e testimoni come Maria Teresa di Calcutta. Non tutto è nero. Invita alla speranza, malgrado gli errori e le vergogne commesse anche dagli uomini di Chiesa e alla fine arriva il richiamo diretto e grato al suo predecessore. «Quando il prossimo primo maggio verrà beatificato Papa Giovanni
Paolo II, ha aggiunto penseremo pieni di gratitudine a lui quale grande testimone di Dio e di Gesù Cristo nel nostro tempo, quale uomo colmato di Spirito Santo».
In serata il vescovo di Roma, nella basilica di san Giovanni in Laterano, ha celebrato «la messa in coena domini» e il rito della lavanda dei piedi. L’offerta della celebrazione è stata devoluta alla popolazione giapponese così duramente colpita dal terremoto e dallo tsunami. Un atto concreto di solidarietà e vicinanza verso una comunità colpita
dal mistero del male e della sofferenza, delle catastrofi e del dolore innocente.
Perché tutto questo? È una delle sette domande cui risponderà oggi pomeriggio, in collegamento con la trasmissione di Raiuno «A Sua Immagine». Due sono state anticipate dai media cattolici. Quella di Elena, una bambina giapponese di sette anni, che chiede ragione della paura e della tristezza che lei e tanti bambini come lei sono stati costretti a provare. Poi vi è una madre con un figlio ventenne da anni in stato vegetativo che gli domanda: «L’anima è con lui ?».
A tutto ciò non abbiamo risposte, riconosce Benedetto XVI. « ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte».

Corriere della Sera 22.4.11
«L’anima c’è in un corpo in coma È una chitarra dalle corde spezzate»
di  G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — Davanti alla telecamera la signora Maria Teresa, di Busto Arsizio, appare accanto al figlio Francesco Grillo, 40, malato di sclerosi multipla dal ’ 93 e in stato vegetativo «dal giorno di Pasqua» di due anni fa. Mostra la croce e chiede: «Santità, l’anima di questo mio figlio ha abbandonato il suo corpo, visto che lui non è più cosciente, o è ancora vicino a lui?» . Dal Palazzo Apostolico Benedetto XVI risponde: «Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate e non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente...» . E c’è di più. Dalle 14.10 di oggi, nella trasmissione A sua immagine, condotta su Raiuno da Rosario Carello, il Papa risponderà per la prima volta nella storia alle domande dei fedeli in tv. Sette quesiti scelti fra tremila richieste. Benedetto XVI ha registrato le risposte la settimana scorsa. A cominciare da quella sull’anima dell’uomo in coma: «Io sono anche sicuro che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole, eccetera; ma la presenza di un amore la sente» , aggiunge il Papa. «E perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore e ore ogni giorno, è un atto di amore di grande valore, perché entra nella profondità di quest’anima nascosta. Il vostro atto è, quindi, anche una testimonianza di fede in Dio, di fede nell’uomo, di impegno per la vita, di rispetto per la vita umana, anche nelle situazioni più tristi» . Così conclude: «Vi incoraggio a continuare, a sapere che fate un grande servizio all’umanità con questo segno di fiducia, con questo segno di rispetto della vita, con questo amore per un corpo lacerato, un’anima sofferente» . Il Papa risponde anche a Elena, una bimba giapponese di 7 anni scampata al terremoto che chiede: perché i bambini devono avere tanta tristezza? E il pontefice: «Anche a me vengono le stesse domande. E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte...» . Tra le altre domande, una mamma musulmana che vive in Costa d’Avorio e chiede di «Gesù, uomo e profeta di pace» dal suo Paese in guerra, con il Papa che torna sulla necessità del dialogo fra le religioni. Sette giovani di Bagdad che spiegano al Papa di rischiare ogni giorno la vita per il solo fatto d’essere cristiani. E ancora la figura di Maria ai piedi della Croce e il mistero della Risurrezione.

l’Unità 22.4.11
La beatificazione di Karol e la condanna di Welby
Giovanni Paolo II, come Piergiorgio, scelse liberamente di rifiutare le cure e di affrontare la morte. Il primo verrà dichiarato “beato” il primo maggio, il secondo fu lasciato fuori dalla Chiesa
di Mario Riccio


La libertà di decidere
Wojtila rinunciò a curare la sua malattia e rifiutò terapie di sostegno come l’alimentazione e la ventilazione
Perché a Welby non fu riconosciuto il diritto di una simile scelta?

Era il febbraio del 2007 quando, nel tentativo di spiegare l’assoluta linearità almeno a mio avviso del caso Welby che era morto da poco più di un mese, paragonai la sua scelta a quella di Papa Wojtyla. Morto nel 2005 ed in attesa di beatificazione il prossimo 1 ̊ maggio.
Per la precisione il tutto avvenne la sera del 6 febbraio nel corso di una lunga intervista televisiva al canale d’informazione di Sky. In quella occasione un medico molto vicino agli ambienti vaticani confermò quanto mi era già noto da tempo: Papa Wojtyla aveva rinunciato a curare la sua patologia neurodegenerativa -il Parkinson fin dagli esordi.
Questo medico sosteneva inoltre che il Cardinale Martini, anch’esso notoriamente parkinsoniano, assumendo invece la terapia specifica per contrastarne e rallentarne gli effetti, avrebbe compromesso le proprie capacità cognitive a differenza del Santo Padre che invece aveva rinunciato al farmaco appunto per mantenersi pienamente capace di intendere e volere. Tesi peraltro destituita di ogni fondamento scientifico. Ma strumentalmente utilizzata per sostenere surrettiziamente che la posizione assunta dal Cardinale Martini sulla vicenda Welby nella sostanza a favore dell’autodeterminazione in campo sanitario,tale da comprendere la scelta di Welby,anche non condividendola poteva essere frutto di una mente obnubilata dai farmaci.
È noto che il Parkinson sia malattia dall’andamento capriccioso e incostante. Ma effettivamente le condizioni cliniche di Wojtyla negli ultimi anni di vita peggioravano assai rapidamente edin maniera vistosa. Un respiro difficoltoso, una deambulazione ridotta, un eloquio rallentato, ma soprattutto i tremori particolarmente evidenti, facevano realmente deporre per una progressione della malattia senza un sostegno farmacologico, che ne rallentasse e limitasse i danni, già molto tempo prima della sua morte.
La malattia di Parkinson comporta la progressiva compromissione della capacità motoria, oltre che in taluni casi e in fase avanzata il deterioramento della funzione cognitiva. Pertanto è normale che si ponga prima o poi la indicazione clinica alla nutrizione artificiale e alla ventilazione assistita, per la difficoltà appunto di deglutire e respirare.
Di fatto è impensabile che a Wojtyla non sia stato prospettato questo scenario,per valutare la pianificazione delle proprie cure. In particolare su questi aspetti e sugli ultimi giorni di Papa Wojtyla si può leggere la documentata ed impeccabile analisi della collega anestesista Lina Pavanelli apparsa sul numero della rivista Micromega del settembre 2007.
Ma il ragionamento è un altro. Wojtyla rinuncia fin dall’inizio a curare la sua malattia. In maniera assolutamente coerente poi rifiuta anche di sottoporsi a terapie di sostegno delle funzioni vitali quali l’alimentazione e la ventilazione. Si può allora affermare che oggi Wojtyla verosimilmente sarebbe ancora vivo, anche se immobilizzato in un letto e sottoposto a ventilazione meccanica e nutrizione artificiale, se avesse fatto scelte diverse.
Le cronache riportano che si sia mantenuto lucido fino alla morte. Diversamente avrebbe supe-
rato indenne le imposizioni della legge sul fine vita del decreto Calabrò? Anche nella più benevole delle interpretazioni, sicuramente avrebbe dovuto subire quantomeno la nutrizione artificiale. Si potrebbe obbiettare ed è stato effettivamente sostenuto che le condizioni cliniche di Wojtyla erano, nell’ultimo periodo della sua vita, talmente deteriorate che ogni tentativo di cura sarebbe stato un inutile accanimento terapeutico. Premesso che è difficile stabilire cosa sia l’accanimento terapeutico, indubbiamente le condizioni cliniche finali erano assai penose.Ma tali erano appunto come diretta conseguenza della precedente decisione dello stesso Wojtyla, cioè rinunciare alle cure. Una sorta di lenta ma inesorabile eutanasia passiva? Certamente no: un limpido esempio di autodeterminazione sul proprio corpo. Wojtyla sceglie di vivere pienamente la sua malattia senza porvi alcun rimedio. Forse è una convinta decisione di farsi testimone attraverso il suo corpo sofferente di un messaggio. La sofferenza come un valore da sostenere.
La famosa frase di Wojtyla, pronunciata nelle ultime ore di vita, «lasciatemi andare alla casa del Signore» non ricorda forse la stessa vicenda di Welby, che intitolò il libro sulla sua vicenda «Lasciatemi morire»? Per questa scelta Welby è stato però aggredito violentemente e accusato di strumentalizzare la sua condizione fisica.
Sempre nel campo della sofferenza usata come strumento: non è stato forse coerente e coraggioso Welby che alla fine ha deciso comunque di provare a sopportare anche l’ulteriore prova di una vita dipendente da una macchina, immobilizzato in un letto per più di 10 anni, prima di rifiutare definitivamente ogni terapia?
Ma allora perché oggi Papa Wojtyla è stato beatificato mentre a Piergiorgio Welby furono anche negati i funerali religiosi, lasciando la sua bara sul sagrato, fuori dalla chiesa nella quale voleva entrare?
Perché la scelta di Welby è stata giudicata una forma di eutanasia e quella di Papa Wojtyla invece un percorso virtuoso? Dovremo aspettare altri 400 anni come per Galileo per una riabilitazione di Welby?
Si può aderire a qualsiasi tesi bioetica, ma deve essere coerentemente sostenuta.
Mario Riccio, medico anestesista, ha assistito Piergiorgio Welby durante gli ultimi giorni

Corriere della Sera 22.4.11
«Ordine e ingiustizia sociale: svolta autoritaria dell’Ungheria»
di Paolo Valentino


