il Fatto 3.12.11
Cattolici
Masochisti per vocazione
di Fulvio Abbate
I cattolici sono tornati… A proposito, fra le mie conoscenze, c’è una che fa la dominatrice, la “mistress”. L’appassionato va a trovarla, e lei lo tratta male, malissimo. È il sado-maso. È un po’ come nella barzelletta di Walter Chiari, la sua davvero più crudele. Il masochista incontra il sadico e subito lo supplica: “Fammi tanto male”. E l’altro, spietato, guardandolo dritto negli occhi: “No!” Chi non ha voglia di soffrire, e dunque detesta perfino il supplizio più “soft”, pensando proprio ai mondi assai “hard”, di questi tempi si sente un po’ smarrito. La già accennata nuova stagione dei cattolici al governo, sì, che influisce. Ora, mica è detto che uno, pensando ai giorni dell’empio Berlusconi, oscillante fra Sodoma, Olgettina e Mammona, debba proprio aver voglia di immaginare, se non proprio il cilicio, le opere di misericordia come il migliore dei mondi possibili, come unica forma ammessa di giustizia sociale. Non si vola via dal cosmodromo dell’illusorio comunismo per planare ai piedi nudi e pesti del calvario, là dove è perfino sconsigliato l’uso del preservativo, o no? Poche sere fa a Otto e Mezzo, su La7, la mia amica Lilli Gruber ospitava il ministro per la Cooperazione internazionale e integrazione, Andrea Riccardi, anima bella, animatore, com’è noto, della Comunità di Sant’Egidio.
Riccardi, faccia da prof di storia, ha provato a spiegare, anche misurando le pause, il lavoro di “ricucitura” (sic) che spetta al nuovo esecutivo. Infatti, mentre lo vedevi lì a descrivere le “linee guida” del bene che sarà, in simultanea ti sembrava di riudire, come in un’allucinazione acustica, le voci dei più pregiati alleati del Nano Ghiacciato quando spiegavano che gli immigrati vanno respinti, “anche con l’uso della forza”: già, l’imperativo-jingle “speroniamoli!” sembra di sentirlo risuonare ancora adesso. Ora, assodato che la presenza di Riccardi al governo in luogo degli Hulk leghisti non può che rassicurare il pio e il solidale, restava comunque un timore di fondo ad accompagnare i più libertari e scettici lungo il proseguo della trasmissione. “I cattolici sono vivi”, puntualizzava il ministro “in attesa delle deleghe per occuparsi anche di famiglia, giovani e consulta islamica”, e fin qui ce n’eravamo accorti. Per poi, un istante dopo, concedere: “Ma non credo che rinascerà la Dc perché la storia non si riproduce”. Sospiro di sollievo misto a benefico rossore? Sì, però presto spezzati dal “ma sento crescere un cattolicesimo responsabile, che ha una nuova voglia di parlare della cosa pubblica. Una componente importante, che aiuterà i partiti a ripensare il loro ruolo”.
E se fosse proprio il tono “soft” del ministro-prof-benefattore a instillare sentimenti di allarmante paura in coloro che, trapassato Berlusconi, auspicavano un mondo di laicità seppur modello base? La faccia dialogante di Riccardi è lì invece a suggerire il dubbio della privazione una tantum. Siamo al masochismo senza prenotazione obbligatoria, un articolo che la televisione affacciata sul refettorio del governo a illimitata sovranità cattolica ha scelto di non farti mancare. La barzelletta di Walter Chiari ci sta tutta.
il Fatto 3.12.11
Previdenza, una mazzata da 350 euro all’anno
La Camusso: non c’è traccia di equità, così la riforma è inaccettabile
Oggi mega assemblea Cgil
di Salvatore Cannavò
Nonostante indiscrezioni e novità dell’ultima ora, restano le pensioni il boccone più corposo della manovra di Monti. Le ultime novità parlano di un tetto per andare in pensione di anzianità, a prescindere dall’età, che dovrebbe salire a 42 anni con l’abolizione della “finestra mobile”. Il meccanismo che sposta di un ulteriore anno l’andata in pensione verrebbe “assorbito” dalle nuove norme che, come si vede, si discostano dal “numero magico”, 40 anni, indicato da Susanna Camusso come “intoccabile”. L’altra misura consistente (valutata in 5-6 miliardi di risparmi) e probabilmente quella più impopolare, è costituita dal blocco della perequazione automatica all’inflazione delle pensioni in corso. Si tratta di congelare aumenti che, mediamente, per il 2012 sono del 2,7 per cento. Poca roba, a prima vista, ma per una pensione di 600 euro significa perdere quasi 18 euro di aumento per una di 1.000 euro si tratta di 27 euro al mese, 351 euro in un anno. Considerando che la metà degli iscritti ai sindacati sono pensionati, si capiscono le resistenze e le difficoltà ad accettare una simile norma. Ma i margini di mediazione, finora emersi, riguardano solo l’esenzione dal blocco per le pensioni con adeguamento al minimo (461,40 euro) che sono circa 4 milioni per l’80 per cento erogate a donne. Un po’ poco.
PER QUESTO ieri sera, sul sito della Cgil si leggeva un inusuale corsivo titolato “Niente cassa sulle pensioni”. E su questa linea si svolgerà oggi a Roma una grande assemblea nazionale dei delegati (sono attese circa diecimila persone) alla presenza di tutti i partiti del centrosinistra. Un’assemblea in cui la tensione sarà tenuta alta in vista dell’incontro di domani con Mario Monti. “ Non c'è traccia delle questioni “paghi chi non ha mai pagato”, dice Susanna Camusso che si dice “ancora affascinata dall’uso della parola equità usata dal governo”. “Se fossero vere queste notizie ci troveremmo di fronte a provvedimenti inaccettabili”, scrive la Cigl. E l’allarme è giustificato dal fatto che man mano che si avvicina il varo della manovra, si comprende che le mediazioni sono esigue.
In Cgil è in fibrillazione perché ci sono limiti che non possono essere superati e scelte che difficilmente si possono spiegare. Quello che si può accettare è probabilmente un meccanismo di penalizzazione per chi va in pensione prima dei 65 anni. Cesare Damiamo, ad esempio, che nel Pd fa da tramite tra Cgil e partito, considera, al pari di Camus-so, la soglia dei 40-41 (per effetto della finestra), una base intoccabile. Dopo di che, dice, si può fissar un meccanismo di incentivi e penalizzazioni attorno all’età di 65 anni: “Chi va in pensione prima perde un 3 per cento per ogni anno in meno e chi va in pensione dopo beneficia di una percentuale analoga”. Difficile, però, a giudicare dalle indiscrezioni, evitare l’innalzamento delle quote con cui si calcola il requisito dell’anzianità: 96 oggi e 97 dal 2013. Il governo punta a “quota 100”. L’incontro con il presidente del Consiglio, fissato di domenica, non sembra fatto per cercare mediazioni, quanto per comunicare decisioni già prese. E un effetto negativo potrebbe darlo anche la comunicazione “ufficiale” al paese negli studi di Porta a Porta. La minoranza interna chiede di prepararsi allo sciopero generale. Dopo l’assemblea di oggi, il passaggio decisivo per la Cgil sarà il direttivo del 13 e 14 dicembre. Li si deciderà tutto.
l’Unità 3.12.11
Tre anni buttati. Bisogna rimettere al centro il lavoro
Aver spostato l’attenzione dall’economia reale a quella finanziaria ha prodotto danni molto pesanti al Paese. Ora dobbiamo batterci per un’Europa che sappia darsi unità politica e scelte di crescita: è tempo di un nuovo sviluppo
di Susanna Camusso
Il lavoro da difendere, il lavoro da cercare, il lavoro da stabilizzare, il lavoro per dare futuro e certezza a donne, uomini, giovani e non più giovani. Dovrebbe essere un concetto banale, invece solo proporre il tema come priorità è obiettivo tutt’altro che scontato.
