giovedì 22 dicembre 2011

La Stampa 22.12.11
Lavoro, Fornero si ferma dopo l’altolà di Bersani
Il ministro del Welfare: era tutto un equivoco, l’articolo 18 è l’ultimo problema
di Roberto Giovannini


ROMA «Non avevo e non ho in mente nulla in particolare che riguardi l'articolo 18». Elsa Fornero, ministro del Lavoro, approfitta dell’ospitata a «Porta a Porta» per chiudere in modo apparentemente definitivo il caso aperto dalla sua intervista di qualche giorno fa al «Corriere della Sera». Un’intervista, spiega la professoressa, che in realtà era stata concepita per «parlare di pensioni» e perché «passasse un messaggio di dialogo». «Dopo aver riletto la mia intervista - dice - l'avevo vista come un fatto positivo». E invece, afferma Fornero, «forse è stata un’ingenuità», forse «è stata un po’ una trappola giornalistica»; ma «non sapevo che il solo menzionare la possibilità di discutere dell’articolo 18 creasse queste polemiche che francamente non meritavo. Io in quell'intervista ci ho visto un' apertura».
Insomma, tutto un equivoco, una forzatura giornalistica. Ovviamente non è così, anche se è vero che - giustamente - i titolisti del «Corriere» hanno puntato sul tema più nuovo e interessante, cioè la volontà del ministro di mettere mano alle regole sul mercato del lavoro. Peraltro, di fronte alle (prevedibili) critiche piovutele addosso nei giorni successivi Fornero ha reagito in modo piccato, ribadendo come nessun tema - compreso l’articolo 18 e i licenziamenti - sia un tabù. Sennonché l’accendersi della polemica su un tema tanto delicato ha preoccupato non solo il Capo dello Stato, ma lo stesso premier Mario Monti. E dopo il «niet» espresso dai leader sindacali, ieri è arrivato anche un secco altolà da parte del Pd, con il «ma siamo mica matti» di Pierluigi Bersani, che poi ha rincarato la dose nel corso di un incontro con Monti.
E così, ieri Fornero ha deciso di correggere il tiro. «Vogliamo lasciarlo stare questo articolo 18? - ha chiesto retoricamente -. Io sono pronta a dire che non lo conosco. C'è tanto da fare nel mercato del lavoro, l'articolo 18 arriva per ultimo». Certo, il ministro chiarisce che pur non avendo «nulla in mente» sul tema dei licenziamenti «chiedo che si parli di lavoro guardando ai problemi». Assicura invece che «il lavoro e la creazione di posti di lavoro sono la mia prima e unica preoccupazione», perché questa «è la nostra prima emergenza». E spiega: «Bisogna rimettere in moto l’occupazione. Sono angosciata quotidianamente dalle richieste di crisi aziendali e dalle domande di Cig in deroga. Dobbiamo agire: dobbiamo fare in modo che le aziende tengano i lavoratori e offrano lavoro», a cominciare «dalle donne e dai giovani», afferma Fornero. Ma «non è con i soldi pubblici che si possono creare posti di lavoro. Si creano con una economia sana; con imprese, piccole e capaci di stare sul mercato. È questo il modello cui dobbiamo tendere, con l’aiuto del sindacato». Dunque, come governo «siamo aperti a ogni tipo di discussione, non abbiamo idee preconcette». E «abbiamo la ragionevolezza di parlare di riforme con Lupi, Bindi e Bonanni (ospiti in studio da Vespa, ndr) e persino con la Camusso».
Detto questo, nonostante la correzione di rotta e di toni resta l’intenzione dell’Esecutivo di intervenire sul tema delle regole del lavoro, dalle assunzioni ai licenziamenti. Tuttavia, non affrontandole in modo isolato, ma inserendole in una discussione che abbia un respiro più ampio e più generale. Ma senza correre, dopo un approfondito confronto con i partiti e le forze sociali. E possibilmente, evitando altre «trappole» e incidenti mediatici.

La Stampa 22.12.11
Il leader Pd rilancia “Non ci basta l’asse con Pdl e Terzo Polo”
Irritazione per le scelte dell’esecutivo
di Federico Geremicca


ROMA Ha incassato in un sol colpo l’apprezzamento dei sindacati, il sostegno del suo gruppo dirigente e perfino l’applauso di Nichi Vendola, che non è precisamente cosa di tutti i giorni. Ma non è per questo - o almeno non è solo per questo che Pier Luigi Bersani ieri ha deciso di tornare in campo per strattonare vistosamente Mario Monti ed un suo ministro (Elsa Fornero) rei di giocare troppo disinvoltamente con una questione (la modifica dell’articolo 18) che per il Pd è praticamente fuoco.
Del resto, le ragioni della rude uscita («Roba da matti... ») le ha spiegate lo stesso leader democratico, e stavolta non c’è davvero motivo per non credergli: «Abbiamo garantito a Monti lealtà e fedeltà, ma anche trasparenza... La nostra gente deve capire che cosa stiamo facendo».
Ed è appunto questo quel che è il leader Pd andato a dire ieri sera a Mario Monti. Come spiega dopo il colloquio col premier uno dei più stretti collaboratori di Bersani «al presidente del Consiglio noi non abbiamo da chiedere un provvedimento in particolare, quanto - piuttosto - suggerire una direzione». Che non può essere, appunto, continuare a tirare la corda sempre dalla stessa parte. «Noi confermiamo la disponibilità ad aprire il capitolo del mercato del lavoro - continua l’uomo dello staff del segretario - ma è insensato partire dall’articolo 18. C’è una questione sociale che rischia di farsi esplosiva, soprattutto alla luce delle previsioni per il 2012. Questo rende indispensabile metter mano a tre questioni che non sono più rinviabili: lotta al precariato, creazione di nuovi posti di lavoro, aumento dei salari».
Dovendo stare al modo in cui Pier Luigi Bersani ha poi commentato l’esito del faccia a faccia con Monti, si può ipotizzare che il brusco avvertimento lanciato dal leader Pd («Il problema è entrare nel mercato del lavoro, non uscirne. Il governo dovrà capirlo, altrimenti... ») abbia sortito gli effetti sperati. Non solo - infatti - il ministro Fornero ha fatto retromarcia sulle ipotizzate modifiche all’articolo 18, ma lo stesso Bersani ha incassato: «Qualcuno pensa che licenziando si crea lavoro: questa è una assurdità, e non credo sia nelle intenzioni del governo».
Ma le questioni economiche - e le loro pesantissime ricadute sociali non sono certo l’unico problema che il leader del Pd ha da affrontare. All’avvio dell’esperienza Monti erano infatti due - a voler sintetizzare - le faccende che preoccupavano lo stato maggiore dei democrats. La prima era appunto legata alla prevedibile pesantezza della manovra che il governo dei tecnici avrebbe varato; la seconda riguardava i serissimi rischi di confusione politica che la strabiliante (anche se temporanea) alleanza con il Pdl di Berlusconi avrebbe potuto determinare nel popolo dei democrats. Entrambi i problemi restano sul tappeto, ma Bersani - alla luce della crescente insofferenza della base - ha cominciato ad affrontarli con assai meno diplomazia...
Così, se Berlusconi dopo l’incontro a pranzo col premier ha fatto sapere di reputare necessaria la creazione di una “cabina di regia” che veda tutti assieme i leader di partito e i capigruppo di maggioranza, il segretario democratico è stato netto: «Il regista l’abbiamo già, lasciamo stare le cabine... ». Non solo. Sul tema delle riforme - da quelle dei meccanismi parlamentari e quella elettorale - è stato altrettanto esplicito: «Dobbiamo portare a casa qualche risultato». E non soltanto con un dialogo ristretto a Pd-Pdl e Terzo polo, bensì in un confronto che non tagli fuori le altre forze politiche: in testa a tutte viene da ipotizzare - quelle che potrebbero essere domani alleate del Pd in campagna elettorale.
Varare una manovra per ora solo “lacrime e sangue” e tagliare tutti i ponti con i possibili partner della futura coalizione elettorale, non sarebbe infatti un bell’affare. E se è vero che, con riconosciuta generosità, rispetto agli interessi di partito Bersani ha più volte affermato che «viene prima l’Italia», beh, quel che non può accadere è che il Pd venga per ultimo. Ed è bene che Monti se ne convinca. Altrimenti...

La Stampa 22.12.11
Legge elettorale banco di prova per i leader
di Marcello Sorgi


All’indomani dell’appello di Napolitano ai partiti della maggioranza per un più forte sostegno al governo, Bersani ha chiesto di sgomberare il campo da ipotesi di riforma dell’articolo 18, mirate a snellire le procedure di licenziamento (richiesta accolta in diretta a «Porta a porta» dalla ministra del lavoro Fornero). E Berlusconi, dopo un pranzo di due ore con Monti a Palazzo, incontrando i senatori ha ribadito che il Pdl è ancora l’arbitro della situazione e in qualsiasi momento può decidere di tornare ad elezioni. Se non fosse per Casini e il Terzo polo, che continuano a garantire il loro appoggio incondizionato al governo, verrebbe da dire che l’appello del Capo dello Stato non ha trovato l’accoglienza dovuta, e nella maggioranza tripartita che sostiene l’esecutivo tecnico la tensione continua ad essere alta.
In realtà, a parte qualche eccesso polemico (soprattutto da parte dei sindacati, che temono il bis della riforma delle pensioni decisa senza concertazione), il governo continua a godere di un forte appoggio politico, e grazie a questo la manovra dovrebbe essere licenziata oggi in Senato. Più che un gioco di veti, dunque, si sta delineando una sorta di schieramento preventivo in vista della cosiddetta fase 2 del lavoro di Monti e dei suoi ministri. Alfano, Bersani e Casini, in altre parole, devono trovare il modo di trasformare il loro accordo «tecnico» (le virgolette ormai sono d’obbligo, dopo un mese di vertici a tre) in una forma di collaborazione politica compatibile con il livello crescente di insofferenza dei rispettivi elettorati alla stagione dei sacrifici.
Prima di stabilire se davvero ci sia spazio per reimpostare il confronto sulle riforme istituzionali, come ha suggerito Napolitano, sarà la legge elettorale il banco di prova dell’intesa tra i tre leader. Se la Corte costituzionale, alla ripresa, darà via libera ai referendum, l’urgenza di trovare un accordo per evitare un voto che potrebbe portare alla reintroduzione del Mattarellum, la legge maggioritaria che inaugurò la stagione del bipolarismo, potrebbe spingerli ad accelerare la trattativa: in particolare Casini, che a causa del ritorno al Mattarellum potrebbe vedere compromesso il suo disegno terzista. Ma anche nel caso in cui la Consulta bocci i quesiti referendari, la necessità di mettersi attorno a un tavolo, non solo per decidere quali emendamenti proporre ai provvedimenti del governo, ma per dare un senso al finale della legislatura, potrebbe rivelarsi ineludibile.

