lunedì 5 dicembre 2011

l’Unità 5.12.11
Chiusi gli Stati generali. Il segretario Bersani: un settore centrale nella vita del Paese
Debutto pubblico di Ornaghi: «Sarà ridiscussa la riforma delle fondazioni liriche e sinfoniche»
Cultura, la sfida del Pd e il ministro promette meno tasse
La cultura come occasione di crescita civile ed economica. Questo tema è stato un punto d’incontro degli interventi agli Stati Generali del Pd. D’accordo il segretario Bersani e il ministro Ornaghi.
di Luca Del Frà


«Non siamo un partito demagogico o ideologico, ma pretendiamo di avere un progetto, su cui vogliamo confrontarci con il mondo della cultura, che deve essere centrale vita del Paese», sono le parole di Pierluigi Bersani che accendono l’interesse della gremitissima platea degli Stati Generali della cultura del Pd. Il suo intervento arrivava dopo che il neo ministro dei Beni e delle Attività Culturali Lorenzo Ornaghi ha concluso il suo primo discorso ufficiale, altro fatto saliente dell’iniziativa, ma è giusto sottolineare che erano decenni che un partito del centrosinistra non organizzava una operazione così complessa sui temi culturali.
CANCELLATO L’ENPALS
In serata tuttavia cominciano a filtrare notizie inquietanti: la manovra che il governo presenterà oggi prevede l’abolizione dell’Enpals –la previdenza dello spettacolo. Che qualcosa fosse nell’aria lo si capiva dalle parole durissime con cui Bersani aveva ricordato che nella manovra non c’era quell’equità che il Pd aveva chiesto. Ornaghi però dell’abolizione dell’Enpals non ne fa menzione: apre invece ricordando la pesantissima crisi e come la cultura sia vitale quando produce «nuove visioni, e con il rapporto con la politica e cultura è capace di creare lo slancio per superare la crisi e dar vita a un nuovo modello di sviluppo, come ha ricordato Benedetto XVI». Che fosse cattolico avrebbe detto un attore come Petrolini, «sapevamcelo», ma il neo ministro con una brusca virata passa dal Papa alle defiscalizzazioni per la cultura è il settimo ministro che le promette, vedremo se ce lui la farà. E in questo discorso dove non ci sono promesse o impegni e innegabile ci siano aperture ai temi su cui il Pd e il mondo della cultura hanno dato battaglia al precedente governo: nuove assunzioni al ministero per rivitalizzarlo e permettere un turn over generazionale, la cosiddetta riforma delle fondazioni lirico sinfoniche fatta da Bondi che viene bloccata per un anno e ridiscussa, lo statuto professionale dei restauratori.
La partecipazione agli Stati Generali di operatori, rappresentanti, personalità e personaggi, convenuti ieri alle Officine Marconi, un ex opificio alle porte di Roma, è stata massiccia. Perciò suonano bizzarre le parole di un regista del calibro di Luca Ronconi, a colloquio con Marino Sinibaldi, che ricordava come le nuove generazioni di attori, abbiano dentro di loro un senso di perdita e necessitino di «non solo di forza espressiva, ma anche di sentirsi parte di una tradizione e di una civiltà», che oggi sembra volergli negare i pochi diritti esistenti. Ma si erano succeduti a parlare sullo stesso palco l’onorevole Emanuela Ghizzoni, firmataria della legge dello spettacolo dal vivo in esame alle Camere, attori come Massimo Ghini e Silvio Orlando, una cantautrice come Pilar che ha studiato al Mozarteum, Fabrizio Grifasi di Romaeuropa a battere il chiodo sui nuovi linguaggi.
«Il modello culturale della destra è entrato in crisi –ha spiegato Claudio Martini presidente dell’Orchestra Regionale della Toscana– tocca alla cultura inventarne un altro», mentre Luigi Ferrari ha presentato invece un progetto di riequilibrio delle fondazioni lirico-sinfoniche. Tra gli organizzatori degli Stati Generali, Matteo Orfini non a caso ha chiesto senza mezzi termini al nuovo governo di agire sull’assegnazione delle frequenze tv, che una legge del precedente esecutivo assegna gratuitamente agli operatori già esistenti –ovvero lo stesso ex presidente del Consiglio–: «Non si possono chiedere i sacrifici e perdere così diversi miliardi di euro». Incalzava Orfini, «Occorre muoversi ora».

Ornaghi: «”perennità" dell´Italia cattolica e la sua "esemplarità" nei confronti delle altre nazioni»
«Oggi a controbilanciare una cultura cattolica rinnovata e impegnata in un´azione di governo e di rinascita c'è un pauroso vuoto dove potrebbero precipitare le permanenti esigenze, "indisponibili" anch´esse, di laicità della Repubblica italiana»
Repubblica 5.12.11
Torna il neo guelfismo sui vessilli dei cattolici
di Mario Pirani


Nell´ultima "Linea di confine" (28/11/11) rilevavo come tra le novità assolute del governo Monti, figurasse la presenza di una rappresentanza ecclesiale diretta rappresentata da personalità già legittimate dalla Chiesa in ruoli di notevole prestigio. Più noti, fra gli altri, il rettore dell´Università cattolica, prof. Lorenzo Ornaghi, e il fondatore della Comunità di Sant´Egidio, prof. Andrea Riccardi. Analizzando un recente discorso di quest´ultimo sulla storia della Dc, ne traevo un giudizio interessato per la ricomparsa ai vertici della vita politica di una corrente del pensiero cattolico democratico che tanto aveva contribuito, a suo tempo, alla edificazione della prima Repubblica. Prontamente Casini ha colto la nuova atmosfera e con il concorso del nuovo ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha animato all´Istituto Sturzo un convegno sull´"Internazionalismo democratico cristiano", estendendolo alla necessità di aprire un dialogo inter-religioso con i partiti islamici moderati. Un programma che per avere un senso dovrebbe assumere il profilo che ebbero negli anni Cinquanta e Sessanta i Colloqui fiorentini ispirati da La Pira. Ma dove è oggi un La Pira? Interrogativo retorico ma tuttavia non del tutto gratuito perché il fervore del pensiero politico cristiano, in concomitanza con un non dichiarato neo collateralismo o, se si vuole, una specie di simbiosi sottaciuta con il governo Monti, rivela l´emergere un fenomeno di grande potenzialità e dalle molteplici sfaccettature.
In questo panorama ho avuto occasione di leggere un discorso, che oserei chiamare programmatico, pronunciato da Lorenzo Ornaghi il 2/12 al X Forum dedicato a "Tradizione e progetto nel 150° Anniversario dell´Unità d´Italia". I temi si articolano in più direzioni non qui riassumibili, pur tuttavia ispirati a un giudizio originale sul nostro passato, «per la maggior parte dei Paesi suggello di identità… mentre l´Italia pare essere condannata ad un tempo inconcluso o mai da considerare definitivamente chiuso: solo, così, infatti può protrarsi senza uleriori traumi l´armistizio tra i "vincitori" e i numerosi, differenti "vinti" della vicenda unitaria nelle sue principali scansioni». Analizzati i punti fondamentali su cui si innesta "lo stabile squilibrio" tra sistema politico statale e società, il rettore della Cattolica avanza una risposta e un interrogativo di grande portata: «Si è aperto il tempo per i cattolici di tornare ad essere con decisione "guelfi"? Rispetto ad altre "identità" culturali che sono state protagoniste della storia unitaria… disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente… Tornare a essere con decisione "guelfi" comporta affermare l´idea e la realtà di "italianità" quale dato storico, di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici. E soprattutto richiede – diversamente dal guelfismo ottocentesco – la consapevolezza che la "perennità" dell´Italia cattolica e la sua "esemplarità" nei confronti delle altre nazioni… dipendono dall´energia e dal successo dell´azione dei cattolici oggi».
Poiché nessuno, d´altra parte, potrebbe oggi immaginarsi una riedizione del pensiero di Gioberti con la riproposizione di una Federazione di Stati italiani ancorché democratici, presieduta dal Papa, se ne deduce che il neoguelfismo di Ornaghi trovi piuttosto ispirazione nell´integralismo cattolico di un Dossetti e del gruppo (Lazzati, La Pira, ed anche Fanfani) che fu chiamato del Porcellino. Sol che allora, soprattutto durante la stesura della Costituzione, a questo gruppo si contrapponeva dialetticamente un robusto pensiero gramsciano, impersonato da Togliatti e dagli intellettuali comunisti non ancora travolti dalla crisi ungherese. Oggi a controbilanciare una cultura cattolica rinnovata e impegnata in un´azione di governo e di rinascita c´è un pauroso vuoto dove potrebbero precipitare le permanenti esigenze, "indisponibili" anch´esse, di laicità della Repubblica italiana.

l’Unità 5.12.11
Il segretario: «Dire che i condoni sono finiti è un segnale importante. Ok la tassa sugli scudati»
L’orizzonte del Pd: «Uscire dalla transizione con un programma di governo legittimato dal voto»
Bersani: anch’io ho la mia parte di delusione «Ma bene le aperture»
«Una manovra molto dura, che non risponde del tutto ai nostri criteri di equità»: così il segretario Pd commenta le misure presentate da Monti. Ma aggiunge: «Lavoreremo per migliorarla». Deluso? «In parte».
di Maria Zegarelli


Deluso? «Anch’io ho la mia parte di delusione». Risponde così Pier Luigi Bersani, ospite di Fabio Fazio a «Che Tempo che fa», proprio mentre il presidente del consiglio insieme ai suoi ministri presenta in conferenza stampa la manovra economica di 23 miliardi di euro. Una «manovra molto dura che non risponde del tutto ai nostri criteri di equità», ma che ha colto alcuni «suggerimenti» avanzati dal Pd, a partire dalla tassazione dell’1,5% dei capitali scudati che «insieme al fatto che per la prima volta si dice chiaramente che non ci saranno condoni è un segnale importante». Però, aggiunge il segretario, visto che «si è infranto un tabù, forse allargando un po’ quell’1,5% potremmo risolvere qualche altro problema».
I MIGLIORAMENTI DA FARE
Apprezzamento anche per l’innalzamento del tetto per il blocco delle indicizzazioni delle pensioni dai 440 euro al doppio del minimo, «ma con un sforzo ulteriore si potrebbe arrivare anche a quelle appena sopra i mille euro». Alla fine anche sul sistema previdenziale, «l’impianto della riforma è sostanzialmente quello annunciato e che mi sento di condividere spiega ma non il meccanismo di avvicinamento dei tempi, troppo rapidi». Insomma, «c’è bisogno di un ulteriore confronto con il governo, si dovrà lavorare in Parlamento» perché dei margini di intervento per migliorare quella che nel vero senso della parola è una manovra da lacrime e sangue, ci sono ancora. Perché se è vero, ad esempio, che bisogna «mettere in sicurezza il sistema delle pensioni», è pur vero che se fatto in «modo ingiusto» allora tutto l’impianto diventa ingiusto, «e qui dentro», dentro le misure annunciate, «ce ne sono di inique». A partire dall’innalzamento del tetto delle pensioni di anzianità, soprattutto per «i lavoratori precoci», quelli cioè che hanno iniziato a lavorare prima dei 18 anni di età e che adesso vedono slittare ulteriormente, se non vogliono pagare una penale, il momento di uscita dal lavoro.
L’Ici progressiva viene letta dal segretario Pd come un segnale, «una bozza di patrimoniale», ma una bozza, appunto, e anche su questa si può rimettere mano per rendere più «rilevante il contributo sui grandi patrimoni». Bersani insiste anche sulla lotta all’evasione: «Positivo che si rafforza la lotta all’evasione fiscale», ma occorre aumentare di «4 o 5 punti il tasso di fedeltà fiscale» degli italiani. E positivo il fatto «che non si carichi ulteriormente su chi le tasse le paga».
Intanto stasera il coordinamento dei democratici si riunirà per studiare la manovra nel dettaglio e poi decidere quali interventi proporre nelle Commissioni. Ben sapendo quali sono gli umori di Cgil e elettori Pd.
Il leader Pd, come spiega senza giri di parole già nel pomeriggio durante il suo intervento agli Stati generalei della Cultura, sa bene che la strada è un percorso obbligato, che la manovra arriverà in Aula blindata perché queste «sono ore pesanti, potremmo dire anche drammatiche e bisognerà fare scelte difficili». Dice l’ Italia sta per entrare «in un mare in tempesta», dietro l’angolo c’è il rischio «default, cioè fallimento» e se questo è successo è «perché qualcuno ci ha portato fin qui» ma, aggiunge, «noi terremo la barra dritta, il timone, perché il Paese ha bisogno di una forza come la nostra». «Nervi saldi, timone saldo», spiegando, tuttavia, «con trasparenza le nostre posizioni agli italiani». Ossia: se siamo arrivati a questo punto è perché per anni «ci avevano detto che la crisi era psicologica, che non c’era, poi abbiamo sentito parlare di conti a posto e tanta gente che sapeva ha fatto finta di crederci». Il risultato è questo governo di emergenza nazionale, che il Pd appoggia e le cui misure voterà anche se non le condivide al 100%, ma è evidente che «c’è troppo da fare perché si riesca a dare risposte al Paese con una transizione». L’«orizzonte» non può che essere quello di uscire dalla transizione per passare alla «ricostruzione economica e sociale» con un programma di governo, con una coalizione ampia legittimata dal voto dei cittadini.

