domenica 17 aprile 2011

l’Unità 17.4.11
Bersani: «Nuovo colpo ai pilastri costituzionali»
Il segretario del Pd non sottovaluta quello che giudica «un nuovo colpo alle istituzioni democratiche». E sulla scuola pubblica: «Perché Berlusconi, così esperto di famiglia, non inculca lui i valori? Corsi diurni e serali...»
di Simone Collini


In pubblico, dice di non voler «sprecare troppe parole» per commentare lo «stupidario quotidiano» di Berlusconi, ma nei ragionamenti con gli altri dirigenti Democratici Bersani ha invitato tutti a «non sottovalutare questo nuovo colpo alle istituzioni democratiche».
L’attacco del premier prima alla scuola pubblica e poi alla magistratura arriva mentre si svolge all’Eliseo di Roma un convegno organizzato dal Pd sui 150 anni dell’Unità d’Italia. Da mattina fino a metà pomeriggio si discute di storia, economia, istruzione, diritti civili, con interventi di sociologi, economisti, sindacalisti, docenti (da Stefano Zamagni a Franco Cassano, da Lucio Caracciolo a Pierre Carniti e tanti altri). E intanto a mo’ di stillicidio arrivano via sms di cellulari o letture di Ipad le esternazioni del premier.
I CORSI SERALI DI BERLUSCONI
Così, quando tocca a lui salire sul palco per le conclusioni, Bersani non vuole rovinare la «magnifica giornata di riflessione» (Napolitano ha mandato un messaggio per sottolineare l’importanza che i partiti riaffermino il senso del 150 ̊) e fa un lungo intervento sulla necessità di impegnare il Pd in una «riforma repubblicana», passando attraverso tre sfide: «tra le piccole patrie e la patria comune» («siamo a un bivio tra il localismo difensivo e l’unità condivisa»), «per le nuove uguaglianze» («più uguaglianza vuol dire cresita e più giustizia»), e «sulla democrazia del domani» («il modello populista non può produrre riforme, ma non pensiamo che liberandoci di una persona ci libereremo di un problema»). Solo a mo’ di «omaggio agli operatori dell’informazioni» («non possono aver fatto il viaggio a vuoto») apre e chiude una parentesi su quello che definisce «l’ignobile stupidario quotidiano che ci propina il nostro presidente del Consiglio»: «Perché presidente Berlusconi non va lei direttamente nelle scuole a inculcare i valori della famiglia, visto che se ne intende? Magari con un bel cartello: “Libera scuola Berlusconi”, qui si inculcano i valori della famiglia, corsi diurni, serali e quant’altro».
A RISCHIO I PILASTRI COSTITUZIONALI
Ma anche se liquida con una battuta l’uscita del premier contro la scuola pubblica, Bersani giudica pericolosa la strategia che c’è dietro le esternazioni del premier. Per questo ha detto ai suoi di tenersi pronti a una dura battaglia in Parlamento e a tenere alta la mobilitazione nelle piazze. Non c’è soltanto la campagna elettorale per le amministrative che entra nel vivo, secondo il leader del Pd. Berlusconi, pur di tenere uniti i suoi non esiterà ad alzare il livello dello scontro istituzionale, incurante del fatto che «sta colpendo dice Bersani i pilastri costituzionali». Per Rosy Bindi l’attacco ai magistrati «suona come l’avallo del premier alla vergognosa campagna di affissione a Milano»: «Ci saremmo aspettati aggiunge la difesa dei magistrati e la condanna di tutta la serie di quei manifesti. E invece si continua ad alimentare lo scontro istituzionale e a delegittimare un potere dello Stato, martellando i cittadini con un costante stravolgimento della verità».
Per i vertici del Pd le uscite di ieri sono la dimostrazione che è impossibile dar vita al governo di «decantazione» proposto da Veltroni e Pisanu. E che invece è sempre più urgente andare alle urne. «Il presidente del Consiglio usa l’insulto ormai come unica arma di dialettica politica», dice Enrico Letta sottolineando la distanza tra il comportamento degli altri leader internazionali che parlano di welfare, fisco, lavoro, e il nostro premier che «si occupa solo dei suoi problemi, insulta l’opposizione e sabota con la dinamite il rapporto tra le istituzioni». Se è sicuro di vincere le amministrative, dice il vicesegretario del Pd «chieda le elezioni e vediamo cosa pensano davvero gli italiani».
Ma tra i Democratici sono in pochi a farsi illusioni sul fatto che la sfida venga accettata. Anche perché in questa situazione avrebbe più chance di vedere la luce l’«alleanza costituente» proposta da Bersani: ieri oltre all’Idv e a Vendola, anche l’Udc con Cesa («siamo di fronte a un premier che ha perso completamente il controllo») e Fli con Bocchino («il vero eversore è Berlusconi, sta prendendo una deriva pericolosa per la tenuta del sistema politico e delle istituzioni») hanno duramente condannato le parole del premier.

l’Unità 17.4.11
I filosofi del leader


Clistene, Aristotele, Tocqueville, Gramsci. Quattro classici per quattro citazioni nel discorso di Pier Luigi Bersani all’Eliseo. È insolito che un segretario di partito la prenda così da lontano, dalla Grecia del VI secolo ac. E che, felice anomalia, teorizzi alla tribuna: «Il primato del pensiero sulla comunicazione». Non male, di là dell’indole filosofica di un segretario laureato su Gregorio Magno. Come invito democratico a «pensare»: tutti insieme. E a non lasciarsi fregare dai «demagoghi». Sì, perché il nocciolo del pensiero di Bersani è racchiuso in quelle quattro citazioni. Il cui filo conduttore è: la democrazia. Clistene ne è il fondatore in Grecia, quando inventa il sistema che porta tutti gli uomini liberi di Atene a partecipare e a venire eletti, oltre il privilegio gentilizio. Aristotele, qualche secolo dopo, illustra invece la degenerazione della democrazia. Sempre esposta a demagogia e tirannia. Se non è temperata da correttivi, ma è solo diretta e immediata (e allora, come in Francia nel 1789, la democrazia non poteva che essere «direttista», cioè a rischio demagogico). Tocqueville, nei primi decenni dell’Ottocento, ribadisce il concetto ne La democrazia in America: «La dittatura democratica della maggioranza» apre le porte a un dispotismo inaudito, tale da far vergognare i moderni». E infine arriva Gramsci, che il segretario cita da l’Ordine Nuovo (marzo 1924) quando scrive autocriticamente che il Pc. d’I. fu soggetto attivo e inconsapevole della «disgregazione» che condusse alla sconfitta e alla vittoria del fascismo. Tiriamo le somme. Che vuol dire Bersani con quelle quattro citazioni? Che la democrazia va organizzata: con corpi intermedi e istituzioni. E che ha bisogno di «partiti», per mediare società civile e politica. Di partiti radicati in interessi materiali vincenti, a sostegno della «cittadinanza». Per questo, dice Bersani, il Pd si chiama «partito». E non sarà più preda inerme della lunga crisi post-tangentopoli e del populismo berlusconaino. Come spesso è capitato.

l’Unità 17.4.11
Italia, avanza un nuovo regime: il «dispotismo democratico»
La lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte: non può essere conclusa da qualche forma di compromesso. Illudersi su questo significa non aver compreso la situazione
di Michele Ciliberto


Le liste taroccate pro-Formigoni
In un Paese normale si sarebbe preso atto di quanto sta facendo la Procura: qui invece si dà la stura agli attacchi a contro l’opposizione e i magistrati che indagano

Si illudevano coloro i quali pensavano che il capo del governo avrebbe ‘mollato’ sulla questione delle intercettazioni telefoniche, su cui è invece immediatamente ritornato, mettendole all’ordine del giorno, dopo aver incassato il ‘processo breve’. Non è, del resto, una questione di carattere personale, di temperamento: il potere, specie quello di tipo dispotico, non ha mai tollerato la dimensione ‘pubblica’, come spiegò a suo tempo Girolamo Savonarola nel suo Trattato sul governo di Firenze: “...el tiranno è pessimo quanto al governo, circa al quale principalmente attende a tre cose. Prima, che li sudditi non intendano cosa alcuna del governo, o pochissime e di poca importanza, perché non si cognoschino le sue malizie...”. Ad ogni forma di dispotismo il controllo pubblico è strutturalmente estraneo; anzi, gli è antitetico. Il dispotismo può essere combattuto, e anche sconfitto; ma non addomesticato. Specificando i tratti propri del tiranno, Savonarola ne individuava anche un altro, che può essere utile citare, per comprendere qualche tratto del governo dispotico attualmente al potere in Italia: “si trova rare volte, o non forse mai, tiranno che non sia lussurioso e dedito alla delettazione della carne”. Come si vede, alcuni comportamenti propri della figura di Berlusconi erano stati già illustrati alcuni secoli fa, come pure era stato messo a fuoco, sempre da Savonarola nel Trattato, il rapporto del tiranno con la legge. Dal punto di vista del potere dispotico, la lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte; né può essere conclusa da qualche forma di tregua o di compromesso. Stupisce leggere ogni tanto commenti politici nei quali si depreca questa situazione, auspicando una sorta di tregua, se non di pacificazione. E’ un auspicio giusto e comprensibile. Chi non vorrebbe che si uscisse da questa guerra quotidiana tra potere esecutivo e magistratura? Ma illudersi su questo significa non aver compreso la situazione attuale dell’Italia, la conformazione dispotica che ha assunto il nostro tempo storico. Il ‘dispotismo democratico’ è fondato sul rifiuto della moderna distinzione dei poteri.
Quello che distingue il moderno ‘dispotismo democratico’ dalle forme tradizionali di dispotismo è la diffusione a livello di ‘senso comune’, quotidiana e ordinaria di questo modo di pensare. Il capo del moderno ‘dispotismo democratico’ usa la legge in chiave privatistica, capovolgendo, in altre parole, il significato stesso della legge e sostituendo ad essa il proprio arbitrio; ma ha avuto, e continua in parte ad avere, il consenso di una larga parte del paese. Da qui la sua novità.
Un esempio: è venuto fuori che, nel caso delle elezioni del marzo 2010 del Consiglio regionale della Lombardia, una firma su cinque è risultata falsa fra le 3628 depositate il 27 febbraio 2010 per presentare il listino bloccato di 16 candidati “Per la Lombardia” di Roberto Formigoni. C’era un motivo preciso alla base di quel taroccamento: il listino era stato fatto e rifatto, fino all’ultimo momento, per cercare di far quadrare i conti sia fra le correnti del Pdl sia tra la Lega e il Pdl. Si trattava di inserire, in tutti i modi, nel listino personalità di primo piano come Nicole Minetti, Giorgio Puricelli (fisioterapista del Milan), Francesco Magnano (geometra di fiducia di Berlusconi)... La Procura ha ora contestato il reato di ‘falso ideologico’ a coloro che attestarono le firme taroccate, una diecina di amministratori locali.
In un paese normale si sarebbe preso atto di quanto sta facendo la Procura, aspettando l’esito del procedimento; ma in Italia attualmente vige un regime dispotico, sia pure di tipo democratico. I giornali che fanno capo al premier hanno perciò iniziato una polemica frontale contro la Procura e i partiti di sinistra, che si avvantaggerebbero, a loro dire, di questa situazione, dal momento che a Milano ci saranno fra poco le elezioni amministrative. Quello che però colpisce in questa polemica – e che dimostra nuovamente la conformazione dispotica assunta oggi dall’Italia – è il tipo di argomento che viene utilizzato, imperniato sulla rivendicazione, e sul primato, della democrazia ‘sostanziale’ e ‘reale’ rispetto alla democrazia ‘formale’. Non è necessario citare Kelsen o Bobbio per smascherare questa opposizione; è sufficiente pensare alla storia del ‘900 e alle forme dispotiche – anche di tipo democratico – che lo hanno connotato: per quanto diverse esse fossero, sono state tutte costruite sul primato del ‘popolo’ – cioè della sostanza – contro la ‘forma’ – cioè la legge. E’ Berlusconi per primo a dare l’esempio: dopo ogni seduta con i giudici scende in piazza e si rivolge direttamente al popolo, riconoscendolo come unica fonte della sovranità, dalla quale ricava il suo potere, e in cui si immerge, ripulendosi anche dai suoi vizi e dai suoi peccati. E’ una sorta di vero e proprio rito, anche questo non nuovo, al quale ricorre ormai in modo sistematico, contrapponendo ‘forma’ e ‘sostanza’, legge e popolo. E’ questo il frutto più avvelenato del moderno ‘dispotismo democratico’. Esso inquina l’ethos del paese, le ragioni sostanziali per cui un insieme di uomini diventa una comunità di cittadini, una repubblica, uno Stato, trasformando in un fatto quotidiano la distruzione della certezza del diritto e della legge. In questo senso, per ricostituire in Italia la vita democratica non bisogna ricorrere né ai carabinieri, né alla polizia; la prima cosa da fare è ristabilire, contro la ‘sostanza’, il primato della ‘forma’, su tutti i piani, a cominciare dalla vita quotidiana.

l’Unità 17.4.11
Intervista a Gerardo D’Ambrosio
«La democrazia è in pericolo come negli anni di piombo»
L’ex magistrato: «Oggi il rischio è più insidioso perché meno visibile e la gente non reagisce»
di Andrea Carugati



Sentire il presidente del Consiglio che paragona i giudici all’eversione mi fa venire i brividi lungo la schiena», dice il senatore Pd Gerardo D’Ambrosio, che da magistrato per lunghi anni ha indagato su terrorismo e stragi. «Negli anni di piombo avevamo paura per la tenuta della nostra giovane democrazia. La stessa forte preoccupazione che avverto oggi, davanti a un pericolo diverso ma forse più insidioso. Senza accorgercene, rischiamo di finire in uno stato autoritario».
Perché più insidioso?
«Perché è un rischio molto più difficile da combattere. Negli anni di piombo il pericolo si vedeva e ci fu una reazione popolare molto forte. Penso alle mobilitazioni dopo la strage di piazza Fontana, alla reazione di popolo che seguì l’omicidio di Emilio Alessandrini. La gente scese in piazza spontaneamente e stroncò i disegni autoritari. E fu l’inizio della fine del terrorismo».
E oggi, invece?
«Oggi non c’è una reazione popolare paragonabile al rischio che stiamo correndo. Anzi, si assiste a manifestazioni sotto il palazzo di Giustizia di Milano che inneggiano a Berlusconi che attacca i giudici. Sono forme di intimidazione anche nei confronti della magistratura giudicante».
Non le sembra eccessivo paragonare il fenomeno Berlusconi al terrorismo? «Non mi sarei mai aspettato di assistere a scene del genere, a un premier che utilizza questo linguaggio mentre dalla sua maggioranza non si levano voci discordanti. Non c’è più solo un conflitto tra istituzioni ma un attacco frontale alla magistratura, non solo ai pm. Abbiamo visto Milano tappezzata di manifesti “Via le Br dalle procure”, adesso il premier parla di una commissione d’inchiesta contro le toghe. Sono in pericolo i principi fondamentali dello Stato di diritto». Il suo parallelo rimane molto forte... «È chiaro che non si tratta di fenomeni direttamente paragonabili: in quel periodo c’era una violenza diffusa, c’erano i morti e i feriti quasi ogni giorno. Io dico che allora la democrazia corse un grave pericolo che fu sventato anche grazie alla mobilitazione popolare. Mentre oggi, nel momento in cui l’Italia sta imboccando una deriva autoritaria non c’è la stessa reazione che ci fu allora». Perchè?
«Una delle ragioni è il monopolio dei media. E la colpa è anche dell’opposizione che non ha mai risolto il conflitto di interessi tra politica e controllo delle tv».
Secondo lei con una legge di quel tipo si sarebbe realmente frenata la parabola berlusconiana? «Siamo l’unico paese occidentale in cui il premier ha questo tipo di controllo sull’opinione pubblica attraverso le tv, quelle che possiede e quelle che controlla. E questo continua ad avere un peso fortissimo su quella parte di italiani che si informa solo attraverso le tv». Concretamente, quali rischi corre la nostra democrazia. Cosa può succedere?
«Berlusconi sembra disposto a tutto pur di sfuggire ai processi. E la maggioranza obbedisce, come si è visto nel voto sul cosiddetto “processo breve”. Oggi (ieri, ndr) il premier ha avuto il coraggio di dire in pubblico che questa legge serve a non farsi processare. È una situazione senza precedenti, nel mirino c’è la magistratura giudicante, non solo i pubblici ministeri».
Qual è la strategia di Berlusconi? Vuole solo evitare di essere condannato o c’è un disegno più ampio? «C’è qualcosa di più di una “semplice” difesa dal processo. C’è la volontà politica di costruire uno Stato più autoritario, eliminando il contrappeso della magistratura. Non ci sono solo le leggi ad personam, ma anche i tentativi di togliere poteri ai pm per trasferirli alla polizia giudiziaria. E ancora: di togliere al Csm la facoltà di dare pareri al governo su temi delicatissimi che investono il funzionamento della giustizia. La maggioranza sa perfettamente che la riforma costituzionale avrà tempi lunghi e dovrà passare dal vaglio popolare. Per questo cercano di ottenere gli stessi risultati con delle leggine ordinarie». L’opposizione cosa dovrebbe fare per segnalare la gravità della situazione?
«In Parlamento facciamo quello che possiamo, segnaliamo e combattiamo tutti i pericoli. Purtroppo però di quello che succede in Parlamento la gente sa poco o niente. Per fortuna si sta levando autonomamente la voce dei giovani, dei precari, che si accorgono che i loro problemi non vengono mai affrontati, e che il loro futuro è a rischio. Sono in tanti a subire a questa situazione, forse da qui può partire una scintilla di cambiamento».

il Fatto 17.4.11
Il professor Carlo Federico Grosso: “Così si attenta allo Stato”
di Beatrice Borromeo


Per il professor Carlo Federico Grosso i manifesti che paragonano i magistrati alle Br sono “una vergogna inaccettabile”, così come gli attacchi del governo ai giudici: “Intimidazioni che scardinano i principi dello stato di diritto”
“Intimidisce i giudici Così crolla la democrazia”