In sostanza possiamo dire che la crisi, la grande crisi del mondo, quella ignorata per tre anni dal governo appena “uscito” e sottovalutata dal duo Francia Germania in Europa, è crisi figlia dell’aver spostato dal lavoro alla finanza, dall’eguaglianza alla diseguaglianza le finalità del “mercato”, se è questo: la scelta dovrebbe essere netta ed evidente, riportare al centro il lavoro; il lavoro produttore di ricchezza, non il denaro.
All’esplodere della crisi l’invocazione diffusa era riproporre il governo politico economico del mercato, le regole. Si disse basta alle agenzie di rating all’origine di tanti errori, che nulla avevano previsto.
Sembra passato un secolo, sono tre anni mal contati, e tutto ruota intorno al rating dei Paesi. Spread e borse decidono degli Stati e dei loro percorsi di governo e di democrazia, si rincorrono manovre ed un’idea di cancellazione del welfare e del lavoro come ricetta standard del liberismo tornato a dettare le scelte. Tre anni persi del nostro Paese e dell’Europa si traducono in più di un giovane su tre senza lavoro, nella crescita della disoccupazione, nell’allungamento dei tempi della disoccupazione, di un’occupazione femminile che già troppo bassa perde ulteriore terreno.
Tre anni persi tradotti giustamente dai giovani e dalle giovani nello slogan “ci state rubando il futuro”: dall’istruzione al lavoro.
L’assemblea straordinaria della Cgil proprio per questo propone il lavoro, la cura del lavoro. Senza il lavoro al centro della politica, senza il ritorno alla crescita ci avviteremo nella crisi e nelle manovre e gli effetti sono evidenti, crescita della diseguaglianza ed impoverimento dei “produttori”: lavoratori, pensionati, piccole e medie imprese, artigiani e cooperatori, che pagano il conto di un banchetto a cui non hanno partecipato.
Ripartiamo dal lavoro, e facciamo oggi quello che serve a delineare il futuro per chi ha tanto lavorato, per chi vorrebbe lavorare, ovvero fine del precariato, certezza delle pensioni. Si può, sì.
Manteniamo con nettezza la barra sulla necessità di un’Europa che sappia darsi unità politica e scelte di crescita, un nuovo sviluppo che guardi alla qualità delle scelte, che innovi e “salvi” la terra, unico patrimonio dell’umanità non rigenerabile ma da curare. Si può, non passando il tempo nell’esegesi di lettere bancarie e risposte del governo deceduto, ma proponendo la strada rigorosa del fare. Ridistribuire il reddito partire da chi non ha pagato, da chi ha pagato poco per ridare ai redditi da lavoro e da pensioni, per non comprimere quei consumi essenziali che si vanno riducendo.
Rendere strutturale il contributo di chi ha di più per generare lavoro, allentare il patto di stabilità dei Comuni per far partire investimenti, “piccoli” lavori per dare lavoro. Un nuovo patto costitutivo deve ripartire dal welfare, ovvero da equità e riduzione delle diseguaglianze. Nuovo patto costitutivo per la Cgil vuol dire dare senso oggi alla nostra idea fondante, fu nella ricostruzione dell’Italia il piano del lavoro, è oggi nel 2011, un piano del lavoro dei giovani finalizzato a rimettere in sesto questo nostro Paese martoriato dalle alluvioni, dalle tragedie, dal dissesto del territorio.
Aver cura del lavoro per aver cura del Paese, usare intelligenze, istruzione, per il riassetto idrogeologico, per la cura e la manutenzione.
l’Unità 3.12.11
Le nove proposte per risollevare l’Italia. La Cgil oggi a Roma
di Massimo Franchi
Doveva essere una grande manifestazione per riportare la democrazia e il lavoro a piazza San Giovanni. La caduta di Berlusconi l’ha derubricata ad Assemblea nazionale. Ma, alla vigilia della convocazione a Palazzo Chigi per la prima manovra del governo Monti, la Cgil non rinuncia a mobilitarsi, a far sentire la propria voce. Una voce che sarà quella dei 15mila delegati e di 13 di loro che dal palco racconteranno le facce della crisi. Tutti uniti dallo slogan “Lavoro, l’unica cura per il paese”. Un messaggio chiaro per il nuovo governo. Ad aprire la giornata al PalaLottomatica a Roma sarà la relazione di Fulvio Fammoni, a chiudere Susanna Camusso. Al centro dei loro interventi le nove proposte che la Cgil mette sul tavolo per uscire dalla crisi. Una ricetta “segnare un decisivo cambio di rotta”, per far ripartire il Paese partendo dal lavoro.
1. POLITICHE INDUSTRIALI
I numeri della crisi sono impressionanti: 3,3 miliardi di ore di cassa integrazione, 500 mila lavoratori stabilmente in cig, quasi 200 tavoli di crisi aperti che investono oltre 220 mila lavoratori. Il governo Berlusconi ha aggravato la situazione senza intervenire. Ora serve cambiare strada per riaffermare la specificità manifatturiera dell’Italia, partendo dall’istituzione di un fondo per crescita e innovazione che possa favorire un Piano energetico nazionale e politiche di green economy. Servono politiche di innovazione e sviluppo locale, più spesa in ricerca e sviluppo, favorire politiche industriali per il Mezzogiorno.
2. RIDURRE TIPOLOGIE CONTRATTUALI
Circa 8 assunzioni su 10 sono precarie pescando tra le 46 diverse forme contrattuali esistenti. Una situazione insostenibile che moltiplica la precarietà cavalcata dal passato governo. Non serve quindi un’ulteriore riforma, serve ridurre significativamente le forme di impiego e restituire centra-
lità al “tempo indeterminato” che torni ad essere il “normale” rapporto di lavoro incentivandolo fiscalmente e contributivamente, così come le stabilizzazioni, riconducendo a poche unità le forme contrattuali, con l’apprendistato che sia la via d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, con formazione vera e certificata.