Repubblica 22.12.11
La corruzione e il potere ingiusto
di Carlo Galli


A livello politico, la corruzione è la deviazione del potere dalle finalità che gli vengono assegnate dalla civiltà moderna. Che consistono nell´amministrare impersonalmente e imparzialmente, e nel riconoscere e tutelare i diritti individuali e collettivi in un contesto di legalità, di certezza, di uguaglianza, di prevedibilità. C´è corruzione quando un apparato pubblico (una burocrazia) accetta o sollecita per sé benefici, in denaro o d´altra natura.
Benefici solo in cambio dei quali soddisfa alcuni bisogni sociali – non tutti, ma solo quelli dei corruttori –; ma questa è appunto una deviazione sostanziale del potere dal proprio orizzonte pubblico. La corruzione rende il potere parziale e ingiusto perché favorisce qualcuno (chi è in grado di corrompere prima e meglio) a danno di tutti coloro che hanno diritto a una prestazione pubblica, o a vedere riconosciuto un diritto, un merito.
Quando questo strappo alle regole diventa sistema, quando l´anomalia diventa norma, si perde qualcosa di ancora più profondo della forma moderna del potere. È la fiducia dei cittadini nel potere, e al tempo stesso nella sostenibilità delle loro relazioni sociali. Per ogni concorso truccato, per ogni promozione ingiusta, per ogni permesso edilizio comperato, per ogni scandalo, per ogni occhio chiuso, tutta la collettività paga un prezzo: si dissipa quel capitale di reciproca credibilità fra Stato e cittadini, e all´interno della stessa società, che è l´architrave e il cuore del patto sociale. Ovvero, la promessa – implicita ma vitale – di tutti verso tutti che la nostra vita collettiva sarà immaginata, concepita e condotta secondo principi che la differenziano dalla vita in una giungla. La promessa che la vita sociale si organizzerà in modo tale che non sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, prevarranno sugli altri – come invece avviene in quello stato di natura al quale i filosofi che hanno fondato la modernità politica affermavano che è necessario uscire, verso la civiltà perfezionata –.
La corruzione è il tradimento di quella promessa, di quel patto; è il ritorno della natura all´interno della vita associata, con tutta l´irrazionalità e l´imprevedibilità, con tutti i rischi, con tutta la cecità che la natura comporta. È la risposta più pigra e naturale alle difficoltà del funzionamento dello Stato, alle nuove esigenze della società: anziché operare riforme – mirate, progettate razionalmente – si sceglie la via più facile per recuperare efficienza, cioè il reciproco adattamento fra uno Stato invecchiato e una società che accetta di decomporsi pur di funzionare. Con il risultato perverso che, al contrario, si pregiudicano le basi stesse dell´efficienza, a tutti i livelli.
La decomposizione delle architetture della politica, che danno forma anche alla società – il potere pubblico, la legge, l´uguaglianza –, e l´affermarsi di conglomerati opachi di forze occulte, di collusioni fra pezzi di Stato e pezzi di società, di omertà diffuse, di sistemi illegali, di cricche, di mafie, sono infatti la fine della distinzione e della chiarezza, e l´affermazione della nebbia, dell´oscurità, in cui tutti sospettano di tutti, e tutti – i pubblici funzionari, ma anche ogni cittadino – perseguono il proprio interesse privato: ciecamente, senza certezze, senza altra progettualità che non un sempre più cinico e disperato "tirare a campare". Tutti avvitati, quindi, nella corruzione e nell´inefficienza.
Abituarsi a questa qualità delle relazioni politiche e sociali, trovarle magari ingiuste ma normali, sgradevoli ma naturali e insopprimibili, è non solo la più radicale corruzione – in primis, dell´immagine che abbiamo di noi stessi, della nostra autostima come cittadini e come esseri umani, e quindi delle stesse fondamenta morali e civili del sistema-Paese, della volontà collettiva di vita civile –, ma è anche un calcolo sbagliato, una deriva rovinosa. La corruzione è anche un costo economico proprio perché le economie sviluppate, pur con tutte le loro contraddizioni, chiedono ancora quella prevedibilità dei pubblici poteri e della vita sociale che è proprio ciò che il nostro Paese non sa più offrire, se non a macchia di leopardo, solo in alcune zone del territorio. Ed è per questo che gli investimenti stranieri precipitano, e che si espande il raggio d´azione delle economie criminali, che dalla corruzione dello Stato e della società traggono il loro nutrimento parassitario.
Fra le anomalie di questo Paese c´è oggi, si dice, anche il fatto che la democrazia è a rischio. È vero. Ma non certo perché l´esecutivo è formato da tecnici – che senza il voto del parlamento non andrebbero lontano: altro che golpe! –. Ma perché la corruzione soffoca sistematicamente la nostra fiducia in quei valori fondamentali, in quegli assetti istituzionali, in quella trasparenza delle relazioni sociali, in quella possibilità di sviluppo civile e materiale, in cui la democrazia in ultima analisi consiste.

l’Unità 22.12.11
«Le nostre sorelle stanno dando una lezione all’Egitto»
La marcia delle donne a Piazza Tahrir, le brutalità dei militari, il tentativo di azzerare la primavera egiziana: l’Unità ne parla tra gli altri con lo scrittore Ala al-Aswani,
la femminista Nawal El Saadawi, lo storico Tariq Ramadan, l’attivista Negm Nawara
di Umberto De Giovannangeli


Abbattere una tirannia è importante, ma lo è altrettanto edificare sulle sue macerie qualcosa di diverso anche in termini di superamento di una società patriarcale. Il nuovo Egitto potrà definirsi compiutamente tale se realizzerà una vera parità tra i sessi. La rivolta delle donne di Piazza Tahrir e la brutale repressione dei militari racconta che il “nuovo Egitto” è ancora un’utopia». A parlare è Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. «Sono orgogliosa e indignata per ciò che sta avvenendo nel mio Paese – dice la scrittrice a l’Unità -. Orgogliosa perché le mie “sorelle” stanno dando una lezione al mondo. Indignata per la violenza che stanno subendo».
Violenze che hanno indignato la comunità internazionale e riaperto il dibattito sulla vera natura della transizione nell’Egitto del dopo-Mubarak. Accade tutto al Cairo. Una giovane viene aggredita dagli sgherri del feldmaresciallo Tantawi, la gettano per terra, le strappano gli indumenti, la spogliano, in modo che si veda il suo reggiseno azzurro, intanto uno alza un piede per colpirla, per scalciarla, come probabilmente ha già fatto in precedenza, come probabilmente farà ancora, dopo. Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo.
«La situazione richiede scuse ed una gestione politica: non si può prendere in giro il Paese e negare l'uso della violenza o delle armi contro i manifestanti», sostiene il direttore del settimanale nasseriano Al Arabi, Abdallah al Sennawi. «Il Consiglio militare e le sue politiche sono la causa della crisi attuale e i problemi nascono dall' azione dei militari per svuotare di contenuti la rivoluzione, in cooperazione con una particolare forza politica, e sollecitando la riconciliazione nazionale per far uscire il Paese dall'empasse», considera Sennawi, senza nominare gli islamisti che stanno riscuotendo successo nelle elezioni politiche in corso per il rinnovo della camera bassa del parlamento.
Ancor più pesante lo scrittore Ala al-Aswani, convinto che i militari stando tentando di annullare la spinta della rivoluzione del 25 gennaio, dopo aver fatto finta di appoggiarla. Per il più importante scrittore egiziano, il vero scopo del Consiglio militare è quello di mantenere nel Paese il regime del deposto presidente Mubarak, «così com’era». «Nei lunghi dieci mesi fino ad oggi dice Aswani c'è stato un conflitto costante tra la volontà dei rivoluzionari di cambiare totalmente l'assetto del Paese e quella dei militari di mantenere in vita il precedente, con un equivoco di fondo nato l'11 febbraio, quando il Consiglio capeggiato dall'ex ministro della difesa di Mubarak ne ha preso il posto, sacrificando il Rais».
«Il Consiglio militare continua lo scrittore, autore di romanzi di successo internazionale, tra cui Palazzo Yacoubian, Chicago, Se non fossi egiziano, La rivoluzione egiziana (tutti editi da Feltrinelli) vuole isolare dalla popolazione il blocco dei rivoluzionari, le anime nobili che hanno sacrificato la loro vita prima a Piazza Tahrir, poi negli scontri in via Mohamed Mahmoud, quindi alla sede della televisione e infine al palazzo del consiglio dei ministri. E ci stanno riuscendo perchè ormai tutti sono stanchi, non vogliono più sentir parlare di rivoluzione e vogliono che torni la stabilità. Ma quale?».
«La contro rivoluzione colpisce il cuore stesso della rivolta del 25 gennaio, la lotta per i diritti umani, soprattutto delle donne», afferma decisa Hala Shukrallah, giornalista e attivista. Le forze di sicurezza stanno cercando di umiliare e colpire le donne perché «sanno che le persone che non si preoccupano della loro vita tengono comunque alla loro madre, moglie e sorella. Così hanno voluto umiliare il popolo egiziano umiliando le loro donne», spiega a l’Unità Negm Nawara, una delle organizzatrici della “marcia delle donne” dell’altro ieri.
Altra protagonista è Asmaa Mahfouz, 26 anni. Però prima di combattere contro i governi, l’attivista riconosce che le donne egiziane devono spesso combattere contro le proprie famiglie per diventare libere. La sua famiglia conservatrice un fratel-
lo è un ufficiale di polizia e un altro un ufficiale dell'esercito è rimasta inizialmente sconcertata dal suo interesse per la politica. «Mi bloccavano Internet, così andavo a manifestare in strada – raccontami hanno proibito di andare in strada, così ho usato il telefono. Le donne in Egitto hanno più spirito di degli uomini. La gente mi chiede sempre: “Perché non si lavora sui diritti delle donne?”».
La rivolta delle donne proietta ombre inquietanti su una transizione dall’esito incerto. Riflette in proposito Tariq Ramadan, professore di Studi Islamici Contemporanei presso il St. Antony’s College della Oxford University ed è visiting professor presso la Facoltà di Studi Islamici della Qatar Foundation: «La via verso la democrazia in Egitto è tutt’altro che trasparente; dobbiamo evitare di scambiare l’apparenza per realtà. Gli islamisti potrebbero operare contro altri islamisti, così come un governo democratico occidentale potrebbe sostenere un apparato militare non democratico. Questa è la politica; dobbiamo restare vigili anche nel nostro ottimismo. Religiosa o no, la sincerità in politica non è mai abbastanza».

l’Unità 22.12.11
Siria, la strage dei civili 250 morti in 48 ore «L’Onu batta un colpo»
L’opposizione al regime di Assad chiede una urgente riunione del consiglio di sicurezza Onu dopo gli ennesimi massacri. In sole 48 ore sarebbero stati uccisi oltre 250 civili. La comunità internazionale: «Ora fermatevi».
di U.D.G.