La Stampa 5.12.11
Bersani tira il fiato ma il Pd è in affanno
Il segretario: “Manovra dura”, ma bene la tassa sui capitali “scudati”
di Carlo Bertini


Dopo una giornata al cardiopalmo, Pierluigi Bersani tira il fiato due minuti prima di entrare nello studio di Fabio Fazio, quando lo informano che Monti ha appena estratto il coniglio dal cilindro, la mini-patrimoniale sui capitali «scudati» fatti rientrare in Italia. Insieme all’annuncio che ora l’Italia è favorevole ad aumentare le tasse sulle transazioni finanziarie e la tracciabilità del contante sopra i mille euro, questa è la prova che le invocazioni del Pd hanno fatto breccia. E dire che fino alla notte di sabato, dopo aver visto Monti, il leader del Pd esclamava stizzito «e che ne so, che ne so?» quando gli si chiedeva se nella manovra sarebbe entrata un accenno di patrimoniale. Detto ciò, considerata la botta sulle pensioni e le cose non digeribili di «una manovra molto dura e non del tutto equa», le concessioni non bastano a rasserenare il partito in ambasce e il suo segretario. Il quale non a caso per due volte, prima ad un convegno e poi da Fazio, batte sul tasto del governo solo «di transizione» e indica il traguardo del voto come orizzonte politico per fare le altre dieci riforme che servono al paese.
Ma dalle tre alle otto di sera, quando il consiglio dei ministri è in corso, va in scena un’operazione a tenaglia su tutti i fronti, pubblici e privati, twitter, agenzie, telefonate ai più alti livelli, per indurre il premier a infilare nella manovra quello che 24 ore prima non compariva: una patrimoniale per indorare la pillola al mondo di riferimento della sinistra. Una campagna che la dice lunga sui timori di tenuta di fronte al proprio elettorato, con la Camusso che attacca il governo «che fa cassa sui poveri» e Vendola che sfotte «il fascino discreto della borghesia». Sarà dura, ammettono ai piani alti del Pd, dove non sfugge la partita che si è aperta nel sindacato, con la Cgil pronta a mobilitarsi e la Cisl che invece chiede concertazione. «Chi rischia di uscirne peggio è il Pd», nota Giuliano Pisapia, «perché così facendo Monti ferisce Bersani e se questo governo durerà, la situazione può diventare anche più grave per il centrosinistra», chiarisce il socialista Nencini. E nel giorno del giudizio, anche se dice «non sono pentito» della scelta di non aver chiesto le urne dopo l’uscita di Berlusconi, le piaghe dei sacrifici sociali messi nero su bianco esplodono subito. E la rabbia dei vertici Pd, incerti se il governo esaudirà le loro richieste, è lampante: a cominciare da Bersani che se la prende con la Lega, «non si azzardi ad accendere le polveri che ci ha messo sotto i piedi». E per tutto il giorno, il pressing dello stato maggiore è incalzante, tutti chiedono più equità, da Veltroni a Ignazio Marino, dalla Bindi e Franceschini fino ai sindaci e ai governatori come il toscano Rossi.

Corriere della Sera 5.12.11
Pd in imbarazzo Bersani: decisioni non del tutto eque
E arrivano le proteste degli elettori
di Maria Teresa Meli


ROMA — Imbarazzo è una parola che i dirigenti del Pd non amano leggere negli articoli quando viene usata per descrivere lo stato in cui versa il loro partito. Imbarazzo, però, è una parola che ieri hanno utilizzato spesso pensando all'intervento che oggi Franceschini dovrà pronunciare a Montecitorio, dopo il discorso di Monti.
Sarà il capogruppo a parlare, salvo sorprese dell'ultima ora, e non il segretario. E per lui non sarà facile, perché se è vero che lo stato maggiore del Pd alla fine ha tirato un sospiro di sollievo perché poteva anche andare peggio, è altrettanto vero che queste non sono misure che collimano alla perfezione con le proposte del Partito democratico. «È una manovra dura e non ancora del tutto equa», ammette Bersani. E infatti il Pd subisce già i primi contraccolpi della manovra. La periferia è in agitazione, nel territorio le federazioni sono in allarme, e sono già tante le email di protesta degli elettori che i parlamentari stanno ricevendo.
A sera Bersani è provato e non è certo nelle condizioni di fare salti di gioia. Però qualcosa ha ottenuto. Sui costi della politica, un suo chiodo fisso, per esempio. E non solo. Tanto ha fatto e tanto ha detto, tampinando il governo per tutto il giorno, che ha strappato pure la tassazione aggiuntiva dei capitali scudati, anche se ben inferiore a quella proposta dal Partito democratico: «Non è tantissimo, diciamolo pure, ma continueremo il confronto in Parlamento per correggere questo punto». Altri fronti, a cominciare dal capitolo previdenza, sono rimasti scoperti e hanno lasciato il fianco del partito esposto ai malumori della Cgil e della sinistra. «Sapevo che non avremmo potuto cantare vittoria, che questa partita era difficilissima, perché certe misure proprio non vanno: non si fa abbastanza sull'evasione, sulla tassazione dei grandi patrimoni e sulla previdenza si accelera troppo, benché ci siano le indicizzazioni che rappresentano un buon segnale», spiega il segretario.
Ciò nonostante, il Pd non verrà certamente meno agli impegni che si era assunto nei confronti di questo governo: «Terremo i nervi saldi e la barra ferma», assicura Bersani che però non esclude di riuscire a ottenere deicambiamenti in Parlamento. Sempre che la manovra non sia blindata. E secondo molti parlamentari del Pd non dovrebbe essere, come afferma Paola Concia: «Dobbiamo lavorarci sopra per migliorarla».
Ma il segno più evidente dell'imbarazzo del Partito democratico è un altro. È rappresentato dall'insistenza con cui Bersani, per ben due volte nell'arco della giornata di ieri, evoca le elezioni. Non pronuncia mai esplicitamente questo termine, ma lascia capire che questo è il prossimo traguardo del Pd, finita la fase dell'allarme economia. «Questa — spiega il segretario — è una fase di emergenza e il nostro orizzonte va oltre. La nostra prospettiva è un'altra. Verrà il momento in cui ci assumeremo davanti ai cittadini le nostre responsabilità». Una frase che il segretario ripete a sera, ospite di Fabio Fazio a «Che tempo fa», mentre è in corso la conferenza stampa che il governo ha indetto per illustrare la manovra. Il conduttore gli chiede se l'orizzonte sono le elezioni e Bersani non nega, anche se preferisce continuare a chiamarle una «nuova prospettiva».
Insomma, il leader del Pd è convinto che «ci sia troppo da fare perché si riesca a dare risposte al Paese con una transizione». Come a dire, questo è un governo eccezionale per tempi eccezionali, dopodiché la parola deve ripassare alla politica: «Il Paese verrà messo di fronte a una nostra posizione chiara perché noi abbiamo un nostro orizzonte di ricostruzione economica e sociale del Paese».
E sicuramente, stasera, si parlerà anche di questo, oltre che dell'impatto della manovra, nel coordinamento che il segretario ha convocato per le venti. Perché, come osserva un autorevole esponente del Pd, «il conto della manovra è salato e la sfiducia rischia di investire anche noi». Nell'immediato i vertici del Partito democratico dovranno darsi da fare per rassicurare non solo elettori e militanti, ma anche dirigenti e parlamentari. Uniti dalla stessa preoccupazione, quella che è comune a Enrico Rossi, Ignazio Marino e Cesare Damiano: «Non è giusto che paghino sempre i soliti noti».

Repubblica 5.12.11
Il segretario pd
"Poca equità, lavoreremo per rafforzarla"
Bersani: insufficiente la tassa sui capitali scudati. Casini: manovra dura ma Monti convince
Ho la mia parte di delusione. Ora però nervi saldi. Entriamo in un mare in tempesta, salviamo la barca Italia
di Giovanna Casadio


ROMA - «Ore pesanti, drammatiche, entreremo in un mare in tempesta». Bersani lo ripete più volte, prima del consiglio dei ministri, in un discorso preoccupato all´assemblea del Pd sulla cultura. Dopo il varo della manovra, commenta in tv, a Che tempo che fa, praticamente in diretta con la conferenza stampa del governo, la stangata: «È una manovra molto dura che non risponde del tutto ai nostri criteri di equità». E quindi, i Democratici ce la metteranno tutta («Lavoreremo affinché l´equità sia più forte») per portare a casa qualche modifica in Parlamento. Sanno tuttavia bene che senso di responsabilità impone di votarla, poiché «siamo di fronte a un rischio default, al fallimento perché qualcuno ci ha portato fin qui... e gente che sapeva ha fatto finta di non sapere».
Critiche ma «nervi saldi e trasparenza», in casa Pd. Per il Terzo Polo, Casini scrive su Facebook: «Le misure sono durissime, ma Monti è risultato convincente. Preferisco un presidente del Consiglio che dice parole amare ma di verità, piuttosto che le vuote rassicurazioni del passato che hanno illuso il paese e rinviato la soluzione dei problemi». Certo la delusione serpeggia nei partiti del centro e del centrosinistra. Bersani la ammette: «Io ho la mia parte di delusione». Però afferma di avere la speranza del salvataggio: «Nel mare ci saranno molte onde ma salveremo la barca», cioè l´Italia. Entra nel merito delle misure.
Qualcosa di quanto chiesto dai Democratici c´è nel decreto: accolto ad esempio, il pressing per tassare i capitali rientrati in Italia con lo scudo fiscale varato da Tremonti e Berlusconi. «Una novità apprezzabile ma nei contenuti scarsa - dice il segretario - allargando questo bacino di solidarietà potremmo risolvere qualche altro problema». Un´altra buona notizia è che sia scomparso l´aumento dell´aliquota Irpef, che «non si carichi ulteriormente su chi le tasse le paga, soprattutto se si rafforza anche la lotta all´evasione fiscale». Però è la patrimoniale il tasto su cui il segretario democratico batte. «Si potrebbe dire che c´è una bozza di patrimoniale». Il Pd sperava ben altro. I militanti sono sul piede di guerra. Bersani aveva chiesto che si introducesse «il principio del concorso dei grandi patrimoni». Lo si chiami «Ugo o come si vuole, non abbiamo pruderie», ma doveva esserci. E se è buona la modifica della soglia per la de-indicizzazione della pensione, l´accelerazione, «i ritmi, i pesi e le misure in particolare per i lavoratori precorsi che non ci convincono». Oltre 40 anni di contributi non piace.
Un terreno minato da attraversare per i Democratici. Anche per questo oggi è stato convocato il "caminetto" dei leader, mentre già fissate sono le assemblee dei gruppi. Bersani indica inoltre il traguardo del Pd, che è al di là di questo governo tecnico e di emergenza: «Noi abbiamo un nostro orizzonte che si chiama ricostruzione economica e democratica, a questa esigenza non viene data risposta da una situazione di transizione». Ci vogliono le elezioni, le alleanze «senza fare giochi da ceto politico». Quindi, appello a un patto di riscossa civile. E un "affondo" a Bossi e ai parlamenti padani: «La Lega non si azzardi ora ad accendere la miccia delle polveri che ci ha messo sotto i piedi».
A chi chiede al segretario del Pd se si è pentito di non avere chiesto le elezioni, in un momento in cui il partito, secondo i sondaggi, è tornato al 30% dei consensi, risponde: «No, non erano immaginabili ancora mesi di bagarre... «. Durante la kermesse sulla cultura, aveva avvertito che se il berlusconismo è finito come sistema di comando, non lo è come movimento, ancora restano i pozzi avvelenati, lo stravolgimento dei valori e della politica. Franceschini su twitter: «Grazie a noi è migliorata sull´evasione».