3. RIFORMARE GLI AMMORTIZZATORI
In Italia oltre 1,6 milioni di persone non sono tutelate da ammortizzatori sociali: giovani e lavoratori senza i requisiti per l’indennità o che hanno terminato il periodo di tutela. Serve una riforma organica che garantisca a tutti due forme di tutela: la cig in caso di difficoltà temporanea dell’impresa (80% del salario, con copertura figurativa e formazione mirata) e l’indennità di disoccupazione in caso di perdita di lavoro. Tre anni di ricorso massimo alla cig ed almeno 24 mesi di tutela dopo il licenziamento, anche per i precari. Va previsto poi un “reddito di ultima istanza” quando gli ammortizzatori finiscono, finanziato dalla fiscalità generale.
4. QUALITÀ E DIRITTI NELLA PA
Nella Pubblica amministrazione continuano ad esserci 239 mila precari e non meno di 70 mila vincitori di concorso non hanno ancor accesso. Un quadro drammatico che va superato riprendendo ad investire in servizi qualificati alla persone e in innovazione di processo e di prodotto tornando ad allargare i confini dell’intervento pubblico.
5. GIOVANI NON PIÙ PRECARI
Occorre liberare le nuove generazioni dal ricatto di chi le costringe ad essere disposte a tutto pur di lavorare, creando un sistema di tutele e servizi per i giovani in cerca di prima occupazione con una durata prestabilita di massimo 3 anni e tempi certi di stabilizzazione. I diritti fondamentali devono essere estesi a tutti.
6. DONNE AL LAVORO
Le donne stanno pagando la crisi più e peggio degli uomini. Occorre un piano straordinario per l’occupazione femminile, con una particolare attenzione nei confronti delle giovani donne, dal ripristino della legge sulle dimissioni in bianco; da investimenti seri sui servizi sociali.
7. BATTERE IL LAVORO NERO
In Italia il 17% della ricchezza prodotta evade il fisco. Occorre rovesciare l’impostazione: potenziare i controlli e la sicurezza e reprimere in maniera mirata. È necessario fare della Pubblica amministrazione un garante di legalità e dare sostegno alle regolarizzazioni attraverso piani territoriali che sostengano le imprese che vogliono emergere.
8. IL LAVORO È IL SUD
Il Mezzogiorno paga un prezzo altissimo nella crisi. Tremonti hanno fatto cassa con le risorse previste per i Fondi per le aree sottoutilizzate. Occorre invece utilizzare rapidamente e con efficacia le risorse disponibili per lo sviluppo, riattivare gli investimenti promuovendo una politica industriale innovativa centrata sulla green economy.
9. MAFIE SPA: QUANTO CI COSTA
Il fatturato delle Mafie è stimabile in 150 miliardi di euro con 70 miliardi di utili al netto degli investimenti. La vera questione è che quei nodi rappresentano un intralcio, un vero e proprio cappio al collo e che la legalità è una risorsa culturale ed economica per lo sviluppo del Paese.
l’Unità 3.12.11
Meridione al palo, Donne e giovani fuori dall’occupazione
Al Sud lavora solo il 30% di chi ha tra i 15 e i 34 anni. Questo valore scende a poco più del 20% per le ragazze meridionali. Ciò vuol dire che sette ragazzi su dieci e quattro donne su cinque sono fuori dal mercato
di Luca Bianchi
Ci troviamo all’interno di una fase drammatica di crisi economica che nell’ultimo biennio ha bruciato in Italia oltre mezzo milione di posti di lavoro. Proprio sul lavoro si sono scaricate con drammatica evidenza le conseguenze della recessione internazionale. Con il terribile paradosso che proprio dalla “svalutazione del lavoro”, imposta da processi di globalizzazione non adeguatamente governati, provengono molti dei fondamentali della crisi di sistema che le economie avanzate stanno attraversando. Dunque la regressione del lavoro e la conseguente crescita delle disuguaglianze è alla base di un sentiero recessivo che finisce per scaricarsi sugli stessi lavoratori, comprimendo le garanzie degli occupati e riducendo fortemente le possibilità di accesso delle nuove generazioni.
Una lettura ancora più nitida di tale situazione ce la offre, con la fredda realtà dei numeri, la lettura di quanto sta avvenendo nelle regioni meridionali. Analizzare le condizioni del mercato del lavoro nel Sud vuol dire confrontarsi con il dramma quotidiano dell’assenza di opportunità di realizzare nel lavoro le proprie aspettative di vita, vuol dire vedere negata la possibilità per molte famiglie di programmare il proprio futuro. Una sofferenza sociale che diviene, attraverso il calo della partecipazione scolastica e la crescente emigrazione della componente laureata, anche riduzione strutturale del potenziale di crescita economica. Mai come in questi anni abbiamo assistito ad un peggioramento di tutti gli indicatori di sviluppo economico e sociale. Il tasso di occupazione è sceso nel Mezzogiorno al 43,9% e quello femminile al 30,5%; basti ricordare che l’obiettivo posto dalla strategia di Lisbona, ribadito nel documento strategico “Europa 2020”erail70%eil60%perle donne. Per raggiungere questi target dovremmo creare nei prossimi anni 3,5 milioni di posti di lavoro al Sud, di cui oltre 2 milioni di lavoratrici donne!
Se analizziamo in particolare la dinamica della componente giovanile appare evidente l’esclusione di una intera generazione dai processi di sviluppo. La quota di giovani tra 15 e 34 anni che ha una occupazione è al Sud appena il 30%; valore che scende a poco più del 20% per le ragazze meridionali. Ciò vuol dire che 7 ragazzi su dieci e 4 donne su 5 sono fuori dal mercato del lavoro e di conseguenza sono impossibilitati a raggiungere l’autonomia finanziaria dalla famiglia di origine.
Un inadeguato sistema di welfare e la debolezza delle politiche di sostegno per il diritto allo studio, soprattutto per le famiglie più povere, sta determinando anche un inversione nel processo di formazione. Un dato da non sottovalutare è quello del forte calo delle iscrizioni all’Università. Nel corso dell’ultimo quinquennio, in tutto il Paese, si è verificato un brusco calo dei ragazzi che, una volta conseguito il diploma, decidono di intraprendere gli studi universitari: il tasso di passaggio è sceso di circa 10 punti tra il 2005 e il 2010, dal 70 al 60%. L’interruzione del processo di accumulazione formativa e culturale è la sintesi di un declino, di una mancanza di speranza nel futuro, ma anche di una deriva culturale in cui l’investimento formativo non è più ritenuto la principale determinante della mobilità sociale. D’altronde la scelta per troppi giovani laureati meridionali, negli ultimi anni, è stata, dopo aver studiato, quella di dover emigrare al Nord. La ripresa dei flussi migratori, soprattutto di laureati, è la conseguenza dell’assenza di occasioni di impiego adeguato nella propria terra. Questo almeno finché il Nord è riuscito ad assorbire tali flussi. Ora per molti è di nuovo come un secolo fa anche l’emigrazione verso l’estero.
