l’Unità 19.12.11
Giorgio Napolitano: nei migranti la speranza di un futuro migliore
Ricerca Ires-Fillea: «La Bossi-Fini favorisce sfruttamento e illegalità»
«Voto agli immigrati» Dopo Firenze parte la raccolta delle firme
Dopo Firenze le iniziative per dare agli immigrati il diritto di voto alle amministrative e la cittadinanza ai bambini nati in Italia. Msf: la reclusione nei Cie aumenta i rischi per la salute anche mentale dei migranti.
di Jolanda Bufalini
Giovani e migranti, noi e gli altri, noi come gli altri. L’Italia che fronteggia la scoperta di un sé razzista, nella follia omicida di Firenze, nel rogo di Torino, che si è stretta a Firenze attorno al dolore e ai colori dell’Africa, scopre anche che nella crisi a pagare di più sono i più deboli: i giovani del lavoro precario, i giovani che arrivano dal Maghreb o dalla Romania, i giovani qualificati che dall’Italia emigrano in cerca di opportunità che il Paese non è capace di offrire.
Ieri si celebrava nel mondo la giornata internazionale del migrante e non si è trattato, per l’Italia, di una occasione formale. A cominciare dal messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si è rivolto «ai lavoratori stranieri immigrati nel nostro Paese» ma anche «agli italiani che emigrano oggi» e «ai discendenti di coloro che emigrarono affrontando dure difficoltà e iniziali ostilità». Nelle parole del capo dello Stato c’è il rifiuto da parte della «comunità nazionale di ogni forma di discriminazione e violenza». Ma c’è anche la riflessione sugli effetti della «pesante crisi economica sui fenomeni migratori». Fra i migranti sono nominati «i tanti giovani capaci e preparati che lasciano il nostro Paese», risorse umane «preziose» e arricchite dalle «esperienze di lavoro e di ricerca all’estero» che «non dobbiamo perdere, creando per loro nuove opportunità». Ma c’è anche l’invito a riflettere sulla condizione dei lavoratori stranieri in Italia, spesso impegnati in settori «particolarmente aggrediti dalla crisi». Per loro la disoccupazione significa essere «esposti al rischio di forme più pesanti di sfruttamento, essere privati del permesso di soggiorno, della possibilità di restare in Italia legalmente e dell’opportunità di offrirsi sul mercato del lavoro regolare quando si presentino rinnovate necessità produttive, con danni per la stessa economia del nostro Paese».
Non ci sono solo le fragilità perché «nell’esperienza migratoria c’è la speranza in un futuro migliore e i sacrifici necessari a realizzarlo». «Uno spirito conclude il Presidente di cuiil paese ha estremo bisogno».
LA RICERCA
Giovani e migranti sono protagonisti anche in una ricerca di Ires Cgil commissionata dalla Fillea, il sindacato dei lavoratori delle costruzioni. Sono infatti gli immigrati e gli under 35 le due fasce “deboli” che più subiscono nel mercato del lavoro: precarietà, falso part time, dequalificazione professionale, partite Iva che mascherano il lavoro dipendente, disoccupazione. Ma per gli immigrati, che sono tantissimi nell’edilizia (350.000 i regolari e circa 400.000 gli irregolari), al bisogno si aggiunge la particolare «ricattabilità». «Se denunciano le irregolarità spiega il segretario Fillea Walter Schiavella rischiano di perdere il lavoro e di finire in un Cie». Il combinato della legge 30 e della «aberrazione razzista della Bossi-Fini», sostiene Schiavella, generano un «sistema malato» dove «in pericolo sono le imprese sane, circondate da quelle irregolari o illegali».
E così, se già a parità di qualifica, gli immigrati guadagnano almeno 100 euro in meno degli italiani, le retribuzioni degli stranieri subiscono altre decurtazioni: fra i lavoratori stranieri la qualifica più bassa è del 60% mentre riguarda il 30% degli italiani. Nel triennio della crisi prosegue la ricerca realizzata da Emanuele Galossi e Kurosh Danesh il part time è aumentato del 160 per cento (e si sa che nell’edilizia il part time è spesso una finzione), gli irregolari sono aumentati del 50%, le partite Iva del 13%. Ma quando il lavoratore autonomo non ha dipendenti e un solo datore di lavoro è molto probabile che si tratta di un dipendente che ha perso tutele e garanzie. Sfruttamento e ricatti aumentano il rischio di infortuni, l’edilizia, dice Schiavella «è un settore killer».
Ma con 87.000 lavoratori stranieri iscritti alla Fillea e numerosi dirigenti sindacali, anche il sindacato sta cambiando, e sono soprattutto i giovani sotto i 35 anni, particolarmente i maghrebini, a iscriversi per far rispettare i diritti di tutti.
Insieme alla Cgil Fillea combina la contrattazione nazionale e territoriale con la battaglia per la legalità e per i diritti. Ieri in tutta Italia si raccoglievano le firme per la legge di iniziativa popolare «italiano sono anch’io» proposta dalla Cgil insieme a 19 organizzazioni che vanno dall’Arci alla Croce rossa, dal centro Astalli, alle comunità di accoglienza alla Caritas. La proposta di legge promuove: la cittadinanza per i ragazzi nati in Italia e il diritto di voto alle amministrative per chi ha il permesso di soggiorno.
La legislazione italiana, la politica dei respingimenti adottata dal governo Berlusconi, preoccupano anche per altri motivi, oltre a quello dell’accentuarsi dello sfruttamento dimostrato dalla ricerca Ires. Medici senza frontiere segnala che per chi è rinchiuso nei centri di identificazione e espulsione (fino a 18 mesi) «aumentano i rischi per la salute anche mentale».
Msf denuncia gli effetti nefasti che ha avuto in Libia la politica dei respingimenti e chiede che i lavoratori stagionali nel Sud Italia abbiano accesso all’assistenza sanitaria.
Repubblica 19.12.11
Le parole dei senegalesi antidoto contro il disprezzo
di Concita De Gregorio
IN QUESTI anni si è diffuso il disprezzo. Provo a mettere a fuoco questa frase semplice e mite, persino riduttiva, in un certo senso pudica: la frase di un senegalese fiorentino colta dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti al corteo di Firenze in morte di due ragazzi uccisi martedì scorso a colpi di pistola da un "cacciatore di negri". Un tizio sui cinquanta, l´assassino.
Troppo giovane per essere stato fascista davvero - quando il partito fascista, o almeno il Msi esisteva ancora - e però fascista di ritorno. Fascista di Casa Pound e figlio degli anni dell´odio e del disprezzo, appunto, dei diversi e dei più deboli. Del "padroni a casa nostra" - canone leghista ma non solo - gli anni scellerati in cui mascherato dal sorriso da squali dei corruttori si è fatto strada il cinismo egoista e squallido, opportunista, di chi mostrava al pubblico che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua e fatevi sotto coi mezzi che avete, le parole o le spranghe, l´ignoranza a far da padrona, pazienza per chi non può difendersi. "In questi anni si è diffuso il disprezzo" è una sintesi gentile, prova vergogna per chi si dovrebbe vergognare, non dice della paura seminata come fertilizzante elettorale, della stupidità e della sistematica distruzione del sapere che l´ha scientificamente, consapevolmente coltivata. Da quanti anni? Venti, trenta o persino di più? A chi addosseranno i libri di storia la responsabilità politica dello sfacelo nelle cui macerie ci aggiriamo increduli, spaventati dall´odore di polveri che non sappiamo se e quando si riveleranno esplosive ben oltre quei due colpi di pistola? Solo a Berlusconi? Solo ai signori del denaro o anche, ben prima, già sul finire degli anni Settanta e poi negli Ottanta, a una classe politica esangue e pronta a lasciarsi comprare o spazzare via, brodo di coltura dell´Uomo della provvidenza prossimo venturo? Da quanti anni in questo Paese mancano lo sguardo, il sorriso, l´intelligenza la generosità e il coraggio di qualcuno capace di pensare il bene di tutti a scapito del suo? Qualcuno capace di vedere quel che gli altri ancora non vedono e provare a realizzarlo: senza un tornaconto privato, perché è l´unica strada possibile ed è giusta, persino. Pazienza se costa.
Mi scuso per la lunga premessa ma è che avevo negli occhi e nelle orecchie le immagini del corteo dei senegalesi di Firenze nelle ore in cui chiudevo il secondo dei due libri appena usciti per una piccolissima casa editrice, Alphabeta, che raccontano come fosse un romanzo d´avventura una straordinaria storia davvero accaduta in Italia negli anni Settanta. Una storia di cui i nostri ventenni sanno poco o niente e quanto sarebbe importante che la conoscessero, invece, per dare una direzione e un senso costruttivo alla loro sacrosanta indignazione. C´era una volta la città dei matti e Marco Cavallo - poderosi tomi, non libriccini - narrano l´incredibile magnifica rivoluzione condotta controcorrente da un pugno di donne e di uomini guidati da Franco Basaglia. Raccontano come sia stato possibile far approvare, in Italia, nei giorni dei sequestro Moro, una legge che riguardava apparentemente una irrilevante minoranza di persone, i matti dei manicomi. E siccome allora, davvero, molti dei "matti" erano semplicemente vittime delle violenze di quel tempo, non è poi così difficile per quanto sia - lo riconosco - sommamente impreciso pensare che il posto che occupavano i matti negli anni di Basaglia l´abbiano adesso i neri d´Africa e gli afgani e i migranti dei barconi che muoiono speronati al largo delle nostre coste. Numeri, volti senza identità, estranei, stranieri, diversi da noi che si insinuano nelle strade e nelle piazze proprio come, usciti dai manicomi, Boris e Mara, Margherita e suo figlio cercavano senza trovarlo un posto in un appartamento a Gorizia, a Trieste. La cronaca dell´assemblea in cui i cittadini "normali" denunciano come l´apertura dei centri di igiene mentale nel loro quartiere faccia perdere valore alle loro case, la paura delle "donne per bene" di fronte a "quelli là", l´ostilità, la chiusura. L´atteggiamento dei politici, così prudente, così diffidente, anche a sinistra: perché non bisogna perdere di vista il fatto che sarà pure giusto che i matti escano dai manicomi ma la gente non li vuole e il nostro elettorato sono la gente, non i matti. Ecco, c´è più di una suggestione, come vedete.
Poi penso anche, forse con una punta di ottimismo, che questo sia il tempo giusto per ricominciare a raccontare - a ricordare - storie come quella. Il film di Marco Turco, C´era una volta la città dei matti, è andato in onda nel 2010 in Rai ed ha avuto un successo straordinario. Sette, otto milioni di spettatori. Fabrizio Gifuni, il sorriso di Basaglia redivivo. Un sorriso che guarisce e che illumina. Il libro che esce oggi contiene i due dvd del film tv e il corposissimo trattamento scritto da Elena Bucaccio, Katja Kolia, Alessandro Sermoneta e Marco Turco. Il trattamento è tutto il materiale raccolto per la preparazione del film. Un romanzo storico, un documento meticoloso e avvincente che racconta centinaia di storie, di vicende minori che si intrecciano alla cronaca grande, Tina Anselmi e la Dc di allora, i volontari da tutto il mondo, Zavoli e la Rai com´era, l´Italia di chi sognava il futuro e quella di chi conservava il passato nel presente, impaurita.
Marco Cavallo è il diario di Giuliano Scabia che racconta la storia del cavallo azzurro di cartapesta che - cavallo di Troia alla rovescia - ha portato fuori dai manicomi i biglietti dei reclusi chiusi nella pancia ed è diventato il simbolo del dialogo, è ristampato qui, rispetto all´edizione Einaudi del ‘76, coi contributi di Basaglia stesso e di Peppe dell´Acqua, allora giovane medico oggi direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Dell´Acqua racconta come questa storia ci porti fino ad oggi: all´interesse attivo di Giorgio Napolitano per la chiusure dei manicomi giudiziari, per esempio, sconcio e ferita ancora aperta. Quest´estate Marco Cavallo, il cavallo blu di cartapesta emblema della via crucis dei senza volto, senza diritti, sans papiers di ogni tempo ha fatto il suo ingresso al Teatro Valle Occupato, avamposto della tutela dei Beni comuni e supplente di una sinistra smarrita e divisa. È arrivato coi suoi quarant´anni che parevano quattro. I ragazzi, giovanissimi, lo hanno applaudito e festeggiato senza conoscerne, spesso, la storia. È stata una festa di teatro e di strada, un momento magnifico. I giornali non ne hanno quasi parlato, le televisioni per nulla. Il fatto è che in questi anni si è diffuso il disprezzo. L´antidoto è a rilascio lento, come certe medicine omeopatiche, e comincia dalle parole senza rabbia dei senegalesi di Firenze e da due libri così.
l’Unità 19.12.11
La Storia si leva il cappello
Addio Vaclav Havel l’eroe di Praga che sognava l’Europa
Da scrittore detenuto a capo di Stato. Guidò la rivoluzione divelluto
di Paolo Soldini
Chi ha conosciuto e amato Praga fra il 21 agosto del 1968 e il 17 novembre del 1989 conosce e ama Vaclav Havel in un modo tutto speciale. Anche se magari non lo ha incontrato, non lo ha sentito parlare, forse non ha neppure letto le sue poesie o i suoi drammi.
Il fatto è che in quei ventuno anni, l’età di un ragazzo che arriva all’età adulta, Praga e Havel hanno vissuto la stessa storia con gli stessi dolori, le stesse inadeguatezze, le stesse irrequietudini e speranze. La città sembrava addormentata nelle cupezze del tardo comunismo di Gustav Husak e della nomenklatura che si vendicava della Primavera del ’68. Ma se appena appena si grattava la superficie, se si percorrevano, certe sere d’estate, i vicoli della città vecchia o le salite di Mala Strana, ci si accorgeva che sotto la morta bellezza dell’antica capitale brulicava la vita. Nei teatrini improvvisati e un po’ clandestini, nelle vinarne alla moda e nelle birrerie da vecchi ubriaconi, nelle sale da concerto, in tante case private dove si invitavano anche gli sconosciuti e gli stranieri, e se magari si intrufolava qualche spia, pazienza. Si incontravano poeti, ingegneri e rockettari. Scrittori pubblicati solo in Germania e in Austria, economisti che lavoravano in fabbrica, filosofi che coltivavano di nascosto i rapporti con la scuola di Francoforte, attori cui era proibito recitare roba “seria” e ragazzi che sapevano dei Rolling Stones e di Frank Zappa.
Il primo clamoroso episodio di dissidenza avvenne nel ’76, quando molti intellettuali Havel era fra loro protestarono in difesa di un gruppo rock, i Plastic People emuli dei Velvet Underground di Lou Reed. Praga non era morta: era una grande città europea tagliata fuori dall’Europa.
Questa separatezza, costretta a scivolare nella genialità per non diventare pazzia e disperazione, fu il ventre nel quale visse, in quegli anni, Havel. «Nemico del popolo» per il solo fatto di essere nato in una famiglia borghese e, forse, un poco tedeschizzante. Escluso dalle scuole superiori e dall’università che lui avrebbe voluto. Scrittore non pubblicabile, drammaturgo senza scena, costretto a fare il macchinista per frequentare un teatro, il Na Zabradlì (Alla Ringhiera) in perenne sospetto di eresia.
Dopo la breve illusione con Dubcek, quando avrebbe voluto fondare un partito da affiancare ai comunisti sul versante democratico, bollato come dissidente per così dire “ufficiale”, e in quanto tale arrestato più volte, costretto in una detenzione tanto dura da provocargli l’infezione respiratoria che si sarebbe portato fino alla morte. Insomma: un uomo represso e prigioniero, come la sua Cecoslovacchia “normalizzata” dalle truppe del Patto di Varsavia e dalle durezze brezneviane.
E però liberissimo. Neppure nei momenti peggiori, il regime riuscì a soffocarne la voce e la presenza. A metà degli anni 70, Havel, poco più che quarantenne, era conosciuto nella sua patria più di qualsiasi esponente della nomenklatura. Ed era famoso anche all’estero, dove il movimento di Charta ‘77, creatura di cui era stato il padre più famoso, diventò presto il referente di ogni speranza di riforma democratica nell’allora impero sovietico. Per la sua liberazione, dopo l’ennesimo arresto e una pericolosa condanna, si mobilitò, in Europa occidentale, un fronte di intellettuali e di politici ampio come non si era mai visto.
Era tanto popolare, Havel, e tanto rispettata e ammirata era Charta ‘77 perché si intuiva che l’obiettivo dell’uomo e del movimento era rompere la separatezza di Praga, della Cecoslovacchia, di tutti i Paesi centro-orientali da quell’insieme di storia, culture, tradizioni, lingue, abitudini, gusti, senso comune che fanno quello che chiamiamo Europa.
La vera “normalizzazione” non era l’oscena pretesa con cui era stata schiacciata in Cecoslovacchia la speranza del ’68, ma, per così dire, una normalizzazione senza virgolette: il ritorno alla normalità, il superamento della rottura provocata dagli orrori della guerra, la ricomposizione del continente in una verità nella quale non si dovesse più, come i popoli dell’est erano stati costretti a fare, «vivere nella menzogna». L’idea dell’unità europea, nell’ambito di una più ampia unità occidentale in cui un ruolo importante è riconosciuto agli Usa, è stato il vero fil rouge della sua politica, ha fatto tutt’uno con la resistenza all’arbitrio della dittatura, con la battaglia per la democrazia e il rispetto dei diritti civili e umani, in un ripudio non solo del comunismo, ma anche del nazionalismo e delle insidie delle pretese “radici” affondate in egoismi colorati di etnìa.
Il momento più triste, nella vita di Havel dopo la conquista della libertà, fu il 1993, l’anno della separazione tra la Repubblica cèca e la Slovacchia, separazione che lui, da presidente della Cecoslovacchia, non voleva e che giudicò un vile cedimento a ragioni della Storia che lui non condivideva: il sovvertimento di una unità voluta soprattutto, dopo la prima guerra mondiale, per tenere a bada le minoranze, tedesca in Boemia e ungherese in Slovacchia. Come se la storia dell’Europa non avesse insegnato, specie proprio da quelle parti, la ricchezza delle diversità.
Ebbe questo segno la ricomposizione, il «ritorno in Europa» oltre che la conquista delle libertà democratiche, il momento della liberazione dal regime, nell’autunno dell’89, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino.
Va detto che, come lui stesso ammise, Havel fu còlto di sorpresa dagli eventi. La grande manifestazione che il 17 novembre a Praga dette il via alla Rivoluzione di velluto rompeva un po’ lo schema, più “politico”, con cui gli uomini di Charta ‘77 avevano immaginato il percorso dalla dittatura alla democrazia. E però la saldatura fu immediata.
Gli slogan degli studenti che il 17 novembre partirono dall’Università Carlo e conquistarono la città coniugavano il ripudio del regime con la speranza che ci fosse già un’alternativa. «I dittatori sono al Castello» gridavano all’inizio, indicando la collina di Hradcany dove avevano sede le autorità dello stato e del partito e lo slogan presto diventò: «Havel al Castello».