OMA — «Sono dispiaciuto per i miei connazionali. Con il passaggio della nuova Costituzione, si apre un periodo molto buio per l’Ungheria. La democrazia non è in pericolo, è finita: questo non è più un Paese democratico» . Al telefono da Budapest, il perfetto inglese di Gaspár Támás Miklós tradisce un tono grave e preoccupato. Filosofo della politica, leader morale dell’opposizione progressista, Támás è una delle voci più allarmate che si levano dall’intelighentsja ungherese contro Viktor Orban, il primo ministro che lui conosce molto bene per averci militato insieme ai tempi della dissidenza contro il regime comunista. «Questa Costituzione — spiega Támás— combina in modo originale due elementi: un testo legale neo-conservatore, che sospende ogni diritto sociale, direi un sogno thatcheriano realizzato. Dal diritto al welfare al principio del giusto compenso, ogni traccia di giustizia sociale scompare per far posto a una sostanza fortemente anti-egualitaria. L’altro elemento è quello autoritario, che centralizza il potere nelle mani dell’esecutivo, ridimensiona gli organi di controllo, limita la libertà di espressione. In altre parole, riduce il ruolo dello Stato nei rapporti sociali, ma lo aumenta a dismisura nel mantenimento dell’ordine» . Ma lei parla di fine della democrazia, non è esagerato? «Il testo costituzionale rende impossibile ogni cambiamento. Le faccio un esempio: il sistema fiscale, basato sulla flat tax del 16%, è stato scritto nella Costituzione. Come dire che nessun altro governo potrà mai cambiare la politica fiscale, poiché nessuno avrà mai più una maggioranza dei due terzi in Parlamento, anche perché la legge elettorale (anch’essa nella Costituzione) lo impedisce. Anche se il centro-sinistra dovesse vincere le elezioni, non potrà cambiare la politica di questo governo. C’è poi un punto filosofico di fondo: in contraddizione con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’Onu, i diritti non sono dichiarati come dati e naturali come nelle Costituzioni democratiche, ma sono condizionati a obblighi e compiti: per esempio, chiunque goda di un beneficio statale come la pensione o l’assistenza sanitaria, ne ha diritto, cito la Costituzione, solo se fa un’attività utile alla comunità, in base al giudizio dell’autorità statale. Quindi invece di diritti naturali, avremo diritti concessi dallo Stato» . Ma in Parlamento c’è un’opposizione, lei dice liberamente quello che pensa. Come fa a parlare di fine della democrazia? «Questo è un regime autoritario che ammette qualche forma di competizione parlamentare e una limitata libertà di stampa. Certo l’Ungheria non è la Bielorussia di Lukashenko. Ma il principio è lo stesso e la Costituzione è congegnata in modo tale da marginalizzare ogni tipo di opposizione» . Ma lei stesso dice che c’è una certa libertà di stampa… «Sì, sopravvivono piccoli giornali a diffusione limitata e qualche radio. Ma la televisione è assolutamente occupata dal governo, sia quella privata che quella pubblica. Internet è inondato da siti sciovinisti e nazionalisti» . Ma quanto potrà durare questa Ungheria nell’Unione Europea? «Assistiamo a sviluppi antidemocratici ovunque in Europa. Sarkozy e Berlusconi si inseriscono nello stesso trend. Ma Orban è stato più conseguente. Assisteremo a qualche reazione indignata, come quella del governo tedesco, ci sarà una condanna dell’Europarlamento, ma nulla di sostanziale» . La nazionalità estesa agli ungheresi oltre i confini, prevista dalla nuova Costituzione, creerà problemi e tensioni con i Paesi confinanti, come Romania e Slovacchia? «Io vengo dalla minoranza ungherese della Transilvania e conosco bene il problema. Alla classe politica rumena non importa nulla, gli slovacchi sono un po’ più preoccupati. Ma il nodo è di principio. Ad esempio, la Costituzione precedente diceva che lo Stato protegge la lingua ungherese e le lingue delle minoranze. Quella nuova protegge la lingua ungherese e basta. La giustificazione unica della cittadinanza è l’origine etnica: dalla comunità civica passiamo a quella etnica. Ciò è molto pericoloso» . Ci saranno reazioni nella società civile? «Ne sono sicuro. Il governo è così deciso e aggressivo nel liquidare ogni forma di libera espressione culturale e artistica, ci sono stati tagli di fondi e rimozioni a catena da tutte le istituzioni, che io prevedo il sorgere di una forte resistenza da parte di artisti, intellettuali e studenti. Ci saranno forme di ribellione politica. E poiché Orban è ora molto forte, grazie alla Costituzione, potrebbe anche prodursi una situazione di caos» .

Corriere della Sera 22.4.11
Hiroshima e Fukushima: psicoanalisi del Giappone
L’istinto di morte che domina la storia e la letteratura
di Guido Ceronetti


E cco, il 15 marzo 2011, terremoto e tsunami hanno provvidamente aperto il ventaglio di un’altra via. Quale? Quella di Mishima si ferma alle grida delle scuole di arti marziali. Ma nel suicidio di Mishima, avvenuto nel modo che sappiamo il 25 novembre di quello stesso anno, affiora qualcosa di più di una frustrata nostalgia guerriera. Qui sono tutti pronti a lodare il «Giappone che si riprende» (come grande produttore «inorganico e vuoto» ovviamente) ma volendo capire e sperare di meglio, guardiamoci dall’unirci a questa cantoria di castrati. Per forza, in mancanza dei segni e delle voci della lingua, dobbiamo ricorrere a categorie e termini arrischiatamente occidentali. Può essere utile (con riserva) il freudiano Todestrieb (pulsione di morte) per pensare il Giappone negli ultimi mesi della mostruosa guerra del Pacifico, tra marzo 1945 (data del primo attacco aereo suicida contro portaerei americane) e la resa (14 agosto). Pulsione o istinto o volontà di morire, che dai piloti shinpu (non usava ancora il gonfiatissimo, e quanto distorto, kamikaze), che staccandosi da un bombardiere Mitsubishi madre si dirigevano su un aliante contro le navi americane, si era estesa all’intero popolo in vista di una guerra di sterminio casa per casa finché fosse piaciuto all’imperatore. Senza la resa non si sarebbe mai visto nulla di simile. Stupefacente è il seguito: l’aggavignarsi pronto, del popolo e delle autorità votati alla morte, al vincitore, il più forte, e anche il più disposto ad aiutare il vinto, a studiarne e a curarne anche le spaventose ferite dei bombardamenti nucleari. Si stabilisce da allora un misterioso legame, che definisco volentieri amoroso, tra l’anima profonda di una nazione che ha un’anima e un destino, gli Stati Uniti, e l’anima profonda di una nazione che, ben più antica, specifica e consolidata, ha un’anima e un destino: lo Yamato, il Giappone. Il paradossale ruffiano di questa unione nippo-americana che dura ininterrottamente dal 1945, fino a Fukushima, è il pikadon (lampo-tuono), il bombardamento del 6 agosto di Hiroshima, in coppia con quello di Nagasaki del 9, eventi che persuasero gli stati maggiori e l’imperatore, senza turbare la determinazione del popolo a sacrificarsi. Nei teatri, in quello strano dopoguerra, racconta Georges Banu, l’entusiasmo degli spettatori per la bravura degli attori si esprimeva con grida come queste: «Sei bravo, sei il più bravo, sei McArthur!» . McArthur era lo sterminatore, il medico e il granaio. McArthur era il più forte. Nel bushido, la via del samurai, non esiste l’odio per il nemico: il samurai vincitore non vanta la sua vittoria (preferisce lodare i ciliegi in fiore) e se sopravvive vinto ammira e loda la forza del McArthur vincitore. Arrivo così a spiegarmi un perché tormentatore dai giorni dell’ultimo tsunami. Che cosa ha spinto (significativamente, mi pare, senza contrasto ambientalista) il Giappone a richiamare lungo le sue coste — e senza volersi detentore di quella Cosa Senza-Nome impropriamente detta «l’arma nucleare» , ottusa, ignobile, eppure fascinatrice più di Medusa— così tante centrali produttrici della stessa Energia in cui dorme, dovunque sorgano per fini industriali, una perpetua minaccia alla salute e alla specie umana? Le ragioni pratiche non m’interessano. Non indago che le psicologiche. La scelta del Giappone, che ha sparso cinquantacinque (finora) centrali nucleari in zone tutte a rischio di tsunami, viene dal Todestrieb, dalla stessa pulsione di morte dei disperati piloti suicidi, in travestimento pacifico, ma teschio uguale. E qui purtroppo devo ricorrere ulteriormente alla nostra più banale terminologia psicanalitica, vedendo l’istinto di morte generarsi da un irresistibile, più forte e segreto fantasma-madre soggiacente nei fondi di psiche: il drago sadomasochistico, il bisogno di autopunizione, di autoflagellazione, di essere «il coltello e la ferita» , il ventre aperto e il colpo di scimitarra finale. Mishima ha la vista lunga, ma non ha colto questa connotazione tragica nello stesso Giappone produttore «inorganico, vuoto, neutrale e neutro» che con la sua veemenza stilistica deplora. Se i concetti sono quelli della traduzione (Lezioni spirituali per giovani samurai, a cura di Lydia Origlia, 1988 SE), il Giappone da lui disprezzato era in realtà un produttore forsennato, con masse umane marcianti alla fabbrica (vedi Metropolis di Fritz Lang), tutt’altro che neutrale e neutro per la sua fortissima partecipazione all’inquinamento planetario (morte della terra, terricidio) sulle orme sempre del vincitore americano, e distruttore di cetacei nonostante il divieto della caccia baleniera, rovina mercuriale dei propri mari (memorabile il crimine del morbo di Minamata, che avvelenava i crostacei, consumato dai costieri): un grande «suicida» desacralizzato ma non deritualizzato. Molte vie ha, e può prendere, la pulsione di morte. Di erotismo sadomasochistico è impregnato il romanzo giapponese del XX secolo. Da quale altra letteratura avrebbe potuto una favola luttuosa come La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, essere concepita? Dai romanzi puoi ricavare più d’un motivo di stupore e di smarrimento per il comportamento giapponese di fronte all’amore, mai separato dalla pulsione di morte. Enigmatico è anche quest’altro tratto, che riporta alla cruciale guerra del Pacifico e a un dopoguerra vaginalmente erotico di assorbimento del Vincitore: non ci trovi odio per il nemico, né durante né dopo. Neppure di amore, come l’Occidente se lo figura e lo vive. In categorie propriamente estremo-orientali (lo Yin e lo Yang) ecco il Giappone è tutto, spiritualmente e fisicamente, Yin: dominio dell’ombra, spiegamento del principio femminile, onnipotenza dell’acqua, incesto con la madre, attrazione suicida. L’Ombra è la generatrice di quelle cinquantacinque centrali. In questa disposizione di passività femminile, che è dello Yamato di sempre, Tsunami del 15 marzo e incendi dei reattori si possono dire, a prezzo anche di molte vite intrepidamente votate a morirne, accolti, seminalmente rappresi nel baratro di psiche. Ma se il bisogno inconscio di compensare il mondo per la propria follia si farà luce, il Giappone, come obbedendo a un ordine imperiale, potrebbe trasgressivamente ricavare dalla peste radioattiva che ha suscitato il dono esemplare di una totale rinuncia ad ogni forma di risorsa energetica nucleare; potrebbe addirittura, per più e più cedere al vincitore Tsunami, convertire impoverendosi la sua immensa capacità produttiva alla causa della conservazione e dell’abitabilità planetaria: la più difficile, la più disperata di tutte. Un simile evento chiuderebbe, in un risorgente gesto di bushido, il ciclo simbolico esistenziale che dai piloti suicidi, passando per Hiroshima, dopoguerra frenetico, democrazia e smania di arricchirsi, arriva al denudamento di Fukushima.

Repubblica 22.4.11
Un brano del testo del filosofo sul celebre mito
Quando Orfeo lascia Euridice
di Slavoj Zizek


Le diverse versioni dell´opera, da Monteverdi a Gluck, e una nuova visione della soggettività
Anticipiamo parte del testo di che compare sul nuovo numero della rivista Lettera internazionale, dedicato al rapporto fra corpo e potere.