Per il professor Carlo Federico Grosso, uno dei più celebri avvocati penalisti italiani, le accuse sempre più violente del governo alla magistratura sono “attacchi ai principi cardine dello stato di diritto, che colpiscono ogni giorno la democrazia. Che, a questo punto, sta per crollare”.
Professor Grosso, come ha reagito vedendo i manifesti con su scritto “Via le Br dai tribunali”?
Sono allibito, è un atto vergognoso. Minacciare così i magistrati è intollerabile. Soprattutto perché proprio loro sono stati vittime dei brigatisti: penso tra gli altri a Guido Galli e a Emilio Alessandrini , assassinati da un commando di Prima linea proprio a Milano.
Il ministro della Giustizia Alfano si è dissociato dai manifesti solo ieri, dopo oltre un giorno di silenzio.
Alfano è lo stesso che ha messo il suo nome su una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Anche quando parla tempestivamente, spesso lo fa a sproposito. Dunque non mi stupisco più né per ciò che dichiara né tanto meno per i suoi silenzi.
Ieri Berlusconi ha ribadito che la magistratura è eversiva. E altri due esponenti del Pdl, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, hanno invocato sanzioni contro i pm di Milano. La preoccupa il clima che si sta creando?
Certo. Si tratta di iniziative assolutamente intimidatorie, deprecabili.
Lei è firmatario di un appello scritto dal professor Giorgio Marinucci contro la prescrizione breve. La definite “uno sfregio al principio di uguaglianza davanti alla legge”.
La prescrizione breve è palesemente incostituzionale, viola l'articolo 3 della Carta. Infatti fa dipendere il tempo necessario per estinguere il reato non dalla gravità del crimine commesso, ma dalle qualità personali.
Cosa c'è di sbagliato se un incensurato riceve un trattamento privilegiato rispetto a un recidivo?
Facciamo un esempio: c'è un incensurato che compie una truffa gravissima, per miliardi di euro, alla Bernie Madoff. Poi c'è un pregiudicato che, recidivo, ruba un portafogli con dentro pochi centesimi. Ci sarà molto meno tempo per celebrare il processo del nostro Madoff, che probabilmente verrà prescritto, rispetto al processo per il furtarello. E poi c'è da fare una considerazione storica.
Quale?
Il diritto penale “d'autore”, in contrapposizione a quello del reato, è tipico dei sistemi autoritari. Solo lì si selezionava la gravità della responsabilità penale in base al soggetto, alla personalità, magari alla categoria sociale invece che basandosi su ciò che avevano fatto. I liberali invece sanzionano considerando la gravità dell'offesa. Questa selezione della durata della prescrizione in rapporto al tipo di autore era già stata realizzata dalla ex Cirielli. La norma Paniz peggiora le cose.
Ma la prescrizione breve, minimizza il governo, accorcerà i processi soltanto di qualche mese.
Sarà un incentivo a delinquere . Ed è dannosa proprio perché si innesta sull’incredibile ex Cirielli, che ha già dimezzato i termini di prescrizione. Diminuirli ancora è gravissimo, e inciderà soprattutto sui reati di media portata, che si estinguono dopo 7 anni e mezzo: togliere 6 mesi è tanto, e sui reati come la corruzione avrà un effetto devastante. Anche perché si tratta di crimini che spesso si scoprono alcuni anni dopo che sono stati commessi.
Tra le leggi ad personam ritiene più grave la prescrizione breve o il processo breve?
Servono a esaudire due desideri diversi. La prescrizione breve blocca il processo Mills prima di una condanna di primo grado, e l'effetto generale sarà un incentivo a delinquere. Mentre il processo breve, per com’era stato pensato all’inizio, era demenziale: poneva blocchi rigidi sulla durata massima del primo, secondo e terzo grado di giudizio. Se non venivano rispettati, si cancellava il processo, qualunque fosse la gravità del reato contestato.
Nella versione approvata, invece, se non si rispettano i limiti imposti il processo può continuare lo stesso.
C’è però un particolare molto preoccupante: hanno previsto che se il giudice, per esempio in appello, supera i rigidi tempi previsti, il capo del suo ufficio deve comunicarlo al Guardasigilli e al procuratore generale della Cassazione. Cioè ai due titolari dell'azione disciplinare.
Quindi sarà Alfano a decidere se punire o meno il magistrato?
Esatto. Hanno trovato un modo per dare al governo più poteri nella lotta ai magistrati. Prendiamo un processo per aggiotaggio: basta che vengano chieste 4 o 5 perizie e sicuramente si sforeranno i tre anni previsti per il primo grado di giudizio. Il giudice, anche se del tutto incolpevole, può essere sottoposto ad azione disciplinare, a discrezione del ministro. È uno dei tanti modi per intimidire la magistratura.
Come se ne esce secondo lei?
Ci vorrebbero nuove elezioni e una maggioranza di italiani che, avendo capito la situazione, scegliesse una classe politica all'altezza del compito di governo. Così da riportare il Paese a un livello di civiltà.

il Fatto 17.4.11
L’intervista. Gerardo D’Ambrosio senatore del Pd
“Quei miei colleghi morti per lo Stato”
di Alessandro Ferrucci


Ora Gerardo D’Ambrosio siede in Parlamento, lato Senato. “Ieri” era nel pool di Mani Pulite, lo stesso osannato dalla gente (“Per strada ci fermavano per incoraggiarci). “L’altroieri” era in prima fila per combattere il terrorismo, “quando i colleghi hanno dato la loro vita per portare avanti una battaglia decisiva”.
Eppure adesso in molti non lo ricordano...
Il problema è che certa politica approfitta dell’ignoranza della gente, dei più giovani che non conoscono la storia della Procura di Milano.
Cosa ha pensato quando ha saputo del manifesto?
Un moto di ribellione, ho ripensato alla morte di Alessandrini per mano di Prima linea, un gruppo armato in cerca di credibilità verso le Brigate Rosse. Oppure mi ricordo di Galli, ammazzato all’università, con i codici in mano. Poi il processo a Curcio...
Cosa successe?
Bè, ne aveva uno Torino, ma venne ucciso il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati. Tutto per evitare l’aula. Dietro c’era la solita tecnica...
Quale?
Di revocare tutti i difensori di fiducia, poi si minacciavano quelli d’ufficio, così spaventato da rinunciare a loro volta. Così fu nominato il presidente del consiglio dell’Ordine che coraggiosamente si presentò. Gli fu fatale. Non solo, fu anche impossibile formare una giuria.
A Milano andò differentemente...
Sì, qui Curcio aveva un processo per tentato omicidio, e trovò sulla sua strada un magistrato giovanissimo che accettò l’accusa: Armando Spataro. Per questo giudico vergognoso questo attacco. Ma c’è un però.
Prego...
Che siamo al momento massimo di delegittimazione della magistratura. Vede, la procura fa il proprio dovere, non è un organo giudicante, ma di accusa, e ha fatto bene il pm Di Pasquale a dire “non faccio battute ma il mio mestiere”.
Una risposta data in faccia a un presidente del Consiglio sempre più protagonista di attacchi e invettive verso i giudici milanesi.
L’obiettivo è intimidire chi deve giudicare, della serie: attenzione a quello che fate.
Nei suoi anni in Procura, ha mai vissuto un clima del genere?
No. Assolutamente. Certo, anche allora si è tentato di mettere in piedi una campagna di delegittimazione, ma il Parlamento ha fatto da argine e la gente si è messa di traverso in nostra difesa.
Mentre ora la claque viene fuori a inneggiare un imputato...
Questo non mi interessa. Ciò che mi preoccupa è l’imputato che si mette in piedi sul predellino a inneggiare alla folla.

il Fatto 17.4.11
La follia come liberazione
di Furio Colombo


Pirandello è stato il primo a notare il grande espediente: se il nodo è inestricabile, fingiti pazzo. La tua finzione, specialmente se estrema, potrebbe indurre gli altri a tradirsi, a rivelare almeno in parte quel che hanno fatto e quel che vogliono fare. Alberto Asor Rosa, il grande italianista – scambiato, a causa del suo silenzio politico negli ultimi tempi, come un intruso nelle pagine politiche dei giornali di questo strano periodo – ha deciso un colpo di scena. Avrà ascoltato gli On. Corsaro e Cicchitto, nella seduta notturna della Camera dei deputati, tutti al lavoro, parlamentari e membri del governo, Esteri e Difesa, non uno assente, al solo scopo, mentre divampano guerre e si addensano pericoli mortali, di salvare il loro primo ministro molto ricco e molto imputato, e si è chiesto ad alta voce: “Ma perché non chiamate i Carabinieri?” (Il Manifesto, 13 aprile). In effetti, chi avesse ascoltato l’On. Corsaro paragonare i giudici di Milano agli assassini di Aldo Moro, e l’On. Cicchitto attaccare con ferocia la vicepresidente della Camera Bindi perché si era permessa di ricordare un vecchio trascorso del vibrante Cicchitto, la sua adesione e partecipazione a una loggia massonica segreta detta P2 (ragione che aveva indotto il presidente della Repubblica Pertini a negare il saluto e rifiutare l’ingresso in Quirinale) si sarebbe reso conto che un evento pazzesco stava svolgendosi quella notte alla Camera dei deputati del Parlamento Italiano.
Non vorrei speculare sul sincero slancio di follia di un italiano stordito ed esasperato dopo 17 anni di venerazione del miliardario e di inchino continuo, dalle grandi intelligenze a Scilipoti, verso le sue volontà, giochi e capricci, e soprattutto interessi; oppure sul freddo e attento letterato che sceglie di essere Enrico IV pur di smuovere almeno l’attenzione di alcuni. Di certo l’obiettivo è raggiunto. Si può parlare liberamente, e anche con sdegno, di Asor Rosa come di un uomo impazzito che vuol mandare i Carabinieri in Parlamento (dunque, colpo di Stato), benché un letterato i Carabinieri li possa soltanto descrivere.
MA INTANTO , fatalmente, ha richiamato l’attenzione su una notte parlamentare che resterà un esempio. Perché è stata una notte senza false illusioni e senza finte bi-partigianerie. L’opposizione, e in particolare il Pd, non ha esitato su nulla, non ha commesso errori od omissioni, ha usato con bravura ogni strumento e ogni espediente, non ha taciuto mai e non ha rinunciato mai, senza una assenza e con molta aspra chiarezza in ogni argomento. Ma è stato come parlare con ansia e ragione e senso del pericolo ai membri di una setta. Niente a che fare col Parlamento. Niente a che fare con “gli eletti dal popolo” visto che si tratta ormai di una legione straniera, di eletti dappertutto e di truppe mercenarie. È stata dunque una notte in cui si sentivano gli echi di due film profetici che hanno segnato la cultura (purtroppo non la politica) italiana: Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, e Il Caimano di Nanni Moretti. In entrambi la fine viene dopo la fine, ovvero il regime crolla, se crolla, solo dopo il compimento di tutto il suo tragico danno. Infatti davanti a Montecitorio in quelle notti c’era una folla che, di tanto in tanto, una Santanchè o un La Russa uscivano a provocare, con spunti di follia più autentica e meno pirandelliana, anche perché si trattava di provocare i congiunti dei morti nel rogo della Moby Prince o del terremoto de L’Aquila.
Dispiace e imbarazza che “penne terze” come vorrebbe essere, ad esempio, Pierluigi Battista, scriva la mattina dopo: “L’elogio del golpe democratico stilato da Alberto Asor Rosa è l’ultima figura di un sentimento apocalittico che alberga in una opposizione drammaticamente incapace di diventare maggioranza” (Il Corriere della Sera, 15 aprile). Senza accorgersi del vero spettacolo di follia: una maggioranza che si comporta con disperazione distruttiva e rinuncia a governare pur di saldare i conti giudiziari del suo leader, e impedisce al suo governo di governare e lo fa anche come spettacolo, dunque in modo clamorosamente e vistosamente folle: eccolo lì tutto il governo, tutto in aula, decine di ore, giorno e notte, tutti fermi, tutti zitti, nel tentativo mortale, finora in parte riuscito, di abolire ogni ruolo o funzione del Parlamento e gettare direttamente il governo contro la magistratura, un modo per autodistruggersi mentre il mondo, che ha preso nota, ha cominciato a escludere l’Italia persino dalla finzione (da tempo era solo una finzione)di contare qualcosa nei consessi e nelle decisioni internazionali. Adesso si lascia intendere chiaramente che l’Italia di Arcore non può stare con Paesi e governi normali (abbiamo perso decoro e dignità prima ancora della libertà formale) e questi governi normali firmano apertamente rilevanti documenti mondiali lasciando che il governo italiano li legga sui giornali.
Dunque, vorrei dire a Pierluigi Battista e ai commentatori allibiti per il commento azzardato di Asor Rosa, che il peggio accade quando la maggioranza usa se stessa e il suo rilevante peso come arma contro le istituzioni, dalla magistratura al capo dello Stato. Non volete credere al mio richiamo a Pirandello come chiave di lettura della esasperata frase di Asor Rosa? Domandatevi se il proclama del vicepresidente dei deputati di maggioranza Corsaro alla Camera, in pieno dibattito sulla legge della prescrizione breve, non sia ben più pericoloso, per luogo, autorità e tempo: ha iniziato la strategia di equiparare i giudici che osano processare il suo capo agli assassini di Aldo Moro. Quella strategia si è poi sviluppata nei manifesti che hanno tappezzato Milano, e nella autorevole e folle dichiarazione (folle senza alcun alibi pirandelliano, dati gli autori) dei senatori Gasparri presidente e Quagliariello (vicepresidente) dei senatori del Pdl. Accusano con veemente violenza la Procura di Milano e prontamente ottengono dal ministro della Giustizia Angelino Alfano, autore di tutta la montatura giudiziaria, di inviare ispettori a Milano. Ovvero : il ministro della Giustizia contro i giudici che tentano carte alla mano, di processare il primo ministro. Non pensate che a questo punto anche tanti altri cittadini si saranno detti l’un l'altro, in un momento di esasperazione : “Ma non si possono chiamare i Carabinieri?”, un modo per dire: ma dovremo restare per sempre in questa gabbia di mentitori, fomentatori e pazzi (pazzi perché unici nello sforzo di distruggere ciò che potrebbero governare)?
C’è sempre un buon dottore, in certe corsie infernali di ospedali caduti nel caos. E adesso, in Italia, si fanno avanti due primari della politica, Veltroni (Pd) e Pisanu (Pdl) e dicono questa frase, che dovrebbe essere la cura miracolosa, e tu te la fai ripetere perché hai il dubbio che si parli dello stesso luogo, dello stesso Paese, della stessa malattia. Dunque, Berlusconi, dopo il bacio alle statuette di Priapo, ha appena fatto sapere che il fine ultimo della sua vita umana, imprenditoriale e politica è (cito) “la distruzione di questa magistratura”, si è appena messo contro l’Europa, fuori della Nato ed escluso da ogni rapporto dignitoso con gli altri leader d’Europa e del mondo. Ha voluto persino aggiungere, fuori testo, il suo odio per la scuola pubblica italiana, che invece avrebbe il compito di governare, e ha dichiarato l’intento di spostare i fondi disponibili verso scuole private “anticomuniste”. Siamo dunque, ovviamente, non solo fuori dalla legalità, come si dice sempre, ma fuori dalla normalità psichica, fatto grave quando avviene a chi detiene il potere. Ma i due primari dicono: “Bisogna creare le condizioni politiche e istituzionali perché si torni al confronto positivo sui veri problemi degli italiani”. Quella parola, “ritorno” rivela una nostalgia purtroppo mal posta. Quando mai, con Berlusconi al potere o capo di una violenta e incessante opposizione, c’è stato un “confronto”? Quando mai “sui problemi degli italiani”? Provoca angoscia e disorientamento sentir dire che “i problemi non sono ideologie, sono fatti. Vince chi indica la soluzione migliore. “Siamo sicuri che sia così? Da quando? Qui risulta (e ne parla la stampa mondiale) che in Italia vince chi ha in mano tutte le televisioni e controlla tutta le informazioni, e spadroneggia con il conflitto di interessi. Sì, lo so, sono le stesse cose che dicevamo educatamente (ma allora, almeno, insieme) nel 1996. La tragedia è questa.

Repubblica 17.4.10
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli


Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi – nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati – si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un´associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d´inchiesta per appurarlo. Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l´attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia. Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo – naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un´apposita legge elettorale – deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento).
Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell´elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d´opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s´intendono benissimo: c´è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se – poniamo – è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell´epoca storica che sta vedendo l´estinzione di questa.
L´altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura – che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore –; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l´esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent´anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L´ultima ossessione – anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente´ – è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana´ contro le élites, anzi contro l´ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell´omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l´eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l´attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che – giustamente – esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.

Repubblica 17.4.11
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi


Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell´odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l´accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l´attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall´onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c´è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d´indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l´indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell´autobiografia del premier. La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell´apprendimento, cioè l´esatto contrario dell´indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell´impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C´è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l´avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall´ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell´uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca. Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario. Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all´istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell´Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall´attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.

Repubblica 17.4.11
"La maggioranza non può fare quel che vuole"


FIRENZE - «Non può, chi è momentaneamente in maggioranza, fare quello che vuole». Lo ha detto il presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo in un incontro con alcuni alunni di scuola elementare, aggiungendo: «Si può cambiare la Costituzione ma per perfezionala, altra cosa è farla a pezzi». E poi ha ammonito: «Chi ha una funzione pubblica deve essere una persona onorevole».