Da quel momento la vicenda dell’uomo che nelle sue opere per il teatro aveva portato le ragioni della dignità individuale, è diventata la storia. Poco più di un mese dopo la rivoluzione Havel viene insediato alla presidenza, con l’assenso del partito comunista, dal governo provvisorio. L’anno successivo viene confermato dalle prime elezioni libere e resterà quasi ininterrottamente presidente della Cecoslovacchia e poi della Repubblica cèca fino al 2003.
Con il suo vezzo di non prendere troppo sul serio la sua propria vita così tremendamente seria, dalle durezze del carcere ai tormenti della malattia che lo ha tenuto per anni sul filo della morte, Havel negli ultimi anni si raccontava come una specie di dilettante della politica e della vita pubblica: «Metto il naso dappertutto diceva ma in realtà non so fare quasi nulla: talvolta mi occupo di filosofia ma non sono un filosofo; scrivo di letteratura ma non sono un critico e non parliamo del mio senso musicale, che fa ridere. In fondo non sono un vero esperto neppure in quello che considero il mio mestiere: scrivere per il teatro». Simpatica manifestazione di modestia tipica dell’uomo che però una cosa sicuramente l’ha fatta molto bene: la politica, nel senso più alto e profondo.
La Stampa 19.12.11
E il comunismo fu seppellito con un sorriso
Il contestatore col sorriso che ridicolizzava i comunisti
È stato incarcerato, perseguitato, ma non si è mai piegato ai diktat sovietici Capo dello Stato per 13 anni, ha rappresentato “il potere dei senza potere”
di Enzo Bettiza
Nel lontano 1965, tre anni prima che Alexander Dubcek salisse ai vertici del partito comunista, teneva da qualche tempo banco a Praga una strana commedia satirica in un teatro di nicchia anticonformista chiamato, non a caso, «Teatro alla ringhiera». Ero in quella platea, seduto accanto a François Fejto, e insieme provammo lo stesso brivido. S’avvertivano già, dentro il grigiore del comunismo cecoslovacco, le spinte e le insofferenze dei precursori della «primavera di Praga». La commedia dal titolo in parvenza inoffensivo, «Garden Party», era in realtà acre, sottile, piena di esilaranti doppi sensi, strettamente imparentata alla moda dell’assurdo che aveva allora in Jonesco il suo maestro. L’ autore praghese, ignoto in Europa, si chiamava Václav Havel, un dissidente nato nel 1936, ancora ragazzo quando i comunisti da mezzadri divennero proprietari interi e violenti del potere in Cecoslovacchia.
Il futuro primo presidente non comunista della repubblica, all’epoca destinato alle sbarre del carcere più che ai lustri del potere, aveva fissato con maestria, nella sua pièce, il clima d’irrealtà programmata in cui boccheggiava il più civile dei Paesi centroeuropei sotto il tallone veterostalinista di Antonin Novotny. Si usava dire a quei tempi che la «democrazia popolare» di marca sovietica stava al socialismo come il bordello all’amore: i giornali di regime decantavano la felicità del vivere con la stessa enfasi sovreccitata con cui le prostitute fingono il piacere e l’orgasmo. Proprio quel linguaggio falsificato, quell’arnese di truffa ideologica, quella specie di mercimonio paradisiaco sublimato dalla semantica ufficiale doveva diventare l’oggetto centrale della satira haveliana. È importante sottolineare oggi questo dato di dissidenza, insieme etica e linguistica, perché lì era la matrice originaria dell’avversione di Havel alla grande menzogna, avversione che darà al suo anticomunismo un tratto speciale, colto, ironico, libertario e dissacrante.
Non si colgono le radici del fondatore della Charta 77, del combattente per i diritti umani dopo il naufragio della primavera dubcekiana, se non si risale alla chiave e alla sferza della sua prima quanto spigliata opera teatrale dove nulla è inventato. Dove la principale accusata è la dissennata «lingua di legno» marxleninista. Dove tutto - gli sproloqui estatici dei comunisti in carriera, il loro nullificante perfezionismo semantico, il loro folle burocratismo espressivo - era più vero del vero, o più morto del morto, perché tratto letteralmente dagli editoriali dell’organo comunista «Rude Pravo» e dalle verbose risoluzioni del Comitato centrale.
Quando uno spregiudicato carrierista di partito preannunciava dal palcoscenico la creazione di un «Ufficio delle Inaugurazioni strutturato, su rigorosa base scientifica, per inaugurare la graduale liquidazione dell’Ufficio centrale delle Liquidazioni», l'applausometro saliva di colpo alle stelle con il pubblico che si contorceva nello spasimo di un riso violento e amaro.
I comunisti ortodossi non hanno mai perdonato a Havel l’uso tremendo e sottile del ridicolo con cui sapeva colpirli lui, commediografo dell’assurdo, politico della libertà, contestatore col sorriso e la sigaretta perenne sulle labbra. Lo hanno punito con anni di carcere duro, compromettendo la resistenza dei suoi polmoni e del suo stomaco, senza riuscire però a piegare il suo morale di resistente ilare, geniale, proteiforme nelle manovre e nelle invenzioni controffensive. Hanno seguitato a perseguitarlo, sul filo del rasoio, ferendosi le mani da soli, fino all’ultimo minuto secondo: oramai leader universalmente riconosciuto della «rivoluzione di velluto» del 1989, è stato ancora un’ultima volta arrestato addirittura il 28 ottobre, cioè due mesi prima di essere nominato, il 29 dicembre, presidente della Cecoslovacchia.
Insomma, l’accanimento persecutorio è paradossalmente continuato quasi fino al suo ingresso trionfale nel Castello che sovrasta la Moldava e Praga. Non ha avuto dubbi sul primo gesto da compiere nella veste di capo di una democrazia vera e finalmente sovrana: richiamare dall’ombra lo scomparso Alexander Dubcek e offrirgli la carica di presidente del Parlamento. Gesto che ha restituito al simbolo ancora vivente della «primavera» il perduto certificato d’identità politica e di rispettabilità storica.
Lasciata dopo 13 anni la carica di capo dello Stato cecoslovacco e poi, dopo la dolorosa scissione slovacca, della Repubblica ceca, Havel è tornato alla sua originaria vocazione di letterato e commediografo. Riferendosi alla sua eccezionale storia personale, non sapendo bene come definirla e giudicarla, ha lasciato scritto: «Con la caduta del Muro era l’epoca in cui il comunismo stava crollando ovunque. Ma, in ogni Paese, crollava con modalità e ritmi diversi, mentre arrivavano al potere persone nuove, spesso sconosciute, emerse dagli ambienti più vari. In breve, ci si chiedeva che significato avranno questi grandi cambiamenti per l’Europa nel suo insieme».
La modestia evidentemente era insita nel suo animo signorile, svagato, apparentemente distratto e sprezzante della morte più volte in stretto agguato. Una cosa è certa. Fra tutti i nuovi governanti dell’Europa centrorientale, dopo l’estinzione dei regimi comunisti, Havel era l’unico personaggio noto, incisivo, per molti aspetti emblematico; l’unico che aveva le carte in regola per rappresentare, come dice il titolo di un suo libro, «Il potere dei senza potere»; l’unico che ha saputo unire all’antico e solido anticomunismo lo spirito di un liberale tollerante e allegro.
Corriere della Sera 19.12.11
«Accettò la divisione dal popolo slovacco evitando al Paese gli orrori dei Balcani»
di M. S. Na.
Un faro morale, un intellettuale raffinato, un grande uomo. A Václav Havel lo scrittore Predrag Matvejevic, nato nel 1932 a Mostar da padre russo e madre croata e a lungo vissuto all'estero «tra asilo ed esilio», conoscitore profondo delle contraddizioni e turbolenze dell'Europa centro-orientale, ha dedicato una delle lettere contenute nell'«Epistolario dell'altra Europa» (Garzanti, 1992), raccolta di scritti in difesa di dissidenti perseguitati dal potere da Solzhenitsyn a Sacharov. «È stato un maestro — dice Matvejevic al Corriere — uno dei pochi uomini che è giusto scegliere come esempio da seguire».
Havel diceva di voler essere ricordato come «un drammaturgo che ha agito da cittadino e che ha così trascorso parte della vita in una posizione politica». Lei come lo ricorda?
«Prima di tutto come autore, perché in Havel è proprio la dimensione artistica a dare forza alla resistenza politica. È la sua specificità. Esaltando la libertà della creazione, della letteratura, della filosofia, contro il dogmatismo imposto dal partito, Havel ha aperto un varco. Portare a teatro i suoi lavori, in tutti i Paesi oppressi da regimi dittatoriali, è sempre stato un forte gesto in difesa della libertà della cultura».
Infatti dopo l'esperienza della presidenza ha scelto di tornare alla scrittura.
«Una scrittura potente che per forma e contenuti tiene insieme le diverse anime dell'Europa centrale, dalla vena kafkiana all'ironia ebraica. Havel è stato anche protagonista del grande dibattito che lo vedeva contrapposto a Milan Kundera: cos'è preferibile, restare in patria e rinunciare alla piena libertà di espressione o lasciare il proprio Paese per poter denunciare le ingiustizie? Havel ha scelto la prima strada, nonostante le terribili prove personali che ha dovuto superare».
Dopo il suo impegno per la libertà e i diritti umani, qual è il suo principale lascito?
«Ha indicato la rotta a un intero Paese. La Cecoslovacchia è l'unico Stato slavo ad aver conosciuto una vera democrazia tra le due guerre, con il grande statista Tomas Masaryk, che influenzò tanti intellettuali. Inserendosi nel solco, Havel ha ripristinato un legame con quella tradizione ponendosi prima, negli anni della dissidenza, al di sopra di ogni retorica sul socialismo dal volto umano, poi da presidente, individuando nel bene dello Stato il suo unico obiettivo. Dopo la caduta del regime è stato lui a indirizzare il Paese verso la democrazia compiuta e non verso quel mix di democrazia e dittatura al quale ho dato in passato il nome di democratura».
Ha guidato la divisione pacifica della Cecoslovacchia.
«Pur essendo contrario. Profondamente europeo, non ha mai ceduto al richiamo del nazionalismo. Ha rispettato la volontà del popolo slovacco, non ha assunto un atteggiamento aggressivo e ha garantito un passaggio indolore. Suo il merito della transizione pacifica, incomparabile con gli orrori ai quali abbiamo invece assistito nei Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia».
Ed è stato un esempio morale.
«Non era un politico professionista ma una persona integra e anche il suo esempio contribuisce a spiegare la sostanziale trasparenza del nuovo corso ceco, le riforme, l'assenza della corruzione nelle privatizzazioni che in altri Paesi ex comunisti ha raggiunto livelli inverosimili. Havel ha resistito alle persecuzioni del potere, del suo non ha mai abusato».
Repubblica 19.12.11
Un padre europeo
di Sandro Viola
DIFFICILE dire quanti sono, se pochi o molti, gli europei che sentiranno il vuoto lasciato dalla morte di Vaclav Havel. Di certo, l´Europa laica e liberale ha perduto un personaggio che negli ultimi vent´anni aveva rappresentato un costante punto di riferimento. Non era restato che lui, infatti, a incarnare un modello nuovo di statista.
Lo statista che va al potere portandosi dietro non soltanto gli interessi di parte, l´ambizione personale, la capacità di galleggiare tra le miserie della politica, ma anche una visione dell´uomo e del mondo più ampia, più alta, di quelle che cogliamo nei governanti europei. Era rimasto solo lui a ribadire nei suoi discorsi e scritti che la congiunzione tra morale e politica, tra politica e verità, non è la pia illusione di qualche intellettuale con fiato e tempo da sprecare, o addirittura un controsenso. Bensì un legame che dovrebbe e potrebbe realizzarsi in ogni paese civile.
Erano queste le idee con cui s´era presentata sulla scena all´inizio degli Ottanta, nella fase pre-agonica del comunismo, la pattuglia dei "filosofi" che dall´89 in poi guidò il ritorno dell´Europa Centrale in seno all´Occidente. Gli intellettuali di Varsavia, Budapest e Praga - Mazowiecki, Geremek, Kis, Konràd, Havel - cui toccò di dare l´ultima spinta al fatiscente edificio del potere comunista. Riuscendo a rianimare l´appartenenza delle loro nazioni, dopo i quarant´anni della dominazione sovietica, alla civiltà occidentale, così da riportarle - come scrisse poi Havel - «a casa, in Europa».
Di tutto quel gruppo, Havel sarebbe divenuto, una volta insediatosi al Castello di Praga come presidente della Cecoslovacchia, la figura più emblematica. Intanto perché restò al vertice dello Stato (della Federazione cecoslovacca sino al ‘93,e poi - dopo la scissione - della Repubblica Ceca) per ben tredici anni. E poi perché non smise mai di riaffermare i principi, i valori, le speranze con cui gli intellettuali centro-europei dell´´89 s´erano levati contro la putrefazione della politica avvenuta nel quarantennio comunista. Senza mutare d´una virgola, da capo dello Stato, i discorsi che aveva fatto da intellettuale dissidente nei periodi bui della repressione e del carcere.
Né avrebbe mai potuto mutare linguaggio, perché Havel era un moralista. Un intellettuale che s´era levato contro il comunismo non con un progetto politico alternativo, non con una critica radicale del sistema leninista, ma col rifiuto morale di quel sistema. Il rigetto della menzogna, della violenza, della stupidità di cui era fatto in parti uguali il comunismo. Il rifiuto che Havel aveva formulato (con una forza e uno spessore di pensiero paragonabili all´opera di Solgenytsin) nei suoi testi più importanti: "Il potere dei senza potere", l´"Anatomia della reticenza", e le stupende "Lettere a Olga" scritte dal carcere alla prima moglie. Pagine di cui si può prevedere una vita ben più lunga di quella che avranno invece i suoi testi teatrali.
Dei giorni dell´autunno 1989 in cui Havel prese la testa del movimento popolare che fece cadere a Praga il regime comunista, ho nella memoria molte e straordinarie immagini. A cominciare da quelle della sua prima conferenza stampa, nella sua bella casa sul lungofiume (l´unico bene del cospicuo patrimonio familiare che il regime non gli avesse espropriato),la mattina del 18 novembre. L´aspetto timido, una leggera balbuzie, la nuvola di fumo che si sprigionava dalle sue innumerevoli sigarette, e la vaghezza delle sue dichiarazioni politiche. Per me che in quella stessa casa l´avevo incontrato due anni prima, in uno dei suoi molti va e vieni dal carcere, non fu una sorpresa. Ma lo fu per la trentina d´altri giornalisti stranieri che erano accorsi per ascoltare uno dei principali esponenti dell´opposizione anticomunista, e uscirono dall´incontro delusi dalla sua mancanza di chiarezza, di mordente.
D´altronde erano i suoi stessi amici ad escludere che Havel fosse adatto a capeggiare quella che più tardi venne chiamata la "rivoluzione di velluto". Il giudizio era tanto affettuoso quanto negativo. No: Havel era un intellettuale che poteva scrivere appelli e manifesti, ma in quei giorni di scontri con un regime che tentava disperatamente di mantenersi in piedi, un uomo come lui, così inadatto, con le sue esitazioni, sottigliezze e sfumature al dialogo con la folla, serviva a poco.
Non era vero, e lo si vide nei giorni successivi quando Havel cominciò a tenere i suoi comizi da un balcone della piazza San Venceslao. La balbuzie svanita, il gesto fattosi sicuro, la folla che sotto il nevischio impazziva quando lui lanciava l´antico grido hussita: Prava vitezi, la verità vince. Era la stessa frase pronunciata da Tomàs Masaryk il giorno della proclamazione della Prima Repubblica, nel 1918. Ed era anche per questo che nel gelo di quei pomeriggi, i praghesi esultanti, le speranze che prorompevano, tutto sembrava evocare la Cecoslovacchia emersa dai Trattati del Trianon. La "piccola nazione" che sarebbe stata per vent´anni, sino al suo strangolamento per mano di Adolf Hitler, uno dei lembi d´Europa più prosperi, colti e civili. Grazie alla democrazia, al ruolo insostituibile della cultura nella società, alle virtù borghesi: la tolleranza, l´individualismo, la dignità, l´humour.
Salito poi al Castello come presidente della Federazione, la impoliticità di Havel riaffiorò. Il modo in cui gestì la spaccatura della Cecoslovacchia, che nelle sue memorie avrebbe descritto come la prova più tormentosa della sua vita, gli venne rimproverato dalla classe politica praghese in quanto troppo arrendevole, remissivo. E poi cominciarono i malintesi, le incomprensioni con i partiti politici e i loro leader, la fatica di districarsi nei gineprai dell´attività parlamentare. Le stesse difficoltà di rapporti che aveva avuto, ai suoi tempi, Masaryk.
Continuava a stare molto bene sulla scena, su quella internazionale soprattutto, quasi - dicevano gli amici - come il protagonista d´una delle sue piéce teatrali. Ma la sua popolarità in patria s´andava man mano erodendo. Cominciò il lungo, logorante scontro col primo ministro Vaclav Klaus, che negli anni si sarebbe rivelato come qualcosa di più d´un confronto politico. L´economista Klaus (che lo avrebbe sostituito nel 2003 alla presidenza della Repubblica Cèca) vedeva Havel come un artista, un dilettante della politica, sempre circondato - e consigliato - da gente di teatro invece che da politici, e gli invidiava l´enorme prestigio internazionale. Mentre Havel considerava il primo ministro un parvenu, grossolano nei modi, piuttosto incolto e irrimediabilmente noioso. Un disprezzo reciproco, quindi, una serie infinita di sgarbi e contestazioni (da parte di Klaus innanzitutto),che rese gli ultimi anni della presidenza Havel sempre più amari.
Qui conviene fermarsi, attenersi al titolo delle memorie di Havel: "Per favore, sia breve". E ricordare soltanto che il sogno di Havel d´una Praga infine restituita all´Occidente, questo riuscì a realizzarlo. Prima l´ingresso nella Nato, poi quello nell´Unione Europea. Perché non c´è dubbio che sia stato lui, l´intellettuale che nei gelidi pomeriggi del novembre ‘89,provvisto della sua sola forza morale, parlava dal balcone della piazza San Venceslao ancora circondata dalla polizia comunista, ad aver traghettato il suo paese dalla notte del totalitarismo sino "a casa, in Europa".
Repubblica 19.12.11
Il dissidente liberale
di Timothy Garton Ash
MULINANDO le mani quasi fossero due eliche, Vaclav Havel attraversa nella sua andatura a piccoli passi rapidi il foyer rivestito di specchi del teatro Lanterna Magica, quartier generale della rivoluzione di velluto. Appena un po´ curvo, tarchiato, in jeans e felpa, si ferma, inizia a parlarmi di "importanti negoziati": neppure tre frasi ed è trascinato via.
Mi lancia un sorriso di scusa da sopra la spalla, quasi a dire "non posso farci niente". Spesso, parlando, aveva il tono ironico del critico teatrale che osserva lo spettacolo della vita ma lì, alla Lanterna Magica, nel 1989, divenne primo attore e regista di una pièce che cambiò la storia.