Perché la storia di Orfeo fu il tema del teatro d´opera nei suoi primi cento anni di vita, durante i quali ne vennero prodotte quasi cento versioni? La figura di Orfeo che chiede agli dèi di restituirgli la sua Euridice impersona una costellazione intersoggettiva che costituisce, per così dire, la matrice elementare dell´opera o, più esattamente, dell´aria operistica: la relazione del soggetto (in entrambi i sensi del termine, agente autonomo ma anche soggetto dell´autorità legittima) con il suo Padrone (divinità, re o la dama dell´amor cortese) si rivela attraverso il canto dell´eroe (come contrappunto alla collettività incarnata dal coro) che è in sostanza una supplica a lui diretta affinché si mostri misericordioso, faccia un´eccezione e perdoni all´eroe la trasgressione di cui si è reso colpevole.
La prima, rudimentale forma di soggettività è la voce del soggetto che implora il Padrone di sospendere, per un attimo, la sua stessa Legge. (...) Abbiamo qui una sorta di scambio simbolico tra il soggetto umano e il Padrone divino: quando il soggetto, l´essere umano mortale, supera la sua condizione di finitezza e si eleva, con l´offerta del proprio sacrificio, a un´altezza divina, il Padrone risponde con il gesto sublime della Grazia, la prova definitiva della sua umanità. Eppure, allo stesso tempo, questo atto di grazia appare inequivocabilmente un gesto vuoto e forzato: il Padrone in definitiva fa di necessità virtù, presentando come atto autonomo ciò che in realtà è obbligato a fare se non vuole che la rispettosa istanza del soggetto si trasformi in aperta ribellione.
Per questo motivo non penso che la vicinanza cronologica tra la nascita dell´opera e la formulazione del cogito di Descartes sia solo una semplice coincidenza: si potrebbe perfino sostenere che il passaggio dall´Orfeo di Monteverdi all´Orfeo e Euridice di Gluck corrisponda al passaggio da Descartes a Kant. La novità introdotta da Gluck è una nuova visione della soggettività. In Monteverdi, abbiamo la sublimazione allo stato puro. Quando Orfeo si gira a guardare Euridice e così facendo la perde di nuovo, la Divinità lo consola: è vero, ha perduto la sua amata come persona in carne e ossa, ma da quel momento sarà in grado di rintracciarne gli adorati lineamenti in tutto ciò che lo circonda, nelle stelle del cielo, nel luccichio della rugiada mattutina… Orfeo accetta senza esitare il vantaggio narcisistico prodotto dallo scambio e si lascia sedurre dalla prospettiva di diventare l´autore della glorificazione poetica di Euridice: in poche parole, non ama più lei ma la visione di se stesso che canta il suo amore per lei.
Se questo è vero, l´eterna questione di capire perché Orfeo abbia rovinato tutto girandosi a guardare Euridice si presenta in una nuova luce. Si tratta semplicemente di una manifestazione del legame tra istinto di morte e sublimazione creativa: lo sguardo all´indietro di Orfeo è un atto perverso stricto sensu, perché egli sceglie intenzionalmente di perdere Euridice per poterla riavere come oggetto di sublime ispirazione poetica (un´idea sviluppata in particolare da Klaus Theweleit). Ma ci si potrebbe spingere oltre, domandandosi se non sia la stessa Euridice, consapevole dell´impasse in cui si trova il suo amato Orfeo, a indurlo intenzionalmente a voltarsi. Il suo ragionamento potrebbe essere stato più o meno il seguente: «So che mi ama; ma potenzialmente è un grande poeta, questo è il suo destino, che non potrà mai realizzare se ci sposeremo e vivremo insieme felici. Quindi l´unica cosa eticamente accettabile che mi resta da fare è sacrificarmi, spingendolo a voltarsi, per consentirgli di diventare ciò che merita di essere, un grande poeta».
© Lettera Internazionale. Traduzione di Stefano Salpietro
 

Repubblica 22.4.11
La donna senza eros a cui l´uomo non piace più
di Camille Paglia


Ora prevalgono attrici dalle silhouette ossute scolpite dal pilates che trasmettono diffidenza e tensione
La diva di "Cleopatra", come Ava Gardner prima di lei, possedeva magnetismo animale e spontaneità naturale
Da Liz Taylor ad Angelina Jolie, la studiosa americana spiega come è cambiata la femminilità delle star

Una volta, in un saggio per Penthouse, scrissi che Elizabeth Taylor era una «donna prefemminista», e che «esercita quel potere sessuale che il femminismo non è in grado di spiegare e che ha cercato di abbattere». Così argomentavo: «Attraverso star come Liz Taylor, percepiamo l´impatto rivoluzionario per i destini del mondo di donne leggendarie come Dalila, Salomè ed Elena di Troia».
"Il femminismo - continuavo - ha cercato di liquidare il modello della femme fatale come una calunnia misogina, un trito cliché. Ma la femme fatale esprime l´antico ed eterno controllo da parte delle donne del regno della sessualità".
Per me, l´importanza di Liz Taylor come attrice stava nel fatto che rappresentava un genere di femminilità ormai assolutamente introvabile nel cinema americano o inglese, radicato nella realtà ormonale, nella vitalità della natura. Era, da sola, un rimprovero vivente al postmodernismo e al poststrutturalismo, che ritengono che il genere non sia altro che un costrutto sociale. Vi faccio un esempio. I ragazzi stanno bene, il film di Lisa Cholodenko, è bellissimo, ma Julianne Moore e Annette Bening erano drammaticamente scheletriche, viste sullo schermo. È il classico look da inedia che ormai ci proiettano le star hollywoodiane: una silhouette ossuta, anoressica, scolpita col pilates, lontana mille miglia da quello che gran parte del mondo associa al concetto di femminilità. C´è qualcosa di quasi androide nella raffigurazione della donna irradiata da Hollywood. Se Gwyneth Paltrow fosse cresciuta negli anni ´30, sarebbe stata una ragazza irrimediabilmente imbranata, di quelle che fanno tappezzeria, presa in giro per la sua magrezza. Ma oggi viene presentata alle ragazze americane come l´ideale massimo a cui tendere.
Il personaggio di Liz Taylor inizialmente costituiva una continuazione di Ava Gardner. Tutte e due avevano una lussuria e una spontaneità naturali, un magnetismo animale, anche se tutte e due, all´inizio della loro carriera, non padroneggiavano bene le tecniche recitative fondamentali, il dialogo in particolare. È questo che la gente apprezza tanto in Meryl Streep: «Oh, è così brava con le intonazioni; oh, ha una dizione perfetta». Ma Meryl Streep non vive realmente i suoi personaggi, si limita a indossarne i panni. La Streep si traveste sempre. Ma è qualcosa di terribilmente superficiale, una questione puramente di testa, non di cuore o di corpo.
In America, negli anni ´50, le bionde erano l´estremo ideale ariano. Bionde sfacciate come Doris Day, Debbie Reynolds e Sandra Dee dominavano la scena. E poi c´era la Taylor, con quel look meraviglioso, bruno, etnico. Sembrava ebrea, italiana, spagnola, perfino araba. Era autenticamente transculturale, era una resistenza radicale al predominio della confraternita di reginette e cheerleader dai capelli dorati. E poi la sua sessualità esplicita in quel periodo puritano: era qualcosa di estremamente audace. Aveva una sorta di robustezza rispetto a quegli sconquassi di vulnerabilità ed emotività che erano Marilyn Monroe e Rita Hayworth. Anche la Hayworth proiettava sullo schermo una femminilità meravigliosa e struggente, ma la Taylor era una tosta. Aveva un istinto di sopravvivenza. E un´altra sua caratteristica era che riusciva a risollevarsi da tutte le tragedie e riusciva ad attingere alle sue sofferenze per la recitazione.
L´era delle grandi regine del cinema è senz´altro finita. Sharon Stone ha avuto il suo momento di gloria con Basic Instinct. Non solo nella famosa scena dell´interrogatorio nella stazione di polizia: in tutto il film disponeva del sesso e disponeva della telecamera. Lì ebbi un fugace momento di speranza. Pensai: «Il sesso sta finalmente tornando a Hollywood?» E invece no, non sono più riusciti a trovare un ruolo tanto convincente per la Stone, e il momento magico passò.
Angelina Jolie era fantastica in Gia, dove interpretava la parte della modella bisessuale Gia Carangi, morta di Aids. Aveva la sensualità e l´energia animale di Ava Gardner. Ma dopo essere assurta allo status di star globale, la Jolie ha deciso di diventare la grande star umanitaria. Improvvisamente si crede l´ambasciatrice delle Nazioni Unite per tutta la miseria umana del mondo. Tutto si trasforma in concetti elevati, e presto si ritrova a collezionare un serraglio multirazziale di bambini. Il risultato è un appiattimento totale della sua immagine artistica.
Da un certo punto di vista, Angelina Jolie ha il problema di essere una star nell´epoca dei paparazzi, in cui sei braccata molto più di quanto era braccata Liz Taylor. E così la Jolie è diventata difensiva e riservata, e ora c´è qualcosa di troppo calcolato e manipolatorio nel suo personaggio pubblico, e lei è diventata meno interessante di com´era. Ovviamente, non c´è nessuno che scriva grandi ruoli per lei. Le danno ruoli da film d´azione come Lara Croft in Tomb Raider, dove una donna contemporanea deve dimostrare di essere tosta e saper tenere testa fisicamente agli uomini. Ma non sono sicura che Angelina Jolie sarebbe capace di gestire alcuni dei ruoli che Liz Taylor sapeva interpretare tanto bene. C´è una rilassatezza nello stile di recitazione di Liz Taylor – e in Liz Taylor in quanto donna – che non c´è in Angelina Jolie, che trasmette sempre una sensazione di diffidenza o tensione.
Siamo in un periodo in cui tutto dev´essere tirato, nella mente e nel corpo. E in parte il motivo è che siamo nell´era del dopo-studios. La Taylor era una creazione del vecchio sistema hollywoodiano degli studios. E nello studio cinematografico si cresceva ultraprotette. Era un contesto familiare che certe persone – come Katharine Hepburn e Bette Davis – trovavano claustrofobico. Ma che invece fu molto proficuo per una persona come Liz Taylor.
La Jolie ha una vita piuttosto difficile, instabile, irrequieta. Lei è una dura, una sopravvissuta, una un po´ cinica. In Liz Taylor non si percepisce mai cinismo. Secondo tutti quelli che l´hanno conosciuta, era una donna calorosa e materna. E questa è un´altra cosa importante: tutte queste star dei giorni nostri, che accumulano figli con un esercito di tate. Nonostante tutti i suoi figli, nessuno definirebbe materna Angelina Jolie. Ma l´aspetto materno di Liz Taylor ha un ruolo fondamentale nel suo potere eterosessuale. Lei era in grado di controllare gli uomini. A lei piacevano gli uomini. E lei piaceva agli uomini. C´era una chimica fra lei e gli uomini che veniva dai suoi istinti materni.
Scrivo su questo argomento da anni, e le mie riflessioni sono state ispirate anche dalla visione di Liz Taylor sullo schermo e fuori. La donna eterosessuale felice e di successo si sente tenera e materna verso gli uomini, ma è qualcosa che è andato completamente perduto nella nostra epoca femminista. Ora le donne dicono agli uomini: tu devi essere il mio compagno, e devi essere proprio come una donna, essere il mio migliore amico e ascoltare le mie chiacchiere. In altre parole, alle donne gli uomini in realtà non piacciono più: vogliono che gli uomini siano come le donne. Liz Taylor amava gli uomini e gli uomini amavano starle intorno, perché lo percepivano. Ma lei non era una mansueta. Sapeva darle, oltre che prenderle. Erano famose le baruffe senza esclusione di colpi tra lei e Richard Burton, ed era qualcosa che lei adorava. Nessun uomo l´ha mai comandata. Nemmeno per un secondo.
www.salon.com/www.nisyndication.com
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 22.4.11
Alessandro Mannarino
Un cantastorie in lotta con dio
di Federico Fiume