Un simile quadro non offre certo motivi di ottimismo. Eppure basta girare per il Sud, per vedere quante intelligenze e potenzialità ancora vi siano. Dalle possibilità di accesso al mercato del lavoro di questa generazione, di donne e uomini che hanno investito nel proprio sapere dipende la ricostituzione di un processo di crescita. Qualsiasi disegno strategico per la ripresa economica non può dunque che partire da esse. La rimodulazione della spesa pubblica e la concentrazione delle risorse dei fondi strutturali deve portare a definire una strategia che, attraverso il rafforzamento degli interventi per il diritto allo studio e un piano straordinario per l’occupazione, rimetta al centro della politica il lavoro, soprattutto per coloro che non l’hanno mai avuto.
l’Unità 3.12.11
Il male della precarietà. Così si toglie il futuro alle nuove generazioni
Devono essere cancellati i contratti truffa e ridotte le tipologie disponibili dei contratti a tempo determinato. Bisogna affermare il principio che a un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile
di Ilaria Lani
I giovani hanno pagato il conto più salato della crisi. Lo ha confermato ieri il rapporto annuale del Censis con i dati impietosi di 1 milione di giovani che hanno perso il lavoro negli ultimi quattro anni e quasi un giovane su quattro non studia e non lavora. Come prevedibile la precarietà si è presto trasformata in disoccupazione. Pensare che ci avevano raccontato che i contratti flessibili sarebbero stati un trampolino per accedere al mondo del lavoro e incentivare l’occupazione. Così non è stato e i decisori politici dovrebbero apprendere la lezione, piuttosto che perpetuare un modello insostenibile che penalizza i più deboli e consegna le giovani generazioni ad un futuro che appare loro predestinato, magari in virtù del contesto sociale e familiare di provenienza.
La discontinuità del lavoro diventa infatti una barriera enorme nel difficile percorso verso l’indipendenza economica e la famiglia rimane l’unico ammortizzatore sociale disponibile. Basti pensare che una buona parte dei precari che ha perso il lavoro non ha ricevuto alcun sostegno al reddito e il misero bonus precari, istituito dal precedente Governo, è stato usufruito a malapena da 1500 collaboratori, in virtù dei requisiti restrittivi che lo hanno reso inaccessibile. D’altronde tutti ci ricordano quanto è importante scommettere sui giovani, ma puntualmente nessuno vuole rischiare per dare loro un’opportunità: non rischia il datore di lavoro che preferisce assumerti a progetto, non rischia una banca nel concederti un mutuo, non rischia lo Stato con un welfare sempre più avaro ed escludente. Come se il rischio di un mercato impazzito debba essere assunto esattamente da chi ha meno potere e meno responsabilità. La parola equità che ultimamente viene tanto agitata dovrebbe partire da qui: da una giusta redistribuzione delle opportunità e delle responsabilità.
La precarietà è l’emblema di questo modello: infatti produce sfruttamento e subalternità e lede innanzitutto la libertà nell’esercizio del proprio lavoro. La nostra d’altronde è la generazione che deve essere “disposta a tutto” pur di lavorare: disposta a lavorare gratis o con compensi indecenti, a orari impossibili, in assenza di tutele in caso di malattia o maternità, senza diritti sindacali, con la massima responsabilità sull’esito di un incarico e il minimo della tutele e dell’autonomia nella gestione dello stesso. Per questo i diritti sul lavoro non sono un termine desueto, ma sono l’unica garanzia per esprimere al meglio la propria autonomia e professionalità. Non esiste alcun risarcimento economico che possa sostituire il diritto ad essere pieni cittadini sul posto di lavoro, senza i ricatti e le umiliazioni a cui spesso siamo sottoposti.
Questo proprio i giovani lo sanno bene e per questo non sono più disposti ad essere strumentalizzati ai fini di uno scambio che veda sottrarre, nuovamente a loro, i diritti conquistati dalle precedenti generazioni. Infatti risulta quantomeno surreale la raffigurazione di un “mercato del lavoro duale”, dove magari gli ipergarantiti sono i nostri genitori in cassa integrazione o i tanti che guadagnano poco più di 1000 euro al mese.
Piuttosto i giovani sono stati le cavie di un “mercato del lavoro liquido” dove si sono affermate condizioni sempre più frammentate: mentre le protezioni venivano negate a chi doveva entrare, progressivamente si assottigliavano per tutti, secondo una logica di rincorsa alla riduzione dei costi e di spostamento del rischio di impresa sul lavoratore. Per riformare il sistema non esiste una soluzione salvifica, ma alcuni interventi mirati che invertano la rotta. I giovani devono poter accedere al lavoro con un contratto vero, che abbia pieni diritti, formazione e tempi certi di conferma. Devono essere cancellati i contratti truffa e ridotte le tipologie disponibili, secondo il principio per cui ad un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile. Inoltre nessuna prestazione, a prescindere dalla tipologia di impiego, può esser pagata meno di quanto stabilito nei contratti nazionali di lavoro e vanno garantite a tutti le tutele fondamentali, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali. Queste sono soluzioni concrete e urgenti che possono dare un segno di discontinuità.
Questo è il punto: se questo Paese sceglie o meno di liberare le energie e le competenze compresse, di ridurre le disuguaglianze e le rendite di posizione, di perseguire uno sviluppo che consenta alle nuove generazioni di restituire il frutto di anni di studio e di lavoro.
il Riformista 3.12.11
Bersani attende il Prof
«Medicina amara, non cantiamo vittoria»
Pd in tensione. Il segretario avvisa: «L’equità rimane una condizione essenziale»
di Tommaso Labate
Sarà una medicina amara. In ogni caso il Partito democratico non canterà vittoria». Nelle parole che Pier Luigi Bersani affida ai fedelissimi, a poche ore dal faccia a faccia con Mario Monti, c’è tutto il carico di tensione di un leader che sa di trovarsi, come dicono i suoi, «in una strada stretta».quella sui beni di lusso alimentano un soffio di speranza.
Le ultime indiscrezioni sul contenuto del decreto che il governo presenterà lunedì dalla super-tassa sulle barche a quella sui beni di lusso alimentano un soffio di speranza.
Ma il segretario del Pd sa già che l’ostacolo delle pensioni sarà difficile da aggirare. Non solo dentro il partito. Ma anche nel rapporto con la base sociale e con la Cgil.
Inutile, ormai, riporre qualche speranza sul massimo dei «quarant’anni di contributi» per le pensioni d’anzianità, che rappresenta la linea Maginot di Susanna Camusso e di tutta l’ala sinistra del partito, da Stefano Fassina a Paolo Nerozzi. Perché, e in questo caso le anticipazioni sono persino superflue, quell’asticella sarà rivista al rialzo. Provocando, dentro il Pd, l’ennesimo scossone. Alimentato ovviamente da frasi come quella che il segretario della Cgil ha messo a verbale ieri, intervenendo alla presentazione del libro di Maurizio Landini. «Della famosa questione “paghi chi non ha mai pagato” non vedo le tracce», ha scandito la Camusso. Che ha aggiunto, non senza un tocco di ironia, «sono pronta a farmi stupire».