Havel è stato un personaggio chiave dell´Europa del tardo ventesimo secolo. Non era solo un dissidente, era l´epitome del dissidente, nell´accezione assunta da quel nuovo termine. Non è stato solo il leader di una rivoluzione di velluto, è stato il leader della madre di tutte le rivoluzioni di velluto, quella che ha dato il nome a tante altre proteste di massa non violente dal 1989 in poi. (Havel sottolineava sempre che il termine era stato coniato da un giornalista occidentale). Non è stato solo un presidente; è stato il presidente fondatore dell´attuale Repubblica Ceca. Non è stato solo un europeo; è stato un europeo che con l´eloquenza del drammaturgo e l´autorità del prigioniero politico ci rammentava la dimensione storica e morale del progetto europeo. Di fronte alle difficoltà in cui questo progetto versa oggi, non posso che invocare, parafrasando Wordsworth, "Havel! Tu dovresti vivere quest´ora: l´Europa ha bisogno di te".
Havel è stato anche una delle persone più affascinanti che io abbia mai conosciuto. Quando lo incontrai per la prima volta, all´inizio degli anni ´80, era appena uscito dal carcere dopo vari anni di prigionia. Parlammo nel suo appartamento lungo il fiume, con grandi tavoli ingombri di libri e una vista mozzafiato su Praga. Benché la polizia segreta comunista quantificasse il nucleo del movimento Charta 77 in qualche centinaia di attivisti, una stima probabilmente realistica, Havel sosteneva con sicurezza che il sostegno popolare silenzioso era in crescita. Un giorno le fiammelle delle candele avrebbero sciolto il ghiaccio. È importante ricordare che nessuno allora sapeva quando quel giorno sarebbe giunto. Arrivò solo sei anni dopo, ma avrebbero anche potuto essere ventidue, come è stato per Aung San Suu Kyi – della quale Havel sostenne a suo tempo la candidatura al premio Nobel per la pace, con grande altruismo, potendovi aspirare lui stesso.
L´onore del dissidente non è dato dalla corona del vincitore. Havel è stato l´epitome del dissidente perché ha proseguito la sua lotta con pazienza, in maniera non violenta, con dignità e arguzia, senza sapere se e quando la vittoria esterna sarebbe giunta. Il successo stava già in quella tenacia, nell´esercizio dell´"antipolitica" – ossia della politica come arte dell´impossibile. Nel frattempo analizzava il sistema comunista in saggi di grande profondità ma anche di grande concretezza, nonché nelle lettere inviate dal carcere alla sua prima moglie, Olga. Con l´emblematico verduraio de Il potere dei senza potere che decide un bel giorno di non esporre più il cartello "Proletari di tutto il mondo unitevi", Havel coglie la tesi fondante di ogni movimento di resistenza civile, ossia che anche i regimi più oppressivi dipendono in una qualche misura dalla remissività dei loro sudditi.
Quando ebbe occasione di praticare la resistenza civile in prima persona Havel le diede un´entusiasmante connotazione teatrale. Il palcoscenico era Piazza Venceslao a Praga: 300.000 interpreti, una sola voce, da far impallidire Cecil B. deMille. Nessuno dei presenti dimenticherà mai Havel e Aleksander Dubcek, l´eroe dell´89 e l´eroe del ´68, fianco a fianco, affacciati al balcone: «Dubcek-Havel! Dubcek-Havel!». Né il suono di 300.000 portachiavi fatti tintinnare come campanelle cinesi. Raramente una piccola minoranza ha saputo trasformarsi così rapidamente in una grande maggioranza. Possa accadere lo stesso presto in Birmania.
Ma la Cecoslovacchia – ancora era tale – ebbe il vantaggio di arrivare in ritardo alla festa del 1989. I polacchi, i tedeschi dell´Est e gli ungheresi avevano già fatto gran parte del lavoro, cogliendo l´opportunità offerta da Gorbaciov. Giunto a Praga, cercai Václav nel suo locale preferito e ironizzai sul fatto che in Polonia c´erano voluti dieci anni, in Ungheria dieci mesi, in Germania Est dieci settimane, forse da loro sarebbero bastati dieci giorni per uscire dal comunismo. Mi fece immediatamente ripetere la battuta davanti alle telecamere di un´emittente clandestina. Il caso volle che sette settimane dopo fosse presidente. Ricordo perfettamente che quando apparvero i primi distintivi artigianali con la scritta "Havel presidente", ne chiese educatamente uno allo studente che li vendeva.
«Il governo è tornato alla gente!», dichiarò nel 1990 nel discorso di inizio anno che tenne da capo dello Stato appena nominato, richiamando le parole del primo presidente della Cecoslovacchia, Tomas Garrigue Masaryk. Le prime settimane al Castello di Praga furono frenetiche, elettrizzanti, incoraggianti e caotiche. Mi mostrò quella che era stata un tempo la camera delle torture: «Credo che la useremo per i negoziati», disse. Ma arrivarono ben presto le difficoltà dell´ardua impresa di smantellare il comunismo. Tutti i veleni accumulati in oltre quarant´anni vennero a galla. Entrarono in scena politici più duri, come Václav Klaus. E spuntò il nazionalismo, slovacco e infine anche ceco. Havel lottò con tutta la sua eloquenza per tenere in piedi il sogno di Masaryk di una repubblica civica, multinazionale – ma invano.
Havel tornò da presidente fondatore dell´attuale Repubblica Ceca, emersa dal cosiddetto divorzio di velluto dalla Slovacchia. Reputava, a buon diritto, di dover presenziare a quella nascita. Penso che sia rimasto troppo a lungo nel ruolo. Il troppo stroppia. Con il peggiorare delle sue condizioni di salute era logorato dagli incessanti impegni di protocollo e dalle meschine rivalità interne e, col tempo, i suoi si erano stancati di lui.
Nel corso degli anni ´90 abbiamo discusso a distanza se fosse possibile essere attivi in politica mantenendo al contempo la propria indipendenza intellettuale. Lui sosteneva di sì. Ma ogni volta che ci vedevamo mi prometteva che, una volta lasciata la politica, avrebbe scritto un´opera teatrale sulla commedia di cui era stato spettatore di prima mano, sull´impotenza dei potenti.
Col passare degli anni ho iniziato a dubitare che l´avrebbe mai fatto. Ma ha mantenuto la promessa. Recentemente ha girato da regista Leaving – un film sulla perdita del potere e il desiderio di riacquistarlo, raccontato con la sua caratteristica ironia, con la seconda moglie, Dagmar, in un ruolo da protagonista.
Oggi, davvero troppo presto, Havel se ne è andato per sempre. Ma pochi ci hanno lasciato tanto valore in eredità.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Repubblica 19.12.11
Il testamento politico dell´ex dissidente
Ecco cosa resta della mia rivoluzione
di Vaclav Havel
In questo articolo, pubblicato da Repubblica nel 2004, in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione di velluto di Praga, Vaclav Havel esprime le sue preoccupazioni per il destino della democrazia minata dalla globalizzazione
Le corporation globali, i cartelli dei media stanno trasformando i partiti in organizzazioni il cui compito è la protezione di determinate clientele e interessi particolari
La dimensione morale della politica e il coinvolgimento della società civile sono indispensabili per controbilanciare i partiti e le istituzioni di Stato
Libertà, eguaglianza e solidarietà, fondamenti stessi della stabilità e della prosperità delle democrazie occidentali, devono essere applicati a livello planetario
Sognammo un ordine internazionale più giusto Invece il processo di globalizzazione provoca scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta
Dopo la Rivoluzione di velluto del 17 novembre 1989, che pose fine a 41 anni di dittatura comunista in Cecoslovacchia, oggi viviamo in una società democratica. Eppure sono in molti - e non soltanto nella Repubblica ceca - a credere ancora adesso di non essere i veri padroni del proprio destino, ad aver perso la fiducia di poter influenzare effettivamente gli sviluppi politici, tanto meno influenzare la direzione nella quale si sta avviando la nostra civiltà.
In epoca comunista la maggior parte delle persone credeva che gli sforzi individuali miranti a indurre un cambiamento non avessero senso. I leader comunisti sostenevano che il sistema fosse il risultato di leggi storiche oggettive e incontestabili che non potevano in alcun modo essere messe in discussione, e tutti coloro che rifiutavano questa logica erano puniti, giusto per sicurezza.
Purtroppo, il modo di pensare che aveva sorretto la dittatura comunista non si è dissolto interamente: alcuni politici e alcuni sapientoni affermano ora che il Comunismo è semplicemente crollato sotto il proprio stesso peso - dunque piegandosi, ancora una volta, alle «leggi incontestabili» della Storia.
Ancora una volta, perciò, la responsabilità e le azioni del singolo individuo ne escono del tutto irrilevanti. Il Comunismo - così ci è stato detto, in sostanza - è stato soltanto uno dei vicoli ciechi del razionalismo occidentale: bastava attendere passivamente che venisse meno da solo.
Le medesime persone credono spesso in altre manifestazioni dell´ineluttabilità, per esempio in presunte leggi di mercato, in altre «mani invisibili» che dirigono il corso della nostra vita. Poiché in questo tipo di ragionamento non vi è spazio alcuno per l´azione morale dell´individuo, spesso chi critica la società è deriso alla stregua di un ingenuo moralista o di un élitista.
Forse questo è uno dei motivi che spiega, a tanti anni di distanza dalla caduta del Comunismo, perché ancor oggi assistiamo a un´apatia politica. Sempre più spesso la democrazia è ritenuta un puro e semplice rituale. In linea generale, tutte le società occidentali stanno sperimentando - così pare, almeno - una certa seria mancanza di ethos democratico e di partecipazione attiva della cittadinanza.
È anche possibile che ciò cui stiamo assistendo sia una mera trasformazione paradigmatica, provocata dalle nuove tecnologie, e che pertanto non vi sia motivo di preoccupazione. Forse, però, il problema ha radici più profonde: le corporation globali, i cartelli dei mezzi di informazione, i potenti apparati burocratici stanno trasformando i partiti politici in organizzazioni il cui compito principale non è più il servizio pubblico, bensì la protezione di determinate clientele e interessi particolari. La politica sta diventano il terreno di battaglia dei lobbisti; i media banalizzano i problemi più seri; la democrazia spesso sembra più un gioco virtuale per consumatori che una seria attività per cittadini impegnati.
Quando sognavamo un futuro democratico noi, che all´epoca eravamo dissidenti, sicuramente nutrivamo alcune illusioni utopistiche di cui oggi siamo più che consapevoli. Tuttavia, non ci sbagliavamo quando affermavamo che il Comunismo non era soltanto un vicolo cieco del razionalismo occidentale. Nel sistema comunista la burocratizzazione, la manipolazione anonima, l´enfasi sul conformismo di massa arrivarono a un livello di «perfezione», ma alcune di queste stesse minacce sono tuttora presenti tra noi.
Già allora eravamo convinti che se la democrazia è svuotata di valori, se si riduce a mera rivalità tra partiti politici che hanno soluzioni «garantite» per qualsiasi problema, di fatto non si tratta più di democrazia. Ecco la ragione per la quale abbiamo voluto dare un´enfasi tutta particolare alla dimensione morale della politica e al coinvolgimento della società civile, due elementi indispensabili per controbilanciare i partiti politici e le istituzioni dello Stato.
Sognammo anche qualcosa di più: un ordine internazionale più giusto. La fine del mondo bipolare rappresentò la grande occasione di rendere più umano l´ordine internazionale. Invece, abbiamo assistito a un processo di globalizzazione economica che è andato sfuggendo al controllo politico e che, in quanto tale, sta provocando scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta.
La caduta del Comunismo ha offerto l´opportunità di creare istituzioni politiche globali più efficienti, che avessero le loro premesse nei principi democratici, e fossero in grado di arginare quella che nella sua forma attuale appare una tendenza autodistruttiva del nostro mondo industriale.
Se non intendiamo essere travolti da forze sconosciute, i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà - fondamenti stessi della stabilità e della prosperità delle democrazie occidentali - devono iniziare a essere applicati a livello planetario. Cosa ancor più importante, oggi è indispensabile, come già in epoca comunista, non perdere fiducia nell´importanza dei centri alternativi di pensiero e di azione civile. Non dobbiamo consentire di essere manipolati al punto da essere indotti a credere che i tentativi di cambiare l´ordine «costituito» e le leggi «incontestabili» non hanno importanza. Cerchiamo piuttosto di realizzare una società civile a livello globale, e ricordiamoci di insistere su un punto: la politica non è soltanto l´aspetto tecnologico del potere. La politica deve avere una dimensione morale.
Al tempo stesso, i politici dei Paesi democratici devono riflettere seriamente sulla riforma delle istituzioni internazionali, perché abbiamo disperatamente bisogno di istituzioni in grado di occuparsi di una vera governance globale.
Potremmo iniziare, per esempio, dalle Nazioni Unite che nella loro forma attuale sono soltanto la reliquia di una situazione risalente alla fine della Seconda guerra mondiale. Questa istituzione non riflette adeguatamente l´influenza e il peso di alcune nuove potenze regionali, mentre mette immoralmente sullo stesso piano Paesi i cui rappresentati sono stati democraticamente eletti e Paesi i cui rappresentanti parlano soltanto per sé stessi o, quanto meno, per le loro giunte.
A noi europei spetta un incarico del tutto particolare. La civiltà industriale che ora si estende a tutto il mondo, ebbe le sue origini in Europa. Tutti i miracoli che essa rende possibile, così come tutte le terribili contraddizioni che essa comporta, possono essere considerati il frutto di un ethos che in origine è stato europeo. Perciò, l´unificazione dell´Europa deve essere di esempio al resto del mondo, deve dimostrare come far fronte ai vari pericoli e alle barbarie di cui oggi siamo preda.
In realtà, una simile missione - strettamente correlata al successo dell´integrazione europea - costituirebbe l´effettiva concretizzazione del senso europeo di responsabilità globale, e senza alcun dubbio rappresenterebbe una strategia migliore rispetto a quella di limitarsi a stigmatizzare l´America per i problemi che affliggono il mondo contemporaneo.
l’Unità 19.12.11
Si conferma la crisi del Pdl, mentre il Pd è nettamente primo partito Ma aumenta l’articolazione politica: se si votasse oggi le due coalizioni perderebbero il 10 per cento dei voti rispetto alle elezioni del 2008
l’Unità 19.12.11
In piazza in tutta Italia la protesta dei dipendenti pubblici: sanità, scuola e amministrazioni
Salviamo l’articolo 18. Per toccare l’Art. 18 servono le elezioni
Oggi lo sciopero degli statali. La battaglia unisce i sindacati
Priorità alle tutele: assurdo pensare acomelicenziare
L’inutile ossessione della flessibilità in uscita. I numeri smentiscono
La “licenziabilità” è nei fatti aumentata ma ciò non ha portato il promesso aumento dell’occupazione. Il sospetto è che il vero obiettivo sia il mutamento della relazioni industriali e la riduzione del ruolo dei sindacati
Giornata di mobilitazione di tutto il comparto pubblico, scuola e sanità comprese. Scioperano anche le Poste. Presidio alle 9,30 a Montecitorio. I sindacati: il nostro settore è il più colpito.
di M. Fr.
Il secondo round dello sciopero generale unitario. Dopo quello di tre ore del 12 dicembre per il settore privato, oggi tocca ai dipendenti pubblici. Le regole sul preavviso hanno costretto Cgil, Cisl, Uil e Ugl a differire le proteste di una settimana.
Per gli statali, la protesta sarà di otto ore mentre per tutta la giornata si fermeranno i lavoratori dell’università e della ricerca. Gli insegnanti, oltre ai confederali si sono unite alla protesta anche lo Snals e la Gilda, incroceranno le braccia per un’ora (nelle scuole statali, un’ora al termine delle lezioni o del servizio e per il personale docente con turno pomeridiano, alla prima o ultima ora di lezione; Scuola non statale e formazione professionale, un’ora al termine delle lezioni o del servizio).
Sempre oggi è previsto uno sciopero unitario dei lavoratori delle Poste italiane per le ultime tre ore; stop anche dei lavoratori elettrici che garantiscono comunque le prestazioni indispensabili. Manifestazioni si terranno in tutte le città davanti alle Prefetture e nelle piazze principali. A piazza Montecitorio davanti alla Camera si terrà un presidio nazionale a cui prenderanno parte i segretari del settore pubblico Rossana Dettori (Fp Cgil), Giovanni Faverin (Cisl Fp), Giovanni Torluccio (Uil Fpl) e Benedetto Attili (Uil Pa) e i leader confederali Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella dalle 9,30.
LE RICHIESTE DEI SINDACATI
Al centro della mobilitazione unitaria, fanno sapere i sindacati in una nota congiunta, oltre ai temi generali di equità sulla manovra («la richiesta di modificare il testo durante l’iter parlamentare al
fine di ottenere una riforma della previdenza che non sia scaricata sulle spalle di lavoratori e pensionati»), nello specifico delle questioni del settore statale si menzionano «il rinnovo dei contratti, l’eliminazione degli ulteriori tagli alle autonomie locali per difendere il welfare locale e la sanità, una ristrutturazione delle istituzioni centrali e locali che eviti affrettate operazioni mediatiche e ragionieristiche, come nel caso delle province o degli enti previdenziali (vedi super-Inps), finalizzata a garantire la tenuta occupazionale e a migliorare i servizi».
I lavoratori di scuola, università, ricerca, Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) e formazione professionale inoltre, specificano i loro sindacati, «non sono disposti a pagare ancora una volta il peso del risanamento e si uniscono allo sciopero degli altri lavoratori del pubblico impiego».
I MEDICI: SCUSATE IL DISAGIO
I medici, dipendenti pubblici e della medicina generale, parteciperanno allo sciopero per l’intero turno di lavoro, insieme agli infermieri e a tutti gli operatori della sanità. Potranno saltare le attività programmate come gli interventi, le visite e gli esami diagnostici negli ospedali e nei presidi territoriali delle Asl, ma saranno garantite le urgenze. Potranno essere rinviate le attività cliniche e diagnostiche programmate.
Massimo Cozza (Fp-Cgil Medici), Biagio Papotto (Cisl-Medici) e Armando Masucci (Uil-Fpl Medici) si scusano per «i disagi che potranno essere recati ai cittadini ma ritengono fondamentale una manovra più equa e che investa nel servizio pubblico come volano di crescita. Ancora una volta, invece, si vuole fare cassa costringendo ai lavori forzati notturni migliaia di medici anziani, con 66 anni ed oltre, con turni sempre più logoranti e pesanti per il blocco del turno over, a discapito della qualità dell’assistenza per i cittadini. Nessun intervento prosegue la nota a favore di migliaia di giovani medici e precari che vedranno invece sempre più lontano l’ingresso nel mondo del lavoro», «la pesantezza di questa manovra si aggiunge a quelle precedenti, al congelamento del contratto e delle retribuzioni, al blocco del turn over, al dimezzamento delle risorse per i precari e per la formazione, al differimento di due anni del Tfr e alla sua diluizione in altri tre, al contributo di solidarietà sopra i 90mila euro solo per chi lavora nel servizio pubblico, ai trasferimenti obbligatori in ambito regionali, alle revoche arbitrarie degli incarichi».