La patchanka di Mannarino è fatta di fisarmoniche «rive gauche», fiati balcanici, stornelli romani, folk da cantastorie. Già, perché fondamentalmente Mannarino è un cantastorie, come lo si può essere nel terzo millennio, in un mondo fuori controllo da cui far scaturire sempre nuovi racconti, un po’ surreali un po’ concretissimi, abitati da personaggi al margine, quelli che la vita la devono conquistare ogni giorno con le unghie, i perdenti della società dei consumi ma, in definitiva, i più poetici ed umani fra noi. Il cantautore romano ha appena pubblicato il secondo, attesissimo album Supersantos, seguito di quel Bar della rabbia che aveva reso noto a tutti il suo talento procurandogli elogi incrociati e fans come Serena Dandini, della cui trasmissione Parla con me è stato più volte ospite. Fra le mura della sua casa, nel popolare e multietnico quartiere romano del Pigneto, Alessandro Mannarino ci racconta il nuovo album in un giorno di pioggia, fra un caffè e una sigaretta.
«Rispetto al primo, che era una sorta di Best of di quanto avevo scritto negli anni precedenti, Supersantos è fatto di canzoni più calate nel presente. Ho avuto più mezzi per realizzarlo, più tempo, più libertà». Spuntano dal cd personaggi surreali, storie tanto improbabili quanto poetiche e significative. «Certe volte, scrivendo, mi sono sentito in bilico fra neorealismo e surrealismo, fra la strada e la fantasia. Penso che sia una chiave vitale per me quella di prendere la zozzeria, anche la mia, e trasformarla in qualcos’altro. Lo puoi fare in tre modi: sognando, scrivendo o rimboccandoti le maniche per cercare di cambiare la realtà, ma questo è un processo molto lungo e faticoso». Un compito che non spetta ai cantanti, loro raccontano solo storie, ma possono essere intrise di significati ben precisi, come quella degli amanti Giuda e Maddalena, che rivendicano la carnalità del loro amore anche di fronte ad un iratissimo Dio. «Quel che volevo dire è che la Chiesa nasce dalla paura per una donna libera, che in fondo tutto quell’apparato serve solo a mettere a tacere Maddalena. Ma non so se ce l’hanno fatta, ci sono ancora tante Maddalene che parlano...».
I riferimenti alla religione, che troviamo in molte canzoni, sono sempre in una chiave che la vede come un potere oppressivo, negativo, mentre dall’altra parte c’è una sorta di elegia degli ultimi, dei barboni, della donne libere... «Credo che alla base ci sia una paura della morte intesa come morte civica, sociale, intima, che origina da un amore viscerale per la vita. I miei personaggi dicono che non hanno bisogno di un paradiso postumo, che la loro vita è qui e questa è una cosa che libera perché se mi sento oppresso non aspetto di morire per essere il primo in paradiso, mi ribello qui e ora.
IL GIOCO DELLE PAROLE
Mannarino gioca anche molto bene con le parole, tanto da inventarsi un brano come L’era della Gran Publicitè con un testo che è uno strano gramelot in cinque lingue, poco comprensibile ma molto significativo, se lo si riesce a decifrare: «E una sciarada, un messaggio criptato, dove dico peste e corna di alcuni, cose che non avrei potuto esprimere esplicitamente». Quanti possono permettersi di scrivere una canzone volutamente incomprensibile o quasi? Bisogna essere sfrontati, ma un cantastorie se non è sfrontato non è. “La parola cantastorie mi piace. Mi piacciono le storie, mi piace leggerle e raccontarle, quelle con la esse minuscola, che ti fanno amare la vita e ti spingono anche a lottare per cambiare un Paese o una società, perché sai che c’è qualcosa di bello da difendere». Ma c’è sempre una fine e ovviamente ce n’è una anche in Supersantos...«In fondo questo disco racconta tante piccole fini del mondo, piccole apocalissi personali, come quando finisce un amore o un modo di pensare. L’ultimo giorno dell’umanità chiude l’album raccontando una fine, ma aperta. C’è una luce, chiamata la luce dei lupi, che arriva immediatamente prima dell’alba. Gli uomini non la vedono, ma i lupi la percepiscono, la fiutano. I lupi sono animali associati alle tenebre, alla ferocia, ma anche loro in realtà cercano la luce. Questo disco non ha un inizio, ma ho sentito l’esigenza di metterci un epilogo, che è la luce dei lupi, la fine che sta appena prima di un nuovo inizio».

giovedì 21 aprile 2011

l’Unità 21.4.11
Il deputato azzurro Ceroni propone: modificare l’articolo 1 della Costituzione
«Il Parlamento viene prima del Presidente, dei magistrati, della Consulta»
Pdl contro il Quirinale «Tutto il potere alle Camere»
Solerti pidiellini fanno guerra al Quirinale: il deputato Remigio Ceroni ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 1 della Costituzione: il «Parlamento è sovrano», non il popolo. Ma il Pdl lo lascia solo.
di Natalia Lombardo


Goccia a goccia, colpo su colpo, le «iniziative individuali» dei solerti parlamentari del Pdl, come quelle del candidato milanese, rafforzano l’attacco al Capo dello Stato sferrato da Berlusconi e megafonato da Giuliano Ferrara su RaiUno.
Così ora un deputato del Pdl, il marchigiano Remigio Ceroni, è balzato alla ribalta mediatica sostituendosi addirittura ai padri costituenti. Vuole cambiare l’articolo 1 della Carta. In una proposta di legge depositata due giorni fa alla Camera vuole cancellare il dettato sul «popolo sovrano» per sostituirlo con la centralità «del Parlamento sovrano», che, secondo il deputato, «gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura e Consulta e presidenza della Repubblica». Ceroni va oltre, parla di «eversione dell'ordine democratico» per il «sopravvento di poteri non eletti dal popolo sovrano». Il Quirinale, per dire. Nel Pdl prendono le distanze: «Iniziativa personale» per il capogruppo Cicchitto, mai sentito dire a Palazzo Grazioli.
L’articolo 1 della Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e al comma 2 «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ecco, il Ceroni vuole unificare i comma in «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale».
Insomma, secondo Ceroni, il Parlamento sarebbe «troppo debole», ma non perché vota solo decreti governativi e pure con la fiducia.
E dato che non si può fare la riforma «presidenziale che vuole Berlusconi», allora Ceroni si accontenta di ribadire «la centralità del Parlamento troppo spesso mortificata, quando fa una legge, o dal presidente della Repubblica che non la firma o dalla Corte Costituzionale che la abroga». Ristabilire «la gerarchia tra i poteri dello Stato», dire quale è «superiore» in caso di conflitto, è il Remigio pensiero.
Nel Pdl cascano dalle nuvole: Ceroni chi? «Quale proposta di legge? Non ne so nulla», afferma Annamaria Bernini, portavoce del Pdl che in commissione Affari Costituzionali non ha visto nulla. Maurizio Lupi scuote la testa, «parliamo di cose più serie». Ma il protagonismo dei peones che fanno a gara nel megafonare i diktat del cavaliere, fosse solo per assicurarsi una ricandidatura, rafforza il bombardamento su Napolitano. Saranno solo provocazioni (non reggerebbero i quattro passaggi parlamentari e un referendum), ma concorrono alla rappresentazione di un Capo dello Stato «di parte» che va disegnando Berlusconi.
LA DIABOLICA CLASSIFICA
In un Transatlantico prefestivo due ex di Forza Italia ironizzano sulla «pioggia di proposte di legge, le più assurde, che vengono presentate. E bisogna anche stare attenti a firmarle, guardare la prima pagina...», racconta Giorgio Lainati. Secondo Gregorio Fontana bisognerebbe «mettere una tassa a chi propone leggi che poi restano in archivio» però fanno clamore (come quella sull’abolizione del divieto di ricostituzione del partito fascista, sulla quale si è tirato indietro di corsa il finiano Egidio Digidio). Sarà forse per «quella classifica di Openpolis che premia la produttività dei parlamentari che presentano più leggi?», si chiede Fontana.
Remigio Ceroni conferma che la sua è «una iniziativa personale» e assicura di non averne parlato prima con Berlusconi. Non è neppure membro della I commissione, la Affari Costituzionali, bensì delle Bilancio, vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti e Questioni regionali. Persino Brunetta si era limitato a contestare l’articolo 1: «L’italia non è fondata sul lavoro», ha gridato, ma a vuoto. N. L.

l’Unità 21.4.11
Napolitano marca le distanze: Il Colle non scende in guerra
Nessuna eco al Quirinale dell’iniziativa di Remigio Ceroni. Anche fosse farina del sacco di qualcun altro, non sono certo questi argomenti a muovere gli interventi di Napolitano. Che non abbocca alle brame di guerra altrui.
di Marcella Ciarnielli


L’iniziativa «personale» del deputato Remigio Ceroni non ha trovato alcuna eco al Quirinale nonostante il fin qui sconosciuto, a dispetto del suo stare praticamente sempre in Parlamento, parlamentare marchigiano abbia chiamato in causa esplicitamente il presidente Napolitano parlando di «ingerenza inaccettabile» a proposito dell’iter di alcune leggi. Silenzio al Colle. In una situazione come quella di questi giorni, in cui appare sempre più evidente il desiderio di vedergli compiere un errore, di vedergli, per così dire un’invasione di campo, il Capo dello Stato era abbastanza scontato che non intervenisse in alcun modo sulla iniziativa, legittima anche se sorprendente, dell’onorevole. Non restava davanti ad essa, un altro segnale di quella voglia di creare un clima di tensione, di impegnarsi in piccole ma significative prove di forza, che mantenere un giusto distacco. Pena l’accusa di non riconoscere ad un eletto dal popolo la libertà di opinione e di iniziativa.
Peraltro in questi giorni difficili sono già troppi i motivi di preoccupazione perché ci si metta ad inseguire le trovate di un parlamentare che d’improvviso decide di modificare la Costituzione e, per giunta, in uno dei suoi articoli, il primo, fin qui considerato intangibile, uno dei principi fondamentali. Ancora più sorprendente l’intenzione di stabilire una graduatoria di importanza tra gli organi costituzionali privilegiando proprio quel Parlamento che la parte politica del Ceroni non fa funzionare se non nell’interesse del premier. Contraddizioni. Provocazioni. Voglia di scontro piuttosto che di confronto nonostante il più volte ripetuto invito di Napolitano, a tutte le parti, a «non esasperare il clima» ma puntando, piuttosto al confronto. E non è certo con le iniziative personali che tendono a stabilire «la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale» che si ristabilisce un clima di dialogo costruttivo nell’interesse del Paese. Il primo effetto evidente è stato solo la sovraesposizione mediatica di un deputato di cui fin qui non si conosceva neanche il nome. Però è anche vero che in altre occasioni «l’iniziativa personale» è poi diventata patrimonio dell’intera maggioranza nella battaglia parlamentare. Questa volta, almeno per ora, Ceroni sembra destinato ad una (forse) imprevista solitudine. Chissà se si aspettava di essere mollato così in fretta dai suoi colleghi di coalizione. Al momento è così. Poi si vedrà .
Il premier intanto scalpita. Lui al Quirinale vorrebbe salirci di persona per cercare ancora una volta di illustrare le necessità inderogabili di ampliare il numero dei componenti del suo governo. Se il famoso rimpasto di cui tanto si parla, ma su cui anche ieri su tempi e modi, sono state riportate contraddittorie informazioni da due autorevoli esponenti del Pdl alla fine dello stesso vertice, passa per le forche caudine di un numero maggiore di poltrone rispetto a quelle previste dalla normativa in vigore. Su questo il presidente della Repubblica è stato chiaro fin dalla prima richiesta. Se si tratta di ricevere informazioni e presentazioni dei candidati, porte aperte. Ma l’aumento del numero può passare solo per un disegno di legge che dovrà compiere il suo completo iter parlamentare. Ed a proposito di riforme c’è sem-
pre quell’espresso desiderio di inviare al Colle il ministro Alfano per ulteriori approfondimenti sulla «epocale» riforma della giustizia. Finora non c’è stata alcuna richiesta. Peraltro il presidente della Repubblica, parlando per ultimo a Praga nei giorni scorsi, ha fatto ben intendere che non c’è alcun bisogno di ricevere ulteriori spiegazione. Al momento opportuno, quando l’itinerario in Parlamento sarà compiuto, entreranno in campo le prerogative del Presidente che valuterà il testo con l’attenzione di sempre. Ben nota a tutti.