Corriere della Sera 5.12.11
Nencini: non voteremo queste misure ingiuste


MILANO — Una convenzione nazionale liberalsocialista di cui faranno parte i partiti, i movimenti e i pezzi della società civile che si riconoscono nella cultura laica e riformista. Ad annunciarne la nascita il segretario nazionale del Psi, Riccardo Nencini, durante la relazione conclusiva all'assemblea congressuale del partito a Fiuggi. Sarà strutturata come un parlamento, spiega il segretario, sarà formata da 150 persone (un terzo elette, un terzo indicate dai partiti, un terzo espressione delle professioni e della società civile) e si riunirà una volta al mese, da oggi alle elezioni, in giro per l'Italia. Chiudendo i lavori, Nencini ha ribadito le linee guida dell'azione socialista: equità, riforme istituzionali, con l'elezione diretta del capo dello Stato e attenzione alle «tante apartheid dei diritti che ci sono in Italia, prima fra tutte quella che investe oltre tre milioni di giovani precari». Sulla manovra, in attesa del testo definitivo, Nencini ha ribadito che «se sarà nei termini presentati da Monti ai partiti e alle parti sociali, difficilmente i socialisti la voteranno, perché manca del tutto l'equità: pagheranno i soliti noti e saranno colpiti i cittadini più deboli, quelli che ad esempio hanno nella casa il loro unico salvadanaio».

l’Unità 5.12.11
La leader Cgil chiama Cisl e Uil a un’ iniziativa unitaria di protesta
Bonanni: «Devastanti» gli interventi sulle pensioni. Sciopero di Fim e Uilm
Sindacati in rivolta Camusso: «Si fa cassa sui cittadini poveri»
Unanime il giudizio di condanna del mondo sindacale nei confronti della manovra. Camusso: «Fa cassa sui poveri». Bonanni: «Impatto deleterio». Angeletti: «Effetti ingiusti, rischio meno consumi»
di Luigina Venturelli


«Per dirla brutalmente il governo cerca di fare cassa sui poveri del Paese». Di fronte ad una manovra correttiva considerata «socialmente insopportabile», la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso non ha potuto che «dirla brutalmente», sulle pensioni congelate rispetto al crescente costo della vita e sull’allungamento dell’anzianità oltre i quarant’anni, sull’assenza di misure socialmente eque e sugli effetti recessivi che ciò comporterà per tutto il Paese.
I colleghi di Cisl e Uil hanno scelto altri toni per reagire, ma si tratta di una sfumatura di forma rispetto alla condanna sostanziale che tutto il mondo sindacale ha riservato alla stangata targata Monti. Per Raffaele Bonanni l’impatto della finanziaria sarà «deleterio» e quello della riforma pensionistica addirittura «devastante». E per Luigi Angeletti «le brutte notizie sono state talmente tante che qualcuna me la sono dimenticata».
RABBIA UNANIME
L’uniformità del giudizio sindacale è tale, soprattutto dopo una lunga serie di divisioni, che la leader di Corso Italia ha proposto alle altre confederazioni di organizzare un’iniziativa comune di contrasto alle scelte dell’esecutivo: «Abbiamo chiesto a Cisl e Uil di fare la riunione delle segreterie per valutare le conseguenze della manovra sui lavoratori» ha raccontato Camusso durante la conferenza stampa convocata ieri pomeriggio, subito dopo l’incontro del governo Monti con tutte le parti sociali a Palazzo Chigi. Il gruppo dirigente della Cgil si riunirà domani per decidere il da farsi, mentre ofggi pomeriggio potrebbe arrivare una prima risposta da parte di Cisl e Uil, anche se allo stato risulta improbabile una mobilitazione di protesta che riunisca le tre confederazioni.
CALA IL POTERE D’ACQUISTO
Il blocco dell’opposizione sindacale all’esecutivo resta comunque compatto, soprattutto sul tema delle pensioni. Il mancato adeguamento all’inflazione, secondo la leader di Corso Italia «è una scelta che farà diventare strutturale la riduzione del potere d’acquisto di gente che ne ha già pesantemente perso in questi anni» e per questo si dimostrerà «fortemente recessiva» per l’intera economia nazionale. Nel complesso per Susanna Camusso «è molto complicato dare un giudizio di equità su questa manovra», tanto da mettere in discussione la nuova stagione politica che si pensava aperta con questo esecutivo: «Rischia di esserci una continuità sui comportamenti con il governo precedente».
Anche il numero uno della Cisl ha criticato l’assenza di equilibrio sociale dal pacchetto di misure presentato da Monti: «Grava solo su lavoratori e pensionati. E per le pensioni è troppo veloce il passaggio al contributivo e l'innalzamento dell'età, non è una modifica reggibile». Irritato per la mancanza di qualsiasi concertazione in proposito, Bonanni non ha esitato a condannare il governo sulla mancata rivalutazione, per «non aver calcolato l’impatto sociale». Tanto basta per dimostrare una volta per tutte l’«indirizzo sbagliato» della manovra, che punta soprattutto sulle imposte indirette piuttosto che su quelle dirette, mentre manca la tanto invocata tassa patrimoniale per colpire i ceti più abbienti. «Voglio sperare che ci sia una possibilità di affrontare questi temi in un assetto di concertazione. È un problema di sostanza e di principio, reagiremo» si augurava il segretario Cisl nel primo pomeriggio, prima di essere deluso in serata dall’adozione in fretta e furia della finanziaria. Anche secondo il leader Uil, Luigi Angeletti, gli obiettivi di rigore, equità e sviluppo sono stati raggiunti «solo in parte», mentre ancora si deve agire per «spostare il peso fiscale a vantaggio del lavoro» ed evitare «una preoccupante contrazione dei consumi». E sono stati proprio i metalmeccanici della Cisl e della Uil ad indire il primo sciopero contro la manovra: due ore di astensione a livello nazionale da tenere in ogni realtà territoriale a partire da oggi fino a mercoledì prossimo.

l’Unità 5.12.11
Intervista a Enrico Rossi
«C’è poca equità e una forte impronta liberista»
Mancano misure per la crescita, così è difficile evitare il pericolo recessione. Questo non è
il governo del cambiamento, ma dell’emergenza
di Vladimiro Frulletti


C’è poca giustizia, poca equità, poca crescita» . Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, sta rientrando a Firenze dopo l’incontro col governo. Il bicchiere della manovra gli appare mezzo vuoto e con un contenuto parecchio amaro. Difficile, anche se necessario, da ingoiare soprattutto per l’elettorato di sinistra.
Presidente Rossi cosa la convince di meno?
«Che non si parli di patrimoniale, che non si tocchi il nodo della struttura del nostro Paese per cui il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Sento deboli le proposte sulla lotta all’evasione fiscale e non basta qualche spot, per quanto giusto, su barche e Suv. Si tassano solo parzialmente i 105 miliardi scudati: quei signori, lo ricordiamo, hanno pagato solo il 5%. E poi mi domando, ma su questo avrei la risposta pronta, perché non si fanno le gare per le frequenze televisive. Provvedimenti che sarebbero una buona parte della manovra che invece ricade in gran parte sui soliti noti».
E per la crescita?
«Anche qui le misure mi sembrano inadeguate e insufficienti. Non so se in questo modo il pericolo recessione per il 2012 sarà evitato. Con meno equità e più tagli caleranno i consumi. Le nostre richieste sul patto di stabilità che potrebbero mettere in moto tanti investimenti, ad esempio, neppure sono state prese in considerazione».
Ma c’è qualcosa di positivo?
«Non c’è dubbio che il livello di interlocuzione è molto diverso rispetto al recente passato. C’è ascolto e c’è stata anche volontà di venire incontro alle richieste degli enti locali».
Quali?
«La sanità non verrà tagliata grazie al ricorso alla fiscalità generale, a un piccolo aumento dell’Irpef. C’è una disponibilità sul trasporto pubblico locale a reintegrare i fondi tagliati da Tremonti attraverso una accisa leggera sui carburanti. E portiamo a casa anche la sospensione delle tasse, come chiesto da me e da Burlando, per le imprese nelle aree colpite dalle alluvioni».
Però sia l’aumento dell’Irpef che dell’accisa sui carburanti pesa di più sui redditi bassi. Un litro di benzina più caro è un problema per chi ha una utilitaria, non certo per chi gira in Porsche. O no?
«Sicuramente. Ma questo non è il governo del cambiamento. È il governo che può salvare l’Italia dal precipitare nel baratro. Però non è certo il governo che fa della crisi un’occasione per una operazione di giustizia. La percezione è che l’impronta liberista in questo esecutivo sia forte».
Ma il Pd che dovrebbe fare?
«Lo decideranno gli organismi dirigenti e i gruppi parlamentari. Per senso di responsabilità nazionale forse non potremo fare diversamente, ma al momento quella svolta per cui ci siamo battuti e per cui dobbiamo continuare a batterci non c’è. Più che di “impegno nazionale” il governo conferma i suoi caratteri di emergenza, ma non riesce a dare un segno politico diverso. Non voglio dire che fa le cose di Berlusconi, anche perché se siamo qui a dover correre la responsabilità sta soprattutto nel governi di prima. Tuttavia mi sembra che il segno politico non sia basato sull’equità né metta in campo quelle necessarie azioni per la crescita. Il fatto che il Pd voti le misure del governo, avrà cioè a che fare con la situazione di emergenza, ma questo non significa che quelle proposte siano le nostre».
La gente, gli elettori del Pd e del centrosinistra lo capiranno?
«Penso di sì, mi pare che lo stiano capendo. Ma l’importante è che questa manovra non bruci come legna secca sotto l’attacco della speculazione finanziaria. Servono garanzie che queste misure amare e ingiuste mettano il Paese al riparo dalla speculazione. Ciò chiama in causa l’Europa, la Germania, la Francia, il ruolo della Bce, altrimenti c’è il rischio è che alla prossima asta dei Bot tutti i sacrifici siano stati inutili».
E il rimedio?
«Cambiare segno alle politiche liberiste. La ricchezza dallo Stato sociale, dai diritti, dal lavoro e dall’impresa è andata, anche per la debolezza della politica, verso il capitale finanziario. Questo è il nodo vero da sciogliere. La crisi deve essere occasione per fare giustizia. Questo è il tema che riguarda il Pd e tutte le forze democratiche e progressiste dell’Europa».

La Stampa 5.12.11
Intervista
Ferrero: “Contro il governo uniamoci con Vendola per un’opposizione di sinistra”
di Francesca Schianchi


Paolo Ferrero rieletto segretario di Rifondazione comunista chiede a Vendola di realizzare «l’unità della sinistra»
Bisogna creare un'opposizione da sinistra a questo governo»: appena rieletto segretario di Rifondazione dall'ottavo congresso del partito, Paolo Ferrero lancia un appello a Nichi Vendola per realizzare «l’unità della sinistra».
A cominciare dall’opposizione a questa manovra?
«Contro questa manovra iniqua e recessiva bisogna costruire un'opposizione concreta: chiediamo al sindacato lo sciopero generale, e lavoriamo alla costruzione degli stati generali dell'opposizione per gennaio. Dobbiamo lavorare per ampliare lo sciopero della Fiom del 16 dicembre e arrivare a una manifestazione nazionale in tempi brevi, diciamo prima della fine dell'approvazione della manovra».
Quando parla di unità della sinistra a cosa pensa?
«Propongo una sinistra come la Linke in Germania o la Izquierda unida in Spagna: ovunque c'è una sinistra liberista e una antiliberista. Monti avrà l'opposizione da destra della Lega: ne serve anche una da sinistra che stia dalla parte dei lavoratori».
Per poi allearsi con Pd e Idv che in Parlamento sostengono il governo?
«Non ha senso discuterne adesso. Ora c'è il governo Monti che è destinato a durare, fra un anno e mezzo chissà come sarà il quadro politico! Intanto c'è un governo tecnocratico messo lì dai poteri forti: costruiamo un'opposizione che dia voce alla sinistra, perché la maggior parte delle persone di sinistra non sono iscritte né a Sel né al Prc».
Perché questo?
«Perché sono stati delusi dalla nostra divisione e dall'esperienza del governo Prodi. Anche per questo pongo il tema di ricostruire un rapporto di fiducia basandoci su posizioni chiare».
Così fa un appello a Vendola, forse per evitare che continui a cannibalizzare Rifondazione: nei sondaggi siete circa all'1,5%, Sel supera il 7.
«Il punto è che penso ci sia la percezione di una sinistra chiusa e impotente, se ci fosse l'unità daremmo un segnale chiaro».
Però Vendola non è venuto al congresso di Rifondazione… «Io mi rifaccio alla Bibbia: bussate e vi sarà aperto… Il problema che pongo è oggettivo, credo sia una domanda della società quello di ritrovare un'unità. E' venuto Di Pietro: in lui ho colto un discreto imbarazzo sui contenuti di Monti. E De Magistris è stato molto applaudito: una prima prova di dialogo a sinistra. Può essere come una palla di neve che diventa valanga».
Ma ce la fareste ad andare d'accordo con Vendola? Sel è nato dalla scissione da Rifondazione… «Mi è dispiaciuto molto che Nichi abbia deciso di rompere dopo aver perso il congresso: io sono stato spesso in minoranza senza sfasciare la baracca».
Appunto: cominciamo bene… «Detto questo però nei contenuti noi e Vendola siamo d'accordo sul 90% delle questioni. E io non propongo un partito unico, non dico di sciogliere Sel o il Prc: dico costruiamo una forma di unità che sia punto di riferimento per la sinistra. E costruiamo una prospettiva anche rispetto alle ricette per superare la crisi: ad esempio una patrimoniale forte, tetto a 5 mila euro alle pensioni, provvedimenti che facciano pagare i ricchi».