I medici, denunciano Cgil, Cisl e Uil, «saranno costretti ad andare in pensione più tardi e con importi più bassi, con l’allungamento dei requisiti anagrafici per il riconoscimento di lavoro usurante, dovranno versare un ulteriore obolo di circa 250 euro con lo stipendio di gennaio 2012 per l’addizionale irpef regionale. I nati nel 1952 non avranno neanche la possibilità della riduzione dello scalone, a 64 anni invece che a 66, destinato solo a chi lavora nel privato. Rimane infine la scure delle sanzioni disciplinari per il mancato raggiungimento dei crediti formativi e l’obbligo assicurativo personale che invece non scatta per le strutture».
Repubblica 19.12.11
L’aristocrazia democratica tra limiti e virtù
di Ilvo Diamanti
QUESTA manovra non piace agli italiani, ma la fiducia nel governo – e soprattutto nel premier - resta ancora alta. È ciò che emerge dai sondaggi condotti dai principali istituti demoscopici in questa fase. La manovra appare poco equa, per non dire iniqua, alla maggioranza della popolazione.
Nell´insieme ma anche nel dettaglio: considerando i singoli provvedimenti. Soprattutto quelli che riguardano le pensioni, l´aumento dell´Iva e l´Irpef. Nel complesso: troppe tasse e pochi interventi che favoriscano la crescita. Le liberalizzazioni, la patrimoniale; anche gli interventi sui costi della politica e dei politici: rinviati a un secondo momento. Con il dubbio che il rinvio divenga permanente. Come altre volte – troppe volte – è già successo, in passato.
Nonostante tutto, però, la fiducia nel "governo dei tecnici", fra i cittadini, è ancora molto elevata. Intorno al 50%, se si rilevano solo i giudizi più positivi (come fa l´Ispo di Mannheimer). Superiore al 60% se si calcolano anche le valutazioni comunque "sufficienti" (secondo le stime dell´Ipsos di Pagnoncelli). La fiducia "personale" nei confronti del presidente del Consiglio, peraltro, risulta ancora superiore, di quasi 10 punti percentuali. Certo: rispetto ai giorni della fiducia al governo l´indice di soddisfazione è sceso. Ma il sentimento sociale, allora, era condizionato dal timore – per certi versi, dal panico – suscitato dai mercati. Dall´impotenza dimostrata dal governo Berlusconi, che ne avevano accentuato ulteriormente l´impopolarità. Ora le paure persistono. E, in aggiunta, è stata varata una manovra "costosa", sul piano sociale. Discutibile e discussa. Accolta dalle proteste del sindacato. Dall´opposizione della Lega e dell´Idv. Sostenuta dal Pd e ancor più dal Pdl con molte riserve. Senza che la credibilità del governo e di Monti sia stata compromessa. Anzi.
Provo a indicare alcuni motivi di questo contrasto.
1. C´è, anzitutto, la percezione del "male necessario". La manovra non piace, ma i mercati – meglio: i Mercati – e i governi europei più influenti (Bce compresa) la chiedono. Anzi, la esigono. Va inghiottita come una medicina amara. Poi, prevale fra i cittadini il sentimento del "sacrificio finalizzato". Come negli anni Novanta, quando gli italiani pagarono, senza lamentarsi troppo, finanziarie onerosissime. Per non essere esclusi dalla Ue. Per entrare nell´Unione monetaria. Amato e Ciampi, "responsabili" di quelle manovre, non vennero sfiduciati dai cittadini. Perché erano ritenuti "credibili". Come Monti e i suoi "tecnici", oggi.
2. È questo il secondo motivo. La "credibilità" riconosciuta a persone ritenute in grado di mettere gli interessi del Paese davanti ai propri e a quelli di partito. In grado, anche per questo, di riqualificare l´immagine dell´Italia – e degli italiani – in Europa (e non solo). Deteriorata fino alla caricatura dall´esperienza precedente.
3. La "credibilità" dei tecnici al governo è enfatizzata dal confronto con i soliti noti. Quelli che governavano prima. Quelli che stanno in Parlamento. I "politici". Mai tanto impopolari come oggi. Il clima antipolitico che pervade il nostro tempo ha agito, cioè, da fattore favorevole per il governo Monti. Gli stessi limiti delle scelte effettuate da questo governo, le marce indietro, i compromessi: vengono imputati ai "politici". Ai partiti e alle lobbies, che legano le mani ai professori. Le resistenze del Parlamento nei confronti del taglio dei vitalizi sono interpretate come un´ulteriore conferma del paradigma antipolitico. Hanno fatto della "casta" il capro espiatorio ideale della frustrazione sociale. Così, mentre la fiducia nel governo resta molto alta, la credibilità dei partiti è scesa ulteriormente. Ai minimi storici. Le stime elettorali, non a caso, premiano ancora il Pd, ritenuto il partito più "coerente" con l´esperienza del governo. Ma registrano anche la tenuta della Lega e dell´Idv: collettori del malumore sociale. A cui sarebbe difficile, però, affidare la missione "costruttiva" di guidare il Paese.
3. Il dibattito parlamentare sulla manovra ha allargato il contrasto fra tecnici e politici, agli occhi dei cittadini. L´immagine del ministro Giarda che legge la dichiarazione del governo, basito e attonito, di fronte a un Parlamento ridotto a una bolgia dalla plateale protesta leghista, è emblematica. Come la replica, pedante e puntigliosa, di Monti. Indisponibile a sentirsi definire "disperato". E impotente, come chi lo ha preceduto. Questione di stile. Ma anche di sostanza. In tempi dominati dalla "politica pop", dove per anni - e da anni - i politici hanno inseguito gli umori sociali, riproducendone vizi e debolezze, in modo iperbolico. Il governo "tecnico" appare, invece, un´icona della "normalità". Dove governano persone grigie (anche quando vanno in tivù). Ma competenti. Più di noi. (Altrimenti perché ci dovrebbero governare?).
Da ciò il paradosso di un governo che, per ora, non paga il prezzo "politico" delle sue scelte "politiche". Perché non sono considerate "politiche". Ma "tecniche". E dunque: ineluttabili. Semmai, condizionate dai "politici". Un governo "premiato" dalla differenza rispetto agli uomini politici e di governo del passato recente. Reclutati in base alla fedeltà. Titolari, agli occhi dei cittadini, di privilegi immeritati. (Se non sono migliori di noi, perché mai dovrebbero godere di trattamenti particolari?)
Naturalmente, questo "stato di emergenza" non può durare all´infinito. Questo governo, composto da tecnici, non potrà "scaricare" a lungo sul Parlamento e sui partiti l´insoddisfazione sociale sollevata dalle conseguenze della crisi. Né la frustrazione prodotta dalle politiche economiche e fiscali. Inoltre, difficilmente potrà promuovere interventi a favore della crescita e delle liberalizzazioni, senza il sostegno del Parlamento e dei partiti. Particolarmente sensibili agli interessi e alle pressioni di categorie sociali grandi ma anche piccole. Per la stessa ragione, gli riuscirà difficile realizzare, se non riforme istituzionali, almeno quella elettorale. Necessaria per restituire ai cittadini un maggiore controllo sugli eletti. Questa sorta di "aristocrazia democratica". Non può durare all´infinito. Ma può servire. Non solo ad affrontare l´emergenza economica. Ma a restituire fiducia e dignità alle istituzioni. A rivalutare la competenza, i comportamenti, la credibilità, lo stile come virtù democratiche. E non come meri accessori "tecnici". Di secondaria importanza per la politica e il governo.
Corriere della Sera 19.12.11
La Cgil rompe con il governo
Camusso: «Tratti autoritari, Fornero aggredisce i lavoratori, sulle pensioni un intervento folle. Governo supponente»
«Stupisce una simile aggressione da una donna»
Il leader cgil Camusso rompe con il governo dopo le parole del ministro Fornero al Corriere. intervista di Enrico Marro
ROMA — La stangata del governo Monti ha provocato la mobilitazione di tutti i sindacati, che cercano di dar voce alla protesta di lavoratori e pensionati. I motivi di questa opposizione durissima e di quella che ci sarà rispetto a ogni ipotesi di modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori li spiega il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso.
Il governo dice che la manovra ha salvato l'Italia da una situazione dove erano a rischio i risparmi e le tredicesime. È d'accordo?
«Vedo che si autoattribuiscono il ruolo di salvatori della Patria. La realtà è che la situazione era ed è grave, ma la ricetta giusta non è quella di Monti».
Perché?
«Perché grava sui soliti noti: chi ha un reddito Irpef dichiarato, in genere medio basso. Perché punta a far cassa rapidamente su chi non può sottrarsi e non si è mai sottratto al Fisco. Determina recessione e quindi non mette affatto al riparo il Paese. Hanno solo preso tempo».
Servirà un'altra manovra?
«Di sicuro, non c'è una spinta alla crescita. C'è invece l'impoverimento di gran parte del Paese, perché la logica è stata quella di trovare chi pagasse il prezzo del pareggio di bilancio».
Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?
«Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d'oro. E avremmo fatto cose più incisive sull'evasione, solo per fare qualche esempio».
La riforma delle pensioni è pesante. Ma nell'opinione pubblica c'è anche la consapevolezza che è la conseguenza degli errori del passato. Non crede che nel '95 fu uno sbaglio, anche del sindacato, escludere dal contributivo i lavoratori con più di 18 anni di servizio?
«La Cgil già allora pensava che il contributivo pro quota potesse essere una soluzione e Sergio Cofferati lo disse pubblicamente. Oggi comunque tra i lavoratori e i pensionati che frequento io non c'è nessuno che trovi la riforma Fornero ragionevole. C'è una straordinaria sottovalutazione e una supponenza impressionante da parte del governo nel non capire le conseguenze di questa riforma, che rappresenta un intervento brutale sui prossimi 6-7 anni per tante persone che non potranno accedere alla pensione e non avranno un sussidio. C'è un livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto».
Ma come, si dice che Fornero ministro l'abbia voluto la Cgil, sbarrando la strada a Carlo Dell'Aringa...
«Non è vero. La Cgil non ha partecipato al totoministri e non ha posto veti di sorta. Ma mi interessa tornare sulle pensioni perché c'è una cosa che nessuno ha notato ed è gravissima».
Quale?
«Nella riforma c'è una norma programmatica che affida a una commissione di studiare la possibilità che i lavoratori spostino una parte dei contributi previdenziali dal sistema pubblico alle assicurazioni private. Questa è una riforma per smontare il pilastro delle pensioni pubbliche. Quindi Fornero non tiri in ballo a sproposito Lama, perché lei ha fatto esattamente una riforma contro i suoi figli, anzi i suoi nipoti».
Mettere in sicurezza finanziaria le pensioni è un modo per garantire il pagamento delle stesse alle prossime generazioni.
«No, no, il sistema era già in sicurezza».
Non può negare che finora chi è andato col retributivo spesso ha ricevuto un regalo rispetto ai contributi versati.
«Guardi che il fondo lavoratori dipendenti è in attivo mentre le gestioni in passivo sono pagate coi contributi dei parasubordinati. Ha idea invece di che dramma sociale creerà questa riforma per i lavoratori dipendenti e i precari, determinando insicurezza e paure? Che senso ha tutto questo? Quello di regalare il sistema alle assicurazioni?».
Sta dicendo che Fornero lavora per le assicurazioni private?
«Se guardo la manovra, sì. Ma un governo di tecnici non può pensare di trasformare il Welfare senza discuterne con nessuno».
Quasi quasi era meglio Berlusconi?
«No, perché se siamo arrivati a questo punto è per colpa dei suoi governi. Ma ciò non significa che questo esecutivo possa fare qualsiasi cosa. Quando sento dire che bisogna riformare il ciclo della vita..., ma chi sono gli unti del signore pure loro?».
Meglio andare alle elezioni anticipate?
«Questo governo è nato per affrontare un'emergenza. Trovo che ci sia un tratto autoritario nel voler dire che sarà il grade riformatore del Paese, perché questo spetta alla politica».
Ci saranno altri scioperi?
«Valuteremo con Cisl e Uil. Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70 anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con infermieri settantenni? Si rende conto che c'è gente che si fa un mazzo così e non può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c'è a chi basta una legislatura».
Dopo le pensioni, tocca al mercato del lavoro. Fornero propone il contratto unico per i giovani, senza le tutele al 100% dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«Sarebbe un nuovo apartheid, a danno dei giovani. Se facciamo un'analisi della realtà, vediamo che la precarietà c'è soprattutto dove non si applica l'articolo 18, nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l'obbligo scolastico, si punti sull'apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche».
Insomma per la Cgil l'articolo 18 resta un totem, come dice Fornero. Ammetterà almeno che bisogna superare il dualismo del mercato del lavoro tra garantiti e precari.
«Non è un totem, ma una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l'articolo 18?».
Fornero dice che le donne non devono rivendicare compensazioni ma parità, anche nei lavori domestici. È d'accordo?
«Fornero dovrebbe intanto ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco e farne una sulla paternità obbligatoria. Sarebbero passi in avanti concreti verso la parità».
l’Unità 19.12.11
Quei dossier Ici contro la Chiesa
In Italia sono 700 gli ospedali e le case di cura gestiti da religiosi. Forse non è un caso che la polemica sull’imposta abbia ripreso vigore quando in Vaticano si è deciso che quel settore non era in svendita
di Filippo Di Giacomo s. j.
E quità, come parola, nasce nella Grecia antica. È Aristotele a condurla oltre la sfera morale iniziandola al dialogo con la legge, affinché non dimenticasse mai di essere stata concepita proprio per servire la giustizia. La legge, per sua natura, è «generale», deve essere cioè uguale per tutti, e per questo deve sempre essere corretta dall’epikeia (il nome dell’equità in greco, e per il Platone di Le Definizioni «la disposizione a cedere i propri diritti e i propri interessi; moderazione nelle relazioni; ordinato atteggiamento verso il bene e verso il male») perché, spiega Aristotele, quando l’applicazione di una legge rischia di creare un’ingiustizia maggiore di quella che si determinerebbe nel caso in cui non fosse applicata, allora la norma deve adattarsi nel caso concreto alle esigenze della giustizia. Perché legge e giustizia non è detto che sempre vadano a braccetto.
E quindi, spiega Aristotele nel quinto libro dell’Etica Nicomachea, «l’equo è pur giusto ma non secondo la legge, lo è a correzione e supplemento del giusto legale... questa è appunto la natura dell’equo, di integrare la legge là dove essa è insufficiente a causa del suo esprimersi in senso generale». Certo, in tempi difficili, le ecce-
zioni diventano odiose. Ma al contempo, non si comprende perché non si sia dato ascolto alle voci che, dall’Arci (che cattolica non è) a tutta la galassia no-profit, si sono levate evidenziando come la riedizione di una gazzarra iniziata undici anni fa contro una Chiesa (indovinate quale) evasore dell’Ici (cosa peraltro facilmente dimostrabile, limitata a pochi casi controversi) significhi colpire tutto il settore no-profit, e scardinare tutte, proprie tutte le reti di solidarietà esistenti in Italia. Reti di solidarietà che, con la loro presenza, riescono a supplire alle tante incongruità di un sistema sociale appaltato alla politica e agli interessi di parte.
Negli ultimi trent’anni, come annotato dagli analisti più avvertiti, le sole organizzazioni che hanno mostrato sorprendente capacità di adattamento alle imputridite circostanze strutturali della nostra economia (e della nostra politica) sono state quelle della criminalità organizzata. Come abbiamo già scritto, dal 1999 al 2009, le opere sociali sostenute dalla Chiesa sono passate da 10.938 a 21.000. In termini equitativi ciò significa che mentre infuriava la battaglia tra quel manipolo di capitalisti che hanno bloccato il nostro sistema socio-politico (ma quanto è «equo» fare soldi in Italia e scegliere una cittadinanza estera, magari Svizzera?), 10062 «centri» (cioè case, immobili) della Chiesa sono stati re-impiegati nel sociale.
Questo, significa lavoro per 420.000 persone. La Chiesa in Italia possiede circa 700 fra ospedali e case di cura, e dalla fine degli anni Settanta, dall’entrata in scena delle Regioni, a livello locale la loro presenza ha consentito un welfare di tipo misto, capace cioè di mantenere, da noi, i prezzi della salute anche nel privato ai livelli più bassi della media europea. E, in un’Italia affollata da sessantacinquenni, il «mercato» della salute, nel medio termine, è un boccone che certo in tanti desiderano addentare.
Ma non c’è proprio nessuno, tra i giornalisti stipendiati dalla Chiesa, capace di fare un giro di telefonate per chiedere a vescovi e superiori religiosi quanti di loro, in questi ultimi mesi, hanno ricevuto la visita della solita «persona per bene» venuta per conto di un noto gruppo di un imprenditore-editore a chiedere la vendita di questa o quell’altra opera sanitaria, situate magari nei capoluoghi di provincia? Sarà proprio un caso se il dossier «Ici della Chiesa», che circola nelle redazioni dai tempi del Giubileo, quando gli albergatori romani tentarono di contrastare l’utilizzo di pochi immobili per ospitare pellegrini poco abbienti (magari non disposti a subire il raddoppio dei prezzi in uso a Roma in concomitanza dei grandi eventi ecclesiali) ha avuto nuova vita solo dopo che, scoppiato il bubbone San Raffaele, in Vaticano si è deciso che la sanità cattolica non è in svendita?
La Chiesa cattolica è sopravvissuta a tante spoliazioni ed è probabile che sopravvivrà anche a questa tanto desiderata dal buon salotto romano, quello che guarda al sociale (salute compresa) come ad un mercato di cui disporre liberamente, utilizzando quel sistema con cui ha azzerato prima l’industria pubblica italiana e poi quella privata. Dunque equità vorrebbe, che almeno in questo caso, siano loro, i manipolatori dell’opinione pubblica, a rientrare nel caso concreto, tra virgolette. Cioè in quell’Italia che usa la fantasia morale per far sopravvivere il meglio che riesce a realizzare. Ogni giorno, senza l’appoggio della stampa e senza concepire affari sempre a danno dei soliti poveri.
La Stampa 19.12.11
Il fratello Pietro Orlandi
“La Chiesa tace sulla scomparsa di Emanuela”
«Sono deluso. Hanno perso una grande occasione per riscattare 28 anni di silenzi e omertà». E’ il commento di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, la giovane vaticana scomparsa nel 1983, che ieri si attendeva una parola del Papa all’Angelus sulla vicenda di Emanuela. Pietro Orlandi ha guidato un gruppo di persone in piazza San Pietro a sostegno della petizione «Verità e giustizia» per Emanuela Orlandi. Al termine dell’Angelus tutti i sostenitori della petizione hanno scandito a gran voce e a più riprese il nome di Emanuela mostrando la foto della ragazza che portavano in mano. «Si poteva dare - ha detto Pietro Orlandi -, un’altra immagine della Chiesa. Ma continuo a sperare, magari il Papa parlerà domenica prossima: io ho pazienza».
l’Unità 19.12.11
Casa Bianca contro la pillola del giorno dopo
di Cristiana Pulcinelli
Per la prima volta una decisione presa dalla Food and Drug Administration, l’agenzia federale americana che si occupa dei farmaci, è stata annullata dalla Casa Bianca. Kathleen Sebelius, segretario del dipartimento della Salute, ha ordinato infatti a Margaret Hamburg, capo della Fda, di non consentire la vendita della pillola del giorno dopo alle minori di 17 anni senza prescrizione medica.