l’Unità 21.4.11
Il retroscena
Dopo Lassini, Ceroni Silvio lancia gli scagnozzi
Altro che tregua. C’è chi fa il lavoro sporco per il Capo, che si dice «all’oscuro». Ma ormai la strategia è evidente e svelata anche da Ferrara: trasformare Napolitano in un avversario Nuova promessa ai Responsabili: rimpasto subito dopo Pasqua: «Salirò al Colle per le nomine»
di Ninni Andriolo


Altro che «tregua pasquale»! I primi a non credere al Cavaliere erano stati i pdl destinatari del consiglio. Con l’esodo alle porte e la colomba sulla tavola di milioni di italiani, la promessa di «abbassare i toni» appariva ai consiglieri del premier una mossa sensata, anche se poco realistica. Ieri, per la verità, Silvio si è detto «all’oscuro», ma tutte le indiscrezioni fatte trapelare da Palazzo Grazioli segnalavano l’escalation di propositi di guerra. Dal conflitto sollevato davanti la Consulta contro i giudici milanesi del processo Mediaset che non ritennero legittimo l’impedimento accampato dal premier; alla carica data a coordinatori e capigruppo Pdl convocati a Palazzo Grazioli per trasformare le amministrative nella resa dei conti con le procure che «perseguitano» Silvio; fino alla nuova sfida al Capo dello Stato per interposta persona.
Se il clima che fomenta il Cavaliere è quello dello scontro «perché serve a vincere, e i sondaggi lo dimostrano» come si fa poi a sostenere che un tal Ceroni sia partito in quarta con l’idea di riscrivere l’articolo 1 della Costituzione, solo «a titolo personale»? Come Lassini ha preso alla lettera sui manifesti il Cavaliere sul «brigatismo giudiziario», Ceroni ha trasformato in disegno di legge di riforma costituzionale gli attacchi del premier a pm, Consulta e Quirinale. I fedelissimi di Silvio prendono le distanze, ma giustificano. «Ceroni ha cercato di ribadire la centralità del Parlamento spiega Giorgio Stracquadanio Sinistra e Udc non sono interessati al tema solo perché alla Camera e al Senato la maggioranza è di centrodestra?».
Il gesto dell’azzurro che «sbaglia», in realtà, suona come l’ennesimo tentativo di trascinare Napolitano nella contesa per non farlo apparire «super partes» nello «scontro finale» sulla riforma ad personam della giustizia. Un’offensiva che passa per le amministrative dove Silvio «ha messo la faccia». Ieri, i maggiorenti riuniti a Palazzo Grazioli, hanno fissato due grandi manifestazioni elettorali con Berlusconi, il 7 maggio a Milano e il 13 a Napoli. Ai milanesi, tra l’altro, il Cavaliere invierà una lettera personale. A dispetto della propaganda sulla «vittoria certissima», l’astensionismo che si registra nell’elettorato di centrodestra preoccupa il premier. Concentrato sulla «battaglia campale» del voto, Berlusconi avrebbe voluto occuparsi il meno possibile dei responsabili.
Ieri, però, Scilipoti&Co gli hanno ricordato che grazie a loro è stato evitato «il golpe» del 14 dicembre. E il premier è stato costretto a ricevere Luciano Sardelli per l’ennesima volta. La promessa? La stessa, inevasa, delle settimane scorse: «il rimpasto di governo». Sarà la volta buona per Pionati, Calearo e soci? Dopo Pasqua nove sottosegretari e uno/due viceministri: questa la promessa solenne del Cavaliere al capogruppo alla Camera di Ir.
Impegni fatti apposta per mandare su tutte le furie azzurri e leghisti in lista d’attesa per uno strapuntino di governo, sacrificati alle ragioni del «figliol prodico che ritorna» malgrado la fedeltà dimostrata a Silvio. Per loro, però, il Cavaliere annuncia un disegno di legge ad hoc per allargare le panchine di governo. Un altro espediente, a ben vedere, per gettare altra benzina sul fuoco dei rapporti con il Colle.

il Fatto 21.4.11
I parlamentari-schiavi all’ombra del Caimano
Deputati e senatori pronti a tutto pur di compiacerlo
di Paola Zanca


Uno accorcia, l'altro allunga. Uno sogna di cambiare l'articolo 1 della Costituzione, l'altro si accontenta di modificare il 136. Lavorano nell'ombra fino al giorno in cui le riflessioni di una vita finiscono lì, in una proposta di legge. Ieri, Remigio Ceroni ha compiuto il suo personalissimo miracolo: alla sua terza iniziativa presentata come primo firmatario, con il 99,85 per cento di presenze in aula, ha sfondato il muro del silenzio. Su tutti i siti web ieri, su tutti i giornali oggi, perché vorrebbe cambiare le prime righe con cui comincia la nostra Carta, quelle in cui si dichiara “la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale della Repubblica”. Consulta e presidente della Repubblica la smettano di intromettersi, le leggi votate dalla maggioranza non si toccano.
Ridurre lo zelo dei parlamentari a brama di popolarità, però, sarebbe riduttivo. Perché una cosa in comune, le decine di proposte incardinate nelle commissioni di Camera e Senato ce l'hanno: piacciono tanto a lui, il presidente del Consiglio.
Luigi Vitali per ora è a quota tre. Tre proposte di legge che sembrano ricalcate sugli anatemi di Berlusconi. È diventato famoso grazie alla cosiddetta prescrizione breve - la norma che accorcia i tempi per incensurati e over 65 – ma in passato (era febbraio del 2009) aveva già chiesto modifiche agli articoli 107 e 110 della Costituzione “in materia di esercizio dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati”. Si era poi dedicato alle intercettazioni: voleva introdurre nel codice di procedura penale una sanzione per riparare a “ingiusta intercettazione di comunicazioni telefoniche o di conversazioni”. L'obiettivo non è ancora stato centrato per questo poco più di un mese fa, il 3 marzo, Maurizio Bianconi è tornato alla carica con un nuovo testo che permetta di evitare che le telefonate “prese a pezzi, poi utilizzati con il copia e incolla, divengano clave da utilizzare per emettere sentenze di condanna anticipata o strumenti per montare processi popolari di discredito della stampa”. Controcorrente alla proposta di Vitali, invece, è quella di Franco Mugnai: anziché breve, lui il processo lo vuole lungo. Infiniti elenchi di testimoni da ascoltare, con lo stesso obiettivo di sempre: arrivare alla prescrizione. Mugnai sta al Senato, e di certo dovrà farne di strada prima di eguagliare il lavoro del suo collega in commissione Giustizia, Giuseppe Valentino, che di riforme ne ha annunciate parecchie. Della Costituzione, per esempio, vorrebbe cambiare almeno cinque articoli: quelli che riguardano l'immunità parlamentare, la nomina della Consulta, nonché del Csm.
Valentino è in buona compagnia. A Raffaello Vignali, di articoli della Carta, piacerebbe modificarne tre: un classico, l'immunità, e due new entry: il 136, relativo alle sentenze della Corte costituzionale che dichiarano illegittima una legge, e il 41, quello sull'iniziativa economica privata. Che – Berlusconi dixit – costringe gli imprenditori italiani a lavorare con regole di “matrice cattocomunista”.
Ma con la nascita dei Responsabili, la concorrenza si è fatta agguerrita. Mario Pepe, che ha sacrificato un suo seggio nel Pdl per alimentare il gruppo neonato, il 2 marzo ha proposto di modificare due articoli in un colpo solo: il 70 e l'82. Uno riguarda la “semplificazione del procedimento legislativo”, l’altro le funzioni “di indirizzo politico, di controllo e di inchiesta del Parlamento”. Sarà un caso, ma poco dopo è arrivate l'idea di “indagare” sui giudici di Milano a firma Gasparri e Quagliariello. Non voleva essere da meno Domenico Scilipoti. Il medico omeopata si è buttato anche lui sulle intercettazioni: l'8 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 192 del codice di procedura penale, “in materia di valutazione delle dichiarazioni acquisite mediante intercettazione”. Ultimo, chissà fino a quando, Luciano Sardelli, che dei Responsabili è capogruppo: il 12 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 94 della Costituzione, che riguarda la disciplina delle mozioni di fiducia e di sfiducia nei confronti del premier. Infine, c'è chi ha fatto strada. Edmondo Cirielli, dai tempi della firma (poi ritirata) alla legge sulla recidiva che accorciava i tempi di prescrizione, ha conquistato un po' di sano egoismo. Il 29 marzo, da deputato e presidente della Provincia di Salerno ha chiesto la modifica dell'articolo 131 della Costituzione: chiede che nella città campana venga istituito un “Principato”.

Corriere della Sera 21.4.11
La plastica istituzionale
di Michele Ainis


P otremmo iscrivere alla fiera dell’ovvio la proposta dell’onorevole Ceroni, benché il Palazzo l’abbia salutata con fragore. Potremmo gettare nel cestino dei farmaci scaduti quest’ultima iniezione ri-costituente. A che serve infatti dichiarare — già nel primo articolo della nostra Carta — che il Parlamento è l’organo centrale del sistema, che per suo tramite s’esprime la volontà del popolo, che il popolo a sua volta designa deputati e senatori attraverso un rito elettorale? Magari può servire a ricordarci che in quel posto lì ci si va per elezione, non per cooptazione, non per nomina d’un signorotto di partito, come c’è scritto nel «Porcellum» . Ma tutto il resto è già nero su bianco nella Costituzione: articoli 55 e seguenti. Basta sfogliarne qualche pagina, dopotutto non è una gran fatica. Le leggi inutili, diceva Montesquieu, indeboliscono quelle necessarie. E infatti almeno un quarto del tempo speso dai costituenti nel 1947 fu dedicato a interrogarsi su quanto avesse titolo per entrare nella Carta, allo scopo di non sottrarle dignità e prestigio. Scrupoli d’altri tempi, diremmo col senno di poi. D’altronde, proprio l’articolo 1, con questa folla di chirurghi plastici che sgomita attorno al suo capezzale, ne è la prova più eloquente. C’è per esempio la proposta — avanzata a turno da Segni e da Brunetta, dai radicali, dallo stesso Berlusconi — d’espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. Parola comunista, dicono: meglio libertà. Anche se la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’articolo 1. Non importa, costruiremo una democrazia al quadrato. E poi, libertà di chi? Del popolo, ovviamente. Sicché potremmo scrivere così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Popolo della libertà» . Il guaio è che proprio questa parrebbe l’intenzione di Ceroni, nonché dei molti che annuiscono in silenzio. Se non il testo, stavolta fa fede il contesto. Ossia la relazione che accompagna la proposta, dove s’alza il tiro contro gli organi di garanzia costituzionale, a partire dal capo dello Stato. Dove si denunciano abusi e prepotenze a scapito della «centralità parlamentare» (a proposito, ma non fu uno slogan degli anni Settanta, i nostri anni più rossi? Si vede che i politici sono diventati un po’ daltonici). Dove infine si disegna un modello di democrazia plebiscitaria. Conviene allora dirlo con chiarezza: così usciremmo fuori dalla Costituzione. Non solo da quella italiana, ma da qualunque altra. Come scrissero i rivoluzionari del 1789, se una società non regola la separazione dei poteri, non ha una Costituzione. Eppure è esattamente questo che ci sta succedendo. La proposta Ceroni è figlia d’un clima che nega il valore stesso delle regole, perché l’unica regola vigente è quella che ciascuno sagoma attorno al suo pancione, come una cintura. Non a caso la parola più abusata è «eversione» , e infatti ieri è risuonata mille volte. Nel frattempo sulla Consulta piovono conflitti come rane (l’ultimo è sempre di ieri). Servirebbe una tregua, una vacanza, un giorno di riposo. Ma intanto ci servirà l’ombrello.