La Stampa 17.4.11
Stéphane Hessel
Indignarsi non basta adesso impegnatevi
A colloquio con il 94enne autore del pamphlet che dopo la Francia sta conquistando l’Italia, oggi a Torino per Biennale Democrazia
di Tonia Mastrobuoni


«A ccontentarsi è pericoloso, la “relativa felicità” e la “relativa soddisfazione” uccidono l’indignazione». Dalla sua casa parigina Stéphane Hessel scandisce le parole lentamente, a quasi 94 anni c’è poco tempo per i malintesi e questo concentrato di virtù novecentesche ci tiene al suo messaggio, al suo Indignatevi! . Nulla di messianico, come qualcuno ha tentato di far credere, un’esortazione piuttosto, che al telefono sintetizza così: «Ho scritto un libro perché avevo la netta sensazione che si stesse camminando nella direzione sbagliata e volevo esortare i giovani a cambiare rotta, a riprendere quella giusta. Riscoprendo i valori della Resistenza che mi hanno formato». Così è nato, alla fine dell’anno scorso, un minuscolo pamphlet ( Indignez-vous! ) che ha immediatamente scalato le classifiche in Francia spodestando Houellebecq e superando a oggi il milione di copie (in Italia da quando è uscito per i tipi di Add, a febbraio, sono già 50 mila).
Oggi Hessel sarà ospite della Biennale Democrazia, ma nei mesi scorsi la sofisticata intellighenzia francese e italiana l’ha velocemente declassato a feticcio da «gauche caviar». Un giudizio che Hessel valuta «ingeneroso, per un vecchio diplomatico in pensione. Certo, mi rendo conto che è facile dire “indignatevi” ed è meno facile capire come. Ma per il “come” rimando ad esempio a La via di Edgar Morin».
Lui non lo dice ma il giudizio è frettoloso per un altro motivo. Suona riduttivo per un signore con un numero tatuato sul braccio, scampato a ben due campi di concentramento. Hessel, ebreo tedesco naturalizzato francese, si arruolò nella Resistenza accanto a De Gaulle e fu catturato nel 1944 dalla Gestapo. Un’esperienza che gli fa scrivere che «quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti e impegnati». E che gli fa aggiungere, al telefono da Parigi, che «l’impulso di scrivere il libro è stata la sensazione che i valori ereditati dalla Resistenza siano ancora oggi indispensabili». Sono principi calati, dopo la guerra, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che Hessel contribuì nel 1948 a scrivere.
È indubbio insomma che la cosa più affascinante diIndignatevi! sia lui, l’autore, compresa la lunga carriera da ambasciatore. Girovagando per le macerie della guerra, il veterano della Francia libera decise che la vita «restituita» andava impegnata; appena vinse il concorso al ministero degli Esteri, il suo primo incarico fu all’Onu, altro baluardo del Novecento scaturito dall’ecatombe dei totalitarismi e degli egoismi nazionali. Un bisogno di democrazia talmente spasmodico da abbracciare il mondo intero. «Però quell’esperienza, assieme alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, è ancora oggi fondamentale, con i valori che simboleggia. Guardi alle cose che stanno accadendo in Nord Africa e in Medio Oriente, alla sete di democrazia che esprimono quei popoli. Dovremmo chiederci piuttosto quanto siano ancora presenti nelle nostre democrazie. Certo, sono valori vecchi, hanno più di 65 anni ma esprimono i bisogni fondamentali: la libertà di espressione, la libertà di stampa, la sicurezza sociale, il diritto alla pensione, alla scuola e all’educazione. Quanto sono ancora presenti nelle nostre democrazie?».
Una domanda apparentemente retorica ma che spegne un po’ il sorriso. E ne fa venire in mente un’altra, cui Hessel risponde senza esitazione: «Perché da noi i giovani non si ribellano e nei paesi affacciati sul Mediterraneo sì? Perché lì ci sono o c’erano tiranni come Mubarak, Ben Ali e Gheddafi». Tra l’altro, aggiunge, «l’intervento in Libia per cacciare Gheddafi è tra le rare cose che ho apprezzato di Sarkozy. Il neocolonialismo, secondo me, non c’entra». Semplice. E poi, «certo, in Italia avete un presidente del Consiglio che non è molto accettabile ma non è certo un tiranno». Troppo semplice. «E inoltre c’è un problema che riguarda indubbiamente il modo in cui siamo governati. Siamo governati da decenni dalla finanza, da gente che pensa solo ai profitti erodendo diritti e certezze sociali a milioni di persone. L’insoddisfazione è enorme ma siamo ingannati dalla “felicità relativa”». Un concetto che Hessel approfondirà nel suo prossimo libro, Engagezvous! (Impegnatevi! ), «in cui spiegherò un po’ più estesamente cosa avevo in mente prima di Indignatevi! Tanto è vero che in realtà l’ho scritto prima».
Quello che Hessel sa bene e che lo rende anche orgoglioso è che la sua lunga storia comincia addirittura prima della nascita. Suo padre, l’ebreo tedesco Franz, aveva ispirato il personaggio di Jules nel romanzo autobiografico di Henri-Pierre RochéJules et Jim , da cui il celebre film di Truffaut. Sua madre, la scrittrice Helene Grund, ispirò la Kathe del libro, interpretata sullo schermo da Jeanne Moreau. Di lei Hessel amava soprattutto «l’incrollabile convinzione che sia fondamentale spargere la felicità attorno a sé». Stéphane Hessel crebbe in questo clima, nella Parigi delle avanguardie francesi del primo Novecento. Lo stesso Roché, ossia Jim, la terza punta del triangolo, descrisse quel clima così: «Se potessi descrivere fino in fondo un solo momento di questa vita a tre, scriverei un capolavoro immortale». Per il piccolo Stéphane, un esordio niente male.

Corriere della Sera 17.4.11
«Hessel ci folgorò, ma cambiammo il titolo del libro»
di Dino Messina


TORINO — Qualche volta l’entusiasmo può cambiarti la vita. È quel che è successo a Sylvie Crossman, ex corrispondente da Los Angeles e da Sydney di «Le Monde» e nel 1996 fondatrice con il compagno Jean-Pierre Barou, a sua volta ex capo redattore di «Libération» , delle edizioni Indigène. Questa piccola casa editrice di Montepellier ha pubblicato Indignatevi! del novantatreenne Stéphane Hessel, caso editoriale dell’anno. «Nella primavera 2009— racconta Sylvie, a Torino per accompagnare Hessel che questa mattina sarà uno dei protagonisti di Biennale Democrazia — andai a sentire al Plateau des Glières, uno dei luoghi simbolo della Resistenza francese, il discorso che, dall’anno dell’elezione di Sarkozy, Stéphane teneva ogni anno ai suoi vecchi compagni di lotta. Ne rimasi talmente impressionata che gli chiesi se voleva scrivere un testo per la nostra nuova collana "Coloro che marciano contro il vento", in cui escono brevi pamphlet a tre euro. Hessel rispose subito di sì, ma invece di scrivere un testo, invitò me e Jean-Pierre a intervistarlo. Registrammo quelle conversazioni, le sbobinammo, le sottoponemmo all’autore per le correzioni e nell’ottobre 2010 le mandammo in libreria con il titolo Indignatevi! invece di quello suggerito inizialmente da Stéphane, Il dovere di indignarsi. La tiratura iniziale era di ottomila copie» . La passione di Stéphane Hessel e la sapienza giornalistica di Sylvie Crossman e Jean-Pierre Barou hanno trasformato quel testo di sessanta pagine sulla necessità di resistere e impegnarsi, destinato ai circuiti alternativi, nel caso editoriale degli ultimi tempi: a oggi le vendite nella sola Francia hanno sfiorato i due milioni di copie, cui bisogna aggiungere quelle distribuite nei 27 Paesi che hanno acquisito i diritti, compresa l’Italia, dove Indignatevi! è pubblicato dalla torinese Add. «La nostra casa editrice — racconta Sylvie — si occupava all’inizio soprattutto di indigeni appartenenti a società non industriali come gli aborigeni d’Australia e i tibetani. Non in un’ottica antropologica. Queste non sono società primitive e immobili, ma hanno messo in atto una modernizzazione spirituale specifica, con una storia e uno sviluppo diversi dal nostro. Abbiamo pubblicato alcuni dialoghi sulla neurobiologia di eruditi tibetani con grandi scienziati occidentali come Antonio Damasio e Richard Davidson, che attestano questa evoluzione» . Oggi gli orizzonti della casa editrice si sono allargati, grazie al successo, dice Sylvie, dovuto anche all’aiuto delle librerie indipendenti. Ma la linea di impegno civile rimane sempre la stessa. «In giugno, oltre alla nostra piccola sede di Montepellier, apriremo un ufficio a Parigi e presto pubblicheremo due libri che ci daranno soddisfazione: il diario di Lina Ben Mhenni, la blogger protagonista della rivoluzione tunisina, e la testimonianza narrativa di Brigitte Brami sulla prigione di Fleury Merogis, il più grande carcere d’Europa. Un testo alla Jean Genet» . E Hessel? «Adesso tutti corteggiano Stéphane, i grandi editori che avevano suoi vecchi libri nel cassetto li hanno precipitosamente tirati fuori. Noi siamo passati ad altro» .

l’Unità 17.4.11
Verso lo sciopero generale del 6 maggio: fisco, lavoro e contratti per rilanciare la crescita
La leader Cgil all’assemblea dei delegati: fa danni chi dice che non si deve scioperare
Camusso: «Cambiare si può, non rassegnamoci al declino»
Fisco e lavoro sono le parole d’ordine dello sciopero generale del 6 maggio. Camusso all’assemblea Cgil: «Cambiare si può, non ci rassegnamo al declino». Thyssen: «Non si scambia la sicurezza col profitto»
di La. Ma.


MILANO «È chi dice che lo sciopero generale non va fatto che sta danneggiando il Paese. Il 6 maggio svuoteremo i luoghi di lavoro». La Cgil si avvicina all’appuntamento più atteso, e la segretaria Susanna Camusso incontra oltre 2mila delegati all’assemblea nazionale, ieri a Roma: «Cambiare si può, non dobbiamo rassegnarci al declino», ricorda a tutti. «Ci diranno che è uno sciopero politico prosegue Camusso, anticipando le critiche che, prevedibilmente, verranno rivolte alla Cgil E noi, ora per allora, rispondiamo: provate a ripensare a cosa vuole dire politica, perchè per voi quella parola non ha più senso. Ci diranno che provochiamo un danno, facendo perdere ore di lavoro in tempo di crisi: guardino loro i danni che stanno facendo. Ci diranno che ci sono sindacati responsabili e chi si oppone a prescindere: vorremmo dirgli che la rassegnazione non ha mai portato buono a nessuno. La nostra responsabilità è proprio quella di aver scelto lo sciopero generale perchè è lo strumento con cui i lavoratori possono dire che cambiare si può e che non rinunciamo all’idea di un cambiamento. Il 6 maggio sarà una grande giornata, perchè il lavoro riprenderà la scena».
SICUREZZA E DOLO
L’assemblea ricorda i morti nel rogo della Thyssenkrupp, e la storica sentenza di condanna per omicidio volontario: «Questa sentenza dice una cosa precisa commenta Camusso la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto: non investire in sicurezza e continuare a produrre è dolo, al centro della contrattazione deve essere messa anche
la sicurezza». Per poi tornare allo sciopero generale. Camusso torna ad esprimere il suo disappunto per la politica economica del governo perchè «tiene il Paese depresso, in declino, e scarica sui lavoratori i costi. E lo fa per difendere i patrimoni di pochi». Al governo la Cgil chiede di «smetterla di raccontare bugie» sulla crisi e di «assumersi la responsabilità» di aprire una «discussione vera» per affrontare i temi della crescita, dello sviluppo e del fisco. E sono questi, infatti, i temi sul tappeto dello sciopero, per «cambiare questo Paese dice Camusso a partire da una seria politica fiscale che prelevi le risorse dove ci sono, quelle accumulate nei patrimoni e nelle transazioni finanziarie, dando maggiore fiato, invece, a lavoro e pensioni. E uno sciopero per una politica che costruisca lavoro e difenda quello che c’è». Poi la segretaria Cgil si rivolge al ministro del welfare, Maurizio Sacconi: «Non ci piace lo Statuto dei lavori e non ci piace nemmeno lo Statuto del lavoro», dice in un passaggio del suo intervento. «I diritti sono sempre in capo alle persone e non al luogo e al tipo di lavoro che si fa sottolinea Altrimenti, passa l’idea che ogni lavoratore può avere dei diritti diversi. Al ministro del welfare diciamo che la sua è un’idea che non faremo passare». Il 6 maggio, continua Camusso, «diremo che non siamo d’accordo con chi dice che ci può essere lavoro senza diritti» e i diritti «derivano da contratti nazionali».
Quindi si rivolge «agli altri soggetti» sindacali (ovvero Cisl e Uil) per ricordare che «la pratica e la scelta di accordi separati non ha portato alcun beneficio per i lavoratori. Quando si lascia ad aziende e governo il potere di decidere sottolinea il sindacato perde la sua autonomia e la sua forza». Gli «unici che possono decidere se c’è un sindacato unitario sono i lavoratori e non un ministro». Il riferimento è al caso Fiat e al problema della rappresentanza sindacale che si è creato con la sottoscrizione degli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori. Perchè «sono i lavoratori che decidono se in un’azienda ci debba essere un sindacato e non l’azienda».

l’Unità Firenze 17.4.11
I partigiani «Mai una via per Gentile»
L’Anpi: no al tentativo di legittimare il filosofo fascista
di Osvaldo Sabato


Quello di Giovanni    Gentile non fu un assassinio, ma una vera e propria azione militare tanto che il gappista che lo uccise, Bruno Fanciullacci, è stato poi insignito di medaglia d’oro alla memoria. Il 17 luglio ' 44 Fanciullacci, catturato dai nazisti, si suicidò poi a Villa Triste dopo essere stato orribilmente torturato. Non aveva ancora 25 anni. L' avvocato Francesco Mandarano ha scritto in suo onore un libro intitolato «Dalla parte di Bruno Fanciullacci». Venerdì scorso, nel 67 ̊ anniversario della morte del filosofo fascista, in Santa Croce si è tenuta una commemorazione con diversi
esponenti del Pdl in prima fila, anche i giovani neofascisti di Casaggì lo hanno ricordato. L’omicidio del filosofo fu la risposta al massacro di 5 giovanissimi renitenti alla leva rastrellati a Vicchio e fucilati innocenti dai repubblichini a Campo di Marte. Il medievista Franco Cardini chiede al sindaco di rompere il silenzio su Gentile, lo storico Arrigo Petacco su La Nazione parla di «omicidio ignobile» e definisce «vergognoso» il fatto che non sia stata ancora dedicata una strada di Firenze. I tentativi per cercare di ribaltare la storia non si fermano e distanza di tanti decenni c’è ancora chi vuole far passare Gentile come «un intellettuale di altissimo livello». Lo fu, veramente. «Ma questo filosofo ha condiviso tutte le cose peggiori del fascismo, è stato il pensatore, è rimasto in silenzio di fronte alle leggi razziali del regime» precisa Silvano Sarti, presidente provinciale dell’Anpi. L’ex partigiano, dal nome di battaglia Pillo, ricorda che in Gentile «non c’è mai stato un istinto di buona volontà nel dire: queste cose le rifiuto, le ha sempre condivise tutte». «Non deve essere per nulla ricordato» sentenzia Silvano Sarti.
Quando parla la sua voce è ferma e decisa, nessun tentennamento nell’affermare che «se l’amministrazione comunale di una città come Firenze, medaglia d’oro della Resistenza, deve parlare di Gentile lo dovrà fare per quello che ha fatto durante il fascismo. Se dicessero cose diverse da queste, allora, vuol dire non riconoscere la storia per come si è svolta» dice Sarti. «Quella di Gentile è stata una scelta di vita, non era mica un contadino qualsiasi? Quando siamo arrivati a decidere da che parte bisognava stare lui ha avvertito la famiglia: ho preso una decisione che forse mi costerà la vita. Non si è tirato indietro quando ha detto che Hitler andava sostenuto e l’Italia non poteva voltare le spalle. Gentile era questo» spiega Sarti «lui era consapevole di tutti i crimini commessi e addirittura condivideva tutte le decisioni di un signore che si chiamava Mario Carità, che era un delinquente comune, non si può dire che non lo sapeva, perché le urla dei partigiani torturati le sentiva» aggiunge il presidente dell’Anpi provinciale di Firenze. «Ci hanno massacrato cinque ragazzi a Campo di Marte, che il Presidente Napolitano gli ha dato la medaglia d’argento, non gliela data d’oro perché in tasca non avevano neanche un temperino. Lui spingeva il mondo studentesco ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana» ricorda Silvano Sarti. In ricordo dei cinque martiri di Vicchio c’è un Sacrario vicino allo stadio Franchi, e lo scorso 22 marzo nella cerimonia di commemorazione dell’eccidio c’era anche il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. «Il Comitato di liberazione nazionale, che decideva, poi i gappisti agivano decise che c’erano personaggi da togliere di mezzo, Gentile era uno di questi» commenta l’ex partigiano. «Non scherziamo, quando si parla di ricordare un persona del genere» dice Silvano Sarti, accanto a lui il suo vice Alberto Alidori annuisce. «Un convegno su Gentile in Palazzo Vecchio è naturale che non si debba mai fare» dice Alidori. Altro che strada. «Lui è stato un corruttore, vogliamo ricordarlo per questo? Non dare onorificenze a Gentile è la prima cosa che va messa in chiaro» aggiunge il vicepresidente dell’associazione degli ex partigiani, che punta ad organizzare una manifestazione cittadina in difesa della Costituzione antifascista.

l’Unità Firenze 17.4.11
Il ricordo
Spini commemora Enrico Bocci, leader di Radio Cora


Nell’aula che l’Istituto Tecnico Duca d’Aosta ha intitolato al suo antico insegnante di diritto, Enrico Bocci, leader di Radio Cora e ucciso, dopo atroci torture dai nazifascisti, si è svolta venerdì una significativa manifestazione in suo ricordo. Dopo un saluto della dirigente scolastica Paola Mencarelli, ha preso la parola il presidente della commissione affari istituzionali del consiglio comunale di Firenze, on.prof. Valdo Spini, che ha definito «Enrico Bocci un autentico eroe della nuova Italia, un esempio a cui ispirarsi per un nuovo Risorgimento del nostro paese. Dopo la torture subite a Villa Triste, Enrico Bocci fu ucciso, ma il suo corpo non venne mai trovato». È seguita la proiezione del filmato della professoressa Alessandra Povia dedicata alla vicenda di Radio Cora . Dei protagonisti di questa impresa, Italo Piccagli, venne fucilato a Cercina insieme ad Anna Maria Enriques Agnoletti e ai quattro radiotelegrafisti dell’esercito paracadutati per concorrere a Radio Cora. Gli altri furono deportati in Germania. Tra essi la coraggiosa Gilda La Rocca. Hanno preso la parola anche Guidobaldo Passigli presidente della Comunità Ebraica, Roberto Nistri dell’Anpi , uno studente e una studentessa del Duca d’Aosta, e, in conclusione la consigliera regionale Daniela Lastri.

Repubblica 17.4.11
Gli amici dell’attivista lo onoreranno nella spedizione in partenza
"Barche di aiuti nel nome di Vik" torna in mare la Freedom Flotilla
La missione prevista a maggio sarà ribattezzata con il suo motto: "Restiamo umani"
di Valeria Fraschetti


Non ci sarà, come aveva sperato. Eppure Vittorio Arrigoni sarà presente. Anzi, della flottiglia internazionale che nelle prossime settimane salperà ancora una volta verso la Striscia l´attivista strangolato a Gaza sarà il protagonista morale. Perché quello che era il suo mantra, la sua firma in calce ad ogni messaggio del suo blog, sarà il nome della prossima Fredoom Flotilla: "Stay Human".
L´invito a se stesso e agli altri a "restare umani" lanciato da Arrigoni era nato dopo essere arrivato a Gaza nel 2008 proprio a bordo di una delle prime imbarcazioni del Freedom Gaza Movement: barche dirette verso le coste palestinesi per protesta contro il blocco navale imposto da Israele al milione e mezzo di abitanti della Striscia. Arrigoni era stato uno dei primi 44 attivisti a intraprendere la missione e anche per questo il Coordinamento nazionale della Freedom Flotilla 2 ha deciso di rendergli omaggio: sul suo sito ha annunciato che la missione umanitaria «tornerà a Gaza in suo onore».
«Vittorio era un emblema della flottiglia e le adesioni sono aumentate anche grazie al suo attivisimo», spiega la giornalista Angela Lano, dell´ufficio stampa di Freedom Flotilla nonché direttrice del sito di notizie palestinesi Infopal. La partenza è prevista a fine maggio. Una data precisa ancora non c´è, anche perché, dicono gli organizzatori, la coalizione che costituisce il movimento continua ad ampliarsi e si cercano nuove imbarcazioni. Ad oggi i Paesi partecipanti sono 50, le imbarcazioni previste 12: un migliaio tra attivisti, cooperanti, giornalisti e cittadini salperanno da diversi porti del mondo per ritrovarsi in acque internazionali e dirigersi alla volta di Gaza per consegnare carrozzine per disabili, desalinizzatori, medicinali, kit scolastici e altro materiale umanitario.
Lo scorso anno la spedizione, che Israele accusò di trasportare armi dirette ai miliziani di Hamas, finì in tragedia: l´assalto dei commando dell´esercito israeliano a sei navi fece 20 morti, per la maggior parte turchi. Ora, alla vigilia della seconda Freedom Flotilla, Israele è in fibrillazione. Due settimane fa il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe convocato gli ambasciatori stranieri per avvertirli della spedizione. E gli attivisti arrivano ad ipotizzare: «Abbiamo il forte sospetto che il suo assassinio sia stato un messaggio di Israele ai paesi membri della coalizione pro-Palestina - dichiara la Lano - Ma dopo la morte di Vik siamo ancora più determinati a portare a termine la nostra missione di aiuto agli abitanti di Gaza».