Il fatto viene ricordato in un editoriale di fuoco sulla rivista New England Journal of Medicine. Si tratta di una decisone politica e non basata sulle conoscenze scientifiche, scrive l’autore. Sicuramente non è stata presa per garantire la sicurezza, visto che «un bambino di 12 anni può comprarsi per 11 dollari una dose letale di acetaminofene (nome commerciale Tachipirina) in qualsiasi farmacia, mentre gli unici effetti collaterali accertati per una dose da 50 euro di levonorgestrel sono mal di testa e un ritardo nelle mestruazioni». Il levonorgestrel, componente principale della pillola del giorno dopo, è ben conosciuto: da anni viene usato nelle normali pillole anticoncezionali. Non è considerato abortivo: la sua azione è quella di prevenire l’ovulazione e non di evitare l’impianto dell’ovulo.
In molti paesi, compresa Spagna e Francia, il farmaco viene venduto senza ricetta medica anche alle minorenni. In Gran Bretagna, il British Pregnancy Advisory Board, ha deciso di fornirlo alle donne gratis per tutto il periodo di festività natalizie. In Italia, invece, la pillola del giorno dopo deve essere venduta dietro prescrizione medica con ricetta non ripetibile. Per avere il farmaco è necessario rivolgersi a un consultorio, al medico di famiglia, a un ginecologo, al pronto soccorso o alla guardia medica. Spesso anche così però, le donne non riescono a ottenerla a causa dei medici obiettori di coscienza, tanto che l’associazione «Vita di donna» ha messo in piedi un servizio di pronto soccorso a Roma, Milano, Bari, Perugia, Brescia, Firenze, Palermo, Pisa, Verbania, Cosenza, Udine, Lecce, Sassari, Matera (tel. 333/9856046).
La Stampa 19.12.11
Mosca, Zyuganov l’eterno comunista che fa l’anti-Putin
Il Pc ricandida il suo storico leader alle presidenziali
di Anna Zafesova
Nel lontano 1965, tre anni prima che Alexander Dubcek salisse ai vertici del partito comunista, teneva da qualche tempo banco a Praga una strana commedia satirica in un teatro di nicchia anticonformista chiamato, non a caso, «Teatro alla ringhiera». Ero in quella platea, seduto accanto a François Fejto, e insieme provammo lo stesso brivido. S’avvertivano già, dentro il grigiore del comunismo cecoslovacco, le spinte e le insofferenze dei precursori della «primavera di Praga». La commedia dal titolo in parvenza inoffensivo, «Garden Party», era in realtà acre, sottile, piena di esilaranti doppi sensi, strettamente imparentata alla moda dell’assurdo che aveva allora in Jonesco il suo maestro. L’ autore praghese, ignoto in Europa, si chiamava Václav Havel, un dissidente nato nel 1936, ancora ragazzo quando i comunisti da mezzadri divennero proprietari interi e violenti del potere in Cecoslovacchia. Il futuro primo presidente non comunista della repubblica, all’epoca destinato alle sbarre del carcere più che ai lustri del potere, aveva fissato con maestria, nella sua pièce, il clima d’irrealtà programmata in cui boccheggiava il più civile dei Paesi centroeuropei sotto il tallone veterostalinista di Antonin Novotny. Si usava dire a quei tempi che la «democrazia popolare» di marca sovietica stava al socialismo come il bordello all’amore: i giornali di regime decantavano la felicità del vivere con la stessa enfasi sovreccitata con cui le prostitute fingono il piacere e l’orgasmo. Proprio quel linguaggio falsificato, quell’arnese di truffa ideologica, quella specie di mercimonio paradisiaco sublimato dalla semantica ufficiale doveva diventare l’oggetto centrale della satira haveliana. È importante sottolineare oggi questo dato di dissidenza, insieme etica e linguistica, perché lì era la matrice originaria dell’avversione di Havel alla grande menzogna, avversione che darà al suo anticomunismo un tratto speciale, colto, ironico, libertario e dissacrante. Non si colgono le radici del fondatore della Charta 77, del combattente per i diritti umani dopo il naufragio della primavera dubcekiana, se non si risale alla chiave e alla sferza della sua prima quanto spigliata opera teatrale dove nulla è inventato. Dove la principale accusata è la dissennata «lingua di legno» marxleninista. Dove tutto - gli sproloqui estatici dei comunisti in carriera, il loro nullificante perfezionismo semantico, il loro folle burocratismo espressivo - era più vero del vero, o più morto del morto, perché tratto letteralmente dagli editoriali dell’organo comunista «Rude Pravo» e dalle verbose risoluzioni del Comitato centrale. Quando uno spregiudicato carrierista di partito preannunciava dal palcoscenico la creazione di un «Ufficio delle Inaugurazioni strutturato, su rigorosa base scientifica, per inaugurare la graduale liquidazione dell’Ufficio centrale delle Liquidazioni», l'applausometro saliva di colpo alle stelle con il pubblico che si contorceva nello spasimo di un riso violento e amaro. I comunisti ortodossi non hanno mai perdonato a Havel l’uso tremendo e sottile del ridicolo con cui sapeva colpirli lui, commediografo dell’assurdo, politico della libertà, contestatore col sorriso e la sigaretta perenne sulle labbra. Lo hanno punito con anni di carcere duro, compromettendo la resistenza dei suoi polmoni e del suo stomaco, senza riuscire però a piegare il suo morale di resistente ilare, geniale, proteiforme nelle manovre e nelle invenzioni controffensive. Hanno seguitato a perseguitarlo, sul filo del rasoio, ferendosi le mani da soli, fino all’ultimo minuto secondo: oramai leader universalmente riconosciuto della «rivoluzione di velluto» del 1989, è stato ancora un’ultima volta arrestato addirittura il 28 ottobre, cioè due mesi prima di essere nominato, il 29 dicembre, presidente della Cecoslovacchia. Insomma, l’accanimento persecutorio è paradossalmente continuato quasi fino al suo ingresso trionfale nel Castello che sovrasta la Moldava e Praga. Non ha avuto dubbi sul primo gesto da compiere nella veste di capo di una democrazia vera e finalmente sovrana: richiamare dall’ombra lo scomparso Alexander Dubcek e offrirgli la carica di presidente del Parlamento. Gesto che ha restituito al simbolo ancora vivente della «primavera» il perduto certificato d’identità politica e di rispettabilità storica. Lasciata dopo 13 anni la carica di capo dello Stato cecoslovacco e poi, dopo la dolorosa scissione slovacca, della Repubblica ceca, Havel è tornato alla sua originaria vocazione di letterato e commediografo. Riferendosi alla sua eccezionale storia personale, non sapendo bene come definirla e giudicarla, ha lasciato scritto: «Con la caduta del Muro era l’epoca in cui il comunismo stava crollando ovunque. Ma, in ogni Paese, crollava con modalità e ritmi diversi, mentre arrivavano al potere persone nuove, spesso sconosciute, emerse dagli ambienti più vari. In breve, ci si chiedeva che significato avranno questi grandi cambiamenti per l’Europa nel suo insieme». La modestia evidentemente era insita nel suo animo signorile, svagato, apparentemente distratto e sprezzante della morte più volte in stretto agguato. Una cosa è certa. Fra tutti i nuovi governanti dell’Europa centrorientale, dopo l’estinzione dei regimi comunisti, Havel era l’unico personaggio noto, incisivo, per molti aspetti emblematico; l’unico che aveva le carte in regola per rappresentare, come dice il titolo di un suo libro, «Il potere dei senza potere»; l’unico che ha saputo unire all’antico e solido anticomunismo lo spirito di un liberale tollerante e allegro. Nel suo ufficio c’è il busto di Lenin in gesso bianco, e i suoi sostenitori scendono in piazza con i ritratti di Stalin e le bandiere rosse con falce e martello. Ghennady Zyuganov può sembrare un comunista da copione, da vignetta. Ma a 67 anni questo inossidabile «apparatchik», che già 20 anni fa, all’ultimo congresso del Pcus, era considerato dai compagni un po’ vetero, è ancora un protagonista della politica russa. Perlomeno è l’unico ad avere un peso sufficiente per prepararsi ora a sfidare Vladimir Putin alle elezioni di marzo, e addirittura a trascinarlo - se i sondaggi confermeranno la tendenza - al ballottaggio. Certamente, con il 42% del premier contro l’attuale 11% del comunista, il rischio al massimo è di rovinare a Putin l’abitudine al plebiscito. Ma resta il fatto che 15 anni fa fu sempre Zyuganov a insidiare Boris Eltsin, facendosi battere di pochi punti nel 1996, e solo dopo che il Cremlino mobilitò tutte le risorse.
In cosa consiste il segreto di quest’uomo, che sabato è stato candidato dal suo partito (ovviamente all’unanimità) alla presidenza? In un Paese sempre in cerca di leader carismatici, l’ex insegnante di una scuola di campagna con un look ancora sovieticissimo non sembra avere stoffa da leader. Ma la platea lo ha applaudito e scandito il suo nome: «Oggi, dopo le elezioni alla Duma, siamo diversi, consapevoli di poter farcela», dice il braccio destro di Zyuganov, Nikolay Kharitonov. Il 20% - brogli permettendo - nelle urne, quasi il doppio di quattro anni fa, e vittorie clamorose in una serie di regioni. Non solo nella «cinta rossa» della Russia centrale, da sempre comunista, ma anche nelle metropoli, nelle «città della ricerca» dell’Accademia delle scienze, e in seggi eccellenti di Mosca, come quello dell’Università e quello dove vota Vladimir Putin.
Gli elettori del Pc sembravano estinti, anche per motivi anagrafici, ma la Russia si è riscoperta comunista: i seguaci di Zyuganov restano la maggiore forza politica dopo la nebulosa della nomenclatura di Russia Unita, e le altre liste d’opposizione - come Russia Giusta, per esempio, alla quale non a caso i «rossi» propongono un’alleanza - ha un programma di sinistra. Forse perché dopo 12 anni di Putin obiettivi programmatici come la nazionalizzazione delle risorse naturali, delle grandi banche e delle industrie strategiche non spaventa più, e anche la retorica nazionalista (che Zyuganov ha importato a suo tempo nell’internazionalista Pcus gorbacioviano) e anti-occidentale dei «rossi» non è molto diversa da quella del Cremlino. Ieri in tv Zyuganov ha decantato l’Unione Sovietica, e un buon terzo dei russi è d’accordo con lui, provando infinita nostalgia di un passato di pensioni garantite, prezzi fissi, regole chiare, povertà per tutti e ambizioni imperiali. Ad attirare voti per il Pc non è un volto carismatico, ma i 70 anni di comunismo: pessima pubblicità, per alcuni, e ottimo curriculum per altri.
I media guardano solo i liberali nelle piazze di Mosca, ma nelle urne Putin è stato sfidato da un’altra Russia, arrabbiata e povera. Il problema del leader comunista, abituato ormai da 20 anni al ruolo di «opposizione sistemica», come lo chiama il politologo Dmitry Oreshkin, oggi è unire lotta e governo. Negli ultimi giorni Zyuganov ha manovrato, dichiarando «illegittime» le elezioni truccate, ma rifiutandosi di bloccare la Duma rendendo i mandati, insultando la piazza liberale, ma mandandoci i suoi emissari. In attesa delle elezioni, alle quali vorrebbe essere il candidato di tutta l’opposizione.
La Stampa 19.12.11
Cina, tutti vogliono figli nell’anno magico del Drago
Per l’oroscopo orientale è il segno migliore, le cliniche si preparano al baby boom
di Ilaria Maria Sala
Lo zodiaco cinese parla chiaro, e non ha paura di ferire la sensibilità altrui: certi segni sono fortunati, altri invece molto meno. Fra tutti, il più fortunato è quello del Drago, e per chi ci crede chi nasce sotto questo segno simbolo degli imperatori parte con il piede giusto, dato che il Drago è associato a ricchezza e potere.
Così, ogni dodici anni, ecco che in tutti i Paesi a cultura cinese chi può cerca di programmare le gravidanze per far nascere un piccolo drago, convinti che sarà promesso a onori e prestigio - come sta per accadere l’anno prossimo, quando, con il 23 gennaio, giorno del Capodanno cinese, si entrerà nell’anno del Drago, che prepara un baby boom.
L’ultima volta che si era sotto il segno del Drago, nel 2000, infatti, la natalità cinese aumentò del 5%, e per l’anno in arrivo ci si aspetta un boom ancora maggiore. Cliniche, ospedali e vari altri business per i più piccoli e le loro mamme, in tutta l’area di cultura cinese, sono dunque in piena effervescenza.
Le cliniche della fertilità della regione già da alcuni mesi lavorano a turni doppi, con incrementi del 30% nel numero di pazienti, con punte del 40% a
Taiwan: secondo i calcoli diffusi da diversi ginecologi le donne hanno tempo fino al 15 maggio prossimo per cercare di garantirsi un bimbo drago - uno sgarro di qualche giorno, e ci si ritroverà fra le braccia un bimbo serpente, molto meno fortunato. E se ciò è vero in luoghi di cultura cinese dove la natalità non è tenuta a freno dal governo, come Taiwan, Hong Kong, e Singapore, o nelle varie comunità cinesi in Asia e non solo, anche la Cina non sarà da meno. Tanto più che ora le autorità hanno cominciato a rilassare un po’ lo stretto controllo delle nascite, permettendo, per esempio, a due figli unici che convolano a nozze di avere più di un figlio. Così, si calcola che la popolazione subirà una discreta impennata, arrivando a 1 miliardo e 350 milioni di persone (secondo le statistiche Onu, la popolazione cinese raggiungerà la punta massima nel 2016, arrivando a 1 miliardo e 388 milioni di persone).
A livello economico, tutti quelli che hanno a che fare con questo settore possono prepararsi a un anno di buoni affari, in particolare per i gruppi stranieri - dato che, dopo lo scandalo del latte in polvere contaminato dalla melamina, e dei giocattoli con livelli eccessivi di piombo, molti genitori, anche in Cina, preferiscono prodotti di marche straniere per la loro prole.
La Procter & Gamble, per esempio, prevede un aumento del 40% circa delle sue vendite in Cina di prodotti per l’igiene dei neonati (rispetto ad un aumento annuo del 30% quando a capeggiare sullo zodiaco sono segni meno magici), e che naturalmente questo si protrarrà anche negli anni immediatamente successivi, dato che i dragoncini cinesi continueranno ad aver bisogno di shampoo che non fa piangere, pannolini e borotalco almeno per un po’. Secondo le proiezioni degli analisti del settore poi, a partire dal 2012 e per gli anni a venire il mercato cinese dei prodotti alimentari per bambini raddoppierà, arrivando a 22 miliardi di dollari l’anno - di nuovo, beneficeranno in particolare le aziende internazionali, che godono della maggiore fiducia dei consumatori cinesi.
Hong Kong, in controtendenza, aspetta il baby boom con apprensione: l’ex-Colonia britannica, infatti, tutt’ora separata dalla Cina da una frontiera, già da alcuni anni sta vedendosela con la crescente richiesta delle donne dal continente cinese di venire a partorire qui, sfuggendo alla politica del figlio unico cinese, e avendo accesso ai migliori servizi ospedalieri di Hong Kong. Ma la difficoltà di far fronte a tante nuove mamme, nonché l’incognita data da donne medicalmente sconosciute che si presentano già con le doglie da ginecologi e ostetriche che non le hanno seguite fino a quel momento, ha messo a dura prova le strutture sanitarie locali. Il governo di Hong Kong ha cercato di far fronte al problema imponendo sovrattasse di circa 5000 euro per mamme in attesa che varcano la frontiera, e instaurando un sistema di prenotazione obbligatoria e numero chiuso nei reparti maternità, senza riuscire davvero a ridimensionare il problema.
L’anno del Drago, col suo carico di bambini, sarà un anno intenso.
Repubblica 19.12.11
Cina
Le regole del lavoro
di Alessandra Longo
Vietato scioperare. Vietato lamentarsi. Obbligo di lavoro per 14 ore consecutive. Divieto di allontanarsi, anche per poco, durante le 14 ore. Immediato licenziamento senza retribuzione in caso di falliti obiettivi di produttività. Paga oraria: tre euro. Con queste regole affisse al muro - informa il «Quotidiano Nazionale» - lavoravano a Vobarno (Brescia) 15 dipendenti cinesi di un laboratorio tessile. Producevano maglie per un´azienda italiana, non si sa quanto consapevole della barbarie. Sacche di schiavitù e miseria, assenza totale di regole, come ha certificato la Mobile di Brescia. Appese ad uno stendibiancheria fette di carne putrida destinate al pasto degli operai. Non è un caso isolato. A vederla da questo versante, l´articolo 18 non è il primo punto in agenda.
Repubblica 19.12.11
Tanya, la ragazza che sul bus sfida gli ortodossi d´Israele
La norma è illegale per l´Alta Corte ma viene permessa come "scelta volontaria"
Gli Haredim sono i principali fruitori dei mezzi pubblici e dettano i comportamenti
di Fabio Scuto
La scena si ripete spesso sugli autobus di linea. Urla, insulti, da parte di qualche signore con barba e cappello, poi la donna o scende dal mezzo o si accomoda in fondo al bus. E´ questa la legge imposta dagli ultra-ortodossi sui mezzi pubblici che frequentano, una rigida segregazione sessuale insieme ad altre strette osservanze religiose: gli uomini salgono e scendono dalla porta anteriore, le donne da quella posteriore. Un´imposizione lesiva dell´onore delle donne e in generale di tutti coloro, uomini e donne, che non accettano i codici ultra-ortodossi come regola di vita ma che gli Haredim portano avanti con convinzione anche se una sentenza della Corte Suprema israeliana ha stabilito lo scorso gennaio - dopo anni di polemiche che hanno contrapposto religiosi, scrittori, gruppi di femministe e non solo - che è illegale la segregazione sui mezzi pubblici. Ma con un marchiano compromesso ha stabilito anche che, invece, è possibile "su base volontaria", cioè se la donna accetta volontariamente di sedersi in fondo al bus. Opporsi non è né semplice né facile. Ma Tanya Rosenbilt l´ha fatto - esattamente come Rosa Parks, la figura-simbolo del movimento per i diritti civili statunitense, che rifiutò nel 1955 di cedere il posto su un autobus ad un bianco - e la ragazza l´ha raccontato sul suo profilo Facebook ricevendo in poche ore migliaia di messaggi di solidarietà, fra cui spicca quello della signora Tzippi Livni, la leader dell´opposizione paladina della "laicità" della società civile.