l’Unità 21.4.11
Intervista a Emma Bonino
«Vittima dei nemici politici ma la Ue si fa anche male da sé»
Per la vicepresidente del Senato suscita preoccupazione l’avanzata dei partiti xenofobi nelle elezioni e nei sondaggi in diversi Paesi europei
di Gabriel Bertinetto


Acolloquio con Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ex-ministra per le politiche europee con Prodi.
Recenti risultati elettorali (dalla Finlandia all'Ungheria) e sondaggi d'opinione (l'ascesa del Fronte nazionale in Francia) riflettono la crescita di atteggiamenti xenofobi, chiusure nazionaliste, settarismi culturali. Come valuta questi fenomeni?
«Con preoccupazione, soprattutto perché non vedo contrappesi istituzionali. Per entrare in Europa si fissano dei parametri severi ma una volta entrati non esiste meccanismo che possa mettere in dubbio lo status di paese membro. Neppure di fronte a derive che vanno contro lo spirito e la lettera dei Trattati istitutivi e della Convenzione europea sui diritti dell' uomo. Non a caso, anche il Consiglio d'Europa, custode della Convenzione, è molto preoccupato tanto da incaricare un gruppo di personalità europee, di cui faccio parte, di redigere un rapporto sul tema della convivenza in Europa nel 21mo secolo. Lo presenteremo tra un paio di settimane».
Il rafforzamento di formazioni politiche euroscettiche condiziona le politiche dei singoli Stati. La Ue può resistere a queste spinte disgregatrici? «Solo se troverà la forza di rilanciare subito la sua azione in maniera da evitare che i microinteressi nazionali o sub-nazionali diventino egemoni nel processo politico europeo. Con il Partito Radicale Nonviolento da anni sostengo che i nazionalismi, l'Europa delle patrie, rischiano di determinare la fine non solo della patria europea, ma delle patrie stesse. È ora di tornare al progetto dei padri fondatori, abbandonando l'idea antistorica dell'Europa dei piccoli Stati-nazione. Nessun paese, neanche la Germania o la Francia, figuriamoci una piccola Italietta autarchica, è in grado da solo di affrontare i passaggi chiave di quest’epoca, o di sedersi al tavolo con i giganti Russia, India, Cina o Stati Uniti. Questo può farlo solo l’Europa. O, meglio, gli Stati Uniti d'Europa».
Berlusconi e Maroni ipotizzano l'uscita dalla Ue. Sparate propagandistiche? «Forse non sono solo sparate propagandistiche, ma temo elementi fondativi di questa coalizione di governo e di questo blocco politico». Tremonti suggerisce di abrogare i trattati esistenti e ricostruire l'Europa da zero. Vuole consolidare le istituzioni comunitarie o affossarle?
«Quando parla di un'Europa rafforzata Tremonti dovrebbe chiarire a che entità si riferisce, senza dimenticare però che la prima ferita profonda alla coesione europea fu inferta nel 2003 quando Germania e Francia violarono il Patto di Stabilità, anche con il consenso di Tremonti, che in quel momento era presidente dell' Ecofin. Due anni dopo il Consiglio dei ministri europei bocciò, se non ricordo male all'unanimità, una proposta di iniziativa della Commissione in seguito alle rivelazioni sui dati alterati dalla Grecia per essere ammessa nella zona euro tesa ad affidare ad Eurostat un potere di audit sulle statistiche nazionali». Minacciata dai nemici politici, la Ue è poco aiutata dai suoi stessi dirigenti. Barroso, Ashton e altre figure di spicco dell'Unione sembrano esse stesse contagiate dall'euroscetticismo. Esiste un problema di leadership inadeguata?
«Sì, purtroppo da troppo tempo anche nelle istituzioni europee si celebra una messa senza fede. La Commissione Barroso rinuncia troppo spesso a fare il proprio mestiere riducendosi a fare da segretariato al Consiglio. Sarebbe bello se ogni tanto facesse delle battaglie a tutela degli interessi europei e del loro rafforzamento e avanzasse, esercitando il proprio diritto d'iniziativa, proposte magari impopolari agli occhi del Consiglio, anche a costo di farsele bocciare. Almeno si capirebbe che l’Europa vuole esistere al di là delle resistenze nazionali. E invece no: quando la Commissione capisce che una proposta rischia di non passare in Consiglio, neanche la avanza. Però, più che buttare la croce addosso ai Barroso e alle Ashton, le responsabilità sono dei governi che li hanno nominati».
Una, due, tre scelte urgenti e importanti per rivitalizzare la Ue... «Gli Stati Uniti d'Europa, cioè una politica estera e di difesa comune, un solo esercito anziché 27, una politica comune dell'immigrazione e dell'energia. Senza dimenticare che molte cose si potrebbero fare a trattati vigenti, ad esempio portare a compimento il mercato interno, come l'ex commissario Monti ben documenta nel suo rapporto. Occorre poi rivedere i rapporti con il Sud del Mediterraneo, i cui sconvolgimenti di questi mesi fanno emergere il fallimento delle nostre politiche. Non si può rinviare oltre l'accelerazione del processo di adesione della Turchia».

il Fatto 21.4.11
Immigrazione “Noi che curiamo il mal d’Italia”
Viaggio nei centri che assistono gli stranieri con problemi psichici
di Ferruccio Sansa


“Anche gli immigrati hanno sogni. E incubi. Voi pensate… ancora grazie che hanno un lavoro. Non immaginate che possano soffrire. Io sono una badante, venti ore al giorno chiusa in un appartamento, in una città di cui non capisco la lingua. Con una donna morente. Sono depressa fino alla disperazione”. Elisa è lituana, ha 47 anni. Sta zitta per ore, ma appena l’interprete traduce i discorsi scopri che cosa si nasconde dietro i suoi occhi azzurri.
“È dura far accettare che gli immigrati soffrono come noi di depressione, esaurimento, panico. Per di più con il trauma della migrazione”. Francesca Vallarino Gancia, psicoterapeuta, è nel suo Centro Etnopsichiatrico. Il nome astruso contrasta con l’ambiente pieno di vita. Siamo nella periferia torinese. Il Centro è una vecchia cascina dimenticata tra i condomini. Un’isola, così devono vederla gli immigrati che vi approdano per essere aiutati.
Mamre si chiama l’associazione di cui Vallarino Gancia è presidente. Qui lavorano 29 psicoterapeuti, mediatori culturali e antropologi. Ma c’è anche la cooperativa “Il Crinale” a Milano, c’è il Dipartimento di Salute Mentale Roma B. Decine di strutture che in Italia, con approcci diversi, affrontano la sofferenza psichica degli immigrati. “Mancano i fondi. E bisogna superare l’indifferenza”, spiega Ida Finzi, psicoterapeuta del Crinale. “Pochi si rendono conto di quanto pesi cambiare mondo. Ciascuno di noi appartiene a un luogo, a una cultura. È un involucro che contiene e delimita il senso di sé”, spiega Finzi. Già, da una parte le radici, dall’altra l’ambiente in cui vorresti integrarti. E comincia la sofferenza: giovani divisi tra la cultura dei genitori e quella dei compagni, donne sole ad affrontare la maternità, uomini consumati da lavori allucinanti. E famiglie separate per anni: al ricongiungimento sono estranei.
“LE DONNE affrontano l’emozione della maternità in solitudine. Nel loro Paese avevano la famiglia che le sosteneva perché la nascita altrove coinvolge tutti”, racconta Finzi. Ecco la prima differenza con la nostra società individualista. Nel lavoro di Vallarino Gancia, Finzi, del professor Alfredo Ancora, le teorie diventano storie vere (raccontate nel libro Terapia transculturale per le famiglie migranti di Cattaneo e dal Verme). Come quella di Berenice: 40 anni, intelligente, ma non parla una parola di italiano. Vive qui da anni con il marito e tre figli. Finché arriva una gravidanza, non desiderata, ma accettata. Poi la depressione post partum: “I dottori mi aiutavano – racconta – ma io non capivo cosa mi facevano, mi sentivo terribilmente sola”.
È difficile per gli immigrati chiedere aiuto. Tutto è diverso, a cominciare dall’interpretazione della sofferenza. “In Cina dicono che i disturbi mentali sono come il vento. Non si vedono, non si capisce da dove vengano”, racconta Alfredo Ancora, professore di psichiatria transculturale all’Università di Siena e psichiatra della Asl Roma B. Sahid, 18 anni, parla di ciò che noi chiamiamo panico: “Al mio Paese se stai così male ti portano dal guaritore in contatto con gli spiriti che ti proteggono”. Verrebbe da sorridere, ma Ancora avverte: “Pensate all’effetto che avrebbe su uno straniero la nostra figura dell’angelo custode”.
Già, raccomanda Ancora, “non pensiamo che la nostra cultura sia la migliore. Confrontiamoci senza giudicare”. Così si affronta la terapia. In gruppo: il paziente e gli psicoterapeuti, ma essenziale è il mediatore culturale. Che deve parlare la lingua dell’immigrato, conoscerne la cultura.
UN LAVORO complesso. Ma ecco Liang, sedicenne cinese, che si apre dopo anni di silenzi: “Quando i miei genitori sono venuti in Italia io sono rimasta in Cina con mia nonna, in un villaggio di montagna. Ero felice. Sono venuta a Milano a dodici anni, da sei non vedevo i genitori, non li conoscevo più. Mio fratello non l’avevo mai visto. Andavo a scuola, imparavo l’italiano, ma tacevo. A chi interessava la mia storia? È la prima volta che racconto queste cose, qui di fronte a tante persone”.
Parole diverse, differenti espressioni degli occhi e del sorriso, ma gli stati d’animo sono uguali. Quanti di noi si identificherebbero in Francis, originaria dell’Ecuador: “Ho paura che mia madre muoia senza rivedermi. Quando le ho detto che venivo da mio marito, mi ha risposto che facevo bene, ma lei perdeva il più bel fiore del suo giardino”. Nessuno si era accorto del dolore di Francis. E di quello di Anna e Jussef: “Ci conosciamo da ragazzi. Ma in Italia non riconoscevo più il mio sposo. Mi picchiava”, racconta Anna. E Jussuf, un ottimo padre: “Nel mio Paese quelle non erano considerate violenze”. Sì, Anna e Jussuf è come se si fossero conosciuti due volte. Dopo la terapia si sono ritrovati.
Adesso il professor Ancora sperimenta incontri con immigrati e italiani. Luca, ragazzo delle borgate di Roma, si trova di fronte Mohammed, coetaneo tunisino zoppo. Entrambi affrontano il “male oscuro”. E all’inizio è scontro. Luca urla: “Ci rubate il lavoro”. Ma poi la tensione scompare. Oggi Luca porta a casa Mohammed che non cammina. Alfredo Ancora è convinto: “L’incontro nasce spesso dallo scontro, ma se c’è conflitto meglio tirarlo fuori. E alla fine la sofferenza unisce”.

il Fatto 21.4.11
Tutta colpa dei giovani
Il governo sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi
di Stefano Feltri


La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.
Non c'è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall'età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza.
“NON C’È ALCUN dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Data-giovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c'è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero di-sposti a fare per lavorare”.
Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Alma-laurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Data-giovani.
Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento.
ERGO, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani” . Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.