La Stampa 17.4.11
Da genio a fantasma, la parabola di Weiwei
Il maggior artista cinese sotto controllo delle autorità di Pechino, che stanno cancellando anche il suo nome dal web
di Simone Pieranni


Pechino. Ai Weiwei il 3 aprile doveva imbarcarsi per Hong Kong. Ma l’architetto famoso nel mondo per aver progettato lo stadio a “Nido d’uccello” per le Olimpiadi di Pechino, e noto alle autorità cinesi soprattutto come attivista, giunto all'aeroporto di Pechino è stato arrestato dalla polizia mentre, in contemporanea, il suo ufficio veniva perquisito, i suoi assistenti messi in stato di fermo, il suo noto collaboratore Wen Tao, arrestato, la moglie interrogata.
Da allora di Ai Weiwei non si sa più nulla, mentre la macchina della giustizia di Pechino provvede a cercare prove di una presunta frode fiscale collegata al suo studio a Shanghai e infangarne il nome per presunta diffusione di materiale pornografico, come ha scritto il quotidiano di Hong Kong Wen Wei Po, noto per le posizioni filo governative.
INSIEME ALLE AZIONI giudiziarie la Cina ha messo in piedi il consueto armamentario di censura: sparito il nome di Ai Weiwei, 53 anni, dai siti e microblog cinesi, nessuna notizia circa lo stato delle indagini neanche durante le consuete riunioni tra giornalisti stranieri e portavoce del governo. E per spezzare la cortina del silenzio ieri il cancelliere tedesco Angela Merkel si è mossa personalmente inviando una lettere al regime di Pechino. Per l’architetto sono arrivate manifestazioni di solidarietà dal mondo dell'arte e anche il web cinese, nella sua costante lotta contro la censura, ha manifestato solidarietà usando come sempre scappatoie, nascondendo il suo nome dietro ai caratteri Ai Weilai, che significano “amo il futuro”. Ai Weiwei è l'ultimo arresto di un nuovo, duro periodo di repressione in Cina, dalla non facile interpretazione in termini politici: in meno di due mesi sono centinaia gli intellettuali, attivisti, artisti, avvocati dei diritti umani messi in carcere, in stato di fermo, ai domiciliari, scomparsi . Un'attività preventiva la cui traiettoria parte dall’assegnazione del premio Nobel a Liu Xiaobo, ma è proseguita con maggiore lena in occasione delle proteste “del gelsomino” in Cina. A inizio febbraio su un sito internet, boxun.com  , erano apparsi gli inviti a manifestare ogni domenica contro la corruzione e per riforme democratiche in trenta città del Paese. I manifestanti si sarebbero dovuti radunare “armati” di un gelsomino, simbolo di continuità con le rivolte del Mediterraneo. Ma la protesta è stata più virtuale che reale: poche le persone per strada, ingente lo schieramento delle forze dell'ordine in ogni città. Da quel momento è partita una violenta campagna di arresti, con accuse di sovversione a blogger o attivisti rei anche solo di avere twittato l'appello della protesta. Proprio alcuni giorni fa è arrivata la prima condanna per un 21enne arrestato in una delle domeniche: 2 anni di campo di lavoro.
Di fronte a una tale ondata di arresti, si registra una intraprendenza sempre più spinta da parte degli apparati di sicurezza locali, a testimonianza di come il passaggio politico previsto nel 2012, con il cambio di leadership, stia forse lasciando la politica cinese in un vuoto di potere nel quale sono già partite le consuete schermaglie all'interno del Partito Comunista, per decidere i futuri assetti. Dopo le velate parole circa aperture e riforme del premier Wen Jiabao, questi ultimi arresti sembrerebbero confermare una resistenza del mondo politico cinese a cambiamenti, oppure costituire un'azione preventiva per tappare bocche critiche di fronte a un possibile problema economico dovuto all'inflazione galoppante. Di sicuro in questo momento nel Paese sembra mancare una voce rigorosa, come poteva essere quella di Deng Xiaoping o Jiang Zemin, in grado di imporsi sul resto del partito, indirizzando la politica cinese in una direzione ben precisa. L'impressione è che diverse forze stiano mettendo in campo la propria visione del futuro: a farne le spese la minoranza che da sempre spinge per riforme politiche e per maggiori diritti d’espressione. E che costituisce l'anima più critica della locomotiva cinese.

Repubblica 17.4.11
L’ultimo congresso dei "barbudos" e Cuba si converte al capitale
Il Pcc consacra la svolta "alla cinese" e Fidel esce ufficialmente di scena

qui
http://www.repubblica.it/esteri/2011/04/16/news/cuba_congresso-15040546/?ref=HREC1-8

La Stampa 17.4.11
La scomparsa di Israele
di Elena Loewenthal


In questi giorni concitati per il Medio Oriente e il Maghreb affacciato sul Mediterraneo, Israele è un osservatorio molto particolare. Dotato di una duplice prospettiva che è come una lente bifocale in contraddizione solo apparente. Le notizie e i sommovimenti sono percepiti per un verso nella loro dimensione strettamente geografica, di grande vicinanza.
Israele è nell’occhio del ciclone, esattamente al centro di quell’immenso movimento che parte dall’Africa settentrionale e attraversa il mondo arabo dalla Tunisia alla Libia, lo Yemen, l’Egitto, la Siria e non pochi altri Paesi. Questa vicinanza fisica si accompagna, nella percezione dei media e nel modo in cui nello Stato ebraico vengono lette e interpretate le notizie, a una sorta di inedito distacco. Non è questione di priorità o dimensioni dei titoli, è qualcosa di più profondo. La vicinanza fisica da una parte e la distanza mentale dall’altra, risolvono la contraddizione in una specie di prudente stupore. Nella consapevolezza che qualcosa sta cambiando.
Perché dalla Tunisia al Bahrein è successa e sta succedendo una cosa nuova. Israele non è più al centro. Non è più il fantasma, lo spettro, il demonio. Il nemico per eccellenza, che non va neppure nominato ma solo annientato: nemmeno «lo Stato d’Israele» ma «l’entità sionista». L’entità sionista è stata per decenni il presunto collante che ha tenuto insieme le masse arabe e l’islam. È servito al potere per rivendicare se stesso, per ottenere un consenso più urlato che sostanziale. E invece in questi ultimi mesi di Israele si è detto ben poco, dentro le rivoluzioni dell’islam. Qualche bandiera bruciata, certo. Qualche sporadico richiamo. Ma la voce «Israele» non è più il riflesso condizionato che fa puntualmente gridare le masse. Perché le lotte a questi regimi hanno ben altro a cui pensare: rivendicano i propri diritti, la libertà, governi meno corrotti. Vogliono benessere e una società civile degna di questo nome. Cose che, nel mondo della globalizzazione, sono note anche a chi non le ha. E le vuole.
Nel bene della rivoluzione e nel male del terrorismo, come dimostra l’assassinio di Vittorio Arrigoni. A parte qualche delirio residuale che, come nel caso degli squali di Sharm El Sheikh non molto tempo fa, vede tutto e tutti al soldo del Mossad, questa tragica vicenda tiene fuori Israele dal problematico scacchiere che è Gaza oggigiorno, con i suoi giochi di potere interni. Come dimostra, del resto, l’eloquente e prudentissimo silenzio dell’Anp in questa vicenda.
Per decenni i popoli arabi sono stati tenuti a bada con una strumentazione di potere che prevedeva in prima linea lo stereotipo di Israele fonte di tutti i mali e l’idea malsana che eliminando dalla faccia della Terra questo Paese tutto si sarebbe risolto. L’impressione generale è che queste rivoluzioni abbiano aperto una nuova fase in cui questo collante artificiale non tiene più. Le ragazze tunisine che chiedono la libertà di portare il velo o non portarlo nel loro Paese, non temono di dire che Facebook è stato il vero strumento di lotta per il loro popolo. Facebook: un prodotto dell’imperialismo americano, inventato da un ragazzo ebreo… Roba che fino a non molto tempo fa sarebbe stato un tabù politico.
Pensiamo del resto al profilo assai basso scelto anche dall’Iran di fronte a quel che succede nell’universo islamico. I silenzi talora valgono non meno delle parole: Ahmadinejad è un po’ che tace, che non sputa più ad uso del mondo intero i suoi proclami contro Israele, le sue profezie d’annientamento. È un segnale importante di consapevolezza - quasi la prova del nove -, che questo genere di slogan non attecchisce più come una volta, su dei popoli in lotta per se stessi e non contro qualcun altro.

Corriere della Sera 17.4.11
E il notaio «fotografò» Giordano Bruno sul rogo
In un disegno la prima immagine del filosofo
di Nuccio Ordine


U n nuovo documento sul rogo di Giordano Bruno offre per la prima volta una testimonianza visiva del tragico evento del 17 febbraio 1600: si tratta di un disegno, eseguito dal notaio Giuseppe De Angelis, in cui si vede il filosofo avvolto dalle fiamme. Collocato accanto alla descrizione del trasferimento dell’ «eretico» dal carcere di Tor di Nona alla piazza di Campo de’ Fiori, lo schizzo mostra Bruno di tre quarti, con addosso una tunica, e con le braccia dietro il corpo, probabilmente legate a un palo come spesso accadeva. Il volto presenta dettagli interessanti: un filo di barba sembra marcare i contorni del viso, mentre il tratto molto accentuato degli occhi e delle sopracciglia potrebbe far pensare a uno sguardo marcato, quasi minaccioso. Questo prezioso inedito è stato rinvenuto nell’Archivio di Stato di Roma da Michele Di Sivo e Orietta Verdi nel corso del restauro di alcuni documenti in occasione della mostra dedicata a Caravaggio a Roma (fino al 15 maggio), in cui sono esposte testimonianze sconosciute sul soggiorno nell’Urbe del grande pittore. Si tratta del registro che raccoglie gli avvenimenti accaduti tra il 1 ° gennaio e il 31 marzo 1600. L’intervento dei restauratori ha permesso di recuperare quasi il settanta per cento del testo in latino. Ma già una prima trascrizione, effettuata da Di Sivo e dalla Verdi, presenta, nonostante alcune evidenti lacune, interessanti informazioni finora rimaste sconosciute agli specialisti. Il notaio De Angelis, come era nella prassi, registra che Bruno, trovandosi detenuto presso il governatore di Roma (che all’epoca era Ferrante Taverna) viene affidato al giudice Giovanni Battista Gottarello per far eseguire la condanna comminata dal Tribunale dell’Inquisizione. Il nome di Gottarello non era mai apparso prima in nessun documento: spetta a lui dare il via al corteo che accompagna Bruno in Campo de’ Fiori. L’Inquisizione, infatti, affidava al braccio secolare l’esecuzione della pena capitale. Tra i testimoni del rogo, figurano il cardinale Giulio Antonio Santori di Santa Severina e lo stesso notaio De Angelis. L’unico importante resoconto del supplizio del Nolano, in cui si descrive l’atteggiamento sdegnato di Bruno che reagisce con ferocia quando gli presentano un crocifisso, è conservato in una lettera spedita da Roma, proprio il 17 febbraio 1600, da Kaspar Schoppe al suo maestro Konrad Rittershausen. Da quest’ultimo, probabilmente, il grande Keplero avrebbe potuto attingere le informazioni che hanno ispirato la sua famosa missiva del 1607 in cui si accenna alla tragica fine dell’ «infelice» filosofo. In assenza degli atti processuali e di fronte alla carenza di documenti che riguardano la vita di Bruno, questa nuova scoperta aggiunge una piccola tessera alla ricostruzione degli avvenimenti. Ma l’elemento più prezioso riguarda il disegno del notaio. Si tratta di uno schizzo, è vero. Si tratta di un manoscritto purtroppo deteriorato dall’umidità, senza dubbio. Ma l’abbozzo dell’unica testimonianza visiva del rogo potrebbe fornire, se studiata a fondo e con strumenti che possono permettere di distinguere con maggiore chiarezza il tratto della mano dalle sbavature dell’inchiostro, qualche dettaglio utile a rispondere ad alcuni interrogativi. Bruno aveva veramente la mordacchia, il morso collocato in bocca? Solo un documento la menziona, senza altri riscontri. E ancora: Bruno viene bruciato nudo, come è ricordato soltanto in una nota della Confraternita di San Giovanni Decollato? A una prima analisi del disegno sembrerebbe che Bruno indossasse una tunica, mentre resta difficile confermare o smentire la presenza della mordacchia (il tratto della bocca resta non abbozzato: per distinguere i limiti della barba o per voler marcare la bocca chiusa?). Altre interessanti indicazioni potrebbero chiarire dettagli del volto del Nolano. Lars Berggren ha mostrato che tutti i ritratti del filosofo finora conosciuti sono stati eseguiti molto tempo dopo la sua morte. Dagli interrogatori degli atti veneziani ricaviamo l’unico racconto, molto vago, di un testimone che descrive Bruno come «un homo piccolo, scarmo, con un pocco di barba nera» . Del resto, anche nel Candelaio il pittore Gioan Bernardo (le iniziali, G. B., rafforzano nella commedia il suo ruolo di alter ego dell’autore) viene rappresentato con una «negra-barba» . E in effetti il disegno del notaio De Angelis sembrerebbe confermare la presenza della barba che correrebbe lungo tutto il volto. Ma questo schizzo— che, lo ripetiamo, merita indagini più approfondite — non può essere considerato un caso isolato. Esistono, infatti, diversi esempi in cui ai margini dei registri venivano offerte immagini dei condannati a morte con una serie di importanti dettagli. Michele Di Sivo, in un suo articolo, ne segnala due: Andrea Pacini, bruciato a Roma per sodomia il 10 maggio 1614, viene raffigurato nudo con un volto effeminato e addirittura con due seni abbozzati, mentre Giovanni Mancini (condannato il 23 ottobre 1623 per aver celebrato messa senza essere prete) viene rappresentato nelle fiamme, vestito, e con i tratti del volto e dei capelli ben evidenziati. Quanti altri documenti importanti per la memoria del nostro grande patrimonio intellettuale e artistico potrebbero venir fuori dai nostri archivi? A Roma se non fosse stato per l’eccellente idea dei dirigenti dell’Archivio di Stato di rivolgersi a sponsor privati, per il restauro degli importanti documenti su Caravaggio, non avremmo mai avuto occasione di aggiungere nuove tessere alla vita del famoso pittore e adesso anche a quella di Giordano Bruno. Ma perché lo Stato si disimpegna sempre più e non difende i suoi tesori? L’alibi della crisi viene smentito dai fatti: i miliardi di euro stanziati per coprire le furberie di pochi allevatori non avrebbero potuto essere degnamente e fruttuosamente investiti nella scuola e nella cultura?

l’Unità 17.4.11
Dal padre a papi. Crescere senza limiti
Parla lo psicoanalista Massimo Recalcati, autore di un saggio sulla evaporazione della figura paterna: «Oggi prevale una incestuosità diffusa, un modello di paternità che autorizza alla più totale dissoluzione dei No»
di Beppe Sabaste


Formatosi come filosofo, è tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia. Insegna Psicopatologia del comportamento alimentare all’Università di Pavia e Sociologia dei fenomeni collettivi all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

È meglio la questione dell’eredità e della trasmissione di un «ordine simbolico» della madre e del padre nella formazione dell’individuo. Se sull’«ordine simbolico della madre» esiste una letteratura intensa prodotta da anni di pensiero femminile (penso al gruppo Diotima e a Luisa Muraro) la questione dell’imago paterna «nell’epoca dell’evaporazione del padre» è oggi riassunta con chiarezza dallo psicoanalista Massimo Recalcati in un libro di cui consiglio a chiunque la lettura: Cosa resta del padre? È un saggio di psicanalisi impregnato di filosofia (l’etica dell’alterità di Emmanuel Lévinas è sottesa lungo tutto il discorso), fortemente influenzato dal pensiero clinico di Jacques Lacan; ma per mostrarne subito la politicità attuale e stringente riporto quasi per intero la lunga nota a pagina 14: «L’espressione “papi”, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a “papi”, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (...) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al “papi” del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento».
«Sì, il libro è fortemente politico mi dice Massimo Recalcati perché nella dimensione contemporanea prevale una incestuosità diffusa, di cui una manifestazione è che le istituzioni diventano proprietà delle persone come corpi, in un processo di proprietà o appropriazione senza responsabilità, come la legge ad personam. La vocazione della paternità implica invece una responsabilità senza appropriazione, senza proprietà. È questa la cifra politica del mio studio».
Se la figura del padre si è vaporizzata, suggerisce Recalcati, possiamo però pensare al padre come «resto», non un Ideale ma la singolarità incarnata di una vita che ci precede, testimonianza etica di una possibilità di vivere, fallire, perdersi, riorientarsi e immaginare. In questo senso il libro di Recalcati può affiancarsi a un altro piccolo classico contemporaneo, L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descrive il mutamento antropologico dietro la retorica della «precarietà»: la perdita di un senso della durata che rende incomprensibili parole come dedizione, impegno, relazione, perdita di un senso narrativo dell’esistenza, quindi della possibilità di immaginare e progettare la propria vita, del cui progetto è parte integrante e necessaria anche l’esperienza, oserei dire l’epica, del fallire. Elogio del fallimento è il titolo di un bellissimo paragrafo del saggio di Recalcati, dove si legge che «la psicoanalisi non tesse l’elogio della prestazione», «è antagonista al narcisismo dell’apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi», ma «punta piuttosto a scorticare l’involucro narcisistico dell’immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio»: «il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della    prestazione». Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.
Con la sparizione del padre, ovvero dell’esperienza del limite e della conflittualità, del No che orienta e stimola l’affacciarsi nel giovane di un’identità desiderante, di una trasgressione che nasce dal desiderio di infrangere la Legge rappresentata dalla figura paterna, anche il godimento, osservava Lacan, diventa «smarrito». Con parole nostre: l’innesto del feticismo della merce preconizzato da Marx nel «capitalismo culturale» (quello dell’intrattenimento) descritto da James Rifkin, fa del Potere una centrale di spaccio istituzionalizzato di droga, una fabbrica di sogni che produce incubi. Lost in the supermarket, cantava Joe Strummer, perso nel supermercato, luogo simbolico e globale della trasformazione dei sudditi in consumatori, in una spirale di dannazione fatta di facile godimento e libertà illimitata fino all’intossicazione, non contrastata da nessun Padre ma anzi proposta da chi ne occupa il suo spazio vacante, il «papi». Quella che Lacan definiva «l’astuzia fondamentale del discorso del capitalista» consiste, spiega Recalcati, nell’intrecciare la dimensione illusoria e salvifica dell’oggetto-merce o idolo con la vacuità di un godimento. La schiavitù del soggetto all’oggetto (anche sessuale) è la tragica realtà del coincidere oggi in Italia di potere economico e potere politico in un nuovo fascismo pubblicitario.
La psicoanalisi, ci insegna Recalcati, è chiave e strumento per decostruire la libertà immaginaria della nuova alienazione. «Lacan è stato un grande maestro perché la sua virtù più profonda era di aprire interrogativi invece che fornire risposte. La sua forza non era solo retorica ma capace di incarnarsi in una parola viva, centrata non sul libresco e l’accademico, ma sul desiderio. Sono nato come filosofo mi dice sono stato fabbricato come professore di filosofia, poi sono inciampato nei miei sintomi e sono diventato psicoanalista... La differenza è che la filosofia si preoccupa della verità universale, trascendentale, la psicanalisi della verità più infima e scabrosa, quella che ci risponde nel nostro peggio» (anche il berlusconi che è dentro di noi).