Un massacro di civili. Cinque ingegneri iraniani rapiti. La Siria sprofonda sempre più nell’orrore e nel sangue. Almeno 111 civili sono stati uccisi marted dalle forze si sicurezza siriane a Kafrueid, nella regione d'Idleb, nel nord est della Siria, secondo un bilancio dell'Osservatorio siriano dei diritti umani. «È stato un massacro organizzato. Le truppe hanno circondato le persone e poi le hanno uccise», dice Rami Abdul-Rahman, direttore dell' Osservatorio. I soldati fedeli ad Assad – prosegue Rahman si sono raccolti intorno ai civili per poi sparare sulla folla e su quanti fuggivano per paura di essere arrestati. Il bilancio delle vittime cresce di ora in ora e assume sempre più le dimensioni di una mattanza. Circa 250 siriani sono stati uccisi in 48 ore nel nord-ovest del Paese: lo afferma il Consiglio nazionale siriano (Cns), principale piattaforma di oppositori all'estero di cui fanno parte anche i Comitati di coordinamento locale degli attivisti in patria. In un comunicato, il Cns denuncia «gli orrendi massacri compiuti dal brutale regime degli Assad contro inermi civili a Jabal Zawiya», provincia nella regione nord-occidentale di Idlib.
Secondo il comunicato del Cns, le regioni di Idlib e Homs sono «zone disastrate» ed «esposte a un genocidio su larga scala», ed è per questo, che devono essere dichiarate «zone sicure sotto protezione internazionale e da cui si devono ritirare le forze del regime» di Damasco. Nell’invocare l’intervento immediato della Mezzaluna Rossa e di altre organizzazioni umanitarie, l’opposizione siriana ha chiesto anche una riunione d'emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu «per discutere dei massacri in corso nelle regioni siriane di Idlib e Homs. La Francia ha denunciato il «massacro senza precedenti» dell’altro ieri in Siria e ha lanciato un forte appello alla Russia affinchè «acceleri» i negoziati al Consiglio di Sicurezza dell'Onu sul suo progetto di risoluzione nei confronti del regime di Bashar al-Assad: lo ha detto a Parigi il portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, aggiungendo: «Dobbiamo fare tutto per far cessare questa spirale assassina nella quale Bashar al-Assad trascina ogni giorno di più il suo popolo».
Fine immediata delle violenze e garanzie per la sicurezza dei civili secondo il piano d'azione arabo. È l'appello lanciato a Damasco dal segretario generale della Lega Araba Nabil el Araby, alla vigilia dell'arrivo del primo gruppo di osservatori arabi previsto per oggi. Gli Usa ammoniscono Damasco che «se l'iniziativa della Lega araba ancora una volta non sarà pienamente attuata, la comunità internazionale dovrà adottare ulteriori misure per fare pressione sul regime di Assad per fermare la repressione». «Bashar al-Assad non dovrebbe avere dubbi sul fatto che il mondo sta guardando e che la comunità internazionale e il popolo siriano non accettano la sua legittimità», dichiara il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. Linea condivisa dal titolare della Farnesina, Giulio Terzi. «È inaccettabile» che così tante persone siano state uccise in una zona della Siria vicina al confine con la Turchia, nonostante il regime del presidente Bashar al-Assad abbia accettato il piano della Lega araba per porre fine allo spargimento di sangue nel Paese», afferma il ministero degli Esteri turco Ahmet Davutoglu. A rendere ancor più infuocata la situazione è il rapimento di cinque ingegneri iraniani a Homs. «I cinque ingegneri sono stati rapiti alle 6.30 di oggi (ieri, ndr), mentre stavano andando al lavoro. Chiediamo la loro liberazione immediata», è scritto in una nota dell'ambasciata iraniana a Damasco citata dall'agenzia Mehr.

La Stampa 22.12.11
L’ateismo “mistico” della Corea
Bollata come superstizione ogni forma di confessione, ma il culto della famiglia Kim è una vera religione
di Ilaria Maria Sala


Venerazione del leader Le celebrazioni per i 40 anni al potere di Kim Jong Il, nel 2004. La salma del Caro Leader, scomparso quattro giorni fa, sarà imbalsamata al termine del lutto nazionale
L’idea Juche è il principio-guida della Corea

HONG KONG Quattro giorni dopo l’annuncio della morte di Kim Jong Il e del passaggio dei poteri al figlio minore Kim Jong Un, mentre alcuni osservatori notano un rafforzarsi di presenze militari alla frontiera con il Sud, continua il periodo ufficiale di lutto nazionale in Corea del Nord. Il corpo del Caro Leader deceduto giace in una camera ardente al Mausoleo di Mumsusan, a Pyongyang, dove si trova anche il corpo imbalsamato del padre e fondatore della patria, Kim Il Sung. Si pensa, per quanto ancora non vi siano conferme, che alla fine del lutto nazionale di dieci giorni (fino al 29 dicembre) la salma verrà imbalsamata, innalzando a due il numero di Kim preservati per i posteri. Queste «sacre reliquie» sono il massimo punto focale del culto della famiglia Kim, vera religione di una nazione che, almeno in forma ufficiale, liquida invece come superstizione ogni tipo di confessione.
Come sempre quando si guarda alla Corea del Nord, le contraddizioni diventano evidenti: il nonsenso pare regnare sovrano fino alla comicità, l’assurdo è divertente proprio in quanto non plausibile, tanto da far pensare che di sicuro nemmeno i coreani del nord possano credere a una tale serie di dabbenaggini. Ma la propaganda, nei Paesi che ne fanno un tale uso, non è quasi mai «solo propaganda», come conferma l’impressionante dimostrazione di teatrale cordoglio a cui si assiste in questi giorni. Lavaggio del cervello? Lacrime versate per non mettersi nei guai? Paura di un futuro incerto, o sincero senso di perdita?
Nell’impossibilità di chiedere direttamente ai cittadini della Corea del Nord quello che rappresentano i loro singhiozzi, quanto sta avvenendo nel Paese può forse essere letto interpretandolo come parte di una religione: quella dell’Idea Juche, termine solitamente tradotto come «autarchia» ma che letteralmente significa «principio fondamentale», o «soggetto», e che è l’ideologia ufficiale (per quanto fumosa) della Corea del Nord. A questa si accompagna da alcuni anni il corollario del «socialismo del primato militare». L’idea Juche, sancita nella Costituzione nordcoreana come principio-guida, governa tutto: da come vanno piantati i cetrioli a come vanno condotte le trattative diplomatiche, eppure, resta del tutto vaga – consentendo di farle voler dire quello che, di volta in volta, è necessario al regime. Nella Costituzione, viene detta «una prospettiva mondiale che ha al proprio centro il popolo, un’ideologia rivoluzionaria per raggiungere l’indipendenza delle masse popolari». Man mano che ci si inoltra nelle descrizioni dell’Idea, si viene colpiti da un richiamo di sapore cristiano: infatti, Kim Il Sung (nato Kim Song Ju, ma che prese il nome di un noto guerrigliero scomparso) era figlio di Kim Hyong Jik, maestro, di profonda fede protestante, che educò il figlio all’interno della Chiesa riformata. L’idea Juche, vista in questo contesto, assume immediatamente altre caratteristiche: è un concetto mistico, prima ancora che politico, circondato dal mistero.
Ecco dunque che i tre ritratti che si possono vedere appesi ai muri di così tanti locali della Corea del Nord – Kim Il Sung, accompagnato da Kim Jong Suk, la prima moglie, e dal figlio Kim Jong Il, appaiono in questa luce come una strana Sacra Famiglia, unita non dallo Spirito Santo ma per l’appunto dall’Idea Juche. Ora che il Figlio è deceduto (ma solo in forma terrena: del resto il padre, Kim Il Sung, è stato dichiarato Presidente Eterno dopo la sua scomparsa, ed è indubbio che anche Kim Jong Il sarà insignito di una qualche forma di immortalità simbolica) e che i ritratti di Kim Jong Un si stanno già affiancando a quelli del padre e del nonno, l’ideologia fondamentale promette di estendersi ulteriormente.

La Stampa 22.12.11
La disciplina da robot che sedusse Fidel
di Yoani Sanchez


Castro fu accolto con canti sincronizzati che tentò di trapiantare a Cuba. Invano

Un uomo solo spazza le foglie secche di un ampio viale dove non si vede passare un’auto in nessuna direzione. Abbassa la testa ed evita di parlare con il fotografo. Forse si tratta di un individuo che è stato punito per non aver applaudito con sufficiente entusiasmo durante una riunione oppure non si è inchinato con deferenza teatrale davanti a qualche membro del Partito. La scena della spazzino che percorre una strada desolata si può vedere in un documentario sulla Corea del Nord diffuso dalle nostre reti alternative d'informazione. Una testimonianza dolorosa che mostra persone vestite in maniera identica, edifici di un anonimo colore grigio e innumerevoli statue del Leader E t e r n o . Un inferno in miniatura, che ci fa tirare un sospiro di sollievo - almeno in questo caso - per non essere nati sotto la dispotica dinastia dei Kim.
Quando nel marzo del 1986 Fidel Castro si recò a Pyongyang, fu ricevuto da quasi un milione di persone, tra cui migliaia di bambini che agitavano bandierine sincronizzate in modo sospetto. La televisione cubana insisteva a mostrare cori che cantavano come se fossero una sola voce, ballerine che non si distinguevano tra loro neppure per un capello fuori posto e ragazzini che suonavano il violino con sorprendente maestria e anomala simultaneità. Alcuni mesi dopo quel viaggio presidenziale, nei corsi artistici delle scuole primarie cubane si cercava di imitare una disciplina così robotica. Niente da fare. La bambina accanto a me lanciava la palla pochi secondi dopo che la mia era caduta sul pavimento e al termine di ogni presentazione alcune scarpette venivano abbandonate sul palcoscenico. Il Leader Massimo provò una cocente delusione per la caotica condotta del suo popolo, così diverso da quei nordcoreani che si inginocchiavano in maniera sincopata di fronte al segretario generale del Partito dei Lavoratori. Lunedì scorso, le immagini di migliaia di personeche piangevano per strada la morte di Kim Jongil mi ha fatto venire a mente quei bambini sincronizzati. Il nostro esperimento tropicale non è mai riuscito ad «addomesticarci» come loro, ma alcuni aspetti seguono il modello coreano. Pure a queste latitudini la genealogia è stata più determinante delle urne e l'eredità di sangue ha prodotto - in 53 anni - soltanto due presidenti, entrambi con lo stesso cognome. In Corea del Nord il delfino si chiama Kim Jong-un; forse tra breve a Cuba ci diranno che l’erede designato è Alejandro Castro Espín. Il solo pensiero mi fa trasalire, come già mi è accaduto una volta vedendo file di ragazzine che nella stessa frazione di secondo lanciavano in alto una palla.