Da qui la linea difensiva di Bersani, che pure sa di vantare un grande credito nei confronti dell’esecutivo. Perché gliel’hanno detto in tanti, a «Pier Luigi», nelle ultime settimane: «Tu avevi il biglietto vincente della lotteria in tasca. E una vittoria annunciata alle elezioni. Hai preferito sostenere Monti e salvare l’Italia». Certo, fronteggiare il fronte pro-governissimo (da Veltroni a Letta), con lo spread alle stelle, non sarebbe stato facile. E alle urne, probabilmente, non si sarebbe arrivati in ogni caso.
Sta di fatto che di quel «credito», adesso, Bersani punta a incassare almeno una parte. A cominciare dalla mediazione che condurrà stasera, quando si troverà di fronte quel «Professore» con cui i contatti comunque sono sempre stati costanti. «Sarà una medicina amara», ripete il leader ai suoi. «E, in ogni caso, noi non canteremo vittoria», anticipa. E poi certo, «si tratta di provvedimenti necessari». Ma, aggiunge, «non ci muoveremo di un millimetro rispetto a quello che abbiamo detto fino a oggi: le priorità sono lotta all’evasione fiscale, una patrimoniale seria, misure per la crescita, provvedimenti che facciano salire il Pil».
La parola «pensioni» sembra quasi un tabù da esorcizzare. Infatti il segretario, al contrario degli altri leader della maggioranza, è l’unico che tenta disperatamente di non nominarla mai in pubblico. Al governo Monti, ha scritto ieri nel messaggio indirizzato all’assemblea congressuale dei socialisti del Psi, chiediamo «rigore, equità e consenso sociale». Ieri l’altro, parlando davanti alle telecamere della tv del partito Youdem, aveva sottolineato che il sostegno del Pd all’esecutivo ci sarà anche se la squadra di Monti «non farà il cento per cento di quel che faremmo noi». Ma oggi, quando si troverà a quattr’occhi con l’ex commissario europeo, la percentuale dovrà essere fissata con esattezza. Perché, spiegano i Bersani boys, «possiamo sostenere il governo se fa l’80 per cento delle cose che vorremmo noi, o il 70, magari il 60, forse anche il 50. Ma a dissanguarci no, non ci pensiamo proprio».
Più in discesa sembra la strada del Pdl. Angelino Alfano, che per adesso non teme la competition a destra con la Lega, si mostra sereno: «Mettere paletti preventivi non risponde al nostro modo di rapportarci con il governo», ha spiegato ieri il segretario. E poi, quasi a voler rimarcare il concetto: «Noi non poniamo condizioni positive o negative prima di vedere il presidente del Consiglio».
Per non parlare di un Terzo Polo che sembra muoversi sul velluto. «Appoggiamo Monti non per vigliaccheria ma per convinzione», ha messo a verbale Pier Ferdinando Casini. «Perché a partire da una riforma delle pensioni nel segno dell’equità anche generazionale, questo governo affronta questioni da anni rinviate e non risolte dalla politica di destra e di sinistra». Poco più tardi, il suo braccio destro, il deputato spin doctor Roberto Rao, s’è preso la soddisfazione di anticipare, su Twitter, la fine delle polemiche per la partecipazione di Mario Monti a Porta a porta. «Lunedì Monti sarà alla Camera alle 16 per illustrare provvedimenti anticrisi. Segue dibattito. Bravo Monti!». Per la conferma ufficiale, la war room del governo più taciturno della storia della Repubblica ci ha messo un po’. Il Professore, nel frattempo, era impegnato a limare la bozza del decretone che rivoluzionerà il dicembre italiano. E anche la politica.
La Stampa 3.12.11
Dossier/ Rapporto Censis
Un’Italia fragile e troppo severa con se stessa
Arriva l’annuale ricerca sulla situazione sociale De Rita: “Ma il nostro segreto è la lunga durata”
di Stefano Lepri
ROMA. Da così tanti anni il Censis ci racconta come siamo, che forse il suo stesso racconto diventa parte dell’immagine che dobbiamo interpretare, più che strumento per interpretarla. Ed è certo una notizia se Giuseppe De Rita teme oggi che un fallimento del governo dei tecnici di Mario Monti possa aprire la strada a un disgregante, retrogrado nazionalpopulismo (per fortuna non scorge ancora chi possa diventarne il leader).
Benché De Rita, che anima il Censis da 47 anni, da buon cattolico creda nella Provvidenza, da qualche anno non riesce più a farsi piacere come l’Italia si evolve. Cosicché, quando si sforza di trovare ragioni di ottimismo per il futuro, gli pare di essere diventato «reazionario», perché invita a ritornare a punti di forza del nostro passato; gli pare di aver scritto con il rapporto di quest’anno un «manifesto di orgoglioso conservatorismo».
Stiamo andando in una direzione sbagliata? Di certo nel rapporto Censis troviamo fatti e numeri che sembrano indicare un processo di declino, sia economico sia culturale. «Se non studi finirai a pulire i gabinetti» strillavano irati ai figli pigri i genitori di un tempo. Adesso, a quanto pare, si rischia di finire a pulire i gabinetti anche se un titolo di studio lo si ha (è uno dei settori professionali dove torna a salire la quota di italiani).
Non c’è da stupirsi dunque se il 38% degli italiani fra i 15 e i 30 anni ritengono poco attraente la scelta di studiare all’università: è la percentuale più alta d’Europa. Il nostro sistema produttivo invecchia, non riesce ad assorbire i laureati, chiede lavoratori manuali, autisti, meccanici, magazzinieri. Metà dei laureati e quasi metà dei diplomati al primo impiego svolgono mansioni per le quali il titolo di studio non era necessario. D’altra parte, le imprese innovano poco, risulta da una differente indagine; e che si può pretendere, se solo il 15% tra gli imprenditori sono laureati?
De Rita si inquieta che, coscienti di queste prospettive, gli italiani smettano perfino di desiderare: il 28% pensa che in futuro starà peggio, il 34% che i figli staranno peggio dei genitori. Per la maggioranza, l’obiettivo è tutelare il benessere di cui già godono. I soli ottimisti sembrano essere gli immigrati, che al 65% vedono l’Italia di domani più ricca e più giusta.
Se non altro, per campare di rendita ci sono ampie risorse. La ricchezza privata degli italiani è abbondante, allo stesso livello di quella dei tedeschi, superiore a quella dei francesi (si può dire che negli anni abbiamo spogliato la cosa pubblica portandocene ciascuno un pezzo a casa?).
Ma un segno minaccioso è la sfiducia verso le classi dirigenti, che dalla «casta» politica sembra diffondersi ad ogni tipo di élite, guidata dall’impressione che chi è in alto dia solo esempi cattivi. Il quadro è questo: deprime.