La Stampa 5.12.11
“Sembra di stare a Teheran” Lo sfogo di Hillary su Israele
La Clinton: “Troppi divieti religiosi, donne osteggiate. Democrazia a rischio”
di Aldo Baquis


Colpo al dissenso. La Knesset vuole vietare i finanziamenti dall’estero a ong critiche col governo

TEL AVIV. Quando pensa a Israele, a Hillary Clinton a volte viene in mente l’Iran. Specialmente quando le capita di sapere che in certi autobus di zeloti ultraortodossi, per volere di rabbini estremisti, le donne sono segregate nella parte posteriore dei veicoli. O quando soldati religiosi abbandonano a precipizio quelle cerimonie militari in cui le soldatesse osino cantare in pubblico, cosa contraria al concetto di modestia elaborato negli ultimi anni per loro da rabbini oltranzisti. «Meglio il plotone di esecuzione, piuttosto che ascoltare una donna che canta», ha stabilito in questi giorni un rabbino-colono.
Forse Hillary Clinton ricorda con nostalgia un altro Israele, quello che secoli fa, sotto la guida di Yitzhak Rabin, puntava alla riconciliazione con i palestinesi. Così sabato, quando ha partecipato a Washington con alcuni esponenti israeliani ad una riunione del «Centro Saban per la politica medio-orientale», il Segretario di Stato ha dato libero sfogo a tutta la sua amarezza.
Doveva essere uno scambio di vedute a porte chiuse: ma naturalmente poche ore dopo i siti Web israeliani erano stracolmi di citazioni. E come nel caso della «gaffe» di Barack Obama nel recente incontro con Nicolas Sarkozy (in cui il presidente Usa, dietro a un microfono che riteneva chiuso, ammise di essere «stufo» del premier Benjamin Netanyahu), anche in questo caso l’evento si è trasformato in una eloquente candid camera.
La Clinton ha palesato apprensioneper il futuro della democrazia israeliana, ha deprecato le leggi in preparazione alla Knesset, il Parlamento israeliano, che rischiano di limitare la libertà di espressione. In particolare ha stigmatizzato una legge che mira a vietare a governi stranieri di finanziare organizzazioni che si oppongono alla politica del governo israeliano. Una volta - ha rilevato - i comuni ideali democratici saldavano le relazioni fra Stati Uniti e Israele. Se Israele ha deciso ora di cambiare volto - ha lasciato intendere, con tono afflitto - il futuro delle relazioni diventa più incerto.
Il giorno prima lo stesso Segretario alla difesa Leon Panetta aveva accusato Israele di essere corresponsabile dell’isolamento mondiale in cui si trova. «Tornate al dannato tavolo dei negoziati con i palestinesi», ha esclamato. E ha invitato a rialacciare le relazioni con i vicini Egitto e Turchia, molto peggiorate.
Unendo lo sfogo di Obama, a quello di Panetta a quello della Clinton l’israeliano della strada ha potuto farsi un’idea abbastanza chiara sul livello di esasperazione dell’Amministrazione nei confronti del governo Netanyahu. Il quale resta comunque determinato a procedere per la sua strada. «Negli anni Trenta - ha rilevato un deputato del Likud - gli Stati Uniti approvarono una legge contro gli “agenti stranieri” molto più dura della nostra contro i finanziamenti governativi stranieri».
«La nostra democrazia è viva, sprizza salute» ha assicurato un ministro. Parole che non tranquillizzano tuttavia la Associazione per i diritti civili (Acri), che ha pubblicato ieri un rapporto preoccupato sul futuro della democrazia in Israele, né il presidente della Corte Suprema Dorit Beinish che ancora nei giorni scorsi ha denunciato con forza il tentativo di politici di destra di intimidire i giudici.

La Stampa 5.12.11
All’Università di al Azhar “Non esiste l’islam moderato”
Nel cuore del mondo sunnita dove è tramontato il sogno del rinnovamento
di Domenico Quirico


«La fiorita» Al Azhar (in arabo la fiorita) è moschea e Università Si tratta di una delle istituzioni più venerabili e più antiche del Cairo, costruita nel 970 d. C. e sempre ampliata e abbellita nei secoli successivi Le tradizionali facoltà di Teologia e Diritto nel 1961 sono state affiancate da Medicina, Agraria, Ingegneria e Commercio Proteste al Cairo Davanti al Parlamento egiziano al Cairo una doppia fila di finte bare con i nomi di decine di vittime di scontri con la polizia
Ragazzi. Quelli di piazza Tahrir, innanzitutto. Ieri burrascosi e vociferanti. Rivoluzionari stracchi, vinti, delusi, oggi: inebetiti da un voto che scavalca e rende vecchio il loro virtuoso Jhad di slogan, di pietre, di fraternità. Del grande fuoco, dell’irresistibile furor di popolo, restano solo le braci fredde. Misurano l’ombra che accompagna sempre le rivoluzioni, lo scarto antico che corre tra i sogni e il quotidiano, tra la rivolta e la politica. Ora si accorgono che il loro partito, «Rivoluzione continua», ha ottenuto il 3,5%. La «loro» rivoluzione l’hanno annessa gli islamici, 65%, il moderatume paesano dei Fratelli musulmani più i rabbuffati salafiti. Fra tre mesi, quando questa anabasi elettorale finirà, l’Egitto sarà pio per decreto, semplificato brutalmente alla sua identità musulmana. Sparirà o sarà zittito quello laico e liberale. Con i suoi tesori dell’intelligenza, dell’immaginazione e della parola, capaci di negare l’autorità di censori e tabù.
Altri ragazzi, in un altro luogo del Cairo, nelle aule e nei giardini di al Azhar, l’università-vaticano che papeggia da mill’anni sull’Islam sunnita, che sbozza i muftì di tutto il Medio Oriente, con le fatwe che sono giurisprudenza dall’Atlantico alle Malesia, dal Sahel alla via della seta. Qui nessuno si era accorto di nulla. Una settimana prima che i tumulti invadessero piazza Tahrir il grande imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb, spiegava che in Egitto era impossibile si replicasse la Tunisia, ovvero una rivoluzione: perché non c’era l’idra laicista, il popolo aveva conservato la sua semplice fede ed era felice. Merito, diceva, anche dei «saggi» politici del raiss Mubarak, che assicuravano il benessere alla maggioranza degli egiziani.
«Dar el-iftah» è un palazzo moderno simile a un brutto albergo e scruta quella che un tempo era una immensa collina di immondizie, che i dollari dell’Aga Khan hanno trasformato in splendido parco (a pagamento). Qui è la sede del grande imam, qui bisogna salire per proporre i quesiti poi risolti dagli editti religiosi. Dar el-iftah ha compiuto inediti gesti rivoluzionari: Al Tayyeb ha esortato innanzitutto i soldati a non sparare contro «i nostri figli» in piazza e si è offerto di mediare tra i generali e la gioventù rivoluzionaria. Nazionalizzata nel ’62 da Nasser, al Azhar deve farsi perdonare i decenni passati a tessere le lodi del regime, una comoda burocratizzazione che ha trasformato professori e muftì in alti funzionari obbedientissimi a confermare le bugie del regime. Una pratica che ha fatto perdere all’istituzione gran parte della credibilità in Egitto e nel mondo islamico; ingrassando i lunatici stregoni dell’Allah è tutto.
È in corso una grande lotta per l’anima del mondo musulmano; e mentre i fondamentalisti con le loro inescusabili «pruderie» totalitarie crescono in potere e in ferocia, diventa decisivo il ruolo di uomini coraggiosi disposti ad affrontarli in una battaglia di idee e di valori morali, come è accaduto in passato con i dissidenti dell’Est europeo. Siamo venuti ad al Azhar a cercarli. Il portavoce del grande imam per il dialogo, Mahmud Azad, ricorda che «è stato lui il primo a definire martiri i ragazzi uccisi negli scontri di piazza già tre giorni dopo la rivoluzione». E che da al Azhar è uscito un esplosivo documento sulla democrazia, che la definisce «necessaria» e fondamento di uno Stato di diritto. Siamo agli antipodi del pensiero che si regge su due piloni, l’omaggio scrupoloso al potere in carica, e l’ossessiva ricerca della «fitna», l’unità della comunità sotto Dio contro le divisioni e la discordia. Divisione, varietà di idee, discordanza che imam e scabini fulminano ogni venerdì con ammonimenti obituari. E sono proprio i salafiti (il 25% degli elettori) che più danno in escandescenze contro l’Hizb, il partito, la fazione. Tolti i quali, della democrazia resta pochissimo.
Sono dunque ad al Azhar i missi dominici (5000 allievi arrivano dalle madrasse di tutto il mondo musulmano) di quel fantomatico islam moderato, «light», che l’Occidente sogna e si inventa, i paladini in grado di confutare i settatori delle magnifiche sorti e dei fatali progressi del fanatismo?
Forse c’è stato un tempo in cui trovarsi in questo luogo significava davvero incontrare quello che c’è di più bello nella fede religiosa: la sua capacità di offrire consolazione e ispirazione, la tensione verso quelle grandi e splendide vette in cui forza e delicatezza si congiungono. Me se entriamo nelle Facoltà di Teologia e di Diritto incontriamo luoghi di eternità volgarizzata, non c’è il solenne lo scostante il discontinuo, la divinità che si pratica qui e si applica alla realtà per leggerla non è impervia, manca dell’esclamativo. Professori-burocrati che paion conservati sott’aceto, e studentiobbedienti insegnano e apprendono il mondo su libri vecchi di mille anni, sempre quelli, salmodiando sure stantie. Sembra di essere a una scuola quadri dei vecchi partiti comunisti. In questo caso dei Fratelli musulmani. Non faranno mai una rivoluzione modernista. Il loro quietismo subdolo, la loro «machina mundi» affattura migliaia e migliaia di giovani perpetuando la massima definitiva del padre fondatore, Hassan al Banna: «L’islam è la nostra Costituzione». Tutto è vecchio, come le orribili croste che ornano gli uffici del rettorato, le piante ornamentali di plastica coperta di polvere. Nessuno degli insegnanti, come Abdelsabur Fadel che ci ha accolto a piedi nudi, pronto per raggiungere i suoi allievi in preghiera, ci è sembrato un pescatore di uomini. Semmai legulei, strascinafaccende, attenti dosatori diparole: «Sì, abbiamo passato tempi duri, siamo diventati un ente pubblico. Ora dobbiamo riguadagnare autonomia, ovvero il diritto che un tempo avevamo di scegliere noi stessi il grande imam. ».
Emoatez è al quarto anno di diritto. «Perché mi chiedi se sono salafita? Non vedi come sono vestito? Puro stile al Azhar. Islam moderato? Islam radicale? L’islam è l’Islam. Quando dominavamo il mondo c’era giustizia e pace. Vedrai: ritorneranno».