l’Unità Firenze 17.4.11
L’enigma e il fascino dell’isola, il chiodo fisso di Adolf Hitler
Quadri di Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico e Antonio Nunziante in esposizione fino al 19 giugno al Palazzo comunale di Fiesole
di Gianni Caverni


Quattro quadri di Arnold Böcklin, piuttosto malridotti, nemmeno del tutto terminati, eppure pieni di un fascino straordinario. “Isole del pensiero” è il titolo della mostra curata da Giovanni Faccenda che, fino al 19 giugno, mette insieme nella sala del Basolato del palazzo comunale di Fiesole, il maestro di Basilea, Giorgio de Chirico che tanto gli ha dovuto, e Antonio Nunziante, pittore contemporaneo. Anche il titolo della mostra evoca il “quadro dei quadri”, quell’Isola dei morti che tanto fascino ha esercitato su schiere di artisti. La prima che fece fu nel 1880, poi altre quattro ne seguirono secondo il consiglio del mercante berlinese che colse al volo la straordinarietà dell’opera. Un fascino che è stato capace di coinvolgere profondamente personaggi come Freud, Hitler, Lenin, Dalì, Strindberg, Druié e D’Annunzio. Hitler, che ne possedeva una, volle che tutto ciò che di Böcklin era rimasto nella villa Bellagio a San Domenico di Fiesole fosse portato via, si salvarono solo quei 4 quadri e qualche disegno, probabilmente nascosti in qualche modo. Il “Pan fra i bambini in girotondo” è palesemente non finito, era quello che fu trovato ancora sul cavalletto quando l’artista morì, nel 1901. Dei 5 de Chirico in mostra 4 sono del periodo “barocco” che risale fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Potrebbe però valere una visita anche solo la “Passeggiata, il tempio di Apollo a Delfi” che l’artista greco di nascita, ma italiano di origine, dipinse fra il 1909 e il 1910 probabilmente quando abitava a Firenze. Si tratta del quadro che registra la fase di preannuncio dei temi esplicitamente metafisici e il paesaggio nel quale si svolge la scena è probabilmente ispirato ad un luogo reale della zona di Fiesole, naturalmente letto secondo la grammatica di Böcklin.
L’isola, o meglio una sua interpretazione, è quasi costantemente presente nei quadri di Antonio Nunziante che segue la via a suo tempo aperta dall’artista svizzero e percorsa poi da tutti gli artisti classificabili, per necessità di sintesi, come surrealisti. L’isola di Nunziante è “più positiva”, come lui stesso la definisce. E’ comunque un enigma per dirla col de Chirico metafisico, si colloca all’esterno ma anche all’interno di stanze deserte il cui pavimento in legno è allagato dal torrente che scorre fra i cipressi. O, in questo citando non solo de Chirico ma anche suo fratello Savinio, in interni che si fanno esterni attraverso il soffitto mancante.

La Stampa 17.4.11
Morto Bellone, storico della scienza


È morto a Tortona, a 73 anni, lo storico della scienza Enrico Bellone. Si era laureato in Fisica nel 1962 a Genova, ma poi la passione per la storia della scienza lo ha portato a insegnare questa materia a partire dal 1980 prima nell’Università di Lecce, poi in quella di Genova e quindi all’Università di Padova. Direttore dal 1995 al 2008 del mensile Le Scienze , è stato anche un apprezzato divulgatore. L’editore Codice ha da poco pubblicato il suo ultimo libro, Qualcosa là fuori. Come il cervello crea la realtà.

Corriere della Sera 17.4.11
Molte nature e molti mondi nell’universo di Bellone
di Giulio Giorello


I nostri discorsi non devono vertere «su un mondo di carta» , ma su quello «vero e reale» : era la battuta di Galileo Galilei più amata da Enrico Bellone, fisico e storico del pensiero scientifico, nonché per lungo tempo direttore della rivista «Le Scienze» , «ripensamento» italiano del prestigioso «Scientific American» . Ma Enrico, scomparso all’età di 72 anni (era nato a Tortona il 14 agosto 1938), aveva dedicato uno dei suoi saggi di maggior successo in Italia e all’estero proprio a quel Mondo di carta (Mondadori, 1976; apparso nella Biblioteca della Est, Edizioni scientifiche e tecniche, diretta da Edgardo Macorini). — non è che Enrico fosse nostalgico dell’epoca in cui, nel dibattito scientifico, veniva invocata l’autorità dei volumi di Aristotele! Piuttosto, egli era convinto della necessità, per la crescita della scienza, di quel variegato universo dei libri cui gli scienziati consegnano le loro ipotesi, prove, dimostrazioni circa quel «mondo vero e reale» che cercano di comprendere pur facendone inevitabilmente parte, visto che loro stessi sono oggetti fisici tra altri oggetti fisici, organismi biologici tra altri organismi biologici, «macchine pensanti» tra altre macchine pensanti, come i «cervelli elettronici» ideati da ingegnosi matematici e realizzati da sofisticati tecnologi. Il mondo di carta è, insomma, quello delle teorie scientifiche e delle grandi tradizioni di ricerca, un mondo creato dagli esseri umani grazie a quei «venti o poco più caratteruzzi» che, come diceva già Galileo nel tessere l’elogio dell’arte della stampa, consentivano che si potesse «dialogare» con quanti si trovano dall’altra parte del Globo, e anche con le generazioni future, persino coloro che verranno «tra mille anni» , quando noi non ci saremo più. A differenza di quello celeste di Platone, si tratta però di un mondo costituito non solo da idee, ma da «manufatti» , ove accanto ai libri troviamo oggi telescopi e microscopi, acceleratori di particelle e computer, sonde spaziali e apparati sanitari. Le teorie e le tradizioni sono certo ragione; ma soprattutto sono ragione incarnata in corpi e in tecnologie. C’è una bella espressione di Jorge Luis Borges che vale la pena ricordare: «Pensare, analizzare, inventare non sono atti anomali, sono il respiro normale dell’intelligenza» . Compito dello storico della scienza, secondo Bellone, era quello di capire come tutto ciò potesse avvenire a partire dall’attività dei neuroni nel nostro cervello, fino all’espressione del pensiero sulle pagine dei libri o nelle fibre della Rete. E si dovevano inoltre ricostruire i motivi per cui alcuni di quei manufatti — concetti o macchine che fossero — erano riusciti a imporsi nella cultura umana, in una selezione culturale non meno «severa» di quella naturale teorizzata da Darwin per le specie viventi. Strumenti di adattamento tra i più raffinati, e insieme dotati di una necessaria fisicità, erano così riusciti a produrre, accanto alla natura con cui l’uomo si era confrontato fin dal suo affacciarsi alla storia, altre Molte nature (come recita il titolo di un altro saggio di Bellone, Raffaello Cortina, 2008). Enrico è mancato la notte tra venerdì e sabato. Intellettuale insofferente delle concezioni falsamente profonde dei «metafisici» , per i quali «la scienza non pensa» , portato invece, con grande concretezza, a guardare in faccia le difficoltà dell’esistenza, l’ho visto negli ultimi anni amareggiato per una politica come quella del nostro Paese, caratterizzata da riforme velleitarie e inerzia conservatrice, costellata di tanta retorica pseudo-umanistica e altrettanta diffidenza per la sobrietà scientifica. Ma Enrico è rimasto fino all’ultimo dell’opinione che la scienza sia cultura a pieno diritto, anzi un tipo di cultura libero e liberante. Ci piaceva, insieme, rammentare una frase di John Warr, inquieto spirito indipendente dell’Inghilterra di Cromwell: con l’andar degli anni ci rendiamo conto di come vengano bruciati i nostri sogni giovanili di rinnovare la società in cui ci siamo trovati a vivere; ma «resta sempre una scintilla nella cenere» .

sabato 16 aprile 2011

Corriere della Sera 16.4.11
«Evoluzionismo, una visione cieca della vita umana»
L’attacco al nazista Kolbenheyer
di Martin Heidegger


Ogni epoca e ogni popolo hanno la loro caverna e gli annessi abitanti della caverna. Anche noi oggi. E un caso esemplare di un odierno abitante della caverna, con il suo annesso plaudente seguito, è ad esempio il filosofo popolare e politico della cultura Kolbenheyer, che ieri si è esibito qui. Non mi riferisco al poeta Kolbenheyer, di cui ammiriamo il Paracelsus. Egli è vincolato alle ombre e le considera l’unica concretezza e l’unico mondo determinante; cioè pensa e parla nello schema di una biologia che ha conosciuto trent’anni fa— in un tempo in cui era di moda produrre visioni del mondo biologiche, cfr. Bölsche e i libri sul cosmo. Kolbenheyer non vede, non è capace di vedere e non vuole vedere: 1. che quella biologia del 1900 si fonda sull’impostazione di fondo del darwinismo e che questa dottrina darwinistica della vita non è qualcosa di assoluto, e nemmeno di biologico; piuttosto essa è determinata genituralmente dalla concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel secolo XIX; 2. che la sua biologia del plasma e della struttura cellulare e dell’organismo è radicalmente superata e che oggi viene alla luce una formulazione interamente nuova, fondamentalmente più profonda, della questione concernente la «vita» .— Scardinamento del concetto di organismo, che è soltanto una propaggine dell’«Idealismo» , soggetto singolare, «Io» , e soggetto biologico. Tempra di fondo: relazione con l’ambiente, e questa non è una conseguenza dell’adattamento, bensì al contrario la condizione d’attendibilità per esso; 3. che, sebbene la costitutiva determinazione della vita sia più originaria e più appropriata di quella del secolo XIX, anche in questo caso la vita (modo d’essere di pianta e animale) non costituisce la sovrana sfera d’integrità della concretezza; 4. che, sebbene, in una certa forma, la vita umano-fisica sia il fondo portante dell’umano essere e della sua successione di generazioni raccolte in stirpi, con ciò non è ancora provato che il fondo portante debba e anche soltanto possa essere anche il fondo determinante (...). 5. In fondo questo modo di pensare non si differenzia in niente dalla psicoanalisi di Freud e dalle sue consorterie. In fondo nemmeno dal marxismo, che prende il tratto genitural-spirituale come funzione del processo di produzione economico (...). 6. Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheyer è incapace di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca; infatti, nella conferenza non ve ne è traccia — al contrario: la rivoluzione è stata falsificata come mera azienda organizzativa. 7. Qui monta il tipico atteggiamento di un borghese reazionario nazionale e popolaresco. Per quest’ultimo la «politica» è un’ignobile, fatale sfera che si lascia nelle mani di certe persone, che poi per esempio fanno la rivoluzione. Il borghese aspetta finché questo processo è finito perché arrivi nuovamente il suo turno; qui con il compito di fornire infine, ex post, lo spirito alla rivoluzione. Naturalmente per questa tattica ci si appella ad un motto del Führer: finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione. Suvvia — non indugiamo in falsificazioni. Evoluzione — certamente, ma appunto dove la rivoluzione è finita.

Corriere della Sera 16.4.11
Nelle lezioni del ‘33 il filosofo avviò lo strappo da Hitler
di Armando Torno


Martin Heidegger cominciò presto a porsi domande sulla verità. In Essere e tempo — la prima edizione è del 1927 — si trovano le questioni di fondo della sua ricerca, in particolare egli fissava le coordinate per ristabilire il luogo ontologico nel quale la verità si costituisce. Notò, tra l’altro, che essa «deve avere pure qualcosa di valido se perdura» . Poi, nell’autunno-inverno 1930, terrà a Brema, Marburgo e Friburgo, e la ripeterà nell’estate del 1932 a Dresda, la conferenza L’essenza della verità, la medesima che sarà pubblicata soltanto nel 1943 e poi inclusa nell’opera Segnavia (tradotta da Adelphi nel 1987). Quel che si legge in questo breve testo è indispensabile per comprendere il corso universitario che il filosofo svolgerà a Friburgo nel semestre invernale 1931-32: le lezioni, dal 27 ottobre 1931 al successivo 26 febbraio, avevano come titolo L’essenza della verità (tradotte da Franco Volpi per Adelphi nel 1997). Dopo l’incarico a Hitler del 30 gennaio 1933, Heidegger è coinvolto nel nuovo clima e in marzo entra nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti universitari, il 3 aprile in una lettera a Jaspers ribadisce la sua volontà di agire, il 3 maggio è tesserato (con la data del giorno 1) nel Partito nazionalsocialista, il 27 si celebra la sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo. Il 30 giugno ad Heidelberg tiene la conferenza L’università nel nuovo Reich e Jaspers nella sua Autobiografia nota: «... anch’egli preso da quella ubriacatura...» . Il 3 novembre sul Bollettino universitario viene pubblicato il discorso d’inaugurazione del semestre nel quale Heidegger indica Hitler come punto di riferimento e l’ 11, a Lipsia, ribadisce le sue posizioni. —, ma in quei mesi sta accadendo qualcosa nella mente del filosofo. Nel semestre estivo del 1933 tiene un corso dal titolo Die Grundfrage der Philosophie, ovvero L’interroganza di fondo della filosofia. All’inizio la questione posta è sulla «nobiltà dell’istante geniturale» ; poi esamina, tra l’altro, le posizioni di Hegel, Kant, Descartes, Wolff, Baumgarten. Nell’ultima pagina si legge: «Il popolo tedesco non appartiene a quei popoli che hanno perso la loro metafisica» . Quel qualcosa che dicevamo prende forma nel corso del semestre invernale 1933-34, che ha come titolo Vom Wesen der Wahrheit, cioè Dello stanziarsi della verità. Già nel primo capitolo della parte prima, Heidegger invita a riflettere sulla «liberazione dell’uomo verso la luce d’origine» ma anche sulla condizione di chi si trova «nella caverna» , chiamando in causa quanto Platone scrive nel VII libro della Repubblica, quell’allegoria che immagina uomini incatenati in un antro e in grado di vedere sul fondo soltanto le ombre degli oggetti che scorrono davanti all’ingresso. Sono pagine densissime, che esaminano il bene, la libertà; soprattutto offrono riflessioni formidabili sulla verità. Ora, sia il corso del semestre estivo 1933 che quello invernale ricordato, vedono la luce in italiano con il titolo Che cos’è la verità? (da lunedì in libreria per Christian Marinotti Edizioni, pp. 336, e 30). Tradotti da Carlo Götz, tali scritti ebbero la prima edizione tedesca nel 2001 a cura di Hartmut Tietjen. In questa pagina anticipiamo uno stralcio che nel testo è posto in corsivo e reca il titolo A proposito del 30 gennaio 1933. È un attacco a Erwin Guido Kolbenheyer (1878-1962), scrittore o «filosofo popolare» che dir si voglia, molto letto e apprezzato nel Terzo Reich, dal 1933 funzionario culturale dell’Accademia prussiana delle arti. Heidegger è ancora rettore — rassegnerà le dimissioni alla fine di questo semestre invernale —, ma lo strappo è già avvenuto. E le sue parole, qui date in anteprima, ne sono la prova.

l’Unità 16.4.11
Restiamo umani
di Vittorio Arrigoni


Questa non è una guerra perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte; è un assedio unilaterale condotto da forze armate fra le più potenti del mondo, che hanno attaccato una misera Striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli. (da Gaza, 6 Gennaio 2009)
RISPOSTA    «Abbiamo visto girare l'angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due figlioletti. Quando il carretto si è fatto abbastanza vicino e con orrore abbiamo visto un bimbo sdraiato con il cranio fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite, il suo fratellino con il torace sventrato (gli si potevano distintamente contare le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera) e la madre che teneva poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare qualcosa. È stato il nostro ennesimo personale lutto». Personale era, infatti, il lutto vissuto da Vittorio per lo strazio della guerra e da qui bisogna partire,credo, per capire il senso della sua presenza a Gaza e il perché di una morte dovuta, oggi, alla crudeltà cieca di quelli che usano gli orrori compiuti da altri solo per giustificare i loro. All’interno di una spirale di odio da cui Vittorio voleva tenersi fuori. Chiudendo la sua lettera con un «restiamo umani!» che era il suo messaggio per tutti noi e che è stato oggi la ragione della sua condanna a morte.

l’Unità 16.4.11
Intervista con Ahmed Yousef
«Lo ricorderemo tra i martiri del nostro popolo»
Il dirigente di Hamas sostiene che il gruppo salafita può essere stato infiltrato: «Solo Israele poteva avere un vantaggio da questo crimine»
di U. D. G.