Alla «moltitudine senza responsabilità» che De Rita teme, si può solo contrapporre quel 15% di italiani che si sente prima di tutto cittadino del mondo. Si può solo sperare che il Censis, legato com’è alla committenza di enti, associazioni, categorie, imprese, istituzioni, abbia posto soprattutto le domande che questa Italia vuole porsi; e che le novità possano scappare fuori, inattese, da qualche altra parte.
il Fatto 3.12.11
Ognuno scelga, io non ucciderei
di Ignazio Marino
Quando ho letto della scomparsa di Lucio Magri e poi i primi commenti sulla indisponibilità e la sacralità della vita agitati come bandiere, confesso che il mio pensiero è andato alla notte in cui è morta Eluana Englaro, al clima di tensione che si respirava nell’ambiente della politica, diviso in schieramenti opposti in maniera del tutto inappropriata, al limite della violenza. I toni usati all’epoca erano davvero fuori luogo, sguaiati: per questo alcuni giorni fa ho fatto un appello per non tornare a un “tifo da stadio”. Riconosco che l’espressione possa essere stata infelice, ma descriveva la paura di leggere o ascoltare rinnovate dichiarazioni aggressive e aspre, invece di riflessioni attente a quei limiti che appartengono alla coscienza individuale e che nessuno può permettersi di valicare.
HO LETTO però le critiche di Paolo Flores d’Arcais alle mie espressioni e per questo voglio chiarire il mio pensiero. Chiedendo di non urlare frasi offensive e di non dividerci tra “pro vita” e “pro morte” non intendevo indicare che queste sono due categorie in cui mi riconosco. Intendevo riferirmi a ciò che abbiamo tutti vissuto in questi anni: da una parte del fossato chi non tollera la libertà di scelta e si autodefinisce pro-vita, dall’altra chi, come me, pensa che la libertà sia un diritto e in quanto tale nessuno ne possa essere privato, nemmeno nelle circostanze più estreme. E nessun ponte levatoio in mezzo per cercare una conciliazione. Vorrei anche ricordare che per le mie idee, moderate e semplicemente democratiche, sono stato spesso indicato come un medico “esperto in eutanasia”. Nulla di più falso. La verità è che da anni sono impegnato nel tentativo di introdurre nel nostro Paese una legge che consenta a ciascuno di noi di scegliere liberamente a quali terapie vuole essere sottoposto e a quali intende invece rinunciare in ogni fase della vita. Vorrei che questo diritto fosse garantito anche dalla legge, con un documento che si chiama testamento biologico, e che abbia valore vincolante anche quando non siamo più nella condizione di comunicare. Infine, vorrei che il compito di attuare tali direttive venisse affidato a una persona che si ama e dalla quale ci si sente amati. Insomma, che delle mie cure, del loro proseguimento o della loro sospensione, alla quale conseguirebbe la fine della mia vita, possa ad esempio decidere la mia amata figlia e non il partito che ha vinto le elezioni con divieti, scritti in una legge, sulle cure alle quali i parlamentari pensano che io non abbia il diritto di dire di no.
QUESTI MIEI pensieri evidentemente toccano temi che non sono assimilabili alla scelta compiuta da Lucio Magri. Una scelta che non mi sento di commentare prima di tutto perché non ho nessun diritto di farlo e non mi sento autorizzato a scrutare oltre quei confini della coscienza individuale che ritengo sacri. Da chirurgo ho conosciuto sofferenze insopportabili che non riescono a essere lenite neanche dalla terapia per il dolore e credo di capire cosa significhi desiderare di liberarsi della propria vita in particolari circostanze. Affrontando le questioni che riguardano la fine della vita, non si può evitare, dunque, di parlare anche dell’eutanasia. Esiste un diritto a chiedere aiuto per morire e chi è padrone della nostra vita: l’individuo, lo Stato, Dio? Non mi sento in grado di dare a questa domanda una risposta che valga per tutti, però sono certo, come uomo e come medico, che nessuno può giudicare le scelte estreme di altri e qualunque aggettivo o sostantivo appare inappropriato per commentare decisioni come quella di Lucio Magri. D’altra parte, personalmente non sarei in grado di iniettare nelle vene di un essere umano un veleno per porre fine alle sue sofferenze, nemmeno se fosse una persona molto amata a chiedermelo. Come medico cercherei di essere presente, attento con ogni possibile terapia che possa alleviare il dolore, ma non riuscirei a guardare negli occhi una persona che sto uccidendo, anche se mi venisse chiesto come un ultimo atto di amore.
*Chirurgo e senatore Pd
il Fatto 3.12.11
L’impossibilità di essere vecchi
di Massimo Fini
Da parecchi decenni si registra, in Occidente, un fenomeno del tutto nuovo e sconosciuto alle società che ci hanno preceduto: i suicidi dei vecchi. Quelli, recenti, di personaggi illustri come Monicelli e Magri, che pur erano dei privilegiati rispetto ai loro coetanei, non fanno che evidenziare un trend ben noto agli studiosi. Le ragioni sono principalmente due: la perdita di ruolo e la solitudine. Nella società agricola, premoderna, preindustriale, prevalentemente a tradizione orale, statica, il vecchio è il detentore del sapere (ma sarebbe forse meglio dire di una sapienza) che tramanda ai suoi discendenti. Resta, sino alla fine, il capo indiscusso della famiglia e conserva quindi un ruolo e la sua vita un senso. Nella società attuale avviene esattamente l'opposto. Le rapidissime trasformazioni tecnologiche fanno del vecchio un analfabeta di ritorno, uno spaesato, uno spostato, la sua esperienza non serve più a nulla, non conta più nulla. Non è lui a insegnare ai giovani che, con una condiscendenza che lo ferisce, devono insegnare a lui. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: “Un vecchio nella società agricola è il saggio, in quella industriale un relitto”. Terribile, davvero terribile, è poi la solitudine del vecchio di oggi, soprattutto nella società urbana, rinchiuso in qualche bilocale negli hinterland delle grandi città, senza sapere più cosa fare di sé. In Europa solo il 2% dei vecchi vive con i propri figli o nipoti. La famiglia mononucleare, le ridotte dimensioni degli appartamenti, gli impegni sempre più stressanti dei figli, impediscono di tenere in casa i genitori, sempre più vecchi e malandati (viviamo troppo a lungo, dio stramaledica la medicina tecnologica). Nella società d'antan il vecchio viveva invece nella famiglia allargata, circondato dai numerosi figli, dai nipoti, dai molti bambini, dalle donne di casa e da esse accudito nel periodo, fortunatamente breve, in cui non era più in grado di badare a se stesso. Come terzo elemento mettiamoci che oggi è proibito essere vecchi. E così la vecchiaia ha perso anche uno dei suoi pochi lussi: quello di potersi abbandonare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti. “Vecchio è bello”, figuriamoci. Ma a patto che rinneghi se stesso, che appaia giovane, che se la dia da giovane, che faccia il giovane, che consumi, possibilmente, come un giovane. È costretto quindi a sgambettare impudicamente nelle balere, a scopare, con viagra o altri accorgimenti pompettari, anche se non ne ha più voglia, a imbarcarsi in maratone assassine in cui regolarmente si infartua. Se invece è vecchio e lo dimostra è irrimediabilmente out e viene emarginato senza pietà. Foera de ball. Fra i vecchi si suicidano gli uomini, non le donne. Perché sono più vitali. Lo si vede anche fuori dall'ambito dei suicidi. Se in una vecchia coppia muore prima lui, lei, liberatasi dal rompicoglioni, rifiorisce, comincia a far viaggi, a visitare mostre, a curare antichi interessi. Se invece muore lei, il marito intristisce, rinsecchisce, perde ogni voglia, com'è capitato a Lucio Magri. Si obietta che anche in altre civiltà è esistito, o esiste, il suicidio dei vecchi. Fra gli esquimesi il vecchio capofamiglia una sera, nell'igloo, dopo la cena, fissa negli occhi, in silenzio, i propri familiari. Poi esce, da solo, nella notte polare. Ma il suo è un suicidio per consapevolezza, a suo modo sereno, naturale. La consapevolezza che il suo compito è terminato. Quello di Magri e degli altri è invece un suicidio per disperazione. Questa è la differenza.