Corriere della Sera 5.12.11
«Noi donne egiziane adesso temiamo una deriva iraniana»
Gli integralisti salafiti volano al 25%
di Cecilia Zecchinelli


L'onda islamica travolge l'Egitto: sommati fra loro, islamici moderati e radicali ottengono il 65% dei voti. Il partito Libertà e Giustizia della Fratellanza Musulmana ha preso il 36,6%, i salafiti di Al Nour il 24,3%, gli islamici moderati di Al Wasat il 4%. Sono i risultati del primo turno delle legislative (in 9 su 27 province). Seguono, a grande distanza, due gruppi liberali, il Blocco egiziano con il 13% e il partito Wafd con il 7%. Gli altri due turni sono previsti il 14 dicembre e il 3 gennaio. «Il successo dei salafiti mi sorprende ma neanche tanto, molta gente che conosco qui in provincia li ha votati perché conosce i candidati e li considera persone per bene, timorati di Dio e rispettosi delle tradizioni, vicini alla gente comune e ai suoi problemi soprattutto economici, che non parlano difficile come i partiti laici o i rivoluzionari di Tahrir», dice Ghada Abdel Aal, commentando dalla città operaia di Mehalla dove vive i dati della prima fase elettorale che danno agli integralisti il 25% dei voti. «Questa affermazione mi fa molta paura, hanno una mentalità chiusa e ancorata al passato, vogliono cancellare le leggi a favore delle donne approvate sotto Mubarak con la scusa che le ha volute sua moglie Suzanne, anche per i copti sono pericolosi, per i diritti umani in generale. Ed è per questo che io come molti amici, compresi tanti cristiani, sosteniamo i Fratelli Musulmani che nelle elezioni stanno trionfando con il 40% dei voti. Se dobbiamo scegliere tra Iran e Turchia non abbiamo dubbi».
Trentadue anni e single, farmacista e blogger, poi autrice a sorpresa di un bestseller internazionale da cui l'anno scorso è stata tratta una sitcom trasmessa con grande successo nei Paesi arabi, Ghada si definisce una «normale egiziana della classe media, né liberale né conservatrice, che ama il suo Paese». In realtà da quando ha scritto Aiza Atgawez («voglio sposarmi»), pubblicato in Italia per Epoché come «Che il velo sia da sposa», la sua vita è uscita dalla normalità. Il racconto satirico, ma lei dice «molto veritiero» della vita delle trentenni egiziane che «puntano solo al matrimonio per pressione sociale e sono nel panico perché non trovano il marito giusto», le ha portato il soprannome di Bridget Jones (che non conosceva) del Medio Oriente, viaggi e interviste anche in Occidente. Poi è arrivata la rivoluzione che lei ha appoggiato «per cambiare finalmente le cose», insieme a tante ragazze che come lei portano il velo. Ma in una cosa Ghada è «normale» ovvero in linea con la maggioranza dell'Egitto «che non è solo il Cairo come credono i politici laici». Come almeno metà del Paese alle urne preferisce un partito islamico, non salafita ma quello della Fratellanza.
«Mi rendo conto che anche i Fratelli Musulmani sono un possibile rischio — spiega infatti —. Ma io amo troppo il mio Paese, più ancora dei miei diritti di donna, e loro sono gli unici che adesso possono farlo uscire dal caos in cui siamo». Ghada, che sta scrivendo un secondo libro dal titolo «Buona a niente» ovvero un «Dalla parte delle bambine» in chiave satirica, sostiene che l'obiettivo è sicuramente uno Stato secolare. «Ma le forze laiche litigano tra loro, non sono organizzate. E intanto la crisi è assoluta, tutti siamo convinti che se va avanti così l'Egitto andrà in bancarotta. Non voglio protestare tutta la vita, nessun giovane deve più morire. Tahrir è stato uno strumento fondamentale per mandar via quel vampiro immortale di Mubarak, ma ora è lontana dal Paese con i suoi 82 milioni di abitanti». E ancora: «Voglio un Paese normale, senza lutti e tanta tristezza a cui il mio popolo non è abituato. E soprattutto ora che i salafiti stanno avanzando, l'unica alternativa sono i Fratelli. In futuro vedremo».

Corriere della Sera 5.12.11
Metà dei russi vota contro Putin
Lo sgambetto allo Zar e il nuovo dissenso
di Franco Venturini


Metà dei russi vota contro Vladimir Putin. Il partito del leader, secondo gli exit poll, rimane al primo posto, ma scende nelle preferenze. Il commento: «Restiamo i più forti». La Russia assiste intanto al ritorno dei comunisti, che raddoppiano i consensi. «Con questi numeri sarà opposizione dura». Medvedev: «Questa è la prova che siamo in democrazia».
Ma il consenso dei votanti è sceso dal 64 per cento del 2007 al 50 di oggi, la maggioranza qualificata dei deputati che serviva a poter modificare la Costituzione è stata spazzata via, quella assoluta è stata difesa a fatica, e mentre il partito del potere arretrava rovinosamente le altre tre formazioni rappresentate alla Camera bassa hanno tutte progredito permettendo ai comunisti, considerati l'unica vera opposizione e dunque beneficiati dal voto di protesta, di arrivare vicini al raddoppio dei suffragi.
Si capisce perché l'ancora primo ministro Putin, apparso ieri notte in televisione accanto all'ancora presidente Medvedev, appariva nervoso e aveva il volto tirato mentre difendeva la «vittoria» di Russia Unita. Egli sapeva bene di essere lo sconfitto numero uno, anche se alle elezioni non era candidato, anche se la patata bollente del capolista era stata affidata al povero Medvedev. Quale fosse l'umore dei cittadini lo avevano ben spiegato i sondaggi più credibili condotti prima dell'apertura delle urne: Russia Unita aveva perso nove punti percentuali in una settimana quando si era appreso che a marzo prossimo Putin e Medvedev si sarebbero scambiati le poltrone, che il giochino era stato deciso già quattro anni fa, e che zar Vladimir poteva così restare presidente fino al 2024. La realtà dei risultati è ora andata oltre quei sondaggi, ma nella direzione da essi indicata. Putin resta il politico più popolare della Russia, e in marzo sarà eletto. Ma un numero ormai molto consistente di cittadini e in particolare di giovani che andavano per la prima volta alle urne si è stancato della passività, ha deciso di impegnarsi in una avventura di opposizione che in Russia non è priva di rischi, e ha affidato alle urne di questo virtuale «primo turno» delle presidenziali un messaggio che alla diarchia rovesciata Putin-Medvedev arriva forte e chiaro.
Putin esce dalla prova fortemente indebolito. Non è tanto l'impossibilità di modificare la Costituzione a pesare: se fosse davvero necessario, non gli sarebbe difficile trovare i numeri richiesti presso gli altri partiti della Duma. Piuttosto, la vittoria a dir poco dimezzata di ieri mostra al presidente in pectore che non potrà prendere sottogamba l'irrequietezza e le nuove richieste di una società russa in movimento per lo meno nei grandi centri urbani ma non più soltanto in essi. Il dissenso, insomma, è entrato a far parte del panorama politico russo. Fino a ieri soprattutto su Internet, da ieri anche nelle urne. E se si pensa a quello che avrebbe potuto essere il risultato senza l'aiuto delle «risorse amministrative» di Russia Unita, senza la preventiva esclusione di partiti e candidati, senza il rigido controllo dei media tradizionali, e probabilmente senza il ricorso a una certa quantità di brogli, allora viene da chiedersi se Putin avrà davvero la forza di rimanere al Cremlino fino al 2024 dovendo essere rieletto tra sei anni.
La nuova sfida, per Putin e per la Russia, è proprio questa. Se non vuole che la sua quota di consenso cali ulteriormente zar Vladimir deve, come annuncia egli stesso, «modernizzare» il Paese. Ma non gli basteranno l'imminente ingresso nell'Organizzazione mondiale del commercio, l'eventuale aumento degli investimenti o la tanto invocata diversificazione di una economia energia-dipendente. Perché in un modo o nell'altro dovrà essere affrontata la questione della democrazia. Cosa farà Putin con le voci incontrollate sempre più numerose sul web, sceglierà una repressione di tipo cinese oppure le accetterà innescando ulteriori progressi libertari? Putin sarà quello che già conosciamo, quello della «verticale del potere» che si affida interamente al vertice e non ammette disturbatori, oppure avrà la capacità di comprendere le urne di ieri, di mostrarsi sensibile ai loro messaggi d'allarme pur senza mettere a rischio la stabilità interna della Russia? Putin continuerà a servirsi di una burocrazia corrotta, degli oligarchi a lui fedeli e dei suoi ex colleghi del Kgb ora chiamati siloviki, oppure avrà il coraggio di aprire a energie nuove e scalpitanti?
L'interesse dell'Occidente è che da queste elezioni nasca un Putin rinnovato, futuro artefice di una Russia sì stabile ma anche meno autoritaria. La speranza è lecita. Ma il realismo ci dice piuttosto che Putin continuerà ad essere quello che già conosciamo. E l'incognita, allora, riguarda il futuro della Russia.

Corriere della Sera 5.12.11
Il ritorno dei comunisti: «Con questi numeri faremo opposizione dura»
di F. Dr.


MOSCA — Quando arriva nell'ex palazzo dei pionieri per votare, Gennadij Zyuganov è preoccupato soprattutto dei possibili brogli. «Mi ha appena telefonato un collega del partito: al seggio 1393 di Mosca hanno infilato nell'urna un pacchetto di 300 schede già compilate. Una vergogna». Per il leader del Partito comunista (Kprf) queste sono le seste elezioni, se non teniamo conto delle votazioni ai tempi dell'Urss. Una continua e progressiva emorragia di elettori. Fino a ieri, quando il vento è cambiato.
Prima di ricevere la scheda, Zyuganov gironzola tra i banchetti che offrono prodotti a prezzi scontatissimi, una tradizione che è sempre servita ad attirare gli elettori ai seggi. Poi, dopo aver fatto il suo dovere, accetta di rispondere alle domande del Corriere.
Le aspettative del suo partito erano alte. Un risultato attorno al 20 per cento, giusto?
«Dobbiamo prendere, alla fine, quello che ci spetta. Non vogliamo voti altrui ma non vogliamo regalare i nostri a nessuno».
E qual è la percentuale che spetta al Kprf? Nei giorni scorsi parlavate del 30 per cento anche se alle elezioni precedenti avete preso l'11 per cento.
«Come minimo, visto che alle ultime amministrative abbiamo ottenuto successi ben maggiori. In molte città abbiamo superato Russia Unita».
I suoi continuano a denunciare brogli.
«A un seggio di Mosca li ha visti con i suoi occhi il nostro deputato Oleg Smolin. Ma in tutto il Paese succedono cose incredibili. Non rispettano alcuna regola».
E voi cosa farete se alla fine vi verranno assegnati meno seggi?
«Faremo comizi di protesta. Ci dobbiamo preparare. Se non daranno subito le copie dei verbali, sono sicuro che tanti russi decideranno di manifestare».
Nella Duma uscente non è che voi abbiate fatto un'opposizione feroce contro il Cremlino. Le cose cambieranno ora?
«Abbiamo sempre votato contro, solo che loro controllavano comodamente il Parlamento. Ora ci troveremo di fronte a una situazione del tutto diversa. Avremo un pacchetto di deputati molto significativo. In determinate circostanze potremmo anche arrivare a sfiduciare il governo».
Con chi pensate di allearvi in Parlamento?
«Secondo noi, l'unico sbocco per il Paese sarebbe una coalizione di centrosinistra. Siamo pronti al dialogo costruttivo con le forze responsabili. Adesso vedremo chi è veramente all'opposizione».
Quindi lei prevede cambiamenti nel Paese.
«Al potere fino ad ora è sempre restata la stessa squadra, quella che ha contribuito a portare il Paese in un vicolo cieco. Sono andati alle elezioni sempre con la stessa squadra, la stessa bandiera, la stessa Russia Unita che ha fatto venire la nausea alla gente».
Del ritorno di Putin alla presidenza cosa dice?
«Oggi da noi il presidente ha più potere di un faraone, dello zar e del Segretario Generale del Pcus messi assieme».
E il tandem tra Putin e Medvedev? In un'intervista al quotidiano «Vedomosti» lei ha detto che non esiste e che a comandare c'è sempre stato solamente il gruppo di amici di Putin che aveva la dacia nello stesso villaggio.
Zyuganov sorride ammiccando. Poi decide che si è fatto tardi e si avvia sotto una leggera nevicata, circondato da un gruppo di fedelissimi.