il Fatto 21.4.11
Ma lo straniero costa sempre meno
Gli immigrati hanno salari più bassi anche del 30 per cento
di Salvatore Cannavò


Nella vulgata leghista sono quelli che “rubano il lavoro agli italiani”. Ministri come Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti difendono la tesi che i migranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono più fare.Laradiografiaoffertadaidati ufficiali, in realtà, mostra un lavoro migrante che in realtà si sposta là dove il lavoro già c'è. Lavoro essenzialmente operaio e legato all'industria manifatturiera, ma soprattutto che pagato fino al 30 per cento in meno degli italiani. Fino al 30 per cento in meno. Secondo il rapporto Caritas gli stranieri residenti in Italia sono circa 4,5 milioni, il 7,5 per cento della popolazione italiana. I lavoratori sono stimati tra 1,5 e 2 milioni di cui la metà circa è iscritto ai sindacati.
DELL’OLTRE milione e mezzo iscritto all’Inps nel 2008 (come mostra la tabella in pagina) circa la metà lavora nel Nord del paese e in particolare in tre regioni: Piemonte, Lombardia e Veneto, il cuore dell'insediamento leghi-sta. Circa 200 mila lavorano invece in Emilia Romagna e poi 120 mila nel Lazio. A parte i 59 mila della Campania, la presenza di lavoratori immigrati nel Sud è poco rilevante: meno di centomila. Dove i tassi di disoccupazione sfiorano il 30 per cento, quindi, i migranti non ci sono. Fino al 2009 i lavoratori immigrati in Italia provenivano per la maggioranza dall'Est europeo e "solo" il 21 per cento dal Nordafrica.
Sempre secondo i dati dell'Inps, riferiti al 2008, la grande maggioranza (72,7 per cento) di questi lavoratori sono dipendenti, ma esiste anche un 5,3% di lavoratori autonomi (di cui più della metà artigiani), un 4 per cento di operai agricoli (di cui la stragrande maggioranza a tempo determinato e insediati soprattutto nel meridione) fino a un 16,5 per cento di lavoratori domestici pari a circa 260 mila persone. Un dato sottostimato vista la quantità di lavoro nero tra colf e badanti, lavori al 90% femminili. Ancora la Caritas sottolinea che a Milano ci sono più pizzaioli egiziani che napoletani mentre in Val di Non le mele sono raccolte quasi esclusivamente dai senegalesi. Nel Veneto la concia delle pelli è fatta da lavoratori nigeriani mentre in Campania e nel basso Lazio a occuparsi dell'allevamento delle bufale sono i sikh.
NEL DOCUMENTO più completo redatto dall'Inps dopo l'introduzione della Bossi-Fini – che riepiloga i dati raccolti fino al 2003 quindi prima dell'ingresso della Romania nella Ue e prima delle ultime regolarizzazioni degli ultimi due anni ma che comunque offre una radiografia indicativa - le categorie in cui i lavoratori migranti sono maggiormente concentrati sono il commercio (34,5%), l'edilizia (18,1), la metallurgia e la meccanica (14,3), trasporti e telecomunicazioni (5,2), tessile e abbigliamento (5,2), chimica e gomma (4,5). Nel complesso, il settore maggiormente rappresentativo è l'industria (50,1%) e poi il terziario con il 42% di impiego. Dove sostituiscono gli italiani? Certamente nel settore edile dove gli immigrati rappresentano il 15% dei lavoratori regolari (ma dopo l'ingresso della Romania nella Ue questa percentuale è più alta); nella lavorazione del legno (10%), nel tessile (9,7) dove si registra un'alta presenza di lavoro autonomo in particolare cinese, e poi trasporti, commercio, estrazione e trasformazione minerali e chimica con una percentuale di lavoro immigrato di circa il 7%. L'Inps fa notare che gli immigrati "si inseriscono in tutti quei settori dove c'è bisogno di manodopera aggiuntiva" ma vanno a occupare qualifiche medio-basse. L'85% sono operai (contro il 55% dei lavoratori dipendenti italiani), l'8,9 impiegati (35% gli italiani).
SEMPRE L'INPS sottolinea che la maggiore presenza di immigrati nel commercio e nell'edilizia si spiega per "la minore consistenza delle retribuzioni e per la maggiore faticosità del lavoro" così come nel settore domestico e nell'agricoltura. Secondo la Cgia di Mestre in media, oggi i lavoratori stranieri percepiscono 965 euro netti al mese, 319 euro in meno rispetto agli italiani.

il Fatto 21.4.11
Per chi usa il cervello qui non c’è posto
di Alessandro Rosina


Le fregature per le nuove generazioni italiane vanno a stagioni. C’è stata quella dell’enorme debito pubblico creato nel corso degli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta. É seguita la stagione della riforma generazionalmente squilibrata delle pensioni. Poi la riforma del mercato del lavoro senza adeguamento del sistema di welfare pubblico, che anziché flessibilità ha introdotto precarietà.
Siamo diventati uno dei paesi industrializzati che meno crescono e meno offrono spazio e opportunità per i giovani. Il dato Eurostat più fresco ci vede fanalino di coda in Europa in termini di occupazione degli under 30. Colpa dei giovani o di scelte pubbliche sbagliate? Ecco allora che oggi avanza il nuovo inganno. Si fa sempre più strada nella nostra (matura) classe dirigente la convinzione che il problema risieda in una distorsione di fondo propria delle nuove generazioni. Che a sostenerlo sia chi nel governo ha responsabilità sui temi dell’economia e del lavoro non meraviglia. È evidente da tempo che la principale preoccupazione di costoro è tutelare l’esistente. Ma l’idea che siano i giovani ad avere ambizioni e attese mal calibrate va ben oltre il governo e i suoi sostenitori. Cosa dovrebbero allora fare le nuove generazioni secondo questa sempre più diffusa linea di pensiero? Accontentarsi di quello che trovano, compresi i lavori più umili che sinora si son lasciati fessamente sfilare sotto il naso dagli immigrati.
E se il problema vero, invece, fosse questa classe dirigente e i limiti del modello di sviluppo che ha imposto al Paese? Possiamo pensare alla condizione dei giovani come a quella di chi entra in un ristorante ritenuto almeno di media qualità e si trova invece con un’offerta di cibo mediocre. Ecco però che con incredibile faccia tosta il cuoco, anziché chieder scusa e impegnarsi a rimediare, si mette ad accusare i clienti di essere troppo schizzinosi ed esigenti. Il problema, insomma , starebbe nel fatto che i clienti vogliono mangiar bene. Ma i giovani non sono fessi e la controprova la trovano quando vanno all’estero. Cambiando ristorante capiscono che il problema non sono loro e che, anzi, altrove i loro gusti sono tanto più apprezzati quanto più sono raffinati. Come mai qui in Italia il capitale umano delle nuove generazioni non vale nulla e nelle altre economie avanzate è invece valorizzato? E’ questa la domanda cruciale.
I dati sono impietosi. Da fonte Eurostat apprendiamo che l’Italia risulta essere uno dei Paesi con minor crescita delle professioni più qualificate, intellettuali e dirigenziali. Secondo l’Istat, poi, sono oltre un milione gli under 30 che svolgono un lavoro sottoinquadrato, accontentandosi di una occupazione che richiede un titolo di studio inferiore a quello acquisito.
Come mai ci troviamo in questa situazione? I motivi sono molti. Ma una delle maggiori conferme dell’incapacità italiana di riorientare l’uso delle risorse a favore di un maggiore e migliore contributo dei giovani alla crescita del paese, la si può trovare nel basso investimento in ricerca e sviluppo. A questa voce noi destiniamo il 50 per cento in meno rispetto alla media europea. Siamo lontani anni luce dalla Germania che pur è attenta anche alla formazione tecnica.
L’innovazione è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e innovativi. Qui le nuove generazioni possono diventare una risorsa strategica per la crescita. Negli ultimi anni persino il Rwanda ci ha superati nella classifica globale sulla facilità di fare impresa stilata dalla Banca Mondiale. Eppure l’Italia le potenzialità le ha. Non mancano certo i talenti, quello di cui difettiamo strutturalmente è la loro valorizzazione.
Dato però che chi guida il Paese non sa come valorizzarli allora basta con l’uso dei cervelli, concentriamoci su quello che si può fare con le mani. L’alternativa, forse, è cambiare chi guida. Nel frattempo chi vuole usare il cervello vada all’estero, per gli altri qui ancora c’è posto.
L’autore è professore Associato di Demografia all’Università Cattolica di Milano

il Fatto 21.4.11
La giornata dei palestinesi dedicata a Vittorio Arrigoni
Il primo ministro Fayyad: “Chi lo ha ucciso è nostro nemico”
di Giampiero Calapà


“Dal Golfo all’Oceano c’è un movimento che chiede libertà e diritti: non saremo gli ultimi!”. Il vento della primavera araba soffia anche nei Territori occupati. Le parole di Abbas Zacki dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sono una dichiarazione di intenti, perché il prossimo settembre rappresenta l’ultima speranza palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite dello scorso aprile afferma che l’Anp (Autorità nazionale palestinese) è pronta ad annunciare la nascita di uno Stato sovrano e indipendente da Israele, entro i confini del 1967. A Gerusalemme starebbero anche valutando l’ipotesi di ritirare le truppe per quella data, ma di evacuare le colonie non se ne parla, come riferisce Ha’aretz, il principale quotidiano israeliano. “Speriamo che a settembre si potrà attraversare tutta la Cisgiordania senza chiedere permessi ai soldati israeliani”, ammonisce ancora Zacki. Nelle stesse ore, dalla Tunisia, dove la primavera araba pare aver già compiuto il suo corso, interviene il presidente dell’Anp Abu Mazen per scongiurare l’idea di una terza Intifada (nella seconda, cominciata il 28 settembre 2000, ci furono più di 7 mila vittime palestinesi e mille israeliane): “Non è la risposta giusta allo stallo del processo di pace, le rivolte degli ultimi dieci anni sono state disastrose per i palestinesi”.
A BIL’IN villaggio palestinese isolato e messo a dura prova dal muro che divide e separa al loro interno i Territori da Israele e dalle colonie, Zacki parla alla platea della sesta conferenza internazionale della resistenza popolare palestinese, quest’anno dedicata alla memoria di Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso pochi giorni fa a Gaza, appena 90 chilometri da qui, da estremisti islamici salafiti. In collegamento video dalla Striscia altri attivisti dell’Ism annunciano il varo di Oliva: “Con questo peschereccio proteggeremo i pescatori di Gaza e romperemo il blocco navale imposto da Gerusalemme”. L’importanza della conferenza di Bil’in per i palestinesi è testimoniata dalla presenza del primo ministro dell’Anp Salam Fayyad, il cui primo pensiero è rivolto proprio ad Arrigoni: “Condanniamo questo vergognoso crimine compiuto contro Vittorio da oltranzisti che sono nostri nemici. E ci prendiamo la responsabilità di affrontare tutti coloro che utilizzano la religione per una cultura di violenza”. Le parole che la platea attende con ansia sono quelle riferite a settembre. La Palestina sarà finalmente Stato? “L’occupazione israeliana rappresenta una difficoltà insormontabile”, Fayyad si ferma un attimo, guarda i volti di donne e uomini arrivati qui in questo villaggio sperduto della West Bank (anche dall’Italia con una delegazione guidata dall’ex europarlamentare di Rifondazione Luisa Morgantini), poi riprende: “Tuttavia il mondo guarda all’Anp per la dichiarazione di settembre e, quindi, Israele nel rispetto della legalità internazionale deve ritirarsi e garantirci la possibilità di creare un nostro Stato”.
IL PALCO DA DOVE Fayyad parla è dominato da una gigantografia di Vittorio Arrigoni, accanto a quella dell’americana Rachel Corrie, anche lei attivista dell’Ism, ferita a morte nel 2003 a Rafah, mentre tentava di impedire a un bulldozer di demolire un’abitazione palestinese. C’è sua madre, Cindy: “Quando ho saputo della morte di Vittorio ho sentito lo stesso dolore procurato dalla perdita di Rachel. È tempo di mettere un limite a questi crimini. In tutte le forme possibili: sia con la fine immediata del lancio di missili dalla Striscia di Gaza verso le città israeliane, sia con il ritiro definitivo delle truppe militari dalla Palestina”. Con questo stesso spirito da Gerusalemme un gruppo di 17 intellettuali vincitori del prestigioso Israel Prize, la massima onorificenza del Paese, annunciano una petizione, a favore di uno Stato palestinese, che chiede “la fine completa dell’occupazione” come “condizione essenziale per la liberazione dei due popoli”.