La Stampa 22.12.11
Rizzo: “Quello è un Paese che resiste al capitalismo”
“Perché tanto putiferio per il mio telegramma?”
intervista di Riccardo Barenghi


Comunista Marco Rizzo è segretario del partito dei Comunisti Sinistra Popolare

Marco Rizzo, ex Pci, ex Rifondazione, fedelissimo di Armando Cossutta, ex vice di Oliviero Diliberto, oggi è il leader di un partito sconosciuto che si chiama Comunisti italiani-sinistra popolare. La notizia è che il suo gruppo, unico in Italia, ha inviato un telegramma di condoglianze al regime della Corea del Nord per la morte di Kim Jong Il.
Siete diventati comunisti coreani?
«Ma no, per carità».
Però il telegramma l’avete mandato.
«Vabbè, ma noi abbiamo rapporti con tutti i Paesi comunisti del mondo».
Quindi con molte dittature del mondo...
«Guardi che tre mesi fa una delegazione di parlamentari italiani, c’erano anche Dini e Tonini, durante un’assemblea dell’Onu ha incontrato il viceministro degli esteri nordcoreano e qualche giorno fa ha anche depositato in Parlamento la relazione su quell’incontro. Nessuno ha avuto niente da obiettare. Invece per un telegramma scoppia il putiferio».
Però voi vi chiamate comunisti italiani, che significa un’anomalia rispetto al mondo comunista. Cioè democrazia, elezioni e libertà. Cose che mancano in Corea.
«Perché l’attuale presidente del consiglio, ossia Mario Monti, è stato eletto da qualcuno? ».
Vuole dire che l’Italia è come la Corea?
«Voglio dire che ormai viviamo sotto un pensiero unico, per cui chiunque non si omologhi viene additato al pubblico ludibrio».
Ma la Corea per lei cos’è, un esempio da seguire?
«Io preferisco i rigatoni al sushi, nel senso che la mia cultura politica è italiana, europea. Ma la Corea, come Cuba, è uno dei pochi Paesi al mondo che resiste al modello dominante. All’imperialismo capitalista».
A caro prezzo però, il prezzo della libertà per il suo popolo.
«È un popolo che il suo prezzo lo sta pagando da sessant’anni, attaccato nel 1950 da 17 Paesi oltre agli americani e che dal 1954 vive sotto embargo. Totale: 4 milioni di morti».
Parlavamo della libertà, della democrazia...
«E allora le dico che è più libero un Paese in cui la gente ha diritto alla casa, alla scuola e alla sanità di un Paese costretto a votare per personaggi omogeneizzati dalla televisione».
Meglio una satrapia orientale pseudocomunista di una democrazia occidentale quindi?
«Guardi, comunisti si diventa e non ci si nasce. Ma in ogni caso io non posso certo andare dai coreani a dirgli cosa devono fare e come, io che insieme a tutti i comunisti italiani, capeggiati da Occhetto, mi sono suicidato nel 1989».

Repubblica 22.12.11
Kim Jong-un sotto tutela cinese
E accanto all’erede nordcoreano spunta una misteriosa "dama nera"
Un direttorio guiderà la Corea del Nord la Cina mette sotto tutela Kim Jong-un
di Giampaolo Visetti


Il Grande Successore sarà affiancato da generali e dirigenti del partito
Soluzione imposta da Pechino per rassicurare Usa e Corea del Sud. Sale l´allerta al confine

SEUL - Il "Grande Successore" è già un leader sotto tutela. Pyongyang continua a diffondere le immagini di una Corea del Nord disperata per la morte di Kim Jong-il, ma il regime si muove per evitare di essere rovesciato dalle forze armate, o da un popolo ridotto alla fame e a cui i militari stanno sottraendo il cibo. La «grande persona nata in cielo», come Kim Jong-un è stato ribattezzato, non assumerà dunque subito il comando della nazione.
Troppo giovane e troppo inesperto, per guidare da solo l´ottava potenza nucleare del pianeta. Pyongyang, dopo 61 anni, si avvia così a rinunciare ad un dittatore unico e si affida ad una inedita «Commissione del partito dei lavoratori». Il direttorio a termine e il "Grande Successore" subito commissariato sono la vittoria della Cina, che dal primo istante ha lavorato per evitare il collasso nordcoreano. Mentre la propaganda esaltava le doti del non ancora trentenne terzogenito del "Caro Leader", Pechino trattava con Pyongyang una soluzione capace di garantire la stabilità nella penisola coreana, rassicurare i mercati e tranquillizzare Russia, Giappone e Stati Uniti. Il giovane Kim Jong-un sarà ufficialmente capo assoluto, ma in quanto rappresentante di un comitato centrale famigliar-partitico-militare composto da parenti, alti dirigenti comunisti e generali fedeli.
Nessuno sa la data di scadenza del nuovo governo dinastico fondato sulle forze armate, ma fonti di Pyongyang assicurano che il potere effettivo è già stato assunto dalla sorella più giovane del capo defunto, Kim Kyong-Hui, e dal marito Jang Song-Thaek, 65 anni, depositario delle decisioni cruciali. Pechino, Mosca, Washington e Seul hanno concordato che affidare ad un ragazzo il più cruciale dossier atomico del pianeta, assieme al compito di resuscitare l´economia di un Paese fallito, avrebbe comportato un rischio fatale. Di qui il patto segreto con Pyongyang: salvare il regime interno in cambio della garanzia della sicurezza esterna.
Non è detto che il tentativo abbia successo, che i generali emarginati del Nord e i membri esclusi della famiglia Kim accettino di uscire di scena, ma i segnali rassicuranti si rafforzano. L´esercito ieri ha giurato fedeltà a Kim Jong-un e ha ubbidito ai suoi primi ordini, tra cui sospendere le esercitazioni invernali e rientrare nelle caserme. Tutto l´apparato del potere appare poi al fianco del «Grande e Rispettato Compagno» e la scenografia degli onori al leader defunto diventa ogni giorno più colossale. Agenzia e tivù di Stato affermano che nel primo giorno di camera ardente, oltre 5 milioni di cittadini della capitale, che ne conta la metà, hanno reso onore alla salma e che la coda per sfilare davanti alla bara di cristallo che la contiene supera le 800 mila persone. Esagerazioni ridicole che tradiscono timori, ma non solo. Gli attori costretti ad interpretare il ruolo degli afflitti indicano alla popolazione l´atteggiamento considerato corretto dalle autorità, in modo che i 24 milioni di nordcoreani, nel timore di essere controllati, possano imitarli.
Sessant´anni di culto della personalità e di lavaggio del cervello, tecniche nate a Pyongyang, rendono la messinscena falsa e vera allo stesso tempo, agevolando la successione di Kim Jong-un. Il giovane principe stalinista ieri è tornato nel mausoleo che ospita la camera ardente. Sulle note dell´Internazionale, vestito e truccato in modo da sembrare anziano e assomigliare il più possibile a suo nonno, con alle spalle una misteriosa donna in nero, ha pianto ancora davanti alle telecamere e ha confermato che anche il padre sarà imbalsamato. Dopo i funerali del 28 dicembre, Kim Jong-il diventerà una mummia, come quelle di Lenin, Mao Zedong e Ho Chi Minh, e resterà per sempre esposto nel palazzo Kumsusan a fianco della mummia di suo padre Kim Il-Sung, fondatore della repubblica di cui in aprile si celebrerà solennemente il centenario della nascita.
In Corea del Nord grande preoccupazione desta la scomparsa degli altri figli del leader deceduto: nessuno li ha più visti, la propaganda non ne parla e si temono le conseguenze di una lotta fratricida. All´estero inquieta invece la ripresa massiccia della contro-propaganda di esuli e dissidenti riparati in Corea del Sud. Ieri sono tornati sul confine lungo il 38º parallelo e a bordo di dieci mongolfiere hanno inviato verso il Nord 200 mila volantini che invitano il popolo nordcoreano a insorgere e a rovesciare la dittatura. Kim Jong-un, per confermare la sua fama di leader spietato e blandire l´esercito, potrebbe reagire esordendo al collaudo dei missili ereditati dal padre. E a Seul, da ieri sera, i livelli d´allerta sono aumentati.

La Stampa 22.12.11
Libero il blogger Navalny: “Boicottate Putin”
Arrestato per 15 giorni durante un corteo ora l’opposizione lo vuole al Cremlino
di Anna Zafesova


«Siamo entrati in galera in un Paese e ne siamo usciti in un altro». Il primo commento di Alexey Navalny, alle tre di una nevosa notte moscovita, fuori da un distretto della polizia nell’estrema periferia di Mosca, è tra l’incredulo e il trionfante. Nei 15 giorni in cui è rimasto dietro le sbarre, condannato per «resistenza» alla polizia dopo la prima manifestazione contro i brogli elettorali, in Russia sono riapparsi concetti e fenomeni dimenticati come l’opposizione, le manifestazioni di protesta, i detenuti politici che fanno scioperi della fame. Ed è apparso un eroe. Navalny, avvocato e blogger senza peli sulla lingua, è entrato in cella come un personaggio che godeva di popolarità su internet, e ne è uscito ieri come candidato alla presidenza, atteso da giornalisti e fan, e seguito in diretta web da migliaia di persone. Lui non vuole parlarne: «Quelle del 4 marzo non saranno elezioni, ma una manipolazione organizzata da truffatori e ladri», e parteciparvi «è inutile». Quindi la strategia diventa «votare contro Putin» e «mobilitare la rabbia della gente» per ottenere infine elezioni libere. Alle quali «parteciperanno tante persone, forse anch’io».
In diversi l’hanno già proposto, non solo su internet dove il numero dei suoi seguaci su twitter è aumentato da 6 mila a 160 mila in due settimane, non solo in piazza dove il 10 dicembre era il grande assente e il 24 sarà l’idolo della folla, ma anche negli ambienti politici. Sabato scorso un gruppo di dissidenti di Yabloko ha proposto di candidare alla presidenza il blogger inventore del tormentone «il partito dei truffatori e dei ladri» per Russia Unita, al posto dello storico leader Yavlinsky. Biondo, occhi chiari, mento deciso, una faccia che più da russo non si può, l’irriverente blogger anti-casta è visto da molti come il candidato unico antiPutin. Anche perché non viene dagli ambienti liberali, con i quali era in rapporti tesi: è stato espulso da Yabloko per nazionalismo, e le sue filippiche contro gli immigrati danno fastidio a molti. Lui ieri è stato ironico: «Ho giocato a backgammon con i compagni di cella uzbeki».
I 15 giorni di arresto di Navalny e altri manifestanti si sono trasformati in una nuova occasione di protesta, dentro e fuori dal carcere, con decine di persone, dagli oligarchi ai pensionati, che inviavano ai nuovi dissidenti cibo e vestiti. Gli ex detenuti dicono di non essere stati picchiati, ma di aver dovuto subire piccoli e grandi dispetti dagli agenti. Fino al momento della liberazione: per evitare l’uscita dal carcere sotto gli occhi delle telecamere, gli oppositori sono stati trasportati con l’inganno - «Mi hanno tappato la bocca e due poliziotti mi si sono seduti sopra», ha raccontato Ilya Yashin, uno dei leader della protesta - in distretti di polizia periferici, dove gli agenti li hanno minacciati e accusati di essere «al soldo degli Usa».
Ma intanto il Consiglio per i diritti umani presso il Cremlino prepara una «durissima» dichiarazione sui brogli elettorali, dopo aver fatto esplodere ieri un’altra bomba: un rapporto, firmato da autorevoli esperti russi e internazionali, che dichiara «errato» il secondo processo a Mikhail Khodorkovsky. Forse Navalny ha ragione, qualcosa è cambiato.