Repubblica 3.12.11
Quando viene meno la voglia di vivere
risponde Corrado Augias
G entile Augias, alla morte di Lucio Magri monsignor Sgreccia ha commentato: «Non possiamo decidere la nostra morte». I Lemuri, una volta consapevoli dell'alterazione dell'equilibrio demografico in rapporto alle risorse disponibili, si lasciano cadere nel vuoto nel numero necessario a ripristinare le condizioni di una possibile sopravvivenza per la specie. Si dirà che i Lemuri non hanno l'anima, ma il concetto di anima, nel senso trascendente, è asserito e considerato insuperabile solo in virtù di un atto di fede che, in quanto tale, è atto assolutamente volontaristico e libero. E, a meno che la fede venga imposta come in un novello medioevo, da ciò discende che ogni uomo è libero di alloggiarla o di respingerla e, per suo tramite, respingere anche il legame con la divinità e i suoi sacerdoti. Da qui la distinzione tra credenti e non credenti in rapporto al diritto di disporre della propria vita (e morte), nel primo caso demandando a Dio tale diritto, nel secondo riaffermandone l'assoluta e personale titolarità.
Augusto Benvenuto Alzano Lombardo (Bg)
La morte di Lucio Magri come già per l'indimenticabile Mario Monicelli è stata accompagnata da una generale sobrietà violata purtroppo da alcune sbavature. Se posso giudicare dalle numerose lettere, direi che i sentimenti prevalenti (almeno tra i lettori di questo giornale) sono stati la comprensione e la pietas . Mi scrive Roberta Pelletta (rpelletta@gmail.com): «Non riesco a provare altro che grande rispetto per chi ha il coraggio di andare oltre una vita che non sopporta più. Non importa perché non la sopporta: se perché malato, depresso o semplicemente non più intenzionato a vivere. Se siamo esseri chiamati alla responsabilità di adulti, fra quelle responsabilità c'è anche quella di porre fine alla nostra vita quando lo consideriamo giusto». Maria Cristina Marcucci (mcmarc52@gmail.com): «Alla morte di Magri qualche sproloquio di troppo. Nessun dono divino, invece, soprattutto nessun "mistero" parola fuorviante e manipolatrice storicamente carica di indeterminate emozioni. Abbandoniamo i distinguo, le domande retoriche, le "riflessioni" pubbliche che sanno tanto di ideologia. Ciascuno, se vuole, rifletta in silenzio, per una volta tenga private le proprie personali convinzioni». Bruno La Piccirella (alburno@tiscali.it): «Quando la gioia di vivere si ripiega su se stessa e la propria vita è compromessa da una qualunque perdita (di persona cara, salute, lavoro, sicurezza economica, certezza delle proprie capacità), allora, prima di scivolare nel buio, non resta che l'esercizio della propria libertà di coscienza. È una libertà che non arreca danno ad altri, che vale sia per chi sceglie di sopportare il dolore confidando in un Dio, sia per chi sceglie di mettere fine a una vita considerata non più sopportabile».
l’Unità 3.12.11
Dal congresso di Rifondazione l’attacco al governo «delle banche, dei padroni e del Vaticano»
Il segretario critica nella relazione «l’operazione tecnocratica avallata da Pd e Pdl insieme»
Ferrero lancia la Costituente «Ripartire dai referendum»
All’VIII congresso di Rifondazione comunista Paolo Ferrero lancia la parola d’ordine di una nuova «costituente dell’opposizione» e attacca il Pd: «Potevamo sconfiggere le destre con il voto...».
di Massimiliano Amato
A sinistra tutta, con juicio. Paolo Ferrero traccia il nuovo identikit di Rifondazione nel ventesimo della nascita pronunciando una valanga di no, ma anche disegnando il perimetro di una nuova Costituente dell’opposizione che dovrà essere capace, con una propria «contromanovra», di ribaltare la dittatura neoliberista a guida tedesca «che ha prima minacciato di far fallire la Grecia, imponendole un governo tecnico e ora minaccia noi».
Di fronte alla «conclamata incapacità del capitalismo di sopravvivere a se stesso, l’alternativa è sempre la stessa: socialismo o barbarie».
La chiama proprio così, Ferrero: «Costituente», per contrapporla al «governo costituente di ristrutturazione della spesa pubblica che demolirà il welfare universalistico, cambierà il lavoro, le pensioni, la scuola, l’università, i rapporti sociali».
Il punto da cui bisogna ripartire per organizzare l’opposizione «all’esecutivo delle banche, dei padroni e del Vaticano» è la campagna referendaria del giugno scorso. Trasformare quella risorgente «soggettività di massa», che a Ferrero ricorda stagioni lontane, in movimento politico.
INTERVENTO «A BRACCIO»
Parla per quasi due ore, il segretario, aprendo i lavori dell’VIII congresso di Rifondazione alla Mostra d’Oltremare di Napoli. Va a braccio, perché la lettura dei quotidiani, con le indiscrezioni sulle misure che il governo si appresta a varare lunedì gli ha fatto stravolgere la scaletta. La critica all’«operazione tecnocratica avallata da Pd e Pdl insieme» è netta, radicale.
Il segretario di Rifondazione comunista è convinto che le «grandi aspettative» sollevate dal nuovo esecutivo si trasformeranno presto in una «grande rabbia». Di sicuro, comunque, il governo Monti «è stato un errore clamoroso», dice Ferrero. Peggio: un disastro.
«Potevamo sconfiggere le destre con il voto, ma il Partito democratico ha scelto di liquidare la Seconda Repubblica bipolare per spianare la strada alla Terza repubblica fondata sulla tecnocrazia ademocratica. Questo governo, degno erede della Marcia dei 40mila, ristrutturerà la politica, e minaccia di essere presente alle prossime elezioni, che rischiano di essere derubricate a sondaggio. E tra 14 o 15 mesi non sappiamo nemmeno se ci sarà ancora l’euro». Insomma, era possibile un’altra strada.
LA CONTROMANOVRA
Il segretario di Rifondazione, che domenica sarà riconfermato nella carica, non gira intorno alla domanda: «Non ci limiteremo a fare i commentatori politici. Ci candidiamo a mettere in piedi un processo di costruzione dell’opposizione politica e sociale. Con il massimo di chiarezza e il minimo di settarismo».