Repubblica 21.4.11
All´origine della regalità sovrannaturale
Quel potere del sovrano

In principio il re aveva qualcosa di magico Gli antichi regnanti erano sciamani e guaritori sanavano i sudditi imponendo le mani ed erano il legame tra uomini e dei
di Marino Niola

Una monarchia può essere instaurata dall´oggi al domani. Ma non la regalità. Che viene da molto lontano. E precede tutti i regimi politici. Perché è la materia prima del potere, il basic instinct della sovranità. Non a caso la fiaba, che rievoca il tempo delle origini, inizia sempre con il fatidico "c´era una volta un re".
E in principio il re non governa per volontà della nazione ma regna grazie a una forza che ha qualcosa di sovrumano. E ne fa un dio fra gli uomini. Superiore per natura prima ancora che per investitura. Come indicano molti dei titoli che ancora oggi si rivolgono ai monarchi. Altezza, grazia, maestà. Parole che hanno come primo significato la grandezza, la bellezza, lo splendore. Lo stesso termine rex, da cui viene il nostro re, nonché l´indiano rahja, derivano da una medesima radice indoeuropea che ha a che fare con il reggere, con il dominare, ma anche con la luccicanza. Come dire che il potere supremo nasce da uno shining soprannaturale.
Ecco perché gli antichi sovrani regnano sia sulla società che sulla natura. Da loro dipendono l´ordine politico e l´ordine cosmico. Un po´ sacerdoti, come quelli della Roma antica. Un po´ maghi come quelli polinesiani. Un po´ belve feroci come quelli africani. Autentici re leoni. In realtà l´analogia tra il sire degli animali e quello degli umani si ritrova anche nell´immaginario delle monarchie europee. Come nell´Inghilterra di re Riccardo, detto non a caso Cuor di Leone. E nella Francia di Carlo Martello dove si credeva che un felino non avrebbe mai aggredito un individuo di stirpe reale perché avrebbe istintivamente riconosciuto in lui un suo simile. Al punto che nel Trecento, l´inglese Edoardo III sfidò Filippo VI di Francia a entrare in una gabbia di leoni affamati per certificare il suo sangue blu.
I superpoteri del sovrano ne facevano insomma un catalizzatore di energie, un trasformatore di forze, un interfaccia tra società e natura, tra uomini e dei. Tanto è vero che nell´antico Egitto si credeva che la vita eterna fosse un privilegio esclusivo del faraone. È stata la successiva democratizzazione dell´aldilà operata dalle filosofie e dalle religioni che ha spalmato l´immortalità regale sulle anime di tutti i comuni mortali.
Il loro potere di vita e di morte rende gli antichi re molto simili a sciamani e guaritori. In grado di sanare i sudditi con la sola imposizione della mano. È il caso del Mikado, l´imperatore giapponese, considerato figlio della dea solare Amaterasu e depositario del potere rigeneratore della grande madre.
Ma l´esempio più celebre è quello dei re taumaturghi di Francia e d´Inghilterra cui a partire dall´alto medioevo viene attribuito il potere di guarire la scrofola, nome popolare dell´adenite tubercolare. Conosciuta anche come mal du roi e king´s evil. Pare che Luigi XIV, il re sole, perfino sul letto di morte abbia ricevuto 1700 ammalati. L´ultimo a toccare le scrofole è stato Carlo X nel 1825, ben trentacinque anni dopo la rivoluzione francese e in piena civiltà industriale.
È la sua natura straordinaria dunque a svincolare il sovrano archetipico dalle regole che egli stesso fa rispettare. A renderlo letteralmente assoluto, ovvero sciolto. Custode incustodito dell´ordine, incarnazione dello stato d´eccezione. In questo senso l´ombra del re rimane ancora imprigionata al fondo della democrazia moderna. Come fantasma ricorrente degli spiriti animali del potere. O della sua fascinazione misteriosa, pronta a riaffiorare nella fiaba mediatica di un royal wedding.

Repubblica 21.4.11
Bertinotti all´Osservatore "Imparai da Wojtyla"


CITTÀ DEL VATICANO - «Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II». Così l´Osservatore Romano titola un «colloquio» con l´ex leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti. É un´analisi del rapporto di stima fra Karol Wojtyla e il capo dei comunisti italiani. Un´intervista che non deve stupire. Forse molti ricordano una foto di Bertinotti intento a leggere il quotidiano ufficiale della Santa Sede. Così come intenso fu il suo rapporto con Wojtyla. Bertinotti ha voluto ricordare i suoi incontri con il Papa polacco. «Un uomo realmente capace di ascolto. Guardava l´altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani"». Ed è questa capacità di sguardo, continua Bertinotti, ad aver provocato nelle persone che entravano in contatto con lui «un atteggiamento di attenzione e ascolto». Wojtyla era un Papa capace di intervenire «in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell´Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell´uomo sull´uomo». Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana sulla doppia festa del 1 maggio si legge: «In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio». Chiosa Bertinotti: «La frase del Pontefice su Gandhi vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano».
(m. ans.)

L’Osservatore Romano 21.4.11
A colloquio con Fausto Bertinotti
Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II
di Silvia Guidi


"Bertinotti santo subito"; non sono teneri i blogger di sinistra con il presidente della Fondazione Camera dei deputati, accusato di "alto tradimento ideologico" e complicità attiva nello scippo simbolico del primo maggio che quest'anno si consumerà a Roma, giorno in cui la festa dei lavoratori sarà oscurata mediaticamente dalla beatificazione di Papa Wojtyla. Lo accusano perché il 20 aprile l'ex segretario di Rifondazione comunista sconfina, tecnicamente, in terra straniera - il palazzo della Cancelleria, a Roma gode dell'extraterritorialità vaticana - per intervenire, insieme al cardinale Renato Raffaele Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al ministro del Lavoro e delle politiche sociali italiano Maurizio Sacconi, e al segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, all'incontro organizzato da Elea "Un primo maggio speciale: Giovanni Paolo II celebrato nel giorno della festa del lavoro". Una contaminazione tra sindacalismo e Chiesa sgradita a molti, come la simpatia un po' troppo esplicita dell'ex leader di Rifondazione comunista per il Papa polacco che ha contribuito ad abbattere il muro di Berlino, un feeling sospetto, secondo tanti suoi ex sostenitori ed ex compagni di partito, che non si limita a generici discorsi di circostanza: dalla frequentazione dei monasteri del monte Athos in Grecia, all'ammirazione per la nave-cattedrale di Richard Meier costruita nelle estreme propaggini della periferia romana, a Tor Tre Teste (una stima molto concreta: qualche anno fa il risarcimento di una causa per diffamazione vinta da Bertinotti ha finanziato la costruzione del campo da calcio dell'oratorio). Nel "cursus honorum di ateo devoto del subcomandante Fausto" come chiosano con duro sarcasmo i suoi detrattori, ci sono anche due lauree honoris causa provenienti dalle università cattoliche del Perú e dell'Ecuador, oltre al Premio Giovanni Paolo II ricevuto nel settembre scorso dall'associazione campana Aglaia.
Tra l'altro, Bertinotti non ha mai fatto mistero di essere un attento lettore del nostro giornale: non solo per collezionare spunti di polemica e occasioni di dissenso, ma proprio per i suoi contenuti e per il suo taglio originale, oltre che per seguire la campagna contro le morti bianche condotta dall'"Osservatore Romano" che, ha dichiarato più volte il presidente della Fondazione Camera, "ha contribuito a ispirare la nostra battaglia per la sicurezza sul lavoro".
La stima per Giovanni Paolo II non è solo personale, non si ferma alla simpatia istintiva per la celebre ola al raduno della gioventù di undici anni fa - un "gesto irrituale capace di unire spontaneità, partecipazione e autorevolezza" - è anche, a tutti gli effetti, politica: è un riconoscimento, da parte di un non cristiano, delle positive conseguenze politiche di una visione del mondo cristiana.
"Storicamente - aveva riconosciuto Bertinotti all'indomani della morte di Papa Wojtyla - è stato un formidabile anticorpo contro il rischio possibile dell'apertura di un conflitto di civiltà. Ha dato un'idea integrale dell'uomo, un'idea non banale, non legata al mito pubblicitario del benessere, della forza, della bellezza".
Alla vigilia della beatificazione, l'ex leader di Rifondazione lo ricorda come un uomo realmente capace di ascolto. "Guardava l'altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani". Questa capacità di sguardo ha promosso negli altri un atteggiamento di rispetto, attenzione e ascolto; è questo, secondo me, che ha reso così potente la presenza di questo Pontefice nella storia, in un periodo che non era più lo stato di grazia dell'immediato dopoguerra, parlando dell'Europa occidentale ovviamente, e neanche la fase della "speranza ascendente"".
Questo Papa - continua Bertinotti - "interviene in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell'Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, così come in un'altra condizione, in pieno sommovimento del mondo, nella spirale guerra-terrorismo ha detto parole di pace di una pregnanza acutissima. A me stupisce che su due questioni cruciali della crisi della civiltà occidentale, il lavoro e la coppia pace-guerra, questo Pontefice si sia pronunciato con le parole del futuro".
Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana un po' meno manichea sulla doppia festa del primo maggio si legge anche: "In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio". Del resto, quando le forze di occupazione naziste chiusero l'università, il giovane Karol Wojtyla entrò nella Solvay polacca, lavorando per quattro anni nelle cave di pietra di Zakrzówek, poi alle caldaie di Borek Falecki e Nowa Huta. "La frase del Pontefice su Gandhi - dice Bertinotti al nostro giornale - vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano. Ho imparato da lui. E davvero trovo in questo rifiuto del dialogo una chiusura un po' inquietante. Sono stato a Torino in anni straordinari per la vita sociale di quella città; ebbi l'avventura e la fortuna di incontrare un sacerdote, arcivescovo e poi cardinale, Michele Pellegrino. La sua pastorale, il suo "camminare insieme" per molti di noi divenne un viatico; comunisti, socialisti, cattolici, protestanti, nella Federazione lavoratori metalmeccanici ci sentivamo una comunità, uniti nell'emancipazione della persona che lavora, per usare un termine caro a Maritain. Da presidente della Camera avrei voluto creare in Parlamento un luogo di meditazione, come nel Bundestag tedesco; mi è dispiaciuto non avere avuto il tempo di realizzarlo, c'era un largo consenso su questa iniziativa".
E conclude il nostro incontro ribadendo che "l'appartenenza non è un totem, è una strada da percorrere; è importante custodire i confini, ma anche avere il coraggio di oltrepassarli".