Gli ebrei ultraortodossi sono i principali fruitori dei mezzi pubblici, riescono ad essere "massa critica" e imporre alle compagnie pubbliche o private il loro diktat. Difficile vedere pubblicità con protagoniste femminili o di prodotti femminili sui bus, alle fermate, lungo i percorsi. Una compagnia pubblica l´anno scorso voleva offrire mini-schermi nei sedili collegati a internet per ingannare le lunghe percorrenze, ne è nata una polemica con minaccia di boicottaggio se i mezzi fossero entrati in servizio: Internet è «contaminato dal sesso». Imposizioni di vario genere contro cui protesta la popolazione "laica" ma che - specie dove la presenza ultraortodossa è significativa - si sta facendo largo, il peso della religione nella società civile è diventato molto significativo e in alcuni casi estremo. Già da tempo si segnalano inoltre sistematici atti di vandalismo da parte degli ultra-ortodossi contro cartelloni e immagini per le strade, che ritraggono donne. Gli Haredim stanno anche cercando di far passare la separazione tra uomini e donne nei ranghi dell´esercito. Anche negli ospedali pubblici ci sono casi di entrate e sale d´attesa separate per sesso. Tutto ciò desta preoccupazione nel futuro soprattutto nella componente laica della società israeliana, anche perché gli ultraortodossi - secondo le proiezioni del Central Bureau of Statistics di Israele - sono in forte crescita demografica.
La Rosa Parks d´Israele in questo 2011 è una ragazza di 28 anni, tranquilla, serena, per nulla scossa dalla disavventura. Non è la prima donna che si oppone alla segregazione sessuale sui mezzi pubblici, ma è la Prima che ha vinto la battaglia: il pullman è ripartito e i contestatori sono scesi. Lo scorso venerdì mattina è salita sul bus 451 a Ashdod - una delle città costiere d´Israele - diretta a Gerusalemme. Ma dopo poche fermate sono saliti due passeggeri ultraortodossi che non appena l´hanno vista seduta sui sedili anteriori hanno cominciato a inveire, urlando a "quella" di spostarsi sul fondo del bus, bloccando la porta del mezzo pubblico. La scena è andata avanti per circa mezzora e quando gli altri passeggeri hanno cominciato a lamentarsi per il ritardo, l´autista ha chiamato la polizia. Tanya ignorando gli epiteti che le fioccavano addosso, ha resistito a tutti i tentativi di costringerla a passare nella parte posteriore, oppure a scendere a terra, mentre l´autobus veniva minacciosamente circondato da dimostranti ortodossi. Negli ultimi anni gli Haredim sono riusciti ad imporre la segregazione per sessi nei pullman che collegano i loro insediamenti, ma in questo caso si trattava invece di un normale autobus di linea.
Sul posto è arrivato un poliziotto, che ha prima chiesto a Tanya se voleva «volontariamente» sedersi dietro, ottenutone un diniego l´agente non ha potuto che constatare l´accaduto. Decisivo l´intervento degli altri passeggeri che a quel punto hanno iniziato a protestare e chiedere che il bus ripartisse per la sua destinazione. Con Tanya seduta sui sedili anteriori dell´autobus, mentre i due passeggeri religiosi sono rimasti sul marciapiede a inveire e maledire. In un tiepido mattino di dicembre Tanya, forse senza saperlo, è diventata il simbolo dei diritti delle donne d´Israele.
Repubblica 19.12.11
"Libia, ecco le prove delle stragi Nato"
Inchiesta del New York Times: uccisi donne e bambini. L´Alleanza costretta ad ammettere
di Angelo Aquaro
NEW YORK - Sono le vittime della Primavera Araba che l´Occidente ha rifiutato per mesi di vedere. Sono le donne e i bambini uccisi proprio dai bombardamenti degli alleati che erano corsi a salvarli. Sono i ribelli anti Gheddafi che cercavano di aiutare i feriti. Sono i medici che in ambulanza si precipitavano sui luoghi delle stragi. Le prime cifre parlano di dozzine, almeno 70, probabilmente centinaia e centinaia: contarli è impossibile perché nessuno lo ha fatto. Fino a ieri. «A quanto ci risulta, abbiamo concluso le operazioni con molta cura, senza conferma di nessuna vittima civile». Così Anders Fogh Rasmussen, il segretario generale della Nato, aveva annunciato al mondo, il 31 ottobre, la fine delle operazioni incominciate il 19 marzo con l´autorizzazione dell´Onu, che hanno poi portato alla caduta del regime e poi all´uccisione di Muhammar Gheddafi.
Bugie. «Dagli elementi che avete raccolto sul campo» dice adesso al New York Times Oana Lungescu, portavoce della Nato «sembra che civili innocenti siano stati uccisi o feriti, malgrado l´attenzione e la precisione».
L´inchiesta arriva dopo le denunce di varie associazioni, da Human Rights Watch a Civic, che senza successo avevano chiesto all´Alleanza di riconoscere gli errori. Non è soltanto una sacrosanta questione di giustizia e verità. Il comportamento della Nato dimostrerebbe che in Libia le autorità militari non avrebbero applicato quegli accorgimenti che col tempo sono serviti a ridurre le vittime civili in Afghanistan. Lì, però, c´erano le proteste della popolazione: in Libia lo stesso governo provvisorio, a cui ora l´Alleanza ha demandato l´indagine, non sembra intenzionato a sollevare la questione.
In sette mesi di attacchi l´Alleanza ha distrutto più di 5.900 obiettivi militari sganciando 7.700 ordigni e missili su più di 150 siti negli attacchi condotti da Francia, Inghilterra e Stati Uniti (responsabili rispettivamente di un terzo, 21 per cento e 19 per cento delle azioni) ma anche da Italia, Norvegia, Danimarca, Belgio e Canada, con la partecipazione di due paesi arabi e non Nato, Qatar ed Emirati Arabi.
Ma la precisione dei bombardamenti non doveva essere chirurgica? L´indagine eseguita in 25 siti, da Tripoli a Bengasi, ha messo in luce una serie di cause, compresi errori di intelligence. Ma in almeno un caso si sarebbe trattato anche di malfunzionamento degli ordigni. Mentre la pratica - che nelle operazioni cosiddette umanitarie andrebbe evitata - di ri-colpire l´obiettivo appena centrato con un secondo, più incisivo bombardamento, ha portato all´uccisione dei civili che dopo il primo attacco portavano soccorso ai feriti.
I numeri delle vittime sono fortunatamente molto più bassi di quelli visti in altre operazioni. Ma Jomana, 2 anni, e Khaled, 7 mesi, uccisi dalla bomba che ha distrutto la loro casa di Tripoli, e Mohammed, 6 anni, e Moataz, 3, colpiti nell´abitazione che avrebbe dovuto ospitare un medico fedele a Gheddafi, non erano solo dei numeri: prima che l´illusione della guerra senza vittime se li portasse via per sempre.
La Stampa 19.12.11
Atene, il vizio d’origine della democrazia
Corruzione, cattivo governo, repressione del dissenso: nel suo nuovo libro Canfora smonta il mito del sistema politico-sociale inventato 2500 anni fa
di Silvia Ronchey
NEL PERICLE DI TUCIDIDE Una critica dissimulata della retorica democratica e della violenza imperiale
LA CONDANNA DI SOCRATE Calpestate le forme alte di arte e cultura eliminando gli uomini che le incarnano
L’orazione funebre di Pericle per i caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso, che impegnò Atene e Sparta per quasi trent’anni, dal 431 al 404 a.C (dipinto di Philipp von Foltz). «Il nostro sistema politico», disse in quella occasione il leader della democrazia ateniese, secondo quanto riporta Tucidide, «non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza». «La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», ribatteva l’antidemocratico Platone nella parodia di quell’epitafio affidata nel Menesseno alla voce di Aspasia
Che cos’è la democrazia? Noi occidentali viviamo convinti che sia «la peggiore forma di governo, a eccezione di tutte le altre sperimentate», secondo il detto reso famoso da Churchill. Al punto che ci adoperiamo spesso per «esportarla», dando per scontato che quel «potere di tutto il popolo» che la parola etimologicamente indica non sia un mito, un equivoco, una costruzione retorica o propagandistica diversamente declinata a seconda delle epoche, ma esista come realtà e come tale si applichi. Anzitutto nel mondo greco in cui nacque e nella politica di una polis di 2500 anni fa: Atene.
Eppure già Tucidide definiva il lungo governo di Pericle «democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato». Che cos’era dunque la democrazia per i suoi antichi inventori? Le frasi in cui Tucidide parafrasa e in parte ricrea il cosiddetto epitafio di Pericle tradiscono in realtà una cupa ironia e una neppure troppo recondita critica della retorica democratica e di quella «violenza imperiale esercitata dagli ateniesi ovunque nella terra» attraverso la demagogia, che certo il primo accurato diagnosta delle convulsioni della politica non avrebbe mai menzionato come lode. Ma a lungo sono state prese alla lettera da chi non ha saputo riconoscervi quel fondersi di critica del potere e simulato encomio che dall’antichità a Bisanzio, fino a Stalin, intesse i discorsi dell’intelligencjia.
È a questo primo chiarimento che Luciano Canfora affida l’esordio del risolutivo Il mondo di Atene (Laterza, pp. 518, 22), vera summa di tutto ciò che si dovrebbe sapere sulla cosiddetta democrazia ateniese; e dunque sulla democrazia toutcourt nel suo scenario primo. Un micidiale dossier che documenta con sistematica chiarezza le tesi di Canfora, già autore, sul tema, di rigorose analisi talvolta mascherate da pamphlet.
«La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», chiariva l’antidemocratico Platone nella feroce parodia dell’epitafio di Pericle affidata nel Menesseno alle labbra di Aspasia. Ma è nel breve dialogo Sul sistema politico ateniese, tradizionalmente attribuito a Senofonte, in realtà opera di Crizia, che Canfora indica «il vero e proprio antiepitafio» di Pericle, dove tutti i punti toccati dal tradizionale elogio «vengono capovolti e presentati nella cruda luce della sopraffazione quotidiana di cui si sostanzia il sistema politicosociale ateniese» per mostrare che la democrazia di Atene «è in realtà violenza di classe, cattivo governo, regno della corruzione e della sopraffazione anzitutto in tribunale, regno dello spreco e del parassitismo», e che calpesta le forme alte di cultura e d’arte «con l’eliminazione stessa degli uomini che le incarnano».
È questo il punto in cui anche le più devote espressioni di fede dei moderni nella democrazia, basate sull’esperimento ateniese, si incagliano. Quasi per una nemesi prometeica, «Atene», scriveva Moses Finley in La democrazia degli antichi e dei moderni, «pagò un prezzo terribile: la maggiore democrazia greca diventò soprattutto famosa per avere condannato a morte Socrate». E suquesto punto - la repressione del dissenso - si arena, simmetricamente, anche la scuola opposta, quella che esaltala moderna democrazia proprio in virtù della sua distinzione rispetto all’antica.
Benjamin Constant, fondatore all’inizio dell’Ottocento di questa dottrina, nel discorso Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni sottolineava che l’antica idea di libertà era limitativa in primo luogo del diritto alla fruizione della ricchezza; ma al tempo stesso riconosceva che l’egemonia della «repubblica commerciale» ateniese (Montesquieu) nasceva proprio dalla circolazione della ricchezza. Nell’ammettere dunque che «tra tutti gli Stati antichi Atene è quello che riuscì più simile ai moderni», tanto meno rassicurante gli appariva che la più «moderna» delle democrazie antiche fosse la città dell’ostracismo, della censura, del suicidio coatto di Socrate.
È il primo dei nodi cruciali del trattato di Canfora: la polarità istituita da Constant (e sulla sua scia dai politologi moderni) tra una «libertà oppressiva» (la democrazia antica) e la «libertà libera» dei moderni, «si sfascia quando si tratta di Atene. È lì che il teorema si inceppa perché Atene è le due cose insieme». È libertà oppressiva: schiavista, tra l’altro, come già sottolineato da Tocqueville e come ribadito a oltranza dalla storiografia marxista. Ed è insieme libertà «libera» nel senso moderno: basata sul diritto alla fruizione della ricchezza e perciò esposta a tutto ciò che ne consegue, tra cui l’inevitabile deriva imperialista (fondamento del benessere sociale anche nella lettura socialista di Arthur Rosenberg) e il suo sfociare in oligarchia finanziaria, se non in dittatura finanziaria.
È molto più vasta la ricognizione del mito della «democrazia» ateniese che Canfora conduce attraverso le sue metamorfosi, attualizzazioni, consapevoli e inconsapevoli strumentalizzazioni nelle diverse fasi del dibattito storico e filosofico moderno e contemporaneo, per poi rispalancare al lettore, vaccinato dalla credulità, l’accesso pieno all’antichità, ai suoi conflitti palesi o segreti. Per far rivivere, sul palcoscenico dell’antico dramma ateniese, quella remota «scena primaria» che l’ambigua parola democrazia insieme sigilla e preclude. Per rintracciare la vera origine del distorto mito della democrazia ateniese nella politica non più della Grecia ma di Roma: nell’esigenza romana di screditare il grande e comune avversario macedone. L’integrazione tra Oriente e Occidente e le altre epocali innovazioni dell’impero di Alessandro, intuite da Cesare e Antonio, sarebbero continuate in Bisanzio. Rinnegate dalla reazione augustea, la loro eclissi avrebbe lasciato al medio e poi al moderno evo europeo una livida eredità di guerre barbariche, nazionalismi e conflitti etnici, non ancora estinta.
Corriere della Sera 19.12.11
Quei volti che dobbiamo vedere
Il rapporto con l'immagine nelle chiese d'Oriente e d'Occidente
di Alberto Melloni
Il secondo concilio di Nicea (787) ha parecchio a che fare con l'ostensione di Giotto a Mosca e di Rublëv a Firenze che inizia in questi giorni e che non a torto molti riconoscono come uno scambio senza precedenti. Il Niceno II, diranno i lettori? Cosa potrà mai aver da dire oggi Concilio del secolo VIII, che faceva orrore al machismo carolingio già per il fatto di essere stato presieduto da una donna, l'imperatrice d'Oriente Irene? In che cosa la nostra cultura ha debiti con la resistenza opposta dai vescovi alla sirena di una religiosità «pura» che per togliere le immagini fa appello alla «tradizione» con l'arroganza propria di tutti coloro che la usano per pettinare i propri gusti?
Molto più di quanto si possa immaginare: e la stessa struttura che ospita le icone nel Battistero di Firenze — offerto con magnanima generosità dall'Arcivescovo Giuseppe Betori a questo momento d'incontro fra culture e chiese sorelle — richiama alcune parole di quella assise nella quale è scritto il codice comune di due percorsi artistici e storici diversi, divisi. Per l'arte occidentale — parola che va pronunciata senza dimenticare che l'occidente esiste solo rispetto a un sé che dà il nome all'altro da sé — quell'atto diventa presto un punto lontano. Collocato a monte della lotta su Fozio, quasi tre secoli prima della formalizzazione lontano dello scisma fra Roma e Costantinopoli chiuso solo il 7 dicembre 1965, sembra aver poco da dire ad una storia che s'è emancipata dai modelli bizantini, e che la storiografia dell'Ottocento ancora distingueva separando i «primitivi» (Giotto incluso!) dai moderni. Per l'Oriente è l'inizio di una rigidità che, sbagliando, si crede abbia immobilizzato lo sviluppo artistico rendendo ogni opera uguale all'altra come impianto e distinta solo dalla fattura.
In realtà in quel quartiere-palazzo della Nuova Roma si decide, senza saperlo, qualcosa che è rimasto scritto dentro la storia dell'arte e dentro la stessa rappresentazione della condizione umana in quelle due Europe — l'Europa d'Oriente che va da Bisanzio a Mosca, quella d'Occidente che ha molte epicentri oltre Roma — da sempre indecise fra ciò che le unisce e ciò che le divide. Al concilio si capì che non poteva esserci autentica confessione della fede in Cristo senza una decisione sulla incarnazione. Una decisione che nessuno è obbligato a far sua, ci mancherebbe: ma che è intellettualmente onesto riconoscere come ciò che qualifica quella fede. La decisione riguardava la carne di Cristo: se essa era vera, se l'unione della natura divina e di quella umana era effettivamente «ipostatica», allora quella carne non solo poteva essere rappresentata, ma «doveva» essere rappresentata: «come la vivificante croce», «come i santi evangeli», le immagini fondano un antispiritualismo cristiano che non mira la Legge di Mosè o i precetti del Corano, che si collocano su un altro piano ma un rischio intrinseco e Dio sa quanto attuale, per la fede cristiana.
Questa lotta contro uno spiritualismo evanescente ha due percorsi diversi: in Occidente è proprio la ricerca dell'artista che per scavare a fondo nella condizione umana, plasma di continuo il proprio linguaggio e tanto più quando si emancipa — per decisione o per mancanza della committenza — dal «soggetto sacro» si ritrova perfettamente dentro quello schema «niceno». Ogni cosa che l'artista dice della condizione umana — sia lo scultore o il fotografo, il pittore o il regista — dice qualcosa alla fede senza bisogno di didascalismi inutili: e anzi misura quanto quella fede è fede nell'incarnazione o il narcisismo estetizzante del passato o del moderno, poco cambia.
In Oriente la lotta nella materia è la stessa ma si svolge su un terreno di battaglia assai più contenuto: come spiega il catalogo che Giuliano Amato e la Treccani hanno accettato di inserire nelle serie della più prestigiosa casa editrice italiana, quando Dionisij incurva appena il corpo del crocifisso compie una operazione di cui tocca al «lettore» dell'icona (in Oriente non ci sono pittori di icone, ma iconografi che «scrivono» l'icona d'una scrittura ispirata) cogliere la forza e la drammaticità di quel gesto. Quando la tradizione russa fa di Maria non un simbolo della maternità ma la somma scura e triste di tutta l'attesa e di tutto il dolore umano, di Israele e delle Genti: in questa cornice tragica sono gli atteggiamenti del Figlio — la sua tenerezza, il suo indicare una via fuori dal buio, il sua essere misericordioso — che decidono del tipo e della qualità dell'icona. E quando, per venire a Rublëv, il grande iconografo verso il quale è il Figlio ad avere gesti di tenerezza o di salvifico comando, egli pone due angeli al centro dell'Ascensione, ritrova nel cosmo schiacciato dentro la sua icona quel calice che anche nell'icona della Trinità disegna la struttura eucaristica della chiesa, di cui gli apostoli sono estatici spettatori.
Anche per questo lo scambio fra Firenze e Mosca che il Presidente della Repubblica ha voluto onorare col suo alto patronato e che ha visto mobilitate con la stessa disinteressata dedizione donatori, studiosi, autorità di vigilanza e di governo, diplomazie e chiese, ha questo doppio nome «in Cristo», in latino e in Russo: quasi a sottolineare una comunione che non può che essere detta in lingue diverse che da cifre della Babele sono diventate strumenti di comunicazione.