La Stampa 5.12.11
Erika contro Omar: “Viscido”
Oggi l’autrice del massacro di Novi torna libera: ma in una lettera attacca il suo ex fidanzato
di Paolo Colonnello


L’accusa «Recarti al cimitero e farti fotografare per soldi è una cosa vile da indegno quale tu sei» L’orrore I due fidanzati uccisero, la sera del 21 febbraio 2001, la madre e il fratello di lei con 96 coltellate Scritta a mano La lettera scritta da Erika per attaccare l’ex fidanzato Omar, pubblicata ieri dal Quotidiano Nazionale A sinistra Erika De Nardo com’è oggi, a 27 anni, in una foto realizzata dal settimanale Panorama A destra Omar Favaro ospite di Matrix
Le condanne come quelle di Erika De Nardo, in realtà, non finiscono mai. Così anche se oggi, dopo quasi 11 anni, formalmente per la giustizia avrà finito di scontare la sua pena, l’ex ragazzina che la sera del 21 febbraio 2001 a Novi Ligure massacrò a coltellate la madre e il fratellino di dodici anni, difficilmente riuscirà ad uscire dalla gabbia che ha costruito intorno a sé.
Per i rimorsi di ciò che ha fatto e che tiene in foto sul comodino della sua stanza nella comunità «Paradiso» di Lonate, nel Bresciano, dove è entrata il 5 ottobre scorso per scontare gli ultimi due mesi di detenzione. Per i fantasmi che la perseguitano e che hanno preso la forma di Omar Favaro, il fidanzato dell’epoca, il complice che la aiutò nell’assurdo massacro della sua famiglia e che due mesi fa si è fatto intervistare da un settimanale, lasciandosi fotografare vicino alla tomba degli innocenti che aveva aiutato ad uccidere. Erika e Omar, «la coppia diabolica»: l’amore che li unì nella follia di sangue si è trasformato in disprezzo, che è la forma peggiore dell’odio.
Entrambi si scrivono e si confrontano adesso attraverso i giornali, rilasciando interviste e scrivendo lettere, sfruttando ancora una volta la loro tragedia. «Si vede chiaramente quanto sei viscido e senza dignità, usare mia madre e mio fratello per farti popolarità. Per fare dei soldi ti sei fatto fotografare al cimitero da loro. Ma non ti vergogni... », ha accusato Erika in una lettera pubblicata ieri sul Quotidiano Nazionale.
Lui, che è uscito dal carcere nel marzo del 2010 e ora vive in Toscana con una nuova compagna, nelle interviste aveva spiegato di attenderla «per guardarla negli occhi», capire il perché di questo odio nei suoi riguardi e soprattutto capire quanto accadde. Un dialogo surreale, a distanza, sui giornali. Lei risponde secca: «Hai reso un sacco di dichiarazioni false ma non mi stupisce da un vile come te, ma recarti al cimitero e farti fotografare è una cosa da indegno, quale tu sei. Ti chiedo per l’ultima volta di smetterla di speculare sulla mia famiglia, di certo così non trovi lavoro sempre che tu non voglia fare il Grande Fratello... ».
Sempre stata più determinata, Erika. Nel bene e nel male. Omar ha avuto meno strumenti, meno carattere, meno possibilità e la prigione non lo ha aiutato. Erika invece, che oggi ha 27 anni, si è laureata in Filosofia con 110 e lode mentre era in carcere, adesso che ha finito di scontare la sua pena ha scelto di rimanere per il futuro nella comunità di Don Mazzi che l’ha ospitata, facendo volontariato. Ed è perfino riuscita a recuperare il rapporto con suo padre, da cui trascorrerà Natale per poi andare per un periodo di volontariato all’estero. «Adesso basta - conclude Erika nella sua lettera a Omar -. Spero che tu abbia capito che devi vivere senza continuare a legarti alla mia famiglia, ma come Omar Favaro. È ora che tu spenga i riflettori su di noi».
In fondo è cambiato ben poco dalla prima sera in cui iniziarono a mentire accusando prima degli albanesi inesistenti e poi, una volta arrestati, accusandosi reciprocamente davanti ai carabinieri, rigettando l’uno sull’altro la primogenitura della responsabilità del massacro. Avevano entrambi 16 anni.
La corte d’Assise di Torino li condannò a 16 e 14 anni di reclusione, pena confermata in Cassazione, considerando Erika la vera ispiratrice di quella notte di sangue in famiglia: la mamma Susy Cassini e il fratellino Gianluca, 12 anni, vennero colpiti in tutto da 96 coltellate, in un crescendo di orrore che sconvolse l’Italia. Ma venne data loro una seconda possibilità: quella di uscire dal carcere non ancora trentenni e di potersi rifare una vita. Sarebbe ora che capissero che un buon modo per ricominciare è farsi dimenticare.

Le tappe della vicenda

21 febbraio 2001
Il duplice omicidio
A Novi Ligure Susi Cassini, 42 anni, e il figlio Gianluca di 11 sono massacrati in casa a coltellate. Erika De Nardo, 16 anni, primogenita della donna, racconta che a uccidere sono stati due albanesi. I carabinieri accertano invece che è stata proprio lei a uccidere, insieme con il suo fidanzato Omar Favaro.
23 febbraio 2001
L’arresto
Dopo ore di interrogatorio e alcune intercettazioni tra i due in carcere, Erika e Omar vengono arrestati.
14 dicembre 2001
La prima condanna
Il tribunale per i minorenni condanna con rito abbreviato Erika a 16 anni e Omar a 14 anni di carcere (sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello il 30 maggio 2002)
9 aprile 2003
La Cassazione
L’Alta corte rende definitive le condanne, da scontare in carceri minorili. Al compimento dei 21 anni Omar è trasferito nel carcere di Asti, Erika in quello di Brescia.
3 marzo 2010
Omar esce
Il magistrato di sorveglianza concede 45 giorni di libertà anticipata: Omar finisce di scontare la pena ed esce dal carcere. Il termine sarebbe scaduto comunque il 17 di aprile.
5 dicembre 2011
Fine pena Erika torna oggi in libertà.

La Stampa 5.12.11
La ragazza vivrà in una delle comunità di Exodus
Don Mazzi: “Ora basta Dovete lasciarla in pace”
di Alberto Infelise


«Chiedo di lasciare in pace Erika ed ognuno di noi. Chiedo il silenzio su Erika». È una richiesta difficile da esaudire, quella che don Antonio Mazzi accoratamente pone principalmente ai mezzi di comuncazione. Lo è soprattutto perché sono proprio Erika e Omar a uscire dal silenzio cui la detenzione li aveva in qualche modo costretti. L’uno facendosi fotografare in visita al cimitero di Novi Ligure (ma anche come ospite sorridente a Matrix), l’altra rispondendogli con una lettera a mezzo stampa, lettera del tutto legittima ma dai toni piuttosto accesi. A don Mazzi e a una delle strutture della sua comunità, Exodus, è stato affidato negli ultimi anni il recupero sociale di Erika De Nardo. Nella comunità del Bresciano in cui ha passato quasi tutte le giornate degli ultimi anni e che molto probabilmente l’accoglierà in maniera stabile fin da oggi, primo giorno di libertà, Erika ha ricominciato a socializzare, fare amicizie, si è laureata in Filosofia, ha cominciato a lavorare nella struttura stessa.
«Cerchiamo di essere seri», ha detto don Mazzi riferendosi al clamore mediatico per l’uscita dalla comunità di Erika. «Stiamo lavorando. Il caso - ha precisato - non è semplice. Erika ha promesso di restare con noi. Chiedo che la stampa lasci in pace lei ed ognuno di noi». Don Mazzi ha poi definito «una vergogna» le notizie che ancora stanno uscendo sulla giovane, come quella della lettera che Erika ha scritto al suo ex fidanzato. «È vergognoso che si rivanghi il passato», ha osservato, forse non sapendo che proprio Erika e Omar stavano abbondantemente rivangando a mezzo stampa.
Comunque sia la nuova vita di Erika ricomincia, nella comunità dove ha maturato amicizie e relazioni positive. «Erika - spiega ancora don Mazzi - rimarrà presso la nostra comunità. Non so se nella sede in cui si trova ora o altrove. Continuerà a lavorare nel volontariato. Come mi ha detto lei stessa, vuole continuare a capirsi, a maturare. Penso che dopo un periodo in cui immagino che voglia stare con il padre, parlare con lui, e presumibilmente passare insieme il Natale, Erika tornerà nella nostra comunità». Per il padre di Erika, il coraggioso ingegnere Francesco
De Nardo, oggi si apre un nuovo capitolo, quello che ha aspettato per anni: nonostante la figlia avesse pianificato di uccidere anche lui, le è sempre rimasto vicino negli anni della detenzione, preparandosi ad esserlo ancora nel giorno in cui la sua bambina assassina fosse uscita donna dal carcere. Quel giorno è oggi.

Corriere della Sera 5.12.11
Pronta per Erika una casa all'estero
Libera dopo 11 anni. «Omar un viscido»
di Claudio Del Frate


MILANO — Non andrà sulla tomba della madre e del fratellino e nonostante la riacquistata libertà non metterà subito piede fuori della comunità di don Antonio Mazzi che la sta ospitando. Erika De Nardo, la ragazza autrice dieci anni fa del massacro di Novi Ligure, si trasferirà all'estero per proseguire il suo cammino di recupero e continuare la sua attività nel mondo del volontariato. Lo stesso sacerdote e fondatore della comunità Exodus le ha dato ieri la sua «benedizione» attraverso una lettera.
Per Erika, dunque, oggi termina il periodo di detenzione: era stata condannata a 16 anni, da qualche mese si trovava non più in carcere ma in una struttura protetta a Lonato (Brescia), adesso il meccanismo sugli sconti di pena le consentirà di essere anzitempo una donna libera. «Nessuno è irrecuperabile — scrive alla giovane, oggi ventisettenne, don Mazzi — come nessuno è santo per decreto divino. La bestia è sempre in agguato dentro noi. Il domatore talvolta viene travolto, altre volte è immolato, spesso inascoltato. Vorrei che tu capissi quanto è importante rileggere il tuo passato, non per pescare nel torbido ma per rigenerarlo e tradurlo, in novità di vita. La straordinaria dignità di tuo padre, ti sia di stimolo. Sai bene che ti vorrei mandare, per alcuni anni, all'estero in una mia struttura, per trasformare una tragedia così sconvolgente in un'avventura impegnativa e testimoniale».
Il sacerdote rivela anche un dettaglio divertente: a ottobre Erika ha partecipato con altri ragazzi a un campeggio a Sirmione (dove in una messa ha scelto di leggere la parabola del Figliol Prodigo). A Sirmione era presente un noto paparazzo, che però non si è accorto della presenza della «preda». Erika, cercherà di evitare il clamore mediatico legato alla sua liberazione, trascorrerà qualche giorno con il padre per poi tornare sotto l'ala protettrice di Exodus ma in una comunità all'estero.
Ieri intanto il Quotidiano Nazionale ha pubblicato un'aspra lettera che la ragazza ha indirizzato a Omar Favaro, ex fidanzatino e suo complice nel massacro: «Si vede chiaramente quanto sei viscido e senza dignità, usare mia madre e mio fratello per farti popolarità. Per fare soldi ti sei fatto fotografare al cimitero, ma non ti vergogni. Ti chiedo per l'ultima volta di non speculare sulla mia famiglia».
Omar, pure lui tornato libero, aveva dichiarato di voler rincontrare Erika per guardarla negli occhi e chiarire.
Come sempre accade in queste circostanze, su internet si è già scatenato il tam tam dei commenti sdegnati contro il ritorno in libertà degli assassini di Novi Ligure. Un gruppo su Facebook contrario alla scarcerazione della ragazza ha raccolto in poche ore oltre 200 iscritti.