Ho avuto l’onore di conoscere Vittorio Arrigoni. Ho imparato ad apprezzarne il coraggio, la disponibilità, lo spirito di sacrificio. So che anche in questi momenti terribili c’è chi ha pensato di infangarne la memoria dipingendolo come “amico di Hamas”. Non è così. Vittorio era amico del popolo palestinese, ne aveva abbracciato la lotta di liberazione. Ed era divenuto un esempio per quanti in Europa volevano impegnarsi per Gaza, battendosi contro l’assedio israeliano. Per questo Vittorio Arrigoni era diventato un bersaglio. Da eliminare. Vittorio è uno “shahid” (martire, ndr) e come tale sarà ricordato e onorato da tutti i palestinesi». A parlare è uno dei più autorevoli dirigenti di Hamas: Ahmed Yousef, consigliere politico del primo ministro del governo di Hamas, Ismail Haniyeh. Yousef è considerato un esponente dell’ala «pragmatica» di Hamas, spesso in aperta polemica con l’ala militarista e con quei gruppi dell’islamismo radicale armato palestinesi contigui ad Al Qaeda. Per questo la sua denuncia acquista una particolare valenza: «Abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere».
Vittorio Arrigoni è stato assassinato. A Gaza come in Cisgiordania sono in molti a piangerlo. Così in Italia. C’è chi sostiene che la sua uccisione sia una sfida ad Hamas e al suo «regno» a Gaza...
«L’assassinio di Vittorio è una sfida, un oltraggio a tutto il popolo palestinese. C’è chi ha interesse a gettare discredito sulla nostra lotta di liberazione, a dipingere Gaza come una giungla ingovernabile dove ogni abiezione è possibile. Per il suo impegno solidale, per le sue puntuali denunce dei crimini compiuti da Israele contro la popolazione di Gaza, prima, durante e dopo “Piombo Fuso”, Vittorio Arrigoni era diventato un testimone scomodo, un nemico da eliminare...».
Chi aveva questo interesse?
«Le ripeto ciò che ho avuto modo di dire ad altri suoi colleghi in queste ore: abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere. Israele vuole fermare tutti coloro che cercano di aiutare la gente della Striscia di Gaza. È stato così con l’assalto alla Freedom Flotilla. E ora la storia si ripete...». La sua è un’accusa pesante. Fondata su che cosa? Lei chiama in causa Israele, ma a rivendicare il rapimento di Arrigoni è stato un gruppo salafita palestinese...
«Le indagini sono in corso e nelle prossime ore potrebbero esserci sviluppi importanti...Probabilmente Israele è riuscito a infilitrarsi in questo gruppo e a commettere l’assassinio direttamente o in combutta con alcuni traditori. Questo è l'unico modo per intimorire le persone che vogliono venire a Gaza per solidarietà come il movimento di cui Vittorio faceva parte. La morte di Vittorio è stata particolarmente raccapricciante, ma Israele non è nuova a operazioni di depistaggio che servono a screditare i palestinesi e, al tempo stesso, eliminare persone ritenute scomode per il loro impegno, per il loro esempio. La strategia israeliana è chiara è chiara: dividere i palestinesi, conquistare i territori e danneggiare Hamas...».
Insisto ancora. Tra le ipotesi che vengono avanzate in queste ore, c’è che Vittorio Arrigoni sia rimasto vittima di un regolamento di conti tra fazioni palestinesi....
«Gaza come una giungla, in balia di abietti assassini, dove nessuno può dirsi al sicuro, neanche chi “gode della protezione di Hamas...”. Ecco l’immagine che si tenta di far passare agli occhi dell’opinione pubblica italiana della Striscia, della sua gente, di Hamas...Ma le cose non stanno così. E Vittorio lo sapeva bene...».
Ma non può negare che a Gaza agiscano gruppi salafiti...se vuole le faccio l’elenco. «Non c’è bisogno. Costoro non hanno nulla a che vedere con la resistenza palestinese, sono solo una banda di degenerati fuorilegge che vogliono seminare l'anarchia e il caos a Gaza. Ma neanche questi banditi si sarebbero spinti fino a questo punto...».
Ritorna l’accusa a Israele...
«Anche il più fanatico tra i palestinesi ricerca un consenso alle sue azioni. Uccidere Vittorio getta solo discredito...
E Israele lo sa bene».

il Fatto 16.4.11
“Adesso siamo terrorizzati ma restiamo a Gaza”
I compagni di “Vik”: “Israele ed europei sono i veri colpevoli”
di Alessandro Oppes


Hanno paura. Ma non hanno lasciato trascorrere neppure ventiquattr’ore dalla morte di Vittorio Arrigoni per confermare che loro, da Gaza, non se ne andranno. Anche a costo di dover intensificare ulteriormente le misure di sicurezza, raddoppiare la prudenza, imparare – sempre di più – a diffidare. Sono ancora sotto choc i circa trenta rappresentanti delle dieci ong italiane presenti nella Striscia, tutte impegnate proprio in queste settimane nell’avvio del programma d’emergenza finanziato in parte dal dipartimento Cooperazione della Farnesina (con un impegno economico sempre più scarso: appena 2 milioni quest’anno, contro i sei del 2010), da diversi donors europei e da associazioni della società civile italiana. Conoscevano tutti Vittorio, uno dei veterani tra i nostri cooperanti a Gaza, e sapevano bene che da tempo era nel mirino di gruppi dell’estrema destra israeliana, che avevano messo una taglia sulla sua testa. È per questo che ora che è morto, anche se la responsabilità viene attribuita a gruppi salafisti ostili ad Hamas, pensano che la domanda principale a cui si deve cercare di rispondere sia: “A chi fa comodo questa uccisione?”.
LO CONFERMA al Fatto Quotidiano una cooperante impegnata da parecchi anni a Gaza, e che chiede di mantenere l’anonimato per timore di ritorsioni: “Parliamoci chiaro, questa è una zona di sperimentazione militare. Si sa che la linea delle autorità israeliane è che non ci debbano essere testimoni per raccontare lo schifo che si svolge sotto i nostri occhi”. Tra gli attivisti delle ong, “nessuno si aspettava che i palestinesi avrebbero potuto commettere un orrore simile: non avevano mai ammazzato uno che sostiene la loro causa. Mai in 60 anni di cooperazione con il popolo italiano hanno fatto qualcosa del genere”. E allora, che cosa può essere accaduto? Si sa che il clima cominciò a degenerare a partire dalla vittoria di Hamas nel 2006: “Da quel momento si è andati verso uno scontro interno sempre più aspro. Abbiamo visto emergere personaggi che contribuivano a creare una situazione sempre più preoccupante. Ma non avevamo mai avvertito nessuna ostilità verso di noi”. Al di là delle divisioni interne al campo palestinese, riemerge quindi la domanda: “Chi c’è dietro? Chi ha interesse a soffiare sul fuoco?”. Gli unici a dare una risposta secca, carica di rabbia, sono proprio i compagni di Vittorio, i dirigenti dell’International Solidarity Movement: “Ci sono responsabilità precise, politiche e morali, dello Stato d’Israele, con la complicità del governo italiano , che è tra i suoi più fedeli e cinici alleati, dell’Europa, degli Stati Uniti e dei cosiddetti Paesi arabi moderati”, taglia corto Alfredo Tradardi, portavoce della sezione italiana dell’ong.
UN ATTACCO frontale, che provoca un certo imbarazzo tra i rappresentanti delle altre associazioni impegnate nel portare aiuto a Gaza. Per questo, tutte insieme, ieri hanno stilato un comunicato nel quale esprimono soprattutto una preoccupazione: che l’opinione pubblica “non operi la solita, banale equazione, fuorviante e controproducente, tra palestinesi, terroristi, Islam e fondamentalismi”. La vera urgenza, proprio nel momento più delicato, è che non si inceppi la macchina degli aiuti. A rimetterci, sarebbero le vittime di sempre, quelle che più hanno sofferto in questi anni: la popolazione di Gaza sotto-posta a un brutale assedio. “Non li possiamo abbandonare, ce lo chiedono a gran voce”.

l’Unità 16.4.11
16 anni e mezzo all’ad Espenhahn Condanne da 10 a 13 anni per gli altri dirigenti imputati
Fra le fiamme morirono in sette L’applauso dei parenti. Il pm Guariniello: «svolta epocale»
«Omicidio volontario» Giustizia per la Thyssen
Sentenza storica per il processo Thyssen. Il Tribunale di Torino accoglie la richiesta dell’accusa: fu omicidio volontario. 16 anni e mezzo per l’a.d. Espenhahn, condannati gli altri dirigenti. L’applauso dei familiari.
di Oreste Pivetta


Un quarto d’ora dopo le nove di sera, arriva la sentenza. La Corte di Assise di Torino riconosce che vi è stato omicidio volontario con dolo eventuale. I sette morti del rogo alla Thyssenkrupp, tre anni e mezzo fa, non sono stati un accidente legato all’imperizia degli stessi lavoratori o dei loro compagni, come aveva fatto intendere la difesa, che aveva addirittura parlato di processo politico, di processo ideologico «contro il capitalismo». No, scandisce il presidente della Corte Maria Jannibelli: si tratta di omicidio volontario con dolo eventuale. Così l’amministratore delegato dell’azienda, Herald Espenhahn, viene condannato a 16 anni e mezzo di reclusione, come aveva chiesto il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. Anche gli altri imputati vengono condannati, tutti per omicidio colposo: Gerald Priegnitz, Marco Pucci,  Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi, Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi. I giudici accolgono le richieste dell’accusa, aumentando piuttosto la pena di Daniele Moroni (Guariniello aveva chiesto nove anni). È una decisione che farà storia, perché per la prima volta viene riconosciuto, per un incidente sul lavoro, un reato di omicidio volontario: nulla è avvenuto per caso, si sapeva, si poteva prevedere, per interesse si sono negate quelle misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare la strage. Faranno scuola questa sentenza e l’attenta minuziosa indagine del procuratore Guariniello, che ha sostenuto la prova di una consapevolezza del pericolo: si sapeva del rischio, ma si è preferito correre quel rischio: Espenhahn «si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle».
Alla lettura molti applaudono. Saranno duecento circa ad affollare il salone della seconda corte d’assise di Torino. In prima fila anche il procuratore capo Giancarlo Caselli. Poi ci sono le madri, le sorelle, le mogli, i padri, con le foto dei loro cari. Si tengono per mano quando i giudici entrano. Ci sono gli amici. Qualcuno tra i parenti indossa la maglietta nera con la scritta: «giustizia, condanne severe per gli imputati». Non dicono: «giustizia è fatta». Con realismo dicono: «è un passo verso la giustizia». Qualcuno si sente male. Nessuna condanna potrebbe cancellare il dolore. Ma intanto al primo giudizio si è arrivati. Guariniello mette in guardia: bisogna fare in fretta con processi di questo genere, perché la possibilità della prescrizione c’è sempre (soprattutto se passerà la legge sul “processo breve”). Ma in questo caso siamo avanti: tutto è avvenuto, miracolosamente, in tempi relativamente rapidi. «È una svolta epocale prosegue Guariniello da oggi in poi i lavoratori possono contare molto di più sulla sicurezza. È un regalo che vogliamo fare al presidente della Repubblica».
La sentenza è l’ultima voce di una lunga notte cominciata tre anni fa. L’ultima giornata, ultima per ora, si era aperta con i primi drappelli nel piazzale davanti al palazzo di giustizia: poca gente, militanti, sindacalisti della Fiom, una scena fredda, come se Torino avesse scelto l’indifferenza. L’ultima giornata era continuata con i parenti delle vittime e con gli amici che sono arrivati e sono ripartiti per recarsi al cimitero: un saluto ancora ai loro cari. Poi sono tornati, stretti vicini. «Ci vorrebbe l’ergastolo. Mio fratello è rinchiuso in una tomba da tre anni e mezzo», diceva Concetta Rodinò. «In ogni caso, non ci rassegneremo mai», diceva Laura Demasi.
Il presidente della Corte d’Assise di Torino, Maria Jannibelli, aveva aperto l’udienza, per invitare tutti al rispetto del silenzio, di un «rigoroso silenzio»: «Ricordo che siamo in un’aula di Tribunale e che non verrà rispettata alcuna intemperanza da parte chiunque». Niente altro e aveva riunito il collegio in camera di consiglio. Fuori il pubblico si era ancora assottigliato. Restavano Giorgio Cremaschi e Antonio Boccuzzi, il sopravvissuto di quella notte, oggi parlamentare del Pd. Restavano presidi e striscioni. «Onore ai sette eroi della Thyssen, solidarietà ai familiari», recitava quello del Collettivo comunista piemontese. Restavano i cartelli che invocavano giustizia. Erano ricomparse, alle cancellate, le foto dei morti, tante volte viste in aula.

Repubblica 16.4.11
"Il lavoro non è solo profitto in fabbrica niente sarà come prima"
Il segretario Cgil Camusso: sentenza storica per la sicurezza
di Roberto Mania


È una decisione giusta: per la prima volta un dirigente viene condannato per omicidio volontario
C´è in Italia una deriva culturale che porta a sostenere che nelle aziende si possa fare a meno dei diritti

ROMA - «Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisione storica, so che è la prima volta che un amministratore delegato viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, misura le parole di fronte alla sentenza della Corte d´Assise di Torino. Riflette su come la tragedia alla Thyssen abbia inciso sulla coscienza di tutta la società italiana, sulle resistenze che ancora ci sono di fronte al tema della sicurezza sui posti di lavoro, su come la tendenza ad abbassare il valore del lavoro possa condurre anche a consumare drammi come quello di due anni fa nello stabilimento siderurgico torinese.
Cosa ha provato quando ha saputo della condanna?
«La prima sensazione è stata positiva, per quanto si possa dire davanti a quella che è stata una vera strage. Ma, d´altra parte, la disattenzione alla sicurezza dei lavoratori in un impianto siderurgico non può che essere colpevole. Ricordo che subito dopo la tragedia, molti lavoratori denunciarono i tanti segnali di pericolo che c´erano stati dentro la fabbrica. E come l´azienda, avendo deciso di chiudere l´impianto, continuasse a produrre senza i necessari interventi sulla sicurezza. Ricordo, addirittura, il tentativo di fare ricadere le responsabilità sui lavoratori».
Cosa significa condannare un capo azienda per omicidio volontario?
«Sia chiaro, non ho nulla di personale, ma credo che sia una decisione giusta. Viene respinta l´idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori».
Pensa che questa sia un´idea diffusa in Italia?
«C´è una tendenza secondo la quale bisogna togliere i controlli, ridurre le procedure burocratiche, deregolare. La verità che afferma la sentenza è che la responsabilità della sicurezza dei lavoratori è dell´impresa».
Definirebbe storica questa sentenza?
«Non lo so. Dico che è una sentenza molto importante: non si può scherzare con la vita di chi lavora».
Quasi un riscatto del lavoro, per quanto attraverso una vicenda drammatica?
«Sì. Un riscatto molto doloroso. Ma può essere d´aiuto per ribadire che non può esserci un profitto a prescindere».
Sta dicendo che nel nostro sistema imprenditoriale ci sia questa cultura?
«Io ho visto un governo molto impegnato ad alleggerire la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Quasi un «liberi tutti». Una deriva culturale che porta a sostenere che possa esserci un lavoro senza diritti. Questo c´è. Poi, non c´è dubbio, la crisi economica ha aumentato la pressione sui lavoratori. Non a caso sono aumentate le malattie professionali».
La crisi sta mettendo più a rischio la vita dei lavoratori nelle fabbriche?
«C´è chi ha usato la crisi per sostenere che prima di tutto viene il lavoro e sul resto (diritti, sicurezza, tutele) si può anche sorvolare».
Perché si continua a morire sul lavoro? Solo qualche giorno fa hanno perso la vita due lavoratori alla Saras dei Moratti in un incidente molto simile a quello della Thyssen.
«Perché non si fa tesoro dell´esperienza. C´è una cultura, ripeto, che gioca sulla povertà. Piuttosto penso che manchi un senso di mobilitazione civile per dire che è proprio ingiusto morire sul lavoro. Servirebbe una mobilitazione corale per dire che queste morti sono contro qualunque idea etica della società».
Eppure gli ultimi dati dell´Inail indicano un calo delle morti nell´ultimo anno.
«Ci andrei cauta perché vorrei capire quanto hanno inciso le ore di cassa integrazione, cioè di non lavoro».
In questo contesto culturale che lei descrive, c´è una responsabilità anche del governo?
«In quello che è accaduto non c´è una responsabilità diretta del governo. Ma certo questo governo è corresponsabile nell´aver creato un clima, un atteggiamento culturale, in cui si ritiene che i diritti non siano connaturati al lavoro».
Cosa è cambiato in Italia dopo la tragedia alla Thyssen?
«Purtroppo questo è diventato un paese che consuma qualsiasi notizia molto in fretta».

l’Unità 16.4.11
Se il sogno tv non incanta Chiara e Ambra
Berlusconi ha rabbia contro tutto ciò che è bello giovane e felice. Tutte queste cose il premier non le ha più e per questo attacca il corpo delle donne
di Luigi Cancrini


La deposizione di Ambra    e Chiara ai Pm di Milano è un documento che apre una finestra sul mondo (mercato) dello spettacolo televisivo, sui modi in cui esso viene vissuto (fantasticato) dai più giovani, sulle reazioni che produce su di loro e nelle loro famiglie. Propone un’immagine inquietante, nello stesso tempo, sul rapporto che c’è fra le caratteristiche attuali di questo mondo e la figura del premier. L’uomo intorno a cui tutto si muove.
L’accesso al mondo della tv Diventare meteorina, si sa, non richiede la partecipazione ad un concorso o curricula. Chiede di esibire ad uno che conta (nel caso Emilio Fede) le curve o le scollature, assecondare qualche movimento galante facendo finta (con se stesse, in questo caso) di considerarlo innocuo: («avrebbe potuto essere mio nonno: di che dovevo preoccuparmi?»), accettare l’idea di correre qualche rischio. In due, in questo caso, per proteggersi a vicenda (o di testimoniare l’una per l’altra) se qualcosa andrà di traverso.
Il rapporto fra uomo (nonno) e donna. Descritto con sobrietà e con grande precisione, il tipo di rapporto che l’uomo potente, che ha in mano le chiavi del tuo successo e/o del tuo guadagno (1800 euro al mese) è un rapporto di scambio ben sintetizzato, due secoli fa dal senatore di Donizetti nell’Elisir d’amore: «Io son vecchio/e tu sei bella/io ho i ducati/e i vezzi hai tu». Quello che il senatore prometteva ad Adina era il matrimonio, però, non il bunga bunga e/o l’acquisto del corpo che qui si intende interamente donato al compratore con tutti gli annessi e connessi (come un appartamento ) nel momento in cui accettando di concedersi (vendersi) le donne (fanciulla, ragazza, minore) mette la sua firma in calce al contratto. Chiaramente delineando il rapporto fra l’uomo che compra e la donna che vende: un rapporto di compravendita in cui lei mette in gioco tutto quello che ha (corpo e bellezza) in cambio di promesse vaghe, mantenute solo se lei si comporterà come vuole lui.
La psicopatologia della vecchiaia Invecchiare bene non è facile, specie per l’uomo di successo. Accettare l’idea della morte, non più così lontana, e i limiti imposti dagli anni alla propria possibilità di fare richiede maturità e capacità di accettare la depressione: compito difficile e a volte impossibile, questo per le persone patologicamente innamorate di sé, del proprio carisma, del proprio potere o del proprio denaro. Quello che ne risulta è naturalmente (purtroppo) una rabbia contro tutto ciò che è bello, giovane, riuscito, potenzialmente felice che è l’espressione immediata dell’invidia vissuta da chi queste cose non le ha e non le può avere più e che si traduce, qui, in questo attacco al corpo della donna. Sezionato in tette, culi, cosce dallo sguardo avido di un desiderio capace di scordarsi del tutto della persona e della dignità personale della bellezza.
L’eleganza Terribile di fronte alla descrizione delle cene e del bunga bunga, dei corpi così volgarmente esibiti e degli scherzi osceni del premier, il ricordo della parola che Berlusconi ha usato tante volte per caratterizzare quelle sue serate di “intrattenimento” quando di incontri eleganti e di conversazioni “raffinate” lui ci aveva parlato senza mai spiegare perché a quelle sue serate venissero invitate (a pagamento) solo donne giovani, belle e da lui “mantenute” (o mantenibili). Confondendo probabilmente anche in buona fede perché questo è il suo livello l’eleganza con la capacità di spendere e la raffinatezza con le mani bucate di un uomo vecchio e solo che si fa guardare e toccare da persone pagate per questo.
La dignità Che esiste, per fortuna, perché Ambra e Chiara se ne vanno, rinunciando al loro sogno televisivo. Dicendo di no a Emilio Fede, a Silvio Berlusconi, ai loro soldi e ai loro “stipendi” e decidendo, a distanza di tempo, di fare pubblica denuncia di quello che è accaduto. Con l’appoggio di famiglie molto più dignitose di quelle che incitavano le loro figlie, sorelle (o fidanzate) a prendere tutto quello che si poteva prendere. Prendendosi insieme dei rischi per mettere la parola fine alle chiacchiere che giravano intorno alle loro serate ad Arcore. Rivendicando in questo modo la loro dignità. Orgogliosamente facendosi forti, (come l’Adina di Donizetti) della loro gioventù e della loro bellezza contro cui poco davvero possono, ora, i soldi di chi spudoratamente aveva tentato di comprarle.