Corriere della Sera 19.12.11
Quella bellezza multistrato nel palinsesto del Battistero
Un capolavoro dove si intrecciano varie epoche
di Francesca Bonazzoli
È vero che la cupola di santa Maria del Fiore, superbo orgoglio del Brunelleschi, è il segno di Firenze che tutti riconoscono ma il luogo più simbolico, persino mitico, fulcro religioso e culturale della città, è il Battistero, il «bel San Giovanni», come lo chiamò Dante.
Fu consacrato nel 1059 ma le sue origini sono misteriose, la sua fondazione avvolta nel fumo delle leggende: nel Medio Evo lo si pensava un tempio di Marte consacrato a san Giovanni Battista solo dopo l'editto di Milano, nel 313. Nel Settecento la datazione fu alzata all'epoca gota o longobarda; oggi viene ritenuto un edificio romanico costruito in un intervallo di tempo incerto fra il IV-V secolo e il VII, sulle rovine di una grande domus romana. I resti di quell'antico passato sono ancora visibili, per esempio, girando attorno all'edificio a sinistra, dove alla base si scopre una battaglia navale che altro non è se non il frammento inglobato di un sarcofago. Se poi fate qualche altro passo e alzate gli occhi sugli spigoli dell'abside, vedrete due grandi teste di leone con le fauci aperte pronte ad azzannare i peccatori. Legata alle stranezze del Battistero è anche, davanti alla porta Nord, la colonna di San Zanobi. Sormontata da una croce, fu eretta per ricordare il miracolo avvenuto durante il passaggio delle reliquie del santo, quando un olmo secco, colpito accidentalmente dal sarcofago, rinverdì miracolosamente in pieno inverno. Altri due segni curiosi si vedono nelle colonne della porta Sud: due rettangoli che corrispondono alle misure di lunghezze usate nell'Alto Medio Evo, il piede longobardo e quello fiorentino.
Il rivestimento esterno, in marmo bianco e verde, è datato tra l'XI e il XIII secolo ma è strutturato in due ordini, secondo il paradigma classico, così come classica è la pianta ottagonale, il cui modello è la perfezione del Pantheon.
All'interno, nella cupola, suddivisa in gironi e spicchi, la decorazione a mosaico del XIII secolo ambisce agli esempi illustri delle grandi basiliche di Roma e Costantinopoli. Precedenti fiorentini non ce n'erano e così le maestranze furono chiamate da Venezia ma lavorarono su disegni di artisti locali come Coppo di Marcovaldo cui viene attribuito il Giudizio Universale con l'inferno dominato da un enorme mostro che divora i peccatori (timore collettivo del Medio Evo) e che verrà ripreso da Giotto a Padova. Le forzature espressive dei dannati, rispetto alla più composta tradizione bizantina, hanno dunque origini toscane, mentre il grande Cristo Pantocrator, assiso con serena maestà in una mandorla circolare sul trono del mondo, rimane più fedele al modello bizantino.
Ma non è ancora tutto. Dopo aver dunque gettato le basi della fondazione del romanico fiorentino e iniziato il passaggio «dal greco al latino», il Battistero è stato anche l'arena dove si è giocata la partita del trapasso dal Gotico al Rinascimento. Questa volta la data è precisa: 1401, l'anno in cui va in scena il celebre duello fra Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. In palio c'è la commissione per una porta del Battistero ma di fatto si battezza qui la svolta più epocale della storia dell'arte: la nascita, a Firenze, del Rinascimento come il nuovo stile della finanza borghese in antitesi al gusto aristocratico delle corti. Al concorso bandito per l'assegnazione dell'incarico parteciparono anche due scultori poco più che ventenni: Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. Questi presentò la proposta più rivoluzionaria, ma Ghiberti vinse e conservò la «signoria» sul Battistero fino al 1425 ricevendo anche la commissione della terza porta (chiamata da Michelangelo «del Paradiso»). Intanto, però, in città aveva preso piede una fronda di artisti che aveva trovato spazio d'espressione in un'altra porta, quella della Mandorla, sul fianco nord del Duomo, dove viene adottato un linguaggio più energico e meno raffinato di quello del Ghiberti: fra loro c'era anche Donatello. Ne nacque una guerra culturale fra due fazioni tanto che, ancora verso il 1450, Ghiberti volle rendere pubbliche le sue memorie per giustificare la propria arte affermando con orgoglio di essere stato l'artefice di tutte le più importanti opere fiorentine. Il clan umanista, all'opposto, sosteneva il nome di Brunelleschi anche attraverso novelle (quella per esempio del Grasso legnaiolo) e con una biografia (attribuita ad Antonio Manetti) che incoronava l'architetto come l'iniziatore di una nuova età.
Tutto era partito dal Battistero: come un palinsesto, diventando via via sempre più bello, raccoglieva le stratificazioni della storia artistica e religiosa dando spazio anche alla tomba dell'antipapa Giovanni XXIII.
Corriere della Sera 19.12.11
I due volti dell'architettura senza futuro
Arte sovietica e postmodernismo capitalista sono stati incapaci di dare risposte alla società
di Vittorio Gregotti
Le mostre che hanno dominato in queste settimane la cultura architettonica londinese — chiuderanno entrambe a gennaio — sono quella dal titolo «Building the Revolution» dedicata all'architettura costruita in Unione Sovietica dal 1915 al 1935 e quella dedicata al Postmodernismo 1970-1990. Due ventenni di cui il primo caratterizzato da una straordinaria ricchezza di idee e soluzioni a partire da fondamenti ed intenzionalità ideali comuni, del tutto lucide e coerenti; la seconda un ricco documento del gusto che ha dominato il periodo esaminato senza troppe distinzioni di metodi, scopi e fondamenti.
L'importanza della prima, dedicata al compianto direttore del Museo di Architettura Schusev di Mosca, David Sarkisyan, di recente scomparso, ci sembra volta a segnalare, per mezzo delle fotografie di Richard Pare, soprattutto lo stato (sovente di deplorevole rovina) delle più importanti architetture costruire nel periodo esaminato ed implicitamente la necessità del loro restauro, pena una perdita culturale di grande importanza che conta opere di Le Corbusier e Mendelsohn oltre a quelli dei più noti architetti sovietici del tempo. La mostra è anche accompagnata, in modo del tutto occasionale, da opere figurative (alcune di grande qualità) della collezione Costakis. Il catalogo è introdotto da un bellissimo saggio di Jean-Louis Cohen che analizza le relazioni tra il razionalismo internazionalista dei Paesi europei e la cultura del costruttivismo sovietico. Una mostra abbastanza ben documentata ma resa meno chiara nelle intenzioni dal sottotitolo «Soviet Art and Architecture», problema assai più complesso di quanto risulti da questa esposizione. Purtroppo anche la documentazione architettonica necessaria (localizzazione, disegni, immagini di insieme) è quasi del tutto assente, soprattutto nel catalogo.
Confusione è invece il vocabolo più appropriato per definire i principi che sembrano guidare la mostra del Victoria and Albert Museum dedicata al postmodernismo. Non si tratta certo della rappresentazione della storia dell'architettura di quel ventennio, ben più complessa. Anzitutto gli errori nelle date: il 1970 è una data troppo tarda se si vuole ricordarne le origini che, almeno per la letteratura, risalgono ad un quindicennio prima; troppo presto per l'architettura che venne definita nei principi, soprattutto con i celebri testi come quelli di Lyotard, di David Harvey, di Frederic Jameson e di altri, solo alla fine del decennio, anche se quest'ultimo ne descrive i sintomi già in corso nel decennio Settanta. Troppo anticipata è poi la data del 1990 visto che nel postmodernismo siamo stati immersi almeno per un ulteriore ventennio e purtroppo non ne siamo ancora usciti. Il postmodernismo è la cultura del capitalismo finanziario globale e non è detto che con la sua crisi economica esso sia definitivamente finito.
Una distinzione poi sarebbe stata necessaria tra il primo periodo di «revival» (anche se questo vocabolo è troppo nobile per definirlo) di pasticciate nostalgie degli stili del passato e quello successivo dei linguaggi delle avanguardie, privati ovviamente di ogni tensione rivoluzionaria. Sovente le opere sono accompagnate da una giusta dose di ironia (e autoironia) nei confronti dei ripescaggi storici ma purtroppo essa è un efficace strumento letterario piuttosto che architettonico. Tutto questo è accompagnato da una presentazione con una grande quantità di materiali ma squilibri quantitativi negli esempi di moda, design e architettura e appropriazioni culturali piuttosto indebite (cosa c'entrano con il postmoderno Ungers e Stirling e lo stesso Aldo Rossi che guarda invece alla tradizione rivoluzionaria dell'Illuminismo?).
Poi vi è la confusione ideologica che mescola la pulsioni del '68 con l'età di Reagan, la rivendicazione nei confronti della relazione con la storia, che risale alla cultura dei Ciam (Comités d'Architecture Moderne) del '51, ed insieme l'odio postmodernista per la nozione di contesto. Poi vi è la dimenticata contraddizione tra esibizione decorativa della ricchezza e la sua contestazione, l'influenza sull'architettura della pop art come ammissione di una nuova cultura popolare dei consumi dominante insieme all'esercizio di una ricerca continua di originalità non necessaria. Infine la confusione tra architettura, disegno industriale, moda, pittura come liquefazione delle specificità disciplinari anziché utile scambio tra esse, sarebbe stato un tema da esplorare. Nell'introduzione del catalogo illustratissimo di più di trecento pagine, i responsabili della mostra affrontano anch'essi la questione delle date dell'inizio e fine (secondo loro) di questo «stile», certamente anticipatore dell'età del web ma con un'evidente confusione tra linguaggio e calligrafia e terminano la loro introduzione affermando trionfalmente che, dopo tutto, il postmodernismo ha posto il design al centro del palco: mettendo purtroppo fuori scena l'architettura, aggiungo io.
Per quanto riguarda il campo delle arti non è un caso che l'architettura si sia trovata protagonista all'inizio degli anni ottanta della questione della rinascita ufficiale del postmoderno e quindi di quella della alternativa tra farsi rappresentazione della realtà oggettiva ed essere interpretazione critica alternativa di quella stessa realtà. Essa è infatti tra le arti quella in cui tale relazione o meglio la contraddizione tra autonomia creativa ed eteronomia delle condizioni empiriche è più palese, anche se l'impeto delle tecnoscienze, l'impero della comunicazione ed il capitalismo finanziario globale hanno reso tutto ciò ancor più palese, sino a cambiarne i fragili equilibri.
La discussione in corso intorno al «new realism» (ma anche la mostra al Victoria and Albert Museum) hanno ripolarizzato la questione, anche se per alcuni di noi si tratta oggi, dopo trent'anni di polemiche, non di un post-postmodernismo ma della ripresa di una attitudine critica di fronte alle nuove condizioni offerte dalla realtà alla «modernità come progetto incompiuto», forse capace di utilizzare positivamente anche le nuove opportunità. Anche se, quando si propone un atteggiamento di «realismo critico», bisognerebbe dichiarare cosa si intende per realtà e critica. Se si guarda alla realtà empirica questo implica un esame e un giudizio non solo sullo stato presente delle cose ma anche sulle sue dinamiche di mutazione. A tale giudizio si aggiunge nel fare dell'opera una proposta che con la propria presenza propone una modificazione, che è insieme un'alternativa strutturale ed una conoscenza più profonda delle ragioni di quello stato delle cose, quindi un punto possibile su cui far leva per il loro mutamento o, quanto meno, per la messa in evidenza delle contraddizioni, dei loro poteri e dei modi con cui esse agiscono.
Ma l'opera si offre anche come nuova cosa al mondo per un consistente periodo, pur con una continua oscillazione dei suoi significati e della sua attualità, per rapporto agli stati mutevoli della realtà in relazione critica con la quale essa è nata e permane come altro possibile. Un compito opposto all'ideologia postmodernista, assai più vicina alle posizioni delle avanguardie nella chiarezza della loro relazione tra le opere e i loro fondamenti ideali.
Repubblica 19.12.11
Grandi scrittori che raccontano i libri più amati negli ultimi mesi
L’autore americano è il primo
Philip Roth: “Niente romanzi mi interessano i saggi su Hitler e Stalin"
NEW YORK L´autunno è ormai terminato e, per la prima volta da molti anni a questa parte, non è uscito, come di tradizione, un romanzo di Philip Roth. L´assenza è stata notata sia in campo editoriale che giornalistico, ma lo scrittore appare a riguardo assolutamente rilassato, perfino divertito, e mi accoglie dicendo che non è mai stato più felice di non fare le cose in fretta, anzi di rammaricarsi «di non averlo fatto sempre». Non si è dato alcuna scadenza sul nuovo romanzo e confessa di provare un grande piacere a riflettere, attraverso letture di saggi e libri storici, su alcuni momenti che ha attraversato lungo la vita. Il prossimo marzo compirà 79 anni, e il giorno in cui l´ho contattato per realizzare questa intervista mi ha dato appuntamento in un ristorante dopo due settimane, dicendo «per allora prevedo di essere vivo», prima di scoppiare in una risata. «In questi ultimi tempi non ho letto molti romanzi» mi dice appena arrivo nel locale che ha scelto, un tranquillo ristorante dell´Upper East Side, «ma ho visto molti film, a cominciare da quelli di Susanne Bier. Non conoscevo il suo lavoro, ma poi mi ha contattato dicendomi di voler adattare Nemesis».
Come le sono sembrati i suoi film?
«Mi è piaciuto molto Open Hearts: c´è un grande talento nel modo in cui sono costruiti i personaggi ed è strutturata la storia. E, conoscendola, mi è piaciuto il modo in cui intende affrontare il mio romanzo. In passato non sono stato molto fortunato con gli adattamenti, e l´unico aspetto interessante è stato il compenso».
Come mai ha preferito dedicarsi ai saggi e ai libri storici?
«I romanzi continuano ad interessarmi molto, ma in questo momento sono affascinato da un approccio più scientifico e meno immaginario. Ho fatto solo un´eccezione: ho voluto rileggere un romanzo del quale portai fisicamente il manoscritto da quella che allora era la Cecoslovacchia, e riuscii a farlo pubblicare in America: Life with a star di Jiri Weill, che ha per tema la storia della persecuzione degli ebrei a Praga».
Come le è sembrato?
«Sono stato felice di trovare intatta la grande potenza che ricordavo. Non ho mai letto nulla che ricostruisca con analoga forza e dolore cosa sia successo al popolo ebraico in quel periodo. E si sente che Weill parlava di avvenimenti che aveva vissuto di persona: proveniva da una famiglia ebraica ortodossa sterminata dai nazisti. Il libro uscì durante il periodo della dittatura comunista e non venne accolto bene: si parlò di "decadenza" e perfino di un "prodotto di una cultura vile". C´è da dire che Weill in gioventù aveva simpatizzato con gli ideali comunisti e sull´onda dell´entusiasmo aveva anche vissuto in Russia, da dove fu però costretto a fuggire per via delle persecuzioni staliniane. Era un uomo che sapeva riconoscere gli artisti, a prescindere dall´opportunità del momento: fu lui a tradurre Majakovskij e Pasternak».
Cos´altro ha letto?
«Due libri che mi hanno profondamente appassionato e che riguardano lo stesso periodo storico: Hitler, a study in tiranny di Alan Bullock, e Stalin: the court of the Red Tsar di Simon Sebag Montefiore».
Iniziamo dal primo.
«È un libro brillante, che racconta l´ascesa al potere di Hitler, ed il rapporto con la situazione storica dell´Europa e del resto del mondo. È necessario contestualizzare anche gli avvenimenti e le personalità più mostruose. Il che non può mai significare giustificarle, ma comprenderne la nascita e l´evoluzione».
Cosa l´ha colpito maggiormente?
«Sul piano letterario l´abilità e l´accuratezza con cui Bullock ha costruito il libro. Per quanto riguarda il contenuto, appare sconvolgente la capacità che aveva un personaggio come Hitler di sedurre la folla ed un popolo con una storia gloriosa, di grande cultura. Nei momenti di difficoltà e disperazione l´uomo ha finito per seguire anche personaggi del genere, con idee abominevoli».
Passiamo a Stalin.
«Un altro mostro, responsabile di un numero persino maggiore di morti. Ma anche in questo caso bisogna capire quali siano state le condizioni che lo hanno portato ad avere un potere assoluto».
Cosa le è piaciuto di più del libro?
«Il modo in cui è descritto il mondo del suo circolo più ristretto: un mondo di figure inquietanti che lui stesso ha decimato. E anche in questo caso, il rapporto con una popolazione terrorizzata e adorante».
Colpisce che le sue letture odierne riguardino Hitler e Stalin.
«Sono nato nel 1933, e si tratta di due personaggi che hanno dominato il mondo nei miei primi anni di vita. Mi interessano le personalità, e le ideologie che hanno portato rovina e morte».
Ha letto qualcuno dei nuovi scrittori?
«Sì, il racconto che il New Yorker ha anticipato della nuova raccolta di Nathan Englander. È magnifico e si conferma un grande talento, capace di mescolare l´umorismo al dolore. Racconta una cena di due coppie di vecchi amici ebrei, una delle quali è diventata ultraortodossa. Englander riesce a parlare dell´Olocausto e dell´11 settembre, dell´uso delle droghe e di cosa significhi essere un genitore con una leggerezza ed un acume straordinario. E riesce a comunicare, senza essere mai pesante o volgare come possano essere irritanti alcuni atteggiamenti degli ortodossi. Mi piace tutto, a cominciare dalla lunghezza, inedita per un pezzo di fiction del New Yorker, e il titolo, che mi riporta a quello di cui parlavamo prima: Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank».
l’Unità 19.12.11
Quei due buchi neri da record
Sono i più grandi mai osservati dall’uomo Sono distanti da noi 300 milioni di anni luce La scoperta è dell’Università della California
di Pietro Greco
La lenta scorpacciata di un buco nero supermassivo. È quella che stanno osservando in diretta Stefan Gillessen, ricercatore del Max-Planck-Institut per la fisica extraterrestre di Garching, in Germania, e un gruppo di suoi colleghi dopo aver puntato i loro telescopi nei pressi di Sagittarius A*, la sorgente di onde radio nel centro della nostra galassia.
Gillessen e colleghi stanno seguendo da tre anni un oggetto con le caratteristiche di una nube molto densa, con una massa pari a tre volte quella della nostra Terra, che sta precipitando nella «bocca cosmica» alla velocità di 1.700 chilometri al secondo. La nube scrivono gli astrofisici sull’ultimo numero di Nature è ancora lontana dall’«orizzonte degli eventi» e occorrerà attendere fino al 2013 per vederla scomparire per sempre. Ma già adesso si sta dissolvendo a causa delle tremende onde gravitazionali generate dal buco nero supermassivo.
Quello che sta fagocitando materia nel centro galattico della Via Lattea è davvero un oggetto molto grande. Un mostro cosmico, con una massa pari a 4 milioni di volte quella del nostro Sole. E, tuttavia, è un nano rispetto ai due buchi neri scoperti da Nicholas J. McConnell e dal suo gruppo della University of California, a Berkeley, che hanno scoperto come riportato sempre su Nature, ma due settimane fa i due buchi neri più grandi mai osservati dall’uomo: si tratta di due oggetti che si trovano al centro delle galassie NGC 3842 e NGC 4889, distanti oltre 300 milioni di anni luce da noi. I due buchi neri hanno ciascuno una massa pari a circa 10 miliardi di volte quella del nostro Sole. E rappresentano un vero record: finora il buco nero più grande osservato aveva una massa grande appena (se fa per dire) 6,9 miliardi di volte quella del Sole.