Corriere della Sera 5.12.11
L'abisso di quel padre: «Vivo per lei»
di Marco Imarisio


L'ingegnere in Loden che ha perso moglie e figlio e poi si è aggrappato alla loro assassina
Come rumore di fondo c'era un brusìo, un vociare continuo. Andò avanti così per tutta la sera. Davanti alla caserma dei carabinieri di Novi Ligure c'è un prato rettangolare, come un piccolo campo da calcio. Trecento persone erano rimaste ferme ad aspettare nel gelo.
Il male assoluto aveva bisogno di una certificazione. Arrivò con il passaparola di un maresciallo, «li hanno arrestati», che rimbalzò fino alle ultime file. Si spense ogni voce. Il prato venne invaso da un silenzio nel quale galleggiavano sgomento, paura, ancora incredulità. La gente se ne andò veloce, consapevole di essere testimone di un evento da rimuovere al più presto, l'epilogo ancora più atroce del più atroce delitto della storia d'Italia.
Nel cortile della caserma apparve un uomo stretto in un Loden blu, che osservava quella ritirata con espressione spaesata. Era Francesco De Nardo, l'ingegnere della Novi, socio del Lions cittadino, persona conosciuta e rispettata che ogni tanto parlava alle tivù locali delle ultime novità dell'azienda dolciaria che in questo angolo di Piemonte dava da vivere a molti. Era anche lui la vittima del delitto, il marito di Susy Cassini, il genitore del piccolo Gianluca, al quale aveva promesso che la domenica seguente lo avrebbe portato a Milano per vedere l'Inter. Ma al tempo stesso era anche il padre di Erika, la ragazza che insieme al fidanzato Omar aveva ucciso il sangue del suo sangue. Qualcuno scrisse che in quel preciso istante, quando gli avevano detto che era stata lei, a compiere quel massacro, l'ingegnere di Novi Ligure era diventato l'uomo più solo e disperato del mondo. Non c'erano altre definizioni, per dire della posizione pazzesca nella quale si trovava, del pozzo di dolore nel quale era stato gettato.
Naturalmente il rumore di fondo che giungeva da Novi Ligure si estese al villaggio globale italiano. Nel marzo del 2001 costrinse i magistrati a chiedere un silenzio stampa sulla vicenda, ed era la prima volta che accadeva per vicende non legate al terrorismo. La voglia di sapere e di guardare del pubblico e dei media, forse, era meno riconducibile alla curiosità e più allo sgomento. In quella villetta era accaduto l'indicibile, a differenza della vicenda di Pietro Maso senza neppure un vero perché, fatto che a tutt'oggi resta il vero grande mistero mai esplorato di Novi Ligure.
Le domande suscitate da quel sangue erano tante, tutte legittime. Quell'orrore era vicino a noi, un germoglio sbocciato in famiglie normali, uguale a tante. Uguali, magari, alle nostre. «Abbiamo perso la sicurezza degli affetti» scrisse Giuseppe De Rita.
Ma l'interesse era quasi tutto per lei, per Erika, per questa figura di figlia diabolica, e di riflesso per il padre, vittima e padre della carnefice. Il 6 marzo 2001 Francesco De Nardo incontrò alcuni giornalisti nel cortile del Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. Stretto nello stesso Loden blu di quella sera, contestò con garbo la definizione di uomo più solo e disperato sulla faccia della terra. «Io ho Erika, e devo continuare a vivere per lei». Si allontanò, e una volta certo di non essere seguito, attraverso le sbarre di una finestra al pianterreno passò all'assistente sociale un pacchetto. Dentro c'erano due libri di scuola. E in quel gesto c'era già tutto. La vita doveva continuare.
L'ingegnere di Novi Ligure, magari perché era l'unica via per sopravvivere, ha scelto sua figlia nel solo modo possibile. Decidendo di guardare avanti, rinunciando ad affacciarsi sull'orlo dell'abisso. Ci sono decisioni che devono essere prese subito, e sono definitive. Le intercettazioni ambientali in carcere rimandano colloqui al limite della banalità, come va a casa, come stanno le tartarughe del giardino. Quando la casa venne dissequestrata, De Nardo riverniciò da solo le pareti ancora imbrattate del sangue della moglie, di suo figlio. Qualcuno ha letto in questo atteggiamento una forma di espiazione da chissà quali colpe. Nelle poche telefonate con alcuni giornalisti era quasi costretto a giustificarsi. Nella mia vita è passato un tornado, diceva, e io cosa posso fare, posso solo rimettermi in piedi, dedicarmi a chi ha bisogno di me, lo so che per voi è difficile da capire.
Su questo aveva ragione, l'unico enigma di Novi Ligure è diventato questa figura di padre, un borghese sempre gentile nei modi e nei toni, granitico in una scelta di vita quasi monastica, centrata tutta sul bene di una figlia che per il resto d'Italia era un diavolo moderno. Non tutti hanno approvato questo suo schierarsi con Erika, proteggerla per aiutarla, in apparenza senza farsi domande, sopportando l'implicita accusa di praticare la rimozione come una medicina per se stesso. Non tutti hanno valutato cosa ha vissuto e continua vivere quest'uomo. Il prezzo da pagare, per lui, è stato una ulteriore solitudine.
A suo modo Francesco De Nardo è diventato un personaggio per contrasto, per la sua integrità, rifiutando ogni ribalta pubblica, cercando di tutelare sua figlia da ogni clamore. In dieci anni ha saltato «al massimo» due colloqui in carcere, riferiscono psicologi e assistenti sociali. Agli avvocati ha sempre dato disposizioni draconiane nei contatti con i media, lasciando filtrare disappunto ogni volta che qualcosa filtrava dalla nuova vita di Erika. Uno di loro lo racconta «addolorato e furioso» quando nel 2009 Matrix mandò gli interrogatori di Erika. E le recenti comparsate di Omar tornato in libertà lo hanno fatto stare malissimo, come avverrà anche oggi per una giornata che dovrebbe chiudere, illuminandola per l'ultima volta, una storia che tutti vorrebbero dimenticare.
La nuova lettera di Erika segna invece l'inizio di un tempo supplementare affatto piacevole, quello del commercio delle epistole dei due ex fidanzati. E solleva legittime domande sul percorso fatto finora in carcere, visto che le comparsate televisive di Omar non dovrebbero essere, per lei, il primo motivo di rabbia e preoccupazione. Ma almeno quelle poche righe dimostrano voglia di ribellarsi a un destino pubblico, all'esposizione di se stessi alla quale si è consegnato il suo complice, una volta espiata la pena.
Nel rifiuto annunciato del rumore di fondo che verrà c'è almeno l'adesione di Erika alla scelta dell'unico essere umano che non l'ha mai abbandonata, l'unico che si è sempre rifiutato di considerarla un mostro. L'ingegner Francesco De Nardo oggi ritroverà una ragazza diventata donna in carcere, che undici anni fa diede 97 coltellate a sua moglie e al suo Gianluca. Una figlia che gli ha preso tutto, ma è tutto quel che gli rimane.

Repubblica 5.12.11
Erika a Omar: usi la mia famiglia per fare soldi
A dieci anni dal massacro di Novi la ragazza oggi libera
L’ira per le foto dell´ex fidanzato al cimitero
di Meo Ponte


Don Mazzi: passerà il Natale con il padre, poi tornerà in comunità a fare volontariato
Sei viscido e senza dignità, devi smettere di speculare sulla mia famiglia. Così non trovi lavoro, al limite un posto al Grande Fratello
Io ed Erika non abbiamo più nulla da dirci Posso solo invitarla a dire la verità, come ho fatto io, e ad ammettere le sue responsabilità

ALESSANDRIA - Apparentemente per Novi Ligure è stata una domenica normale ma, sotto il velo opaco dell´indifferenza, sui volti si legge una certa ansia e una domanda inespressa. Oggi che Erika De Nardo sarà libera tornerà a vivere nella villetta del quartiere Lodolino? In quella stessa casa dove la sera del 21 febbraio 2001, insieme al suo ragazzo, Omar Favaro, massacrò a coltellate la madre, Susy Cassini e il fratellino Gianluca che aveva appena 12 anni? L´ingegner Francesco De Nardo, il padre che le è sempre stato accanto nell´incomprensione generale, quelle stanze in cui si consumò il massacro le aveva ripulite già nel maggio di 11 anni fa, appena tolti i sigilli e vi era tornato a vivere probabilmente con il proposito di riportarci Erika. «È tutto quello che rimane della mia famiglia» ha confidato a suo tempo all´avvocato Mario Boccassi che aveva difeso la figlia.
Dal 25 settembre Erika vive nella comunità Exodus di Don Mazzi a Lonato del Garda. Ad aprile ha compiuto 27 anni. Nel periodo passato nelle celle del Beccaria prima e poi, una volta maggiorenne, in quello di Verziano, si è laureata in filosofia a pieni voti. «Erika resterà presso la nostra comunità - ha spiegato don Mazzi che alla vicenda di Novi Ligure si è appassionato sin dall´inizio - non so se dove è ora o altrove. Continuerà a lavorare nel volontariato. Credo che passerà il Natale con il padre ma poi tornerà da noi...».
Come Omar anche Erika vuole essere dimenticata. Entrambi però hanno uno strano modo per farlo. Lui, libero dal 3 marzo 2010, dopo un periodo ad Acqui Terme si è trasferito a Ponticelli, in Toscana. E da quando è libero non ha lesinato interviste e comparsate in tv. Si è persino fatto fotografare al cimitero di Novi Ligure, raccolto in preghiera davanti alle tombe delle sue vittime.
Lei ha continuato a scrivere. Alle amiche di Novi, alle compagne di cella scarcerate prima di lei, e ad Omar. Ieri con una lettera "filtrata" probabilmente dalla comunità e pubblicata da Qn, ha accusato l´ex fidanzato con frasi pesanti. «Si vede chiaramente quanto sei viscido e senza dignità - scrive Erika - usare mia madre e mio fratello per farti popolarità. Per farti dei soldi ti sei fatto fotografare al cimitero da loro, ma non ti vergogni, hai reso un sacco di dichiarazioni false ma non mi stupisce da un vile come te, ma recarti al cimitero e farti fotografare è una cosa da indegno quale sei. Ti chiedo per l´ultima volta di smetterla di speculare sulla mia famiglia. Di certo così non trovi lavoro sempre che tu non voglia fare il Grande Fratello. Adesso basta! Spero che tu abbia capito che devi vivere senza continuare a legarti alla mia famiglia ma come Omar Favaro. È ora che tu spenga i riflettori su di noi».
Omar ha annunciato di voler riflettere prima di risponderle. I magistrati che seguirono il caso non nascondano il disgusto e spiegano: «Non pare che entrambi abbiano fatto un grande percorso nella comprensione della tragedia di cui sono stati autori». In più entrambi continuano ad incolparsi reciprocamente dell´assassinio del piccolo Gianluca quando le indagini stabilirono che a straziare il corpicino del bimbo furono tutti e due. E soprattutto nessuno dei due ha mai spiegato il perché di quel massacro meditato per mesi.

Corriere della Sera 5.12.11
Il rebus dei calendari sul giorno del Natale
Un monsignore indica un giovedì del 5 a.C.
di Armando Torno