l’Unità 16.4.11
Nuova strategia Pd: una legge elettorale per impedirgli di arrivare al Colle
Bersani freddo di fronte alla proposta Veltroni-Pisanu di un governo di «decantazione»: «Si sbaglia chi crede che Berlusconi rifletta su come decantare». Cambiare la legge elettorale per impedire la scalta del premier la Colle.
di Simone Collini


2012: Berlusconi che passa la mano a un altro leader del centrodestra anche per la premiership, ma solo perché lui nel 2013 punterà al Quirinale. È lo scenario su cui iniziano a ragionare nel Pd ora che per dirla con Bersani «la compravendita va avanti» e l’ipotesi della spallata è definitivamente tramontata. Al Berlusconi «padre nobile» che si fa da parte non crede Bersani («sì, e poi farà il nonno nobile per altri 10 anni») il quale anzi è convinto che il premier punti alla presidenza della Repubblica. Non a caso il fronte antiberlusconiano, che sta preparando la battaglia per impedire la scalata al Colle, ha ripreso in mano una pratica che era finita nel cassetto dalle settimane in cui ha tentato di battere il governo sul voto di fiducia e poi sulle norme ad personam: la legge elettorale. Così, mentre i leader delle forze di opposizione hanno ripreso a sparare contro il “porcellum”, che assegna il 55% dei seggi a chi prende anche un solo voto in più («è peggio addirittura della legge Acerbo promulgata sotto il fascismo» per Bersani, mentre per Fini cambiare questa «legge pessima» è «una delle grandi emergenze»), i “tecnici” hanno ripreso il lavoro da dove lo avevano lasciato quattro mesi fa (un misto di proporzionale e uninominale a doppio turno). Il problema rimane, oltre al raggiungimento di un accordo tra Pd, Idv e Terzo polo, avere la maggioranza in Parlamento. È su questo per i vertici del Pd, più che su un improbabile governo di transizione, si deve ora lavorare, cercando una sponda tra le persone «di buona volontà» presenti nel centrodestra.
PROPOSTA VELTRONI-PISANU
A riaprire una discussione su questo tema è stata una lettera al “Corriere della Sera” di Veltroni e Pisanu.
L’esponente del Pd e quello del Pdl propongono un governo di «decantazione» per rasserenare il Paese, mettere mano alle emergenze e riformare la legge elettorale. È la prima volta che una personalità del partito del premier apre all’ipotesi di un governo non a guida Berlusconi. E gli apprezzamenti non mancano. Da quello di Fini, che dice di condividere «dalla prima all’ultima parola», a quelli dei diversi esponenti di Movimento democratico (e qualcuno si spinge a vedere un nesso col fatto che Napolitano ribadisca che «l’unità nazionale e la coesione sociale e istituzionale non solo non sono un ostacolo, ma sono la condizione per il successo concreto delle riforme necessarie nel nostro Paese»).
Il problema è che dal fronte centrodestra la bocciatura è totale, con il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto che parla di «proposta che non sta né in cielo né in terra» e con il ministro leghista Calderoli che parla di «proposta del governo degli zombie».
È basandosi non tanto su queste parole quanto sul comportamento tenuto da Berlusconi e soci in questi mesi che Bersani ritiene difficilmente realizzabile la proposta Veltroni-Pisanu. «Tutte le soluzioni che portano a un passo indietro di Berlusconi sono benvenute ma non mi pare che lui sia intenzionato a farlo», dice il leader del Pd. La prova è che «c’è il decreto sulle intercettazioni e continuano le operazioni di compravendita dei deputati». Veltroni dice a chi sostiene che Berlusconi non è disposto a farsi da parte che allora «non rimane che attendere passivamente i prossimi due anni»? Per Bersani c’è un’altra soluzione: «Il Pd deve dire agli italiani sei, sette cose precise e attorno a quelle costruire le alleanze. Si può fare anche tra diversi ma su basi chiare. Bisogna chiamare le persone di buona volontà per andare oltre la fase attuale. Chi si sottrae deve dire cos’altro fare per evitare di trovarci Berlusconi Presidente della Repubblica. Se qualcuno immagina che l’uomo rifletta su come decantare, si sbaglia».

l’Unità 16.4.11
Noi ce ne andiamo e loro arrivano Su lavoro e nascite il record è loro
L’analisi dei dati dell’Istat «sconfessano» gran parte dei luoghi comuni che circolano sul tema dell’immigrazione. In aumento il numero dei giovani italiani che vanno a lavorare all’estero. Il peso del “Buco” demografico.
di Nicola Cacace


Gli italiani hanno paura degli immigrati per la diffusione di pregiudizi e cattiva informazione, oltre che per la pessima gestione politica dell’immigrazione. Quanti sanno che nel decennio 2000-2010 la popolazione residente è aumentata di quasi 4 milioni solo grazie agli immigrati e che gli sbarchi via mare sono stati 20mila l’anno, il 6% del totale? Quanti sanno che gli stranieri, pur essendo di istruzione «abbastanza simile a quella degli italiani» (Istat, gli stranieri nel mercato del lavoro) fanno lavori che gli italiani generalmente rifiutano? Quanti sanno che molti di questi lavori servono a salvare lavori italiani a valle altrimenti destinati a scomparire come, la pesca d’altura per il mercato del pesce, gli allevamenti per latte e formaggi, cuochi e camerieri per il turismo, portantini per ospedali, concerie per pelli e calzature, fonderie per la meccanica, raccolta frutta per l’industria conserviera, etc., senza parlare del milione e 400mila tra colf e badanti (stima Censis) che consentono ad altrettanti italiani/e di andare a lavorare? Se l’immigrazione nell’ultimo decennio
è cresciuta in Italia assai più che altrove è perché dal 2000 ha cominciato a pesare il Buco demografico, con nascite dimezzate da 1 milione a 500mila, a partire dal 1975, così che dal 2000 ci sono ogni anno solo 500mila ventenni a sostituire 1 milione di sessantenni. E di questi 500mila, quasi tutti diplomati, nessuno è disponibile a fare lavori «al di sotto della loro istruzione», soprattutto a Nord. E cosa fanno? La metà trova lavoro precario, gli altri emigrano. Secondo l’Istat l’emigrazione netta è stata di 20mila giovani nel 2008, 44mila nel 2009, 66mila nel 2010 (primi 11 mesi). Siamo di fronte a due mercati del lavoro, uno di lavori “umili” per gli stranieri, un altro di lavori “qualificati” per gli italiani. Mentre il primo mercato regge abbastanza bene, essendo lavori «faticosi, con molto sudore e paghe basse», il secondo mercato va male perché l’Italia va male, innova poco e quindi non crea lavori qualificati a sufficienza. La riprova del doppio mercato si ritrova nei dati sull’occupazione. Come certifica l’Istat quella degli stranieri è cresciuta sempre, 2009 (IV trimestre) +102mila, 2010, +183mila, anche quando quella degli italiani calava, 2009 (IV trimestre) -530mila, 2010 -336mila. Un dibattito serio sull’immigrazione deve affidarsi ai fatti, i costi dell’accoglienza ma anche i ricavi, dai contributi pagati dagli immigrati alle attività italiane salvate. L’idiozia non può far scuola, tantomeno dovrebbe guidare le scelte politiche.

il Fatto 16.4.11
Comunisti cubani a congresso tra Fidel ed esercito
Dopo dieci anni torna a riunirsi il vertice del Partito-regime
di Maurizio Chierici


Comincia all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano, partito unico riunito l’ultima volta dieci anni fa a Santiago, capitale orientale dell’isola. La malattia del Fidel (adesso risanato) fa saltare l’appuntamento 2006, ma il rimandare non aiuta le speranze: modello socialista dello stato padrone in agonia per il gran rifiuto ai consigli cinesi che suggerivano l’ibrido terribile del capitalismo socialista. Fidel non ne voleva parlare e Raul non sa a quali santi aggrapparsi.
Cuba balbetta nella prospettiva che le conclusioni del Congresso rovescino la vita del Paese. Ormai la povertà si è trasformata in una miseria difficile da spiegare a 11 milioni di cittadini tra i più evoluti delle due Americhe: alfabetizzazione, lauree tecniche e scientifiche in concorrenza con Stati Uniti. Ecco la scelta dolorosa annunciata da Raul Castro: cambiare le strutture economiche , aprire alle privatizzazioni tagliando i rami secchi che affogano i bilanci. Perdono il posto un milione e mezzo di dipendenti dello Stato ai quali si promettono permessi ed aiuti per aprire piccole aziende o reti commerciali. La delusione immalinconisce la generazione di chi ha 50 anni. Cresciuta nelle università, impegnata nell’orgoglio del nazionalismo respirato in ogni virgola dell’apprendistato di cittadinanza: ingegneri, medici, scrittori, la classe dirigente che illustra Cuba oltre i confini, viene imbalsamata e non sa che pesci pigliare.
Brontolii, blog pieni di spine: come possiamo diventare contadini o barbieri se la nostra vita è stata programmata in altro modo? Tra le spiegazioni la lotta alla corruzione non diversa da ogni altro Paese latino, ma Cuba è nella vetrina sbagliata mentre a Santo Do-mingo, Panama o Colombia, Paesi amici di Washington, le vetrine sono male illuminate e nessuna esasperazione gonfia la condanna . Uscito di prigione l’ultimo dei 75 detenuti politici che hanno infiammato i liberali d’Occidente, restano i buchi di una libertà di stampa che non c’è e la richiesta dell’opposizione interna consapevole e lontana dai traffici di Miami. Chiedono un altro partito in concorrenza col socialismo proclamato il 16 aprile di 50 anni fa da Fidel. Era la vigilia dell’invasione della Baia di Porci. Oggi Fidel, Raul e ogni vecchio militante sono consapevoli che si apre l’ultimo Congresso della loro generazione. Indispensabile l’ingresso dinuoviprotagonisti,perlopiùin divisa.
RAUL governa con loro: 10 militari tra ministri e vice nel suo governo. Ed è possibile che altri militari finiscano ai vertici: per una transizione non definita se non nel contenimento dei debiti. Gli oppositori seri che dall’interno contestano lealmente il regime, ne sono sconvolti. Manuel Cuesta Morua, meno di 50 anni, intellettuale di colore, socialdemocratico che si é formato in Europa, soprattutto in Italia, fa sapere che “militarizzare la politica è un modo per ingessare l’esistente senza pensare al futuro“. Più o meno le parole dell’ingegner Payà, democristiano ed autore del piano Varela, presentato all’università dell’Avana con Fidel in prima fila che applaude Jimmy Carter entusiasta della proposta. Subito sepolta. Da 8 anni non si parla più di una richiesta “sensata”, parole di Carter: affidare al bipartitismo il futuro del Paese. Il cui cambiamento è quasi quotidiano. Anche lo zucchero, bandiera del volontariato del Che, è un ramo secco: l’Avana lo importa dal Texas; la sua zafra mantiene il commercio solo del fantastico rum. Fuorigioco gli oppositori del passato: Elisardo Sanchez, spia della polizia, medaglia al valore di Castro per le “informazioni strappate agli stranieri di passaggio che bussavano alla sua porta”. La fine del socialismo non sarà un terremoto , ma brucerà sicurezze e memoria di tre generazioni. Le quali hanno sotto gli occhi l’importanza che il governo attribuisce alla mediazione della Chiesa cattolica, cardinale Ortega fino a qualche anno fa considerato avversario pericoloso: in gioventù spedito qualche mese ai lavori forzati. Storie di ieri sopravvissute al Duemila. Non è che dall’altra parte del mare i sentimenti siano diversi: solo rovesciati. Mentre piazza della Rivoluzione festeggia i 50 anni della vittoria alla Baia dei Porci, i reduci ricacciati dalla Baia di Porci vengono accolti al Congresso dagli amici repubblicani con la retorica di chi esalta il coraggio dei “liberatori”. L’assemblea del Partito trascurerà i veleni di questo populismo. Valuterà se la speranza di Obama che al secondo mandato apra davvero le porte a Cuba come Jimmy Carter ha lasciato capire nel viaggio all’Avana prima dell’assise del partito unico. Viaggio per sapere, viaggio per informare, chissà. L’immagine dei colloqui in giardino, sembra uscire dal tempo che fu: Carter e Raul, due camice bianche, pance ormai rotonde, ascoltano la camicia bianca di Fidel che alza il dito con autorità, ormai illusione. Alla fine del Congresso sapremo se questo passato sopravvive o se la speranza è un’altra.

il Fatto 16.4.11
Matteotti, italiano diverso
di Angelo d’Orsi


Il 10 giugno 1924 un signore, alto e distinto, che percorreva Lungo Tevere Arnaldo da Brescia veniva affiancato da un’automobile nera. Ne scendevano alcuni uomini che lo aggredivano, colpendolo fin quasi a tramortirlo, e a forza lo cacciavano nella vettura, dove la colluttazione proseguì, finché l’uomo fu trafitto da vari colpi di pugnale. Gli assassini erano guidati da Amerigo Dumini; l’ucciso si chiamava Giacomo Matteotti, e il suo cadavere, scarnificato, fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma, il 16 agosto. La “crisi Matteotti” fece vacillare il regime fascista, ma si risolse in un fiasco per le opposizioni, per la loro interna divisione, e per la complicità del re Vittorio Emanuele III con Mussolini. Questi il 3 gennaio 1925, con un discorso arrogante e ribaldo davanti a una Camera largamente asservita, si assumeva la responsabilità morale e politica di quanto era avvenuto. E dava il via a una seconda ondata di violenze squadriste. Già, “il fascismo non era poi così male”, potrebbe commentare (come ha fatto) il Giuliano Ferrara di turno.
CHI ERA Matteotti? Un italiano diverso, lo definisce lo storico Gianpaolo Romagnani che gli ha appena dedicato una biografia appassionata (Longanesi), che sebbene discutibile in qualche punto e in molti giudizi, è un lavoro utile che, dopo l’agiografia e il martirologio, vuole raccontare in modo critico la vita di questo riformista anomalo, che non smise di pensare alla rivoluzione, ma che era stato uno dei più tenaci oppositori della guerra, tanto nel 1911, per la prima impresa di Libia (ora siamo alla terza, dopo la seconda, sterminatrice negli anni ’30), quanto, poco dopo, nella Grande guerra. La coerenza fu il tratto distintivo del rodigino Matteotti, pur nella incoerentissima posizione di rampollo (solo sopravvissuto dei 7 figli) di una ricca famiglia di proprietariespeculatori,nonproprio amatissimi nel povero Polesine tra Otto e Novecento. Ma a ben pensare, l’accusa di “tradimento” che gli si moveva da parte borghese, e i sospetti che si addensavano su di lui dalla sua parte, per quell’appartenenza sociale, costituiscono elementi che accrescono il valore del personaggio. Quanto gli sarebbe stato più facile fare l’avvocato, amministrare le proprietà, o avviarsi alla carriera universitaria, o persino fare quella politica, ma dalla “sua” parte, quella dei padroni: invece Giacomo scelse la via stretta e aspra del militante (poi dirigente) socialista, scelse di stare dalla parte degli umili, e di aiutarli a risorgere. Perciò egli ebbe sempre attenzione al linguaggio della politica: farsi capire dagli analfabeti e, aiutarli a crescere, culturalmente, prima che politicamente. Di qui il suo interessamento alle questioni scolastiche: e specialmente relative ai gradi più bassi dell’insegnamento. Organizzatore lefficace, formidabile oratore, ottimo amministratore a livello comunale, ebbe dei limiti sul piano della visione politica, ma fu davvero un combattente coraggioso, con quella sua “figuretta ostinata ed esigente”, come gli scriveva la sua adorata Velia, la compagna che gli diede tre figli, e che, cattolica e disinteressata alla politica, condivise con lui ansie, pericoli, ostracismi. Pur avendo denunciato, quasi con spavalderia, la natura ferocemente di classe del movimento mussoliniano, accusava innanzitutto la borghesia che lo sosteneva, ma non aveva il coraggio di farlo palesemente: reazionari e vili.
E LA REAZIONE incarnata dalle squadre armate fasciste colpì durissimamente proprio la provincia di Rovigo, dove il Socialismo aveva dominato incontrastato: era, come a livello nazionale, un gigante dai piedi d’argilla. E cadde, dolorosamente, travolto dal micidiale combinato disposto fra squadristi, forze dell’ordine (un bel paradosso) e altre pubbliche istituzioni, e associazioni agrarie. L’azione di Matteotti fu instancabile, anche quando fu costretto a lasciare la provincia: gli era del resto già accaduto durante il primo conflitto mondiale quando fu inviato al confino di polizia in Sicilia, per timore che la presenza di un antimilitarista come lui avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle truppe italiane. Fu, il dopoguerra, la sua ultima stagione politica, ma anche la più intensa, cominciata e finita all’attacco: minacciato, pestato, addirittura (pare) sodomizzato dai fascisti, Giacomo Matteotti non arretrò di un passo, continuando nella sua opera di denuncia, documentata e precisa, delle violenze squadriste. Costanza, abnegazione, moralità severa, furono i tratti distintivi della sua azione, che ne fecero una delle figure più a rischio dell’antifascismo. Matteotti non era un deputato in vendita, come s’usa oggi; non era un uomo per tutte le stagioni, secondo i modelli correnti; non aveva l’impudicizia del voltagabbana, oggi sulla cresta dell’onda. Era un uomo intero, che visse la politica con abnegazione assoluta, certo compiendo errori, ma assumendosene la responsabilità, secondo princìpi etici inderogabili, che non lo fecero mai venir meno a quell’assunto di “redenzione delle “plebi agricole” (come disse in uno dei suoi celebri discorsi) e più in generale della masse dei diseredati, guidandole sulla strada del socialismo. Un italiano da rimpiangere, in tempi di bunga-bunga.