Il buco nero è di per sé un orrido. Qualunque cosa vi caschi dentro, è (quasi) per sempre. Nulla (o quasi) infatti può mai uscirne. Neppure la luce. Tant’è che noi non lo vediamo direttamente, neppure quando è supermassivo. Possiamo solo osservare gli effetti della sua presenza. Ma la mostruosità dei buchi neri super supermassivi scoperti da McConnell e colleghi è tale da cambiare non solo l’immagine che in genere abbiamo noi non esperti dell’intero universo, come luogo del silenzio e dell’armonia, ma anche quella che ne hanno i cosmologi, che si interrogano sull’evoluzione del cosmo.
GIGANTI COSMICI
I giganti cosmici scoperti da McConnell e colleghi potrebbero essere, infatti, le vestigia dormienti di quegli antichi oggetti cosmici che sono i quasar. Cosa siano queste «sorgenti radio quasi-stellari» non lo sappiamo con esattezza. Ma il modelli più accreditati dicono che si tratterebbe di antiche galassie giganti attive, la cui straordinaria luminosità è determinata dal fatto che al loro centro hanno un buco nero supermassivo che attira verso di sé una grande quantità di materia. Precipitando verso il buco nero, almeno la metà di questa materia si trasforma una tale quantità di energia da apparire brillantissima nel cielo anche a miliardi di anni nello spazio-tempo. Finito il pasto luculliano i buchi neri supermassivi vanno in sonno. Ma è un sonno apparente. Sarebbe bello, infatti, sapere cosa accade dentro di loro. Molti teorici si sbizzarriscono a dirlo. Ma nessuno, probabilmente, potrà mai provarlo. Perché niente e nessuno, per quanto ne sappiamo, può attraversare il loro «orizzonte degli eventi» e tornare indietro per dircelo. Ecco perché li chiamano «cosmic eraser»: cosmiche gomme che cancellano ogni informazione.
Corriere della Sera 19.12.11
La poesia cambierà il mondo
Oltre i settorialismi del sapere scientifico, i versi ci svelano la realtà. Ad altezza umana
di Daniele Piccini
A chi parla la poesia e chi è coinvolto nel suo discorso? Solo l'autore e una ristretta cerchia di lettori? In un famoso discorso, intitolato Il meridiano (1960), Paul Celan osserva: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica». Mario Luzi nel saggio Verso Ragusa, compreso in Naturalezza del poeta (1995), si spinge oltre: «Il poeta nella parte più segreta del suo desiderio tende a non essere più niente se non ciò che di lui è passato o passerà negli altri come sostanza umana, grazia, canto».
Per un paradosso o per una legge più segreta e profonda, quanto più si offre con il suo radicale bisogno di comunione, tanto più la poesia moderna è allontanata, posta e percepita in una distanza. Eppure essa non cessa, da lì, di esporsi, come diceva ancora Celan. C'è una poesia di Giovanni Giudici, compresa in O beatrice (1972), che vale come una squillante affermazione di questo stato, al contempo doloroso e vitale. Si tratta di Alcuni, una sorta di manifesto che, senza nominarla e per metafora, parla anche della poesia e della sua «insania». Vi si legge, nella seconda quartina: «Alcuni in abitazioni private o in asili / psichiatrici ritentano solitari di carte / o calcoli di moto perpetuo o altre / più improbabili imprese come rivoluzioni»; e nelle ultime tre strofe: «Pensando di loro ti scrivo queste parole / oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza / sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia / ormai più di passato che di futuro nutribili. // E chiamandoti a un futuro di penuria / io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza / perché si possa dire che è una cosa reale / quella che due distinte persone vedono identica. // E tutto questo è ancora poco al confronto / del nulla di chi insegue un solitario ideale. / Essere umani può anche significare rassegnarsi. / Ma essere più umani è persistere a darsi».
Contestazioni e tentativi di rottura di ogni tipo hanno attraversato nell'ultimo secolo e oltre la parola poetica, negata dalle sue più remote prerogative, contraddetta. In tale spoliazione e scoronamento, essa ha trovato, si può dire, una sua ulteriore verità. Le lacerazioni, i tentativi più estremi (penso all'acume linguistico delle avanguardie e degli sperimentalismi) l'hanno in fondo nutrita. Essa si è posta al livello del singolo, dell'uomo, senza patenti e distinzioni.
Si tratta di un'arte che vive del senso di appartenenza e di comunione, sia pure cercato di continuo e non posseduto pacificamente (pena lo scadimento a retorica): una poesia compie la lingua in cui si esprime, la verifica e la inventa continuamente (naturalmente essa non ne è che una delle tante espressioni). Essa, la parola poetica, rende vitale la vicenda di una lingua, che anche grazie a essa non può assestarsi, immobilizzarsi, stagnare. La poesia desta, accende, determina riconoscimenti inconsueti: rende presente che tutto ciò che è stato scritto è ancora vivo; che il viaggio di Dante avviene nel presente e non è solo storia letteraria. Questo perché, per un poeta, Dante è compresente, operante: la sua lingua determina ancora avvenimenti dentro la lingua contemporanea di chi opera al capo estremo della tradizione.
Se vogliamo usare un occhio storico-critico e guardare al nostro Novecento, vediamo che la poesia ha prodotto una serie ininterrotta di autori «maggiori», dagli inizi del secolo fino al suo epilogo e passando per alcune personalità decisive che usano il dialetto: un bilancio credo non comparabile per ricchezza e complessità ai canoni della narrativa. In particolare negli anni dieci, venti e trenta del secolo sono nati, in una concentrazione rara, poeti in grado di costituire una tradizione degna dei maestri già canonizzati. La poesia di questi autori parla di un movimento di conoscenza, di un'avventura intellettuale, ma partendo dal dettaglio, dall'attenzione (come osserva ancora Celan) agli oggetti e ai minimi accidenti e naturalmente alle singole creature, tanto che essa può parlare dell'assolutamente Altro dall'interno di un discorso familiare, domestico.
Se questo è il catalogo, se tale è lo stato di un'arte, può ognuno di noi, in quanto lettore (e si ricordi Baudelaire), non sentire fraterna questa parola? Essa certamente vuole essere coinvolta nel nostro andare, contribuire a una conoscenza unitaria del mondo, di contro agli eccessivi settorialismi, e, senza dare risposte asseverative e assolute (per quanto a volte possa suggerirle), vuole parlare ad altezza umana, accettando e suscitando la serietà di colui che legge, non riducendolo a utente seriale. Che sia qui, in nuce, il segreto della sfortuna della poesia moderna? Certo, la moltiplicazione dei linguaggi ne ha ristretto il campo: essa si è rivolta, per lo più, in una direzione lirico-conoscitiva: si pensi, per noi, alla pietra d'angolo di Leopardi (ma Kazantzakis ha pensato di continuare nel Novecento greco l'epos omerico e Walcott, ad altre latitudini, lo rifà anche oggi). Oppure si è estremizzata in direzione metalinguistica, facendosi esperimento continuato, protesta, esibizione di non-senso. Ma in fondo, essa resta oggi una delle poche espressioni gratuite. Essa, semplicemente, è: il che implica non un darsi come prodotto, ma proprio una tensione, un movimento nell'essere, un'offerta, che si scontra però con il demone della facilità e della banalizzazione.
Ridurre la poesia a un piccolo ghetto autoreferenziale è un gesto di disprezzo per la lingua nella quale, da parlanti e da scriventi, si «abita». Per questo si vorrebbe che da ogni disciplina e campo di ricerca antropologico e umanistico un nuovo discorso cominciasse a prendere forma su di essa. La poesia è più grande delle sue piccole miserie (i dibattiti su quanto non vende, i minuscoli giochi di potere dei suoi maggiorenti, le polemiche personali) ed è su questo piano, quello di un'avventura di conoscenza, misteriosa perfino a se stessa, offerta ai simili, poggiata su basi instabili, che essa può contribuire al significato di una comunità, nazionale e universalmente umana. La stessa idea di Italia di cui siamo gli eredi non esisterebbe senza Dante e Petrarca e senza la lingua comune che su di essi poggia. Il cordone ombelicale tra il poeta e i parlanti, tra lui e chi oggi infantilmente dice «pappo» e «dindi» non è venuto meno. Piuttosto servono occasioni perché il ricongiungimento avvenga, superando gli ostacoli e le prevenzioni di un mercato inteso come feticcio. Occorre cultura.
In questo dinamismo, di una parola che si offre e chiede di essere accolta e di una comunità che le fa posto, tentando di intendere la sua nota, ognuno ha una parte: dà e riceve, cede e cresce.
Corriere della Sera 19.12.11
La psicologia segreta dello shopping che ora la crisi ci impone di svelare
di Daniela Monti
Che cosa ci spinge a comprare oggetti di cui, in fin dei conti, non abbiamo bisogno? Perché fra due maglioncini, due detersivi, due rossetti, ne scegliamo uno e lasciamo sugli scaffali l'altro? Gli studi sulle abitudini di consumo, a cui ci si è affidati negli ultimi anni, danno risposte parziali: fotografano la realtà, lasciando in ombra le cause. Ora la crisi impone riflessioni nuove: comprendere certe schizofrenie, certi nonsense da shopping, è diventato più complicato (ma necessario).
Così si riaccende l'interesse per le tesi di Ernest Dichter, psicologo viennese che a metà Novecento fece una fortuna declinando in chiave di marketing le teorie freudiane. L'Economist ha ricostruito tutti i passaggi della folgorante e profetica carriera di Dichter, morto nel 1991 quando le sue teorie erano già tramontate. Alla domanda su che cosa ci spinge a consumare, Dichter rispondeva: la necessità di soddisfare i bisogni, anche i più irrazionali, e migliorare l'opinione di noi stessi attraverso l'acquisto di un determinato prodotto. Le emozioni, dunque, e non la necessità determinano le nostre scelte d'acquisto, tesi che poi avrebbero portato avanti altri, fra i quali il francese Gilles Lipovetsky quando scrive che viviamo «in una nuova modernità che coincide con la civiltà del desiderio» e che nel momento del consumo andiamo «a caccia di esperienze emotive». Un processo che avviene in gran parte in modo inconsapevole. Per Dichter, la motivazione all'acquisto è infatti paragonabile a un iceberg: per due terzi è nascosta, anche agli occhi di chi la prende.
Psicologi, antropologi, scienziati del comportamento, tutti cercano di contribuire alla comprensione della mente umana e dei suoi meccanismi. Studiano le onde di cervello per vedere quale parte si «illumina» al sentire la parola «Coca cola», o misurano la dilatazione della pupilla in risposta ai marchi più o meno in voga. Ma il comportamento umano rimane misterioso e le domande, già poste da Dichter, sull'istinto e i desideri inconsapevoli tornano d'attualità. «Psicologia del consumatore» diventa la parola chiave con cui cercare di forzare la porta stretta dei consumi in tempo di crisi.
Corriere della Sera 19.12.11
Perché ci mancherai corrosivo «Hitch»
di Pierluigi Battista
on Christopher Hitchens se ne va un pilastro del pensiero antitotalitario di sinistra. Un intellettuale che non sacrificava alle ragioni tribali dell'appartenenza la limpidezza di una coerenza culturale. Se per combattere gli orrori del fondamentalismo jiahdista occorreva sostenere la guerra di Bush e di Blair, Hitchens non si faceva condizionare dal mainstream dell'anti-interventismo ideologico. Ma se c'era da denunciare la pratica feroce del waterboarding, Hitchens non risparmiava il gesto plateale di provare su di sé il terrore dell'annegamento simulato dagli aguzzini, per denunciare la tortura incompatibile con quegli stessi principi di libertà e di rispetto per la persona umana difesi a tutti i costi, anche a costo della guerra.
Hitchens era un uomo generoso, smodato, senza equilibrio, campione di un pensiero militante, sarcastico, corrosivo. Qualche volta sbagliava di grosso, come quando stroncò il libro stupendo del suo amico di sempre Martin Amis Koba il terribile, probabilmente risentito per una menzione un po' maligna. Ma non sbagliava sulle genealogie intellettuali di un pensiero liberale di sinistra, sempre minoritario ma combattivo, non rassegnato, incapace di accondiscendenza verso le menzogne di partito e di regime. Aveva restituito un magnifico ritratto di George Orwell, mettendo alla berlina le piccinerie censorie con cui la sinistra ufficiale inglese e internazionale ha cercato per decenni di disinnescarne l'esplosiva critica dei luoghi comuni. Non era amato da nessuno. Dalla sinistra intellettuale, perché Hitchens era troppo libero e spregiudicato. Dai sacerdoti delle religioni organizzate che non gli perdonavano lo spirito dissacrante del suo «Dio non è grande». In questa sua requisitoria antireligiosa, Hitchens oltrepassava la soglia dell'invettiva irriguardosa, ironizzando sulla «tendenza dell'Onnipotente a manifestarsi solo a individui illetterati, in aree desertiche del Medio Oriente che furono a lungo patria della venerazione di idoli e della superstizione». Era un eccesso polemico, ma Hitchens viveva di eccessi. Solo che l'eccesso colpiva il nucleo incandescente delle cose. Hitchens in fondo pensava che un'idea non valesse un granché se non fosse anche una grande idea controversa. E sul conflitto tra tesi contrapposte basava tutta la sua filosofia e l'interpretazione del mondo.
Il contrario del buonismo ecumenico. Resta nella memoria una sua formidabile disputa verbale con Tariq Ramadan, l'intellettuale musulmano che ha fatto della doppiezza la sua cifra d'identità, «moderato» con il mondo esterno, fondamentalista e integralista con il suo mondo, l'intellettuale islamico «mite» che si lasciava sfuggire apocalittiche manifestazioni di disprezzo persecutorio per gli omosessuali. Hitchens volle svelarne l'ipocrisia e Ramadan ne rimase sorpreso e attonito, abituato ai salamelecchi dei salotti dell'Occidente. Era capace di questi gesti, il povero grande «Hitch». E per questo ci mancherà. Anche lui.
La Stampa 19.12.11
Don Mazzi: “Erika andrà a insegnare in Madagascar”
La ragazza è libera a 10 anni dal massacro di Novi Ligure “Immagino già le polemiche ma quello è il suo destino”
di Francesco Giglioli e Cecilia Pierani
Il futuro di Erika è dietro una cattedra». Don Mazzi non è impreparato. Ha l’esatta percezione di quello che le sue parole susciteranno. Non se ne cura. Il fondatore della comunità Exodus giura di aver assistito alla redenzione di Erika De Nardo, da feroce assassina a missionaria di cultura. Non cerca il paradosso il sacerdote che cura i tossicodipendenti, non vuole stupire con le parole. Il suo è un progetto definito, lineare, realizzabile. «Me lo ha confidato senza imbarazzi - afferma - lei si vede insegnante. È questo il mestiere che vorrebbe fare. In carcere si è laureata in Filosofia, vuole mettere il suo sapere a disposizione degli altri». La confidenza di una giovane omicida, diventata donna in comunità, per don Mazzi è già un progetto di vita. E gli brillano gli occhi mentre predispone lo scudo alle critiche, mentre si prepara a confutare le perplessità di chi non ha dimenticato. «Secondo me può fare l’insegnante: in questi anni di comunità le sono stato vicino, ho capito che quella può essere la sua vocazione».
Per don Mazzi è tutto tremendamente semplice, logico, consequenziale. I luoghi comuni sono fatti per essere sfidati. Come le rigidità di chi ha sempre ragione. «L’insegnante, certo, ma non in Italia. Qui sarebbe difficile accontentarla, persino proteggerla. Per questo voglio mandarla in Madagascar. Ad attenderla ci sono seicento bambini che hanno bisogno di cura, di alfabetizzazione, di essere seguiti. Hanno bisogno di una come Erika». Non vive sulla luna, don Mazzi. Intuisce che il suo progetto susciterà vespai. «Sì sì lo so cosa diranno. Ma come? Deve insegnare proprio una che ha ucciso la madre e il fratello? Siamo impazziti? Non può starsene buona in comunità. Non può stare zitta per sempre? Invece io vi dico che non sono impazzito. Io credo che quello sia il suo destino. Ne ho la percezione, analizzando la sua storia, il suo vissuto. Ne ho già parlato anche al magistrato».
Per don Mazzi Erika non è la spietata assassina che ha distrutto una famiglia. La Erika delle cronache dei giornali, degli aggettivi grondanti sangue e indignazione, non è mai esistita. «Quando ha ucciso non era lei - assicura don Mazzi - era alterata. Le sostanze hanno ucciso per lei». Non pronuncia il termine droga, ma non lascia spazio a interpretazioni. Non c'è sottovalutazione nelle sue parole, ma la profondità di chi ha compreso. «In questo momento è a casa sua, con il papà. Almeno questi giorni di festa, li ha voluti trascorrere in famiglia. Ma tornerà nella mia comunità, per fare volontariato. E tra 5 o 6 mesi sarà pronta per la sua missione». Quando parla del padre di Erika, gli occhi hanno uno scarto verso il cielo, sorride, si rimbocca le maniche della camicia. «È una persona straordinaria. Non ha mai avuto bisogno di perdonare sua figlia, semplicemente perché non si è mai posto il problema. Gli sono stato vicino, gli ho offerto il mio aiuto e lui si é confidato. Non deve perdonarla: è sua figlia». L’impressione che il prete suscita è di un uomo senza dubbi. Il percorso di redenzione compiuto da Erika in comunità, per don Mazzi, é giunto a compimento. «Erika mi ha detto che vorrebbe vedere suo padre felice, che quell’uomo non può perdere tutta la vita dietro a sua figlia. Erika vorrebbe che suo padre si rifacesse una famiglia. E anch’io ho un desiderio: quello di sposare, spero presto, questo uomo meraviglioso. Poco prima di rientrare a casa Erika mi ha sussurrato: ho detto a papà che non riesco a capire come possa essere successo. Io che non ho neppure il coraggio di uccidere una mosca ho sterminato la mia famiglia». Don Mazzi è sicuro che ce la farà, che Erika riuscirà a ritagliarsi un ruolo, uno spazio, una missione.
Su un punto, il sacerdote non ammette cedimenti. «Omar non lo deve più vedere. Non voglio assolutamente che si incontrino. Io non ce l’ho con lui, ma, chi, come me, ha a che fare con la tossicodipendenza, queste cose le sa bene. Chi ne è uscito non deve più frequentare le persone con le quali in passato condivideva questa condizione di alterazione. Non si frequentano di nuovo le persone con le quali si sono commessi reati». Ma non è Omar il pericolo per Erika. Le insidie hanno altre forme. «Ho lo stesso timore di suo padre: che possa ricascarci, che la droga ritorni nella sua vita. Non si deve distruggere di nuovo. Meglio l’Africa, meglio una cattedra in Madagascar».