La Stampa 22.12.11
Don Black, il suprematista che ispira i neonazi italiani
Usa, il fondatore di Stormfront ha una passione per il Belpaese “Vi ammiriamo perché non vi fate sottomettere dagli immigrati”
di Maurizio Molinari


L’Italia nel mirino I gruppi neonazisti americani guardano con ammirazione ai loro simpatizzanti italiani, che nei giorni scorsi hanno pubblicato una «lista nera» di politici e giudici che «proteggono gli immigrati»
133.000 utenti. Picco di adesioni sul sito Stormfront nel dicembre 2008 dopo l’elezione di Barack Obama

EX LEADER DEL KU KLUX KLAN Ha studiato il mondo della Rete in cella, poi con il figlio Derek ha creato il sito web razzista
IL SUPERMARKET DELL’ODIO Palestra di idee estremiste ma anche punto d’incontro per single purché «bianchi»

Supermercato dell’odio e pensatoio per la conquista del governo federale ma anche palestra di idee suprematiste, megastore di cimeli hitleriani e punto di incontro per single, a patto che siano bianchi e gentili: Stormfront non è solo il sito Internet più importante dei gruppi neonazisti americani ma il punto di incontro per chiunque voglia partecipare all’edificazione di un’«America bianca» capace di liberarsi di ebrei, neri, ispanici e gay.
Tali caratteristiche nascono dalle idee e dal lavoro di Don Black, l’ex leader del Ku Klux Klan che negli Anni Settanta aderisce al Partito popolare nazionalsocialista bianco americano per poi dedicarsi nel 1981 al fallito colpo di Stato nella Repubblica Dominicana.
Anziché diventare l’uomo forte di Santo Domingo finisce in una cella federale dove, per tre anni, studia i computer convincendosi che lo aiuteranno a perseguire l’avvento del suprematismo in America. È questa la genesi di una conoscenza hi-tech che lo porta a creare Stormfront nel marzo 1995, appena un mese prima della strage di Oklahoma City, scegliendo come simbolo la croce celtica e come nome «Fronte della tempesta» per trasmettere l’intenzione di «fare pulizia» di tutto ciò che inquina la società americana.
A fianco Don Black ha il figlio Derek, oggi suo braccio destro, e la casa di West Palm Beach diventa il quartier generale dove il sito cresce a vista d’occhio: gli utenti unici nel gennaio 2002 sono 5 mila, nel giugno 2005 superano i 52 mila e, sulla scia del disgusto per l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, nel dicembre 2008 arrivano a 133 mila con la conseguente necessità di reclutare 40 moderatori per gestire i forum nei quali si discute di conflitti razziali, progetti di scalata delle istituzioni, nostalgie naziste e armi da fuoco.
L’odio contro gli ebrei, i neri, gli immigrati e i gay è il tema dominante e porta l’Anti defamation league (Adl, Lega Antidiffamazione) a coniare la definizione di «Supermarket dell’odio» per Stormfront, mentre il «Southern Powerty Law Center» dell’Alabama, che studia i gruppi suprematisti, svela l’esistenza di un forum nel quale Don Black spinge i seguaci ad arruolarsi nelle forze armate per ottenere l’addestramento necessario a vincere la «guerra della razza», grazie alla quale sarà possibile far tornare l’America «solo bianca».
I forum sono la forza di Stormfront perché aggregano seguaci, simpatizzanti e curiosi a migliaia, anche dall’estero. D’altra parte il motto scelto da Don Black è «White Pride Worldwide», orgoglio bianco in tutto il mondo, a conferma di voler portare il verbo suprematista ovunque possibile, Italia inclusa.
A svelare l’attenzione per il nostro Paese è lo stesso Don Black che nel 2008, in un’intervista dell’allora corrispondente di «Repubblica» Mario Calabresi, disse, anche a nome del figlio: «Ci piace l’Italia, c’è molta eccitazione sul nostro sito per quello che sta succedendo da voi, siete i primi a reagire, a dimostrare che non vi fate sottomettere dagli immigrati, anche David Duke la pensa così, tanto che passa la maggior parte del suo tempo nel Nord Italia e nel 2007 eravamo tutti a sciare sulle Dolomiti».
Duke è il volto di maggior spicco del Ku Klux Klan negli Stati Uniti. Nel 1990 diventò deputato della Louisiana con una campagna che vide debuttare la testata «Stormfront» per il suo bollettino. Il legame fra lui e Don Black si sviluppa attorno al sito perché i forum consentono di aggregare un popolo suprematista che non discute solo di ideologia ma gareggia nell’acquistare i prodotti neonazisti più in voga o si incontra nei forum dedicati a single, uomini e donne, in cerca dell’anima gemella, a patto che sia ariana.
Forse anche per questo Don Black definisce Stormfront «il Ku Klux Klan del XXI secolo», pur affrettandosi a precisare che «a un giornalista americano non lo direi mai». La prudenza si spiega con quanto un recente studio del «Southern Poverty Law Center» ha appurato: Black chiede ai seguaci di «non scrivere ingiurie razziali»" sul web perché non vuole guai con la giustizia, al fine di poter continuare a crescere.
"40 moderatori per le discussioni"

Corriere della Sera 22.12.11
La poesia dev'essere, non significare
Nel secolo scorso irrompe Freud con la psicoanalisi che incrocia i versi nella pura energia dell'inconscio
di Franco Manzoni


Nel corso del Novecento l'ars poetica spesso ha rappresentato una tra le rare incontaminate risposte alle tragedie della storia. Un'ancora di salvezza dinanzi agli istinti più bestiali dell'essere umano. Un rifugio irrazionale di bellezza che si oppone alla crisi delle diverse società concepite con ridicola volontà di eternarsi. Innumerevoli guerre, per tacere di quelle mondiali, nel secolo scorso hanno dilaniato la terra e continuano sino ai nostri giorni. Tuttavia in ogni epoca la poesia si offre come un nettare, la medicina salvifica, concede ai lettori o al pubblico, che ascolta, di recuperare il senso delle cose, di riappropriarsi della memoria, di avere un ruolo nella dimensione cosmica. Inoltre dona un senso profondo di darsi pace pure in chi vive l'esilio, come Dante che, percepito il calo delle vendite dei suoi manoscritti, per sopravvivere si trasformò in uno showman di richiestissime performance.
A differenza di ogni altro periodo storico, il Novecento è stato il secolo della psicoanalisi. Vi è un indubbio legame inscindibile fra la nuova scienza di Freud e di Jung e l'interpretazione dei versi. Innanzitutto la poesia non deve significare, ma essere. È un atto di nascita, di positiva affermazione esorcizzante. Tutto ciò conduce al rifiuto del terrore per la fine ineluttabile, nel vacuo tentativo dell'allontanamento del fenomeno «morte». Per assurdo — ma non lo è se si ricorda il dadaismo, il movimento spazialista di Fontana e la provocazione di un'intera pagina bianca intesa quale scrittura artistica — la poesia potrebbe anche presentarsi senza parole come il viaggio di un branco di delfini col naso a bottiglia o il volo senza requie degli uccelli migratori.
Aldilà dell'etica e della ragione, non rimane che ideare inconsciamente una via di stabilità, vale a dire il recupero della parola come evento spiazzante, eversivo, dissacrante contro il male, la riduzione in schiavitù più o meno palese e conscia, gli inganni del destino, che Vico delineò bene nell'eterogenesi dei fini, nella ciclica provvidenza della storia e nella poetica mitica dei fanciulli, sublimi autori di versi per natura. Un torrente in piena per l'ispirazione di Pascoli. Arte e psicoanalisi s'incrociano là dove non esiste ancora la distinzione tra reale e fantastico, semmai pura energia dell'inconscio. A questa fonte attinge il poeta, al proprio inconscio e a quello collettivo, per creare e giungere a far risuonare dentro di sé la parola primigenia, affinché, per via emozionale, questo processo possa in seguito ripetersi nel lettore o nell'ascoltatore. Di conseguenza la poesia può diventare inconscio, capace di dire solo l'indicibile.
Così, seguendo il senso linguistico della metamorfosi, Alcmane, autore greco vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C., ammette di aver scritto versi «imitando con parole / quello che aveva inteso / dal canto delle pernici». Immagine straordinaria, che rimanda a un certo frammentarismo tipico della prima metà del Novecento. Brandelli senza resti, interruzione, rottura in mille pezzi della realtà, che non arresta lo scorrere del tempo, lo parcellizza incrinandolo in rivoli di sillabe e di emozioni. La consistenza della condizione «lontananza» o «assenza» da un reale desiderato, descritto, spesso rifiutato e temuto, oltre a liberare valenze analogiche, ha effetti incredibili sull'attitudine poetica, sullo stile del dettato. Produce la «distanza» psicologica, che si traduce in continua attenzione a carpire i messaggi rispondenti a uno stadio travagliato di serena veglia interiore, percettiva e commossa, non turbata o intorpidita. Nel Der Sänger di Goethe il vecchio cantore itinerante rivendica l'esigenza interiore di essere libero nel dedicarsi interamente al proprio canto, perché è conscio di una sua purezza interiore.
Poesia, quindi, significa libertà ed etica. È questo il messaggio tramandato a noi dai primi aedi. Anche nella Ninetta del Verzee di Carlo Porta i valori morali possono prendere voce, diventare personaggi, parlando con i tratti di una creatura autentica che, nell'abbandono della confidenza, racconta una storia di umiliazioni, offese, soprusi. Ecco che la poesia ha la grande possibilità di rimuovere inutili attese, lasciando intravedere un liquido che ci intride tutti, aldilà della volontà di ognuno. Ciò che congiunge inavvertitamente apparenti distanze è il poeta, un «uomo collettivo», portatore e rappresentante della vita psichica inconscia dell'umanità. Lo sforzo sta nell'educazione ad accogliere le tracce trasmesse dalle sensazioni che uniscono e dividono. L'emozione linguistica può essere rappresentata come una carezza che si insinua impercettibilmente a svegliare il nucleo profondo della nostra interiorità. Diventa perciò tensione vibrante, sospesa, pronta a sfogarsi: un punto d'abbrivio per la bramosia. Se il fine del desiderio risulta irraggiungibile nell'immediato, in ogni caso è la condizione più feconda, atta a mantenere integra la ricchezza dell'energia poetica emotiva. Non si deve aver paura di soffrire o di assistere al dolore altrui, né che l'emozione salga, percuota le tempie, lieviti il trasalimento fino al visionario.
Nasce qui la poetica della «lontananza», dell'«annullamento mitico di sé», come in Remo Pagnanelli o nel cubano Ángel Escobar, giungendo alla scoperta che i versi solamente esistono, non tanto l'autore, vibrano, si riproducono istintivamente, senza alcuna progettazione. Non a caso, dando fragore alla forza dell'inconscio collettivo junghiano e alla necessità del poeta di comunicare a un pubblico reale, René Char scrisse: «In poesia, non si abita che il luogo che si lascia, non si crea che l'opera da cui ci si distacca, non si ottiene la durata che distruggendo il tempo. Ma tutto ciò che si ottiene con rottura, distacco e negazione, non lo si ottiene che per gli altri. La prigione si richiude subito sull'evaso. Il liberatore è libero solo negli altri. Il poeta gioisce solo della libertà degli altri». Un processo artistico che accadde già ai tempi di Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Tasso, Lope de Vega, Goethe, Hölderlin, Leopardi, Baudelaire. Scrivevano per sé e non solo. Allo stesso modo succede per gli autori italiani del Novecento quali Sbarbaro, Campana, Rebora, che dai critici all'inizio vennero sottostimati con differenti motivazioni. Oppure Montale, Pavese, Pasolini, Caproni, Luzi, Alda Merini. Mentre ora la produzione poetica sta cercando quell'equilibrio che possa concorrere a ricomporre l'esperienza personale e quella sociale nella non facile condizione storica in cui ci troviamo a vivere.