Corriere della Sera 16.4.11
Famiglie Le famiglie dei figli in provetta? Più equilibrate e solide
di franca Porciani e Maria rita Parsi


Fresca di laurea in biologia, sana, graziosissima è lei la più bella pubblicità alla fecondazione assistita. Nata nel 1983 a Napoli, Alessandra Abbisogno è il primo essere umano concepito fuori dal corpo della donna in Italia, cinque anni dopo il «miracolo» di Louise Brown, mitica figlia della provetta che ha valso cinquantadue anni dopo al suo artefice, Robert Edwards, il Nobel per la medicina. Lo scienziato, oggi ottantacinquenne, mantiene con la donna, adulta e madre a sua volta, un’affettuosa amicizia, analogamente a quanto avviene fra Alessandra e il ginecologo che l’ha fatta nascere, Vincenzo Abate. Ma sono casi «storici» ; nella vita di ogni giorno l’essere venuti al mondo grazie alla tecnologia resta un segreto gelosamente custodito all’interno della coppia. È prassi corrente in Italia, come testimoniano gli operatori dei centri di procreazione assistita; tra questi Andrea Borini, direttore scientifico di Tecnobios, a Bologna: «Forse la mentalità sta lentamente cambiando, ma la scelta prevalente è ancora oggi quella del silenzio» . In altri paesi le cose non vanno in modo diverso. Come testimonia il ginecologo Carlo Flamigni, uno dei maggiori scienziati italiani in questo ambito del quale è appena uscito per le Edizioni Pendragon, Figli del cielo, del ventre e del cuore: «Una ricerca condotta da uno psicologo dell’università di Londra e pubblicata su Human Reproduction nel 2006 ha studiato le famiglie di bambini nati con la fecondazione assistita che avevano raggiunto i dodici anni, scoprendo che nel 65 per cento dei casi i figli non sono a conoscenza della loro storia. Quando poi è in gioco una donazione di spermatozoi, il silenzio sfiora il 90 per cento» . «E certamente in Italia, il divieto di quest’ultima esperienza con il conseguente turismo sanitario, oggi rivolto soprattutto alla Spagna e alla Grecia, non è stato di aiuto» aggiunge Claudia Livi, direttore del Centro Demetra di Firenze. D’altro canto, la stessa ricerca ha messo in evidenza che questi ragazzi sembrano tranquilli e sereni e le famiglie reggono nel tempo: i tassi di divorzio sono bassissimi. Questa della family stile Mulino Bianco è una storia ricorrente fra le coppie che l’hanno formata grazie al laboratorio e alle provette; emerge da ricerche condotte negli Stati Uniti (alcune, molto superficiali), ma anche dall’unica finanziata dalla Commissione europea che ha riguardato l’Italia insieme alla Gran Bretagna, l’Olanda e la Spagna. Lo studio si è articolato in due fasi: la prima ha coinvolto 400 famiglie con bambini fra i quattro e gli otto anni nati con il seme di un donatore, con la fecondazione omologa (spermatozoi e ovuli della coppia), adottati e concepiti naturalmente; la seconda ha testato di nuovo le stesse famiglie cinque anni dopo per vedere che cosa succede con la crescita dei figli. Il quadro più roseo, dove i legami affettivi risultano più solidi e equilibrati (emerso dal primo studio, confermato dal secondo) è quello delle famiglie dove c’è stata l’esperienza della fecondazione assistita. Anche quando il padre non è quello biologico e vive, inevitabilmente, il «fantasma» del donatore: sente il bisogno di diventare protagonista del rapporto col figlio e, di conseguenza, gli si dedica molto. «È un risarcimento— conferma Carla Facchini, che insegna sociologia della famiglia all’università di Milano Bicocca —; l’equivalenza fra fertilità e virilità è un patrimonio interiorizzato dell’uomo di oggi; fare il superpapà è una sorta di battaglia contro questo. Peraltro siamo di fronte a realtà che pongono quesiti nuovi sulla genitorialità» . «Forse certi fantasmi potrebbero essere meno ingombranti se cambiassero le parole per dirlo, la terminologia medica aggiunge la sociologa Marina Mengarelli —; aver chiamato queste procedure tecniche di tipo eterologo, averle definite una sorta di adulterio legalizzato, è stato privo di conseguenze sul loro impatto sociale? Non si può più semplicemente parlare di donazione?» . «Credo— conclude Flamigni— che il desiderio di avere un figlio trascenda l’ordine biologico, sia da riferire prima di tutto al mondo del simbolico. Se cominciamo a ragionare così, la biologia perde, finalmente, un po’ della sua tirannia» .

Repubblica 16.4.11
Dal vuoto al Nulla viaggio nei misteri della (meta)fisica
a cura di Annalisa Usai


Leibniz si è chiesto «Perché c´è qualcosa piuttosto che niente? Giacché il niente è più semplice e più facile di qualcosa». Frank Close, fisico delle particelle di Oxford, colto e ironico come uno scienziato del Settecento, la pensa molto diversamente da lui, e dal senso comune, e compie sotto i nostri occhi un capovolgimento per cui non solo il niente risulta molto più complicato del qualcosa, ma soprattutto si rivela molto più operoso. È una gigantesca matrice creativa da cui deriva tutto, senza bisogno di interventi soprannaturali, e casomai con un gioco di prestigio in cui, invece che conigli e cappelli, si adoperano esperimenti ed equazioni. Per questo gioco sono necessarie tre mosse.
La prima è di tipo essenzialmente linguistico, e consiste nella metamorfosi (e nella esorcizzazione) del nulla, trasformato in vuoto. Il nulla è difficile da pensare, e inoltre può essere spaventoso, perché ha a che fare con la sparizione di tutto quello che ci riguarda, del mondo, dei colori, delle persone, e di noi stessi. Ma se dal nulla passiamo al vuoto è tutto un altro paio di maniche. Qui siamo in un laboratorio, con un tubo di vetro chiuso alla sommità che contiene una colonnina di mercurio che scende lasciandosi dietro qualcosa che non può che essere il vuoto. Non siamo affatto soli, siamo in un laboratorio, c´è tutto, e in una piccola regione di quel tutto abbiamo prodotto il vuoto. Di cosa dovremmo aver paura?
La seconda mossa, invece, consiste nel passaggio dalla fisica ingenua alla fisica esperta, dal mondo quale ci è immediatamente accessibile ai sensi, nella visione ecologica della esperienza quotidiana, a quello del molto grande e del molto piccolo. Con il passaggio dall´esperienza alla scienza, e soprattutto con il cambio di scala che dal mondo mesoscopico osservabile a occhio nudo ci porta a quello che si vede (o meglio si visualizza) con i microscopi e i telescopi, viene a prodursi un passaggio di stato. E contrariamente a quello che ci testimoniano i sensi dobbiamo arrenderci all´evidenza che il cuore della materia è pieno di vuoto. Gli atomi, cioè i componenti elementari del mondo fisico, sono vuoti (per l´esattezza, al 99, 999999999999%). Lo sappiamo bene, ma tendiamo a dimenticarlo, e soprattutto facciamo fatica a immaginarlo. Close racconta che vicino al Cern di Ginevra avevano pensato di adoperare un grande edificio sferico alto 20 metri, ideato per delle esposizioni e rimasto inutilizzato, per mettere in scena la grande rappresentazione di arte concettuale che è l´esperienza del vuoto interno a un atomo: appesa a un filo, una pallina del diametro di un millimetro. Quello è tutto il pieno dell´atomo, il resto è vuoto.
La terza mossa è il passaggio dalla fisica newtoniana al mondo della relatività e della fisica quantistica. È in questo universo che il nulla, pardon, il vuoto, si rivela un elemento altamente creativo. D´accordo con la visione (oggi un po´ antiquata, ma potente e affascinante) proposta ottant´anni fa dal fisico Paul Dirac, diventa un mare profondissimo agitato da onde di energia negativa, e che le cose stiano in questi termini è provato dal fatto che se in quel vuoto mettiamo due placche di metallo una forza oscura incomincerà a far sì che siano spinte l´una verso l´altra perché hanno interferito con le onde che attraversano il vuoto. A questo punto la creazione dal nulla è la cosa più naturale di questo mondo, in un processo che avrebbe fatto la delizia di Hegel. Quando nel gran mare negativo si produce un buco, sarà un positivo, sarà un qualcosa, che dunque non è affatto più complicato del nulla, come sosteneva Leibniz, e anzi, sembra il resto di niente, un buco nell´acqua. È da questa "tenebra ricoperta da tenebra", come dice Close citando i versi del Rig Veda, che viene tutta la materia che compone il nostro mondo. Un po´ come in quelle illusioni ottiche per cui una superficie concava si presenta a noi come convessa, tranne che questa non è una illusione, è la realtà, è l´universo. In questo senso, osserva ancora Close con tranquilla ironia, l´universo potrebbe essere il pasto gratis supremo.
E non finisce qui. Perché queste potrebbero semplicemente essere le leggi del vuoto per come si dà oggi alla nostra osservazione, ma potrebbe darsi benissimo che in altre epoche della storia dell´universo le sue forme fossero diverse. Così come potrebbe darsi altrettanto bene che le dimensioni spaziotemporali di cui abbiamo esperienza non siano tutte, che ce ne siano altre a noi non accessibili, o che la totalità del nostro universo (e delle sue leggi) non sia che uno degli infiniti mondi che ci circondano, quello in cui per un caso fortuito si sono realizzate le condizioni compatibili con la nostra vita. In questo quadro, il problema, si direbbe, si capovolge, e dal troppo vuoto si passa al troppo pieno. Nel frattempo noi, che continuiamo a chiederci dove finisce il presente quando è passato e dove finiremo noi quando passeremo, ci siamo distratti osservando il gioco di prestigio, e abbiamo seguito un corso di fisica privo di trionfalismo e pieno di humour.

Repubblica 16.4.11
Quando lo Zar Stalin fece pace con la chiesa


Quando competenza specifica, visione d´insieme e chiarezza di tesi si sposano in un libro, nascono i rari esempi di solida storiografia contemporanea. È il caso di Stalin e il patriarca, opera fondamentale di Adriano Roccucci, uno dei più profondi studiosi della Russia moderna e contemporanea. La sua ricostruzione del rapporto fra potere politico e autorità religiosa, ristabilito da Stalin in piena "grande guerra patriottica", ha fra l´altro il merito di indagare la matrice russo-zarista del sistema sovietico, spesso trascurata. Stalin si considerava il fondatore del nuovo impero russo, in cui tradizioni zariste e universalismo comunista agivano come moltiplicatori della potenza di Mosca. Visione suggellata nella convocazione notturna al Cremlino dei vertici della Chiesa ortodossa russa, fra il 4 e il 5 settembre 1943. Incontro nel quale il dittatore si mostrò particolarmente sollecito verso le necessità anche materiali dei suoi interlocutori. Ma che soprattutto concesse alla Chiesa di rieleggere finalmente il suo patriarca. Rinasceva così quella peculiare relazione fra imperatore e capo della Chiesa russa che il potere sovietico aveva inteso abolire.

La Stampa 16.4.11
Non perdere il filo del Bardo
Ritratto. Lo scrittore e l’uomo attraverso una guida alle opere e una suggestiva biografia
di Paolo Bertinetti


Stefano Manferlotti ripercorre commedie, drammi e tragedie: i testi e i personaggi di trama in trama Peter Ackroyd esamina le diverse, fantasiose ipotesi su tutto quanto non è sicuro: ad esempio la formazione cattolica

Per quale serie di sfortunate circostanze Romeo non sa della morte apparente di Giulietta e si suicida sulla tomba di lei? Perché Amleto si ritrova al cimitero poco prima della sepoltura di Ofelia, di cui ignorava la morte? Molti appassionati di teatro, e molti studenti, probabilmente ricordano in modo confuso (se non errato) le trame delle opere di Shakespeare.
L'appendice del saggio di Stefano Manferlotti, intitolato perentoriamente Shakespeare , provvede a colmare le possibili lacune fornendo le trame dei lavori teatrali che illustra ed esamina nelle precedenti 290 pagine. Il volume raggruppa per grandi settori i testi drammatici (dedicando un bel capitolo a parte alla produzione poetica): le commedie, i drammi «greci e romani», i drammi storici («troni di sangue», si dice con reminiscenza cinematografica nel titolo del capitolo) e infine i testi che costituiscono quello che Manferlotti definisce «il grande canone» - Romeo e Giulietta , Sogno di una notte d'estate , Il mercante di Venezia , La tempesta e le grandi tragedie (Amleto, Re Lear, Otello, Macbeth) - e che sono anche i lavori di Shakespeare più spesso rappresentati in ogni parte del mondo.
Ne emerge una guida alle opere del Bardo che si àncora saldamente alle parole del testo, sapientemente utilizzate come pilastri dell'interpretazione e gustate per la loro bellezza; che si avvale del richiamo illuminante ai più diversi testi e forme della produzione culturale di tutti i tempi; che coglie con rigore appena mascherato dalla piacevolezza della scrittura i nodi essenziali delle opere di volta in volta esaminate. Un volume utile, dotto il necessario e mai pedante, puntuale nell'esposizione e mai oscuro, sicuro nella valutazione e mai presuntuoso: un libro da collocare nello scaffale a portata di mano.
Alla vita di Shakespeare sono dedicate una quindicina di pagine, più che sufficienti in un saggio di questo tipo. Invece Peter Ackroyd, profondo conoscitore della storia di Londra, alla vita del Bardo ne dedica più di seicento. Per la verità, il suo lavoro, Shakespeare. Una biografia , parla anche ampiamente, in modo gradevole, non specialistico ma documentato, del contesto in cui si svolse il lavoro del più grande uomo di teatro di tutti i tempi. Cosa utilissima, perché molti aspetti della cultura teatrale elisabettiana, decisivi per lo sviluppo della produzione drammatica shakespeariana, sono tutt'altro che familiari al comune lettore. E, in ogni caso, il biografo di Shakespeare deve per forza «allargarsi», perché pochissimi sono i documenti relativi alla sua vita. E nessuno di essi, notarili come sono, particolarmente utile a capire «l'uomo» Shakespeare, o in grado di offrire degli spunti che ne illuminino la personalità.
Ackroyd, come gli altri biografi, propone così una serie di ipotesi suggestive riguardanti ciò che non è documentato ma che potrebbe essere vero. Ad esempio, a proposito delle convinzioni religiose di Shakespeare, presenta tutti gli elementi che propendono a favore di una sua possibile formazione cattolica (l'unico dato certo è che era cattolica sua madre). Su questo punto, come su altre fantasiose ipotesi (le opere di Shakespeare sono state scritte da un altro; negli anni della gioventù, su cui niente si sa, aveva viaggiato in Italia), Ackroyd illustra assai bene le posizioni contrapposte, ma poi si attiene alle conclusioni più ampiamente condivise dagli studiosi. In una sola occasione si sbilancia a favore di un'ipotesi azzardata, sostenendo che il monologo «Essere o non essere» è un' interpolazione. Strano sbilanciamento, dato che qualsiasi esperto di teatro elisabettiano poteva spiegargli senza difficoltà che interpolazione non è.
Il pregio di questa biografia sta soprattutto, oltre che nella scorrevolezza della scrittura, nell'ammirazione contagiosa con cui Ackroyd si porge al lettore per reclutarlo tra i fans di Shakespeare. Impresa meritoria. Ma per uno sguardo più acuto e puntuale sulla sua vita (cattolicesimo incluso), resta insuperato il saggio di Stephen Greenblatt Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico , pubblicato in Italia da Einaudi pochi anni fa.

Repubblica 16.4.11
Brillanti, sicuri, potenti alla ricerca della pillola che dà l´intelligenza
Molti i farmaci che aiutano le performance, ma nessuno è super come nel film "Limitless"
Il tema del potenziamento cerebrale diventa anche etico: si finisce nel doping
di Michele Bocci


Più intelligenti grazie a una pillola. Sempre presenti, brillanti, concentrati e tranquilli. Addosso un senso di potenza assoluta, la sicurezza di riuscire a fare bene ogni cosa. Non è la scienza (per ora) a segnare la rivoluzione ma un film a farla immaginare. Si intitola "Limitless", nel cast c´è pure Robert De Niro, e il protagonista grazie a un farmaco dal nome Nzt dà una svolta alla sua esistenza, il suo cervello diventa più potente e la sua vita va alla grande.
Una medicina come quella che sconvolge, non solo in positivo, Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, ancora non esiste ma qualcuno la studia e soprattutto in molti la cercano tra quelle già disponibili in farmacia. Che siano amfetamine, farmaci anti narcolessia o anti parkinson, sono tante le molecole a cui chiede aiuto chi vuole più concentrazione e lucidità. Ma il prezzo da pagare è molto alto. «Questi prodotti possono dare effetti collaterali e dipendenza, come le droghe - dice Sandro Sorbi, ordinario di neurologia a Firenze - E poi è impensabile usarli per periodi prolungati se non si è malati».
Tra gli studenti di ogni età da anni c´è chi sceglie le amfetamine per imparare velocemente. Soprattutto negli Usa ora va di moda il Ritalin. Nel 2008 la rivista Nature ha intervistato 1.400 scienziati di 60 paesi scoprendo che un quinto di loro usava farmaci per ottenere un potenziamento cognitivo e quasi sempre si trattava dell´amfetamina nata per i bambini iper attivi. Anche il Provigil, efficace contro la narcolessia, viene usato da chi vuole rendere di più in ciò che fa. È stato pure testato sui piloti di elicottero Usa. Poi ci sono musicisti e performer: non pochi controllano l´agitazione prima degli show con betabloccanti, farmaci per l´ipertensione.
«Da anni si parla di un farmaco per l´intelligenza. La ricerca c´è, anche su pratiche come la stimolazione magnetica transcranica, che noi usiamo sui nostri pazienti - dice Carlo Caltagirone, direttore scientifico del Santa Lucia di Roma, importanti centro di neuroriabilitazione - Questa attività potenzia o inibisce certe aree cerebrali. In chi ha subito un danno può essere di grande aiuto. Esistono anche studi su persone sane per capire se stimolando determinate zone si accrescono certe capacità». Il tema del potenziamento del cervello non è solo sanitario. «L´intelligenza è un concetto troppo complesso: posso aumentare l´attenzione ma di qui a far venire idee migliori con una pillola ce ne vuole», dice Pierangelo Geppetti, farmacologo clinico di Firenze. «C´è un problema etico. È corretto migliorare la memoria e la lucidità se non in casi limitati, come quello del pilota che deve salvare i passeggeri da un pericolo? - chiede Caltagirone - Perché dobbiamo essere più produttivi ed efficienti, per lavorare di più? Non mi convince la ricerca della performance quando si parla di intelligenza. Si finisce nel doping». Laura Fratiglioni dirige il centro di ricerca sull´età del Karolinska di Stoccolma. «Dobbiamo ricercare per mantenere la capacità intellettiva di anziani e malati, non per aumentare l´apprendimento di chi è giovane e sta bene».

Repubblica 16.4.11
"La plasticità del sistema nervoso può farci migliorare, non le medicine"
Anche l´attività fisica è importante perché fa sì che funzionino più cellule


Non c´è bisogno di medicine, il cervello diventa più forte con l´allenamento, sia mentale che fisico. Ne è convinta Monica De Luca, professoressa di neurofarmacologia all´Università di Milano.
Come si diventa più intelligenti?
«Bisogna stimolare i circuiti del cervello, attivando le sinapsi. Se leggo un libro, parlo le lingue, socializzo metto in pratica dei processi che ampliano il mio "hard disk". Magari anche involontariamente».
In che senso?
«Una ricerca inglese ha scoperto che i tassisti di Londra, a furia di memorizzare strade, hanno l´area del cervello detta ippocampo più grande. Hanno fatto un allenamento inconsapevole».
E l´attività fisica serve?
«Lo dimostrano le ricerche di uno scienziato americano, Fred Gage. Un topolino in una gabbia vuota sviluppa molti meno neuroni di un altro a cui diamo la ruota per correre. Non è detto sia più intelligente ma ha più potenzialità perché ha cellule in più da far funzionare».
Quindi i farmaci non servono?
«Sono gli americani a lanciare i progetti di ricerca sui medicinali. È meglio agire sulla plasticità del sistema nervoso, sulla sua capacità di modificarsi e crescere seguendo certi stimoli».
(Monica De Luca è docente di neurofarmacologia, mi. bo.)