Quando nacque Gesù? I vangeli di Matteo e Luca offrono alcuni dati. Il primo ricorda che vide la luce a Betlemme al tempo di Erode, re della Giudea. Il quale, stando alla narrazione dei fatti, era ancora vivo. Luca, con un racconto totalmente diverso, rammenta che sotto Erode nacquero Giovanni il Battista e, sei mesi dopo, Gesù. In base al calcolo del monaco Dionigi il Piccolo (V-VI secolo), che introdusse il computo degli anni dalla venuta di Cristo, il Salvatore sarebbe diventato uomo nel 753° anno dalla fondazione di Roma. Ma il religioso commise un errore. Erode, stando allo storico Giuseppe Flavio e a quanto scrisse nelle sue Antichità Giudaiche (XVII, 191 e 213), scomparve tra un'eclisse totale di luna e una Pasqua. Ora, sappiamo che nel 5 a.C. vi furono appunto due eclissi totali; una parziale si verificò nel marzo del 4 a.C., e di nuovo una totale nell'1 a.C. Per questo si presume che il re morisse nel 4 a.C., poco prima della Pasqua. Quindi Gesù nacque prima del 4 a.C.
E il giorno? Si è ripetuto che non lo conosciamo con precisione. Le ipotesi non sono mancate e nemmeno i primi cristiani sembrano essere d'accordo. Le chiese orientali lo fissano il 6 gennaio, le occidentali il 25 dicembre. Si giustificava l'incertezza ricordando che la nostra tradizione avrebbe cominciato a festeggiare il Natale il 25 dicembre dopo il Concilio di Nicea (325), quando il cristianesimo si diffuse grazie alla libertà di culto. Soppiantava, di fatto, la festa del Sol Invictus nel mondo del paganesimo agonizzante. La vera luce diventava Cristo.
Gianantonio Borgonovo, docente di teologia ed esegesi del primo testamento presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, dottore dell'Ambrosiana e canonico del Duomo di Milano, traduttore dall'ebraico per la Bibbia Cei del 2008, sta terminando complesse ricerche su calendari e computo del tempo nel mondo antico. Verranno pubblicate tra non molto. Si è imbattuto in dati che possono recare chiarimenti alla annosa discussione riguardante il natale di Gesù.
La prima osservazione, sottolinea Borgonovo, è la seguente: «Il 25 dicembre e il 6 gennaio fanno riferimento alla stessa data, ovvero il 25 di Tevet del calendario ebraico». «Il 25 dicembre — prosegue — sarebbe la trascrizione popolare del giorno ebraico, mentre il 6 gennaio ne sarebbe l'equivalente preciso». Certo, il calendario allora in uso nel mondo latino era quello giuliano, in vigore sino al 1582. Papa Gregorio XIII, d'accordo con gli scienziati dell'epoca, decise di «saltare» i giorni dal 4 al 14 ottobre di quell'anno per riordinare il computo del tempo. Da quel momento la riforma creò una duplicazione di date del Natale. Borgonovo aggiunge: «Ho confrontato il calendario ebraico dal 10 a.C al 10 d.C.: ebbene un solo anno presenta l'equivalenza del 25 di Tevet con il 6 gennaio. Precisamente è il 3.756 dalla creazione del mondo secondo il computo ebraico. È il nostro 5 a.C.».
È possibile anche individuare, per monsignore, seppur approssimativamente, il momento in cui nacque Gesù: «Il calendario giuliano stabilisce l'inizio del giorno a mezzanotte; per quello ebraico comincia con il tramonto del sole, grosso modo alle 18. Si può dunque dire che nell'anno 5 a.C., il 25 di Tevet iniziasse intorno alle 18 del 5 gennaio e terminasse attorno alle 18 del 6 gennaio. Era un giovedì». Detto in soldoni, l'equivalenza tra il 25 di Tevet e il 6 gennaio è solo per le ore dalla mezzanotte alle 18 del giorno dopo. Gesù sarebbe nato in questo arco di tempo.
Il lavoro di Borgonovo costituisce l'ultimo di un'infinita teoria. Gerolamo Cardano mezzo millennio fa scrisse un Oroscopo di Cristo (c'è una traduzione da Mimesis) ed ebbe più guai che consensi. Ora, un gruppo formato tra gli altri da un archeoastronomo dell'osservatorio di Brera e da un'astrologa, ha compiuto ricerche sulla data di nascita e di morte di Gesù. Una combinazione di pianeti spiegherebbe l'apparizione della cometa. Fu così? Ma questa, direbbe Kipling, è un'altra storia. Magari riusciremo a raccontarvela.

Corriere delkla Sera 5.12.11
Kant, gentiluomo charmant
di Armando Torno


Immanuel Kant, il filosofo che ha lasciato all'umanità la Critica della ragion pura, è stato una vittima degli aneddoti. Ne sono circolati su dieta, abitudini, indifferenza per donne (perché preferiva la castità ai problemi sentimentali) e, tra gli altri, anche sulla gradita musica per banda. Ora di Manfred Kuehn, professore alla Boston University, è stato tradotto il saggio Kant. Una biografia (il Mulino, pp. 664,
60), la cui edizione originale è del 2001. Con queste pagine documentatissime si smonta finalmente l'immagine caricaturale del sommo pensatore, purificando il suo ricordo da quei facili cliché che sono diventati la sostanza dei libri di filosofia più stupidi, pieni di materiale raccogliticcio. Ritorna, insomma, il gentiluomo che fu, ricco di spirito e pronto a partecipare alla vita sociale della sua Königsberg; un vero protagonista del suo tempo, che prese parte al grande dibattito settecentesco e non ignorò le idee della Rivoluzione francese. Un uomo che ha vissuto senza eccessi, considerato brillante e charmant dai suoi frequentatori.

Corriere della Sera 5.12.11
Ucciso dal cancro o avvelenato Indagine sulla morte di Neruda


Dopo la riesumazione del cadavere di Salvador Allende, lo scorso luglio, il Cile è alle prese con un nuovo caso di «morte eccellente». Il grande poeta Pablo Neruda morì il 23 settembre del 1973 nella clinica di Santa Maria, 12 giorni dopo il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet. Il giudice Manuel Carroza, che ha accolto la richiesta del Partito comunista cileno di riesumare la salma, dovrà verificare se la versione ufficiale, ovvero che Neruda morì per un cancro, sia vera. Oppure se il poeta fu avvelenato, come afferma il Pcc, anche sulla base di una testimonianza dell'autista di Neruda, Manuel Araya. Araya sostiene che lo stesso Neruda gli disse, la mattina del 22 settembre del '73, di aver ricevuto un'«iniezione».

Repubblica 5.12.11
La ballerina della Scala che sfida l´anoressia "La dieta ci distrugge"
La denuncia-shock della Garritano scatena la polemica "Una collega su cinque è magra in modo patologico"
"Sette su dieci non possono avere figli, subiamo troppe pressioni". Carla Fracci: non è vero
di Anna Bandettini


Sono belle, di straordinaria grazia, leggerezza, magre e disciplinate, ma è dentro di sé che, spesso, le ballerine classiche portano un peso ingombrante, un peso che ha a che fare con la malattia: anoressia e bulimia, l´ostinazione a non mangiare, a non trattenere, per non deturpare il corpicino efebico, esile, filiforme.
Lo racconta con rabbia e dolore Mariafrancesca Garritano, 33 anni, ballerina del Teatro alla Scala da quando ne aveva 16, denunciando un universo del balletto terribile e cupo. In una intervista al domenicale del quotidiano inglese Observer Garritano lancia un´accusa che non risparmia il suo stesso teatro: «Una ballerina su cinque è anoressica», dice e dalla sua esperienza alla Scala racconta di ragazzine «portate in ospedale per essere alimentate artificialmente, colleghe afflitte da disordini alimentari, ballerine, addirittura sette su dieci, che non hanno più mestruazioni per via delle diete puìnitive». Una tortura, anche il suo caso personale. «Quando ero adolescente agli allenamenti l´istruttore mi chiamava mozzarella o involtino cinese davanti a tutti. Così ridussi la mia dieta al punto di scendere a 43 chili. Andavo avanti con una mela e uno yogurt al giorno, affidandomi all´adrenalina per arrivare alla fine delle prove. La verità è che i genitori pensano di affidare le loro figlie in buone mani, ma in realtà per loro inizia un rapporto quasi religioso con lo specchio, l´istruttore e il pubblico. E quanto agli istruttori, quelli che ho conosciuto io sono ballerine frustrate che fanno pagare a te quello che hanno fatto loro».
La Scala, già nel clima dell´inaugurazione della stagione mercoledì col Don Giovanni di Mozart diretto da Daniel Barenboim (ieri c´era la prova generale aperta agli studenti) non replica. Mariafrancesca, che già aveva aveva raccontato in un libro, "La verità, vi prego, sulla danza!" una parte di queste accuse, rilancia: «Nessuno immagina che dietro a un balletto possano esserci storie di corruzione, di minacce e di compromessi, per mantenere il proprio posto sul palco. Io sono sempre stata schietta: ho visto carriere fermate e altre che hanno avuto impennate solo per conoscenze». Più caute le colleghe. «Parlare di anoressia è grave, è esagerato. Alla Scala non mi sembra che ci siano colleghe che ne soffrono. Ovvio che tutte noi cerchiamo di non appesantirci visto che siamo danzatrici e non lottatrici di sumo!», commenta Lara Montanaro, anche lei nel Corpo di Ballo della Scala come maitre «Se esiste uno standard di peso richiesto tra noi scaligere? Lo escludo».
«Se Mariafrancesca fa quelle accuse bisogna crederle. Non è il mio caso, ma è vero che nel nostro mondo c´è l´anoressia - dice Gaia Straccamore, 33 anni, prima ballerina dell´Opera di Roma - Le diete? Certo, soprattutto a 15-17 anni nell´età dello sviluppo quando magari tendi a ingrassare, ma in genere sono seguite da dottori specialisti. Io ne ho fatte di durissime. Ma è anche per stare meglio. Non esiste un peso standard, dipende dall´altezza, dalla massa muscolare, dalle proporzioni». E una étoile come Luciana Savignano: «Sì, la magrezza in molti casi è un´ossessione. Ma è legata al fisico di ogni ballerina. Io, per esempio, mangio dolci e, soprattutto, cioccolato, che mi sostiene quando lo sforzo è tanto. Una grande responsabilità ce l´hanno gli insegnanti e i coreografi ai quali spetta il compito di non instillare complessi inesistenti».
«E infatti la mia denuncia è per far sì che le cose cambino, anche se rischio di essere licenziata», dice MariaFrancesca Garritano. Carla Fracci, ormai autentica guru del balletto classico italiano, dice: «Anoressia? A me non risulta. Come si può un´anoressica ballare e fare sforzi fisici?». E saggiamente commenta: «La verità è che per ballare bisogna essere magre, ma oltre alle gambe bisogna far funzionare il cervello e la sensibilità».
(ha collaborato Laura Magnetti)

D di Repubblica 3.12.11
Legge 194, Rodotà: “aboliamo l’obiezione”
Intervista a Stefano Rodotà di Cinzia Sciuto, da "D" di Repubblica, 3 dicembre 2011

«Oggi, a più di trent’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici andrebbe semplicemente abolita». Non usa mezzi termini Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto civile all’Università La Sapienza di Roma ed ex presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali.

Professore, ma si può obbligare un medico ad agire contro la propria coscienza?
«Quando la legge è stata approvata la clausola dell’obiezione di coscienza era ragionevole e giustificata: i medici avevano iniziato la loro carriera quando l’aborto era addirittura un reato ed era comprensibile che alcuni di loro opponessero ragioni di coscienza. La legge 194 ha saggiamente raggiunto un difficile equilibrio tra il diritto dei medici a non agire contro la propria coscienza e quello della donna a interrompere la gravidanza. Oggi però chi decide di fare il ginecologo sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, che rientra nei suoi obblighi professionali e non è più ragionevole prevedere una clausola per sottrarvisi».

Ma ritiene che una tale modifica sia concretamente fattibile?
«Temo di no, in questi anni abbiamo assisitito a una generale stigmatizzazione delle donne che abortiscono e si sono fatti tentativi legislativi – penso alla proposta di legge regionale del Lazio di modifica dei consultori – che vanno nella direzione opposta. Ma per garantire il diritto delle donne all’interruzione di gravidanza, non è necessario cambiare la legge, basta applicarla.

In che senso?
«Già oggi gli ospedali non possono trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché questo è un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194, e le strutture che non lo garantiscono possono essere considerate responsabili sotto il profilo civile e penale».

Può essere sufficiente ricorrere a non obiettori ‘a gettone’, come già fanno alcuni ospedali?
«Ritengo di no, per due ragioni: innanzitutto perché per gli aborti terapeutici è necessario avere personale strutturato e in secondo luogo perché non devono crearsi medici di serie A che fanno tutto il resto e medici di serie B che fanno solo aborti, con il rischio di una dequalificazione professionale. Gli ospedali possono, e devono, invece fare dei bandi per l’assunzione di personale strutturato non obiettore».

Ma non si configurerebbe come un trattamento discriminatorio nei confronti degli obiettori?
«No, perché si tratterebbe di adempiere a un obbligo normativo a cui gli ospedali non possono sottrarsi. E si tratta di un obbligo della massima importanza. In questione infatti non c’è solo il diritto all’interruzione di gravidanza, ma il diritto alla salute della donna, che è un diritto fondamentale della persona e che non è mera assenza di malattia, ma benessere fisico, psichico e sociale. Se una donna che ha deciso di interrompere la gravidanza vive questa scelta in condizioni di malessere e di angoscia perché non sa se, quando e in che condizioni riuscirà a interromperla, c’è una evidente violazione del suo diritto alla salute, che è un diritto fondamentale della persona che non può essere subordinato a esigenze burocratiche o a mancanza di personale».

Un diritto che in Italia è sempre più difficile vedere rispettato, tanto che sono sempre di più le donne che vanno all’estero.
«I due grandi obiettivi della 194 erano l’eliminazione degli aborti clandestini e il contrasto al fenomeno del turismo abortivo, che creava una sorta di ‘cittadinza censitaria’, per cui le donne che avevano i soldi salivano su su charter, andavano ad Amsterdam o a Londra e facevano l’interruzione di gravidanza senza correre il rischio di morire. Oggi purtroppo si stanno ricostruendo i meccanismi censitari e selettivi che con la 194 si volevano combattere».

(3 dicembre 2011)