Inediti di Kavafis, nuova traduzione di García Lorca
Nuove traduzioni, testi inediti e scelte antologiche nuove per molti autori, e per tutti curatele e introduzioni d'autore: è un nuovo sguardo sul panorama poetico novecentesco, la collana «Un secolo di poesia» del «Corriere della Sera», curata da Nicola Crocetti, che sarà in edicola da martedì 27 dicembre (prima uscita 1 euro più il prezzo del quotidiano, le successive 7,90 più il quotidiano) con 30 volumi monografici dedicati ad altrettanti giganti della poesia. Nuovo sguardo, quello offerto da Pietro Marchesani sulla poetessa polacca Wislawa Szymborska nel primo volume della collana, con la selezione dei testi di Elogio dei sogni che il grande polonista recentemente scomparso ha scelto per quest'edizione e ha accompagnato a una nuova introduzione. E ancora inediti tradotti per la prima volta, come nel secondo volume, dedicato al poeta greco Costantino Kavafis, che uscirà il 3 gennaio nel volume curato e introdotto dal grecista Filippomaria Pontani, che nell'antologia (intitolata La memoria e la passione) cura anche le traduzioni di alcuni testi mai apparsi in precedenza. Proprio per quanto riguarda le traduzioni, va segnalato ad esempio che sono tradotte ex novo da Valerio Nardoni le poesie di Federico García Lorca per l'antologia Nuda canta la notte, che sarà in edicola il 7 febbraio; o che per il tredicesimo volume, dedicato a T. S. Eliot, i testi antologizzati sono stati integralmente ritradotti da Massimo Bacigalupo, così come accade per quasi tutti i testi di Seamus Heaney, nel 23° volume, ritradotti da Franco Buffoni. I testi introduttivi, infine, sono nuovi e pensati appositamente per la collana del «Corriere», con firme prestigiose del quotidiano, poeti, scrittori e studiosi, da Ranieri Polese per Pablo Neruda (in edicola dal 10 gennaio) a Vivian Lamarque per Alda Merini (in edicola il 31 gennaio), a Cesare Segre per Pier Paolo Pasolini (in edicola dal 14 febbraio). (Ida Bozzi)

Repubblica 22.12.11
Un pensiero contro
Rovatti: “Sulle pagine di Aut Aut combattiamo dogmi e ideologie”
intervista di Antonio Gnoli


Il filosofo ricorda la storia della rivista da lui diretta fondata da Enzo Paci nel 1951. Mentre esce un´antologia con i migliori saggi pubblicati
"Il nome alludeva a Kierkegaard, ma anche all´esigenza culturale di una presa di posizione"
"Contribuì a preparare il ´68 ma finì per criticare il movimento degli studenti"

È una delle riviste più belle in circolazione. A dire il vero lo è da sessant´anni. Cioè da quando Enzo Paci la fondò nel 1951. Sobria, internazionale, al passo con l´evoluzione dei tempi, aut aut è l´espressione di una filosofia militante attenta alle questioni del soggetto (vedremo in che senso) e dei rapporti con l´altro. Un´antologia di suoi scritti, curata da Pier Aldo Rovatti che ne è il direttore dal 1976, è uscita ora con il titolo Il coraggio della filosofia (il Saggiatore, pagg. 533, euro 25).
Rovatti, perché fu scelto Aut Aut come titolo?
«La testata alludeva a una famosa opera di Kierkegaard, ma il suo significato indicava l´esigenza culturale di una netta presa di posizione. Siamo di fronte a un bivio – diceva Enzo Paci nel primo editoriale – o la strada della barbarie o quella della civiltà. Barbarie per lui era il pensiero dogmatico e tutte le idee di tipo assolutistico del passato e del presente. Formulò un no deciso alle forme di violenza che si riproducono attraverso i pregiudizi. Era il 1951. Sebbene la guerra e il fascismo fossero alle spalle, la cultura continuava ad essere un deserto. Un giovane professore universitario, che aveva coniugato Platone con l´esistenzialismo, e di lì a poco avrebbe scoperto la fenomenologia, ideò e fece nascere aut aut».
Lei è stato allievo di Paci. Che persona è stata?
«Paci ha scritto degli ottimi libri. Era un uomo formidabile per cultura, spirito critico e originalità di idee. Le sue lezioni alla Statale di Milano erano per tutti un´esperienza di vita. Aveva un grande fascino. Io lo subii al punto che lasciai il corso di lettere e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che un sabato del 1961 feci con Salvatore Veca un´esercitazione in aula su "Fenomenologia e teatro". Il testo piacque a Paci che ci chiese se volevamo pubblicarlo sulla rivista».
Non ha l´impressione che, aldilà dei meriti, della scuola fenomenologica – del tentativo di Paci di coniugare Marx con Husserl – resti ben poco?
«Marx con Husserl significava rivitalizzare il materialismo storico, salvando il marxismo critico dalla barbarie. La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava è rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi».
Dopo gli anni della fenomenologia giunse il Sessantotto e aut aut è stato un buon termometro del dibattito allora in corso. Non ritiene però che il ruolo della rivista poteva essere più critico verso il movimento?
«La rivista aveva contribuito a preparare il ´68 ma non si identificò mai con il movimento degli studenti, anzi ne criticò i dogmatismi suggerendo un orizzonte filosofico molto più ampio».
Due figure di quel "decennio rosso" furono Raniero Panzieri e Franco Fortini. Il confronto con loro vi ha svincolato dal condizionamento del Pci. Ma restava il rischio di essere riassorbiti in un´idea di "soggettività rivoluzionaria" che si è mostrata velleitaria e impraticabile.
«Il decennio al quale allude è stato forse il momento più dinamico della rivista: la questione dei bisogni ne rappresentò il filo rosso, il collettore e insieme la provocazione filosofica. Le idee di alcuni allievi di Lukács (Agnes Heller in primo luogo) e le loro critiche al "socialismo realizzato" costituirono un elemento importante di questo filo. Non a caso attorno alla rivista si aggregarono intellettuali di spicco, talora assai dissimili, da Cacciari a Fortini. Eravamo una palestra di posizioni anche conflittuali. E non mi pare che in quegli anni caldi la rivista abbia mai rinunciato alla sua ispirazione critica».
Gli anni Ottanta hanno significato un rapporto privilegiato con Foucault. Lo stesso che, negli anni Novanta, si mostrerà con Derrida. Non c´è stato un eccesso di francesizzazione della rivista?
«Troppa Francia? Non so. Tra l´altro c´è da aggiungere l´interesse per Lacan che continua tuttora. Prima sembrava tutto girare attorno alla fenomenologia, che parlava tedesco, la stessa lingua di Heidegger, al quale abbiamo dedicato successivamente moltissima attenzione. Ma non credo che la geofilosofia sia un sintomo significativo. Foucault entra nelle pagine di aut aut alla fine degli anni Settanta quando il problema centrale diventa per noi quello del potere e della natura dei dispositivi in cui viviamo».
Insieme a Vattimo lei è stato fautore in Italia di un "pensiero debole". Ritiene che questo modo di interpretare il mondo sia ancora valido? O non crede che quell´esperienza si sia consumata dopo il nuovo richiamo alla realtà e ai fatti che la determinano?
«Qui vorrei essere molto netto: il pensiero debole era inattuale nel 1983, quando uscì allo scoperto, e resta inattuale oggi, quando si vorrebbe celebrarne il funerale. Il pensiero debole non è morto semplicemente perché non si è mai permesso che vivesse davvero. Quanto ad aut aut, l´indebolimento delle pretese assolutistiche della filosofia e la critica agli usi "violenti" della verità si intonavano perfettamente con i motivi per cui la rivista era nata, cioè la denuncia di ogni barbarie del pensiero, insomma di tutte le ideologie. E si accordava altrettanto bene con la microfisica del potere e la critica al "Soggetto filosofico" che attraversano l´intero pensiero di Foucault».
I temi dell´alterità e dell´ospitalità sono le coordinate dell´ultima fase della rivista. Non c´è il rischio di un eccessivo buonismo filosofico?
«Non direi proprio che aut aut possa essere accusata di buonismo filosofico. Al contrario, è una rivista che tende a produrre fastidi e lanciare provocazioni. Alterità ha per noi significato apertura ad altri mondi culturali, ma soprattutto bisogno di stanare e descrivere le insidiose e diffuse retoriche dell´alterità che vengono spacciate per supplementi d´anima. Quanto all´ospitalità non ha niente di dolce, non è un cibo per anime belle. Come l´abbiamo intesa noi, sulla scorta di Derrida, vuol dire essere stranieri, appunto ospiti in casa propria».
Chi vi critica sostiene che la rivista sia eccessivamente filosofica. Troppo elitaria.
«È un´obiezione che condivido e che implica anche un aspetto di scrittura. Le molte proposte spontanee che arrivano in redazione sono spesso scritte in filosofese, che la dice lunga sull´idea astratta di filosofia che circola e su come l´università formi studiosi magari bravi ma spesso incapaci di comunicare».
Siamo usciti, forse, da un regime politico ma non da una crisi che ha tratti epocali. Come si posiziona aut aut di fronte alle nuove incertezze, paure e precarietà che stiamo vivendo?
«Credo che l´Italia sia ancora immersa nella cultura-spettacolo e nei suoi tratti, diciamo pure, populistici. Sottovalutare questo aspetto della barbarie sarebbe un errore. Quanto alla precarietà sociale sarebbe sbagliato attribuire alla filosofia, concreta o no che sia, il compito di prefigurare soluzioni teoriche ed etiche. Non è affar suo. La filosofia non deve venir meno al suo ruolo di descrizione e di critica. Il suo compito è individuare linee di resistenza continuando nel contempo lo smascheramento delle retoriche vecchie e nuove, visibili o striscianti. Chiamerei tutto ciò lavoro di "etica minima"».
Cosa significa?
«Un lavoro tutt´altro che di superficie, visto che mette in gioco la domanda più cruciale: che ne è oggi, nella società neoliberale realizzata, della soggettività? Assistiamo a una sorta di falsa pienezza del soggetto che illusoriamente pensa di essere un individuo libero, autonomo e padrone di sé. Quando in realtà tutto va nella direzione opposta. Il soggetto egoistico non è più una storia narrabile. Meglio ripartire dalla sua finitezza e precarietà».

Repubblica 22.12.11
Un gruppo fondamentalista cristiano siberiano presenta un esposto contro la distribuzione della Bhagavad Gita "È stampa pericolosa, incita alla guerra". Ma l´India si ribella e minaccia: bloccheremo gli affari con la Russia
Il libro sacro degli induisti che fa litigare Delhi e Mosca
Sarà un tribunale a decidere sull’uscita del testo della grande epica del Mahabharata
di Raimondo Bultrini


BANGKOK Se Mahatma Gandhi fosse ancora vivo, sarebbe il più sorpreso tra tutti. La sacra Bhagavad Gita, il libro che fu guida e ispirazione della sua vita dedicata alla non violenza, rischia di essere bandito in Russia come "letteratura estremista".
La sentenza sarà emessa, tranne rinvii, il 28 di questo mese da una Corte della remota città siberiana di Tomsk, dove un gruppo integralista cristiano ha presentato una denuncia con migliaia di firme per chiedere il divieto su tutto il territorio russo della traduzione e distribuzione del testo principe dell´Induismo. La loro accusa riecheggia quelle degli stessi indù contro il Corano: «Esalta la guerra» e provoca «discordia sociale», hanno scritto i querelanti. Ma è la prima volta che viene portato a giudizio il testo fondamentale della grande epica del Mahabharata, un trattato sulla vita e la morte attribuito al potente dio Krishna. Conosciuta da un miliardo di indiani, la Gita viene perfino distribuita gratis nelle carceri e nelle scuole, oltre a essere recitata ormai in tutto il mondo, come ha fatto pochi giorni fa l´artista Philip Glass al Met del Lincon Centre di New York a beneficio degli "Occupy Wall Street".
Per stabilire se davvero la Gita incita alla violenza, la Corte di Tomsk ha già affidato perizie e valutazioni "tecniche" alla facoltà di Studi orientali della locale università. «Gente incompetente»", hanno tagliato corto gli studiosi indiani, «come possono giudicare la parola del nostro Dio?».
Anche le reazioni politiche e sociali in India all´annuncio del processo sono state immediate e al livello più alto, con un rinvio straordinario della seduta del Parlamento nazionale per chiedere al governo una protesta ufficiale contro la Russia. Lo stesso primo ministro di Delhi si è impegnato a intervenire per interrompere il processo e far annullare la data della sentenza, mentre il ministero degli Esteri inviava una nota di censura a Mosca. «Ma c´è poco che possiamo fare - hanno spiegato i portavoce indiani - perché a decidere non è il governo russo, bensì una Corte siberiana».
La controversia ruota attorno ai consigli che Krishna, emanazione infallibile dell´Olimpo vedico, elargisce al suo discepolo e provetto arciere Arjuna, figlio del re degli dèi e destinato a battersi per ripristinare il Regno del Bene contro gli infidi cugini che lo usurpano. Il dialogo, altamente filosofico e mistico, avviene sul campo di battaglia dove Arjuna l´"infallibile", viene convinto da Krishna a non farsi irretire dal timore di dover uccidere gente del suo stesso sangue per portare a termine la sua missione di giustizia. Mentre lo guida sul carro in battaglia, il dio gli parla del coraggio, dei doveri di un guerriero, della natura umana e di quella degli dèi. «È la guerra come metafora della nostra lotta interiore per realizzarci», spiegano gli studiosi, che citano i nomi di parecchi occidentali celebri ispirati dal libro, da Einstein a Oppenheimer, da Carl Jung a Herman Hesse.
Ma per i membri della chiesa ortodossa che ha presentato la denuncia, le parole sono pietre e c´è un tono eccessivamente guerrafondaio nel testo tradotto e commentato dal leader della più grande fondazione dei devoti di Krishna, la Iskon. Non così la pensa Philip Glass, che al Met di New York ha recitato proprio quei brani della Gita dove Krishna spiega ad Arjuna il compito di un dio: «Quando la giustizia si estingue e le regole del male governano il Paese, noi veniamo a esistere, epoca dopo epoca, e prendiamo forma visibile, e ci muoviamo, un uomo tra gli uomini, per la tutela del bene, ricacciare indietro il male e rimettere la virtù al suo posto».
È il principio della "Guerra giusta", la Dharma Yudda, una Jihad in versione Hindu conosciuta da un miliardo di indiani fin dall´infanzia sotto forma di fiaba. Per anni il Mahabharata è andato in onda in tv con centinaia di puntate che hanno tenuto il Paese incollato allo schermo. Per questo il processo siberiano non mancherà di essere seguito attentamente sia dai milioni di indiani residenti in Russia che da quelli di casa. «Non sarà tollerato nessun insulto a Krishna», ha tuonato il celebre politico Lalu Prasad Yadav, che porta il nome di famiglia del dio ed è stato per anni ministro del Congresso. Diversi gruppi ultraortodossi hanno annunciato cortei davanti alle sedi consolari e perfino un boicottaggio dell´import-export con Mosca.

l’Unità 22.12.11
Brigantesse guerriere per forza
Spesso sono in fuga da mariti violenti o scelgono di unirsi alla banda dei briganti dopo essere state rapite o stuprate. Una pagina di storia ancora tutta da scoprire... Ce ne parla Enzo Ciconte in un libro che vi anticipiamo
di Enzo Ciconre


Tra i briganti ci sono le donne, intraprendenti, affascinanti, coraggiose, spericolate. Non drude, come spregiativamente sono descritte nelle carte dell’epoca, ma brigantesse.
Seguono i loro uomini, ne condividono o ne subiscono le scelte dopo un rapimento o uno stupro e combattono al loro fianco, alcune lasciandoci la vita. Sono tante, e negli ultimi tempi la loro storia comincia ad essere raccontata.
Le storie delle donne narrano il volto vivo di un Mezzogiorno dove ci sono miseria, desolazione e devastazione negli stili di vita e nell’immaginario di queste popolazioni che tra l’altro hanno abitudini e culture diverse da quelle degli uomini venuti dal Nord.
Per quanto incredibile possa sembrare molte di loro, dopo l’esperienza con i briganti e dopo espiata la condanna, si rifanno una vita e una regolare famiglia con tanto di matrimonio. È il caso di Lucia Pagano, meglio nota come Maria Lucia Dinella di Avigliano, rapita dal fratello di Ninco Nanco e aggregato alla banda.
VITTIME DEI BANDITI
È il caso di Maria Rosa Marinelli di Marsicovetere, costretta a seguire Angelantonio Masini, e Filomena Cianciarulo, rapita dalla banda Masini che si sposano subito dopo essere uscite dal carcere.
Reginalda Rosa Cariella, Reginella, è un’altra vittima della banda Masini. A lei il tribunale militare di Potenza concede l’assoluzione perché convinto che i fatti addebitati alla brigantessa siano stati commessi in stato di costrizione.
Filomena Di Marco Pennacchio, è di Casalvecchio di Puglia e non ha ancora 17 anni quando uccide il marito violento. Rifugiatasi in un bosco per non finire arrestata incontra Giuseppe Caruso e se ne innamora. È una donna intraprendente e molto libera per i suoi tempi. È l’amante di Crocco, di Giuseppe Schiavone e Ninco Nanco. Spietata e sanguinaria da brigante, si trasforma appena arrestata; si pente e denuncia i suoi vecchi compagni d’avventura. Maria Oliverio Ciccilla, è di Casole Bruzio poco distante da Macchia di Spezzano Piccolo dove è nato Pietro Monaco. I due, secondo il racconto che ne fa Peppino Curcio, si conoscono sin da ragazzi e si sposano molto giovani. Pietro fa il soldato, prima con i Borbone, poi si arruola con Garibaldi e infine viene chiamato a fare il militare dal nuovo Regno d’Italia. È davvero troppo. A questo punto diserta e va per i monti dove si unisce alla banda di Domenico Straface Palma.
Il famigerato Fumel tenta in tutti i modi di premere su Maria perché faccia costituire il marito, ma questi rimane dov’è. I due si ricongiungono dopo che lei ha ucciso la sorella che s’è invaghita del marito. Rimarranno insieme fino alla morte di Monaco, ucciso da due traditori.
La morte è già una tragedia, ma adesso per Ciccilla comincia l’orrore perché ordina di tagliare la testa del marito in modo che non cada in mano dei soldati o dei traditori e non possano portarla in trionfo per le vie del paese, e la sotterra lei stessa in un luogo segreto.
Poco dopo si costituisce. Viene condannata a morte, ma la sua condanna fu communtata nei lavori forzati a vita. La sua fine è leggendaria. C’è chi la vuole rinchiusa a Fenestrelle, chi morta a 35 anni.
IL DISONORE O LA MACCHIA
Nessuna di loro nasce brigantessa. Alcune scappano da mariti violenti; altre sono rapite e stuprate, e decidono di rimanere nella banda per non dover vivere da disonorate in paese, emarginate da tutti; altre ancora raggiungono i loro innamorati che nel frattempo sono diventati briganti. Ci sono quelle che diventano vittime perché parenti di briganti e, perseguitate, scelgono di fare le brigantesse. Altre, e sono tante secondo l’elenco che ne fa Valentino Romano, sono accusate di manutengulismo.
Clotilde De Filippo, che ha studiato le brigantesse sannite, ha potuto notare come in provincia di Benevento il brigantaggio offra alle donne la «possibilità di riscrivere la propria vita, passando da una situazione di passività e subalternità» a una «situazione di attivismo e protagonismo in quanto vere e proprie guerriere».
Le brigantesse vivono, oggi, in numerose fotografie scattate dopo la loro cattura o la loro morte, queste ultime in orrende e oscene pose. Sono i comandanti militari a voler fotografare i briganti, uomini e donne, per pubblicare le foto sui giornali e pubblicizzare i progressi della repressione. Le donne hanno un posto di rilievo, sono fotografate ed esibite. «Sembrano amazzoni pronte al combattimento ha osservato Simona de Luna e sono invece contadine sconfitte».

Repubblica 22.12.11
Un libro di Brands dedicato al periodo tra il 1865 e il 1900
Quando l’America scoprì il capitalismo
di Lucio Villari


La prima parte descrive i grandi magnati con il loro contorno di banche politica, giornali

Tra pochi anni anche gli Stati Uniti ricorderanno i 150 anni della loro "rifondazione". Il 19 aprile 1865 con la capitolazione in Virginia del generale sudista Robert Lee il nord industriale vinse la guerra, confermando in modo definitivo il valore dell´unità della nazione contro la secessione degli Stati del Sud e avviando una svolta politica e sociale della sua identità. Solo che quella svolta e quella unificazione statuale hanno coinciso con una improvvisa, accelerata mutazione dell´economia americana.
Dal 1865 in poi gli Stati Uniti hanno raggiunto primati di sviluppo produttivo, tecnologico, scientifico, hanno trasformato il loro destino quasi esclusivamente agricolo in un mondo governato dall´alta finanza, dalle industrie meccaniche, dal petrolio, dalle ferrovie, dall´avventura della conquista del Sud e del West (col genocidio degli indiani), dalle prodezze della speculazione edilizia. Contemporaneamente hanno messo in discussione o in crisi molti statuti della democrazia, cioè quel connotato particolare che, come aveva visto Tocqueville trenta anni prima, distingueva gli Stati Uniti dai sistemi politici della vecchia Europa. Seguire però con attenzione analitica e critica il dipanarsi di questo filo non è stato facile per la storiografia americana che nel secolo scorso ha visto schierati su fronti diversi coloro che dissentivano dai guasti provocati dal capitalismo ruggente e coloro che ne esaltavano le magnifiche sorti.
Tra i primi vi è certamente H. W. Brands, dell´Università del Texas, premio Pulitzer, che in questi mesi di crisi ha pensato di rileggere, anche con ironia, le ragioni più lontane dei problemi attuali. Ed ecco il recente e appassionante American Colossus. The Triumph of Capitalism.1865-1900, un volume di 686 pagine (Random House), dove i trentacinque anni che hanno portato gli Stati Uniti alle soglie del ´900 sono studiati senza infingimenti ideologici. Basti leggere la prima parte intitolata "The rise of the Moguls", i "mongoli", i magnati Morgan, Rockefeller, Carnegie, Vanderbilt, Ford, col contorno di banche, aziende, compagnie ferroviarie e petrolifere, giornali, università, economisti, deputati, eccetera, e seguire, come fa Brands, le loro imprese e il dilatarsi delle loro frontiere geografiche, politiche e della autocelebrazione e esaltazione. Con conseguenze eccezionali sul piano della produzione e della ricchezza ma anche con crisi sociali e politiche della democrazia e con l´inizio del caos tipico di un capitalismo Colossus che riesce ad arricchire molti e a istupidire tutti.
Il capitolo "Gotham and Gomorah" (Gotham in slang è un luogo di sciocchi) documenta bene le cose. Che all´aprirsi dell´ultimo decennio dell´Ottocento erano divenute così complicate da richiedere la promulgazione nel 1890 dello Sherman Antitrust Act, primo tentativo del governo di riprendere il controllo politico delle regole e di tentare di imporle ai "magnati" con gli strumenti della legalità e dei principi costituzionali. In quei mitici trentacinque anni sono nate le grandi città moderne americane con tutte le meraviglie possibili regalate dall´elettricità, la chimica, le acciaierie: treni sopraelevati, tram, illuminazione, ascensori, telefoni, grandi magazzini, scale mobili, il tutto mescolato a quartieri miserabili, inquinati, pieni di cinesi, di italiani, di irlandesi. Brands racconta tutto ma al suo racconto vorrei aggiungere le testimonianze di due scrittori europei che proprio a fine secolo decisero di vedere quanto stava accadendo in America. Uno era Giuseppe Giacosa che, passeggiando a New York nel 1898, si espresse così: «È impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l´umidità fetente, il disordine di quelle strade». L´altro Rudyard Kipling che, dopo una visita a Chicago, si espresse con più leggerezza: «Dopo aver visto la città non sento alcun pressante bisogno di rivederla».

Repubblica 22.12.11
Il convegno dei fisici che si occupano del progetto Large Hadron Collider
Parla italiano la particella di Dio
di Elena Dusi


Agli esperimenti nucleari partecipano per la maggior parte scienziati del nostro paese. Ma c’è il rischio che i più promettenti giovani ricercatori espatrino

È un anello enorme al Cern costruito per prendere al laccio i misteri dell´universo: il bosone di Higgs (di cui una settimana fa è stata annunciata la traccia), materia ed energia oscura, i primi istanti dopo il big bang, la supersimmetria, l´esistenza di dimensioni extra. I suoi signori parlano italiano, anche se il gigantesco tunnel circolare dell´acceleratore di particelle Lhc (il Large Hadron Collider) corre per ventisette chilometri tra le montagne del Giura e il lago Lemano, cento metri sottoterra a cavallo della frontiera svizzera e francese.
Lunedì mattina a Milano i signori italiani dell´anello si sono riuniti al Museo nazionale della scienza e della tecnica per raccontare "Lo strano mondo di Lhc" e la frontiera delle loro ricerche. I responsabili dei cinque esperimenti del Large Hadron Collider più il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci, insieme al presidente dell´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) Fernando Ferroni, hanno ricordato che il nostro paese ha una competenza all´avanguardia nel settore della fisica e può appoggiarsi sulle spalle dei giganti del secolo passato, ma finirà col soffocare questo fiore prezioso se lascerà espatriare tutti i suoi giovani talenti appassionati ma precari.
Oggi un decimo dei diecimila fisici che lavorano a Lhc sono italiani. Dei sei miliardi di euro spesi per costruire la macchina più grande mai realizzata dall´umanità, il 15 per cento viene dal nostro paese. E in Italia è stato realizzata una parte del "motore": i magneti che accelerano i protoni fino al 99,99 per cento della velocità della luce e ne piegano la traiettoria lungo il tunnel circolare. Lhc è allo stesso tempo il luogo più freddo dell´universo (i magneti lavorano a meno 271 gradi, uno in meno della temperatura media dell´universo), il più caldo (nei punti di collisione fra i nuclei di piombo si raggiungono temperature dieci volte più alte dell´esplosione di una supernova) e anche il più vuoto, affinché nel tubo dove vengono accelerati i protoni o i nuclei di piombo nulla disturbi la folle corsa delle particelle.
«Il 2011 è stato emozionante per noi» racconta Fabiola Gianotti, dal 2009 a capo dell´esperimento Atlas: un gigante da settemila tonnellate, venticinque metri di altezza e tremila fisici di cui mille italiani. Proprio Atlas, insieme all´esperimento gemello (e rivale) Cms, ha osservato il primo segnale del bosone di Higgs. «La macchina ha funzionato benissimo e abbiamo ristretto la finestra entro cui, se esiste, questa particella deve trovarsi. Se pensiamo che a lei hanno dato la caccia per oltre quarant´anni acceleratori di tutto il mondo, si può intuire l´atmosfera di entusiasmo che viviamo».
La definizione "particella di Dio" fa perlopiù inorridire i fisici. Ma sulla sua importanza si concentra Guido Tonelli, portavoce di Cms: «Senza il bosone di Higgs non esisterebbe la chimica e non esisteremmo noi. Fra le sue funzioni, questa particella limita il raggio delle interazioni deboli all´interno del nucleo degli atomi e lascia invece che le interazioni elettromagnetiche abbiano una portata più estesa nello spazio, permettendo che giochino un ruolo importante nella nostra vita quotidiana. Spiega poi come mai le particelle elementari abbiano masse diverse l´una dall´altra».
I cinque spokesperson italiani (sui sei totali di Lhc) guidano i loro esperimenti in virtù di una democratica elezione da parte dei colleghi. Pierluigi Campana, spokesperson dell´esperimento Lhc-b, cerca di capire il perché dell´asimmetria tra materia e antimateria, mentre Simone Giani con il suo Totem analizza la traiettoria dei protoni dopo le collisioni per dedurne la struttura interna. Paolo Giubellino è responsabile dei mille fisici di Alice, l´esperimento che si concentra sullo studio delle collisioni fra nuclei di piombo. «È in queste collisioni che raggiungiamo una temperatura cento mila volte più calda del centro del Sole. La materia assume una forma che chiamiamo plasma di quark e gluoni, caratteristica dell´universo fino a una decina di millesimi di secondo dopo il big bang. Abbiamo osservato che le piccole fluttuazioni all´interno di questo plasma lasciano una memoria di sé nel momento in cui la materia si espande e si raffredda. La struttura su larga scala dell´universo, con tutta probabilità, è frutto di fluttuazioni minime avvenute nei primi istanti dopo il Big Bang».
Se Lhc è in grado di scrutare nel destino dell´universo osservando il suo seme, saranno i prossimi anni a dircelo. «Siamo entusiasti per i risultati raggiunti finora – sorride Bertolucci – ma non dimentichiamo che questa macchina, avviata due anni fa, è stata studiata per durarne altri venti».

il Fatto 22.12.11
Dopo 60 anni in radio, la Rai spenge Notturno Italiano
di Anna Maria Pasetti


Salvate Notturno Italiano, data di inizio 1° luglio 1952, data di fine 31 dicembre 2011. La “vittima” non solo è la più longeva trasmissione prodotta dalla Rai, ma uno dei simboli della una memoria storica del nostro paese. Concepita come uno zibaldone notturno di musica italiana, ne ha proposto il passato e il contemporaneo offrendo la stessa dignità ad artisti noti e talenti sconosciuti. Il tutto sotto la guida competente di un gruppo di conduttori dal pedigree musicale. La chiusura prevista a giorni risponde ai tagli voluti dal Piano di risanamento votato all’unanimità dal Cda Rai lo scorso 25 novembre, e nella fattispecie allo smantellamento della capacità produttiva/ideativa di Rai Italia / Rai Internazional, ridotta a mero contenitore di programmi delle reti generaliste. L’operazione è a perdere su ogni fronte: il lavoro per oltre cento persone che andranno in “ricollocamento”, l’ascolto per molte migliaia di affezionati nel mondo. All’annuncio di “buttar via 60 anni della nostra Storia” si è alzata la protesta trasversale, ovvero coerente allo spirito di Notturno. Fiorello ne twitta l’allarme, Capossela si indigna, ma soprattutto è la gente comune a riempire il Forum web e la pagina Facebook del programma con messaggi di sconcerto. “Per me che sono in Giappone il Notturno è una sorta di buon giorno. Fanno un sacco di spazzatura in tv e in alcune radio, e una radio così non merita di chiudere”, posta Alessandro.
MENTRE PEPPINO, da New York, ricorda “Notturno Italiano è stato per me e per migliaia di emigranti italiani sparsi in tutto il mondo un essenziale legame con la nostra Patria. Pper lunghi anni un vero conforto mentale e spirituale per tutti noi italiani all'estero”. All’happening di sostegno promosso dall’associazione culturale romana Apollo 11, due sere fa, si sono radunati artisti, l’attuale curatore Piero Galletti e un elenco incontenibile di conduttori, dagli storici Paolo De Bernardin, Carlo Posio fino al più giovane Duccio Pasqua, fiero delle t-shirt fatte ad hoc, “Meglio i notturni che i tramonti”. Perché a tramontare sarebbe anche il lavoro in corso di digitalizzazione di vecchie glorie in 78 giri pescate dall’archivio Rai o donate dai collezionisti, di cui finora Notturno si è fatto carico. Francesco Di Giacomo del Banco, il primo a esibirsi, non sente ragioni: “C’è la precisa volontà di fomentare il pensiero unico, di arredare le orecchie della gente come l’Ikea ne arreda le case”. E oggi la protesta, allargata alle vittime degli altri tagli, si sposta a Viale Mazzini.

La Stampa 22.12.11
La musica di Beethoven «ispirata» dalla sordità


Gli spartiti composti da Beethoven risentono dei suoi problemi d’udito. Lo spiegano i ricercatori di un team olandese che ha analizzato parte della musica del compositore tedesco, confrontandola con l’andamento della sua progressiva sordità. Si è così visto che, via via che passavano gli anni e l’udito scemava, le composizioni includevano un numero sempre minore di note alte. Una rarefazione che, dopo la definitiva sordità del musicista, si è interrotta: a quel punto, infatti, le note alte sono riapparse. Nello studio il numero di note sopra 1568Hz scritte per il primo violino è stato contato e calcolato in percentuale rispetto a tutte le altre. Si è constatato che poco dopo i primi sintomi documentati di ipoacusia, nei quartetti dell’Opera 18 c’era un 8% di note alte. Dal 1805 si scende al 5% (Opera 59) e al 2% (Opera 74 e 95). Dal 1825, quando il compositore aveva ormai capito che non avrebbe mai potuto ascoltare la sua Nona Sinfonia , le note alte tornano via via a ricomparire: la percentuale sale a quasi il 4%.