La «contromanovra» del Prc si articola su pochi, fondamentali, punti. No alla riforma delle pensioni, ma tetto di 5000 euro ai vitalizi d’oro: «con le risorse recuperate si possono ridurre le tasse per i lavoratori e istituire il reddito d’inserimento per i disoccupati».
E poi: modifica del ruolo della Bce, «che dev’essere costretta ad acquistare direttamente i titoli degli Stati per bloccare la speculazione», no netto alle privatizzazioni, «sì a un rinnovato intervento pubblico nell’economia, e alla creazione di un polo pubblico del credito». E, naturalmente, la patrimoniale «sui redditi superiori al milione di euro: da sola garantirebbe un gettito di venti milioni».
«Sul lato europeo – scandisce Ferrero – stiamo con Sarkozy e non con la Merkel: ci batteremo per la tassazione delle transazioni finanziarie per bloccare la grande speculazione, che ci viene rappresentata come ineluttabile, naturale, mentre ineluttabile e naturale non è, e redistribuire la ricchezza».
Il resto sono le vecchie parole d’ordine del Prc: dimezzamento delle spese militari, accantonamento del progetto del Ponte sullo Stretto e della Tav in Val di Susa, lotta radicale all’evasione fiscale, abolizione della Bossi-Fini, estensione della cassa integrazione a tutti i lavoratori, no all’abolizione dell’articolo 18.
Alla nuova Costituente Ferrero dà due appuntamenti: a metà gennaio, per un primo momento organizzativo, e in primavera «per una grande manifestazione nazionale contro il governo delle banche».
Repubblica 3.12.11
Israele
Il governo: "Non sposate ebrei americani"
TEL AVIV Una campagna del governo israeliano che invita a non sposare ebrei americani e non far crescere i figli negli Stati Uniti ha suscitato l´indignazione della Jewish Federations of North America. In uno spot il fidanzato di un´israeliana scambia le candele del ricordo delle vittime del terrorismo per segni di una serata romantica. In un altro una nipotina svela alla nonna che in Usa lei festeggia "Christmas", la nascita di Cristo. Gli slogan recitano: «Loro resteranno sempre israeliani, i loro figli no». Oppure: «I loro partner non sempre capiranno». Conclusione: «Aiutateli a tornare in Israele».
l’Unità 3.12.11
Un tabù infranto
di Moni Ovadia
Uno dei leit motiv che ho ascoltato fin da piccolo e che ha nutrito le mie inquietudini ebraiche è che l’antisemita, e in genere chi ha pregiudizi antiebraici, ragiona con questa logica: «Se Paolo uccide, ha ucciso Paolo, se Abramo uccide hanno ucciso gli ebrei».
Per l’antisemita dunque l’ebreo non è colpevole in quanto individuo, è colpevole in quanto tale e collettivamente. Noi ebrei e le nostre istituzioni abbiamo giustamente combattuto questo infame pregiudizio, sostenendo ovviamente che gli ebrei sono uomini come tutti gli altri e che fra di essi vi sono tutte le qualità e tutti i difetti che si incontrano presso le altre genti.
Oggi invece molti ebrei hanno paradossalmente mutuato quella logica degli antisemiti escludendo a priori e con furore che ebrei possano macchiarsi di azioni infami come per esempio un apartheid nei confronti di altra gente.
Purtroppo ciò che si sta producendo in Israele a causa di una serie di provvedimenti messi in campo dal governo Netanyahu è ormai un vero e proprio apartheid nei confronti della popolazione palestinese dei territori, ma anche contro i palestinesi cittadini dello stato d’Israele.
A sostenerlo è l’editore e proprietario dell’autorevole quotidiano Haaretz, Amos Schocken che ha suscitato grande scalpore con un suo articolo di fondo che demolisce uno dei più potenti tabù della società israeliana e di una parte della diaspora ebraica.
Condividono l’opinione di Schocken altri uomini di pensiero israeliani, come il grande storico Zeev Sternhell, che denunciano anche l’erosione quotidiana della democrazia liberale di cui gli israeliani tanto si gloriano.
il Fatto 3.12.11
La rivoluzione araba
Il sociologo Ziegler
Il bello della rivoluzione sulla pelle degli altri
di Massimo Zaurrini
Lo sa perché i governi europei e gli Stati Uniti non sventolano lo spauracchio islamico e i diritti umani per annullare di fatto, come accaduto in passato, l’esito di elezioni democratiche nel mondo Arabo? Perché se legge il programma dei partiti e dei movimenti islamici che si stanno presentando alle elezioni in questi mesi si renderà conto che, da un punto di vista economico, sono tutti dei neoliberali. Non sono dei rivoluzionari”. Va diretto al punto il sociologo svizzero e attuale vice presidente della Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, Jean Ziegler, 77 anni e alle spalle una carriera di intellettuale e politico impegnato, schierato e poco diplomatico. In una conversazione telefonica con Il Fatto, Ziegler che nel suo ultimo libro “L’Odio per l’occidente” (Marco Tropea edizioni, 2010) ha affrontato il rapporto storico politico tra l’Occidente e il resto del mondo – spiega cosa è cambiato nello scenario internazionale rispetto al recente passato, quando i governi occidentali , pur di fermare l’avvento al potere di partiti islamici nel mondo arabo, hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte a colpi di Stato, dittatori o sovvertimenti dell’esito delle urne.
Perché agli occidentali in generale, e agli europei in particolare, piacciono tanto le rivoluzioni del mondo arabo, salvo poi spaventarsi per i risultati di tali rivoluzioni?
Indubbiamente per l’Occidente il termine Rivoluzione ha una valenza positiva per molti motivi. Prima di tutto perché le nostre società sono figlie di rivoluzioni (da quella francese a quella industriale), poi perché al termine rivoluzione viene associata una valenza di cambiamento, di mobilità, di modernità e di dinamismo che ci piace. E le rivoluzioni in corso nella sponda sud del Mediterraneo sono vere rivoluzioni. Hanno distrutto terribili dittature in Yemen, in Egitto, in Libia in Tunisia e domani lo faranno in Siria. Hanno liquidato dittatori pluriennali. Mubarak 32 anni in Egitto, Ben Ali 23 anni in Tunisia, Gheddafi in Libia 42 anni. Sono vere rivoluzioni popolari e spontanee, senza avanguardie organizzate, senza partiti o organizzazioni clandestine. Sono vere insurrezioni popolari, legate a un desiderio di libertà, ma sono anche rivoluzioni della miseria, perché in questi paesi la stragrande maggioranza della popolazione vive in condizioni di povertà. E queste sono le rivoluzioni che a un occidentale piacciono.
E allora la paura?
La paura subentra in un secondo momento. Quando queste rivoluzioni si consolidano e quando gli occidentali si rendono conto che gli elementi culturali in gioco sono diversi. In questa fase affiora tutto il nostro eurocentrismo culturale. Pratiche, tradizioni e costumi diversi dai nostri ci spaventano. Questo avviene in modo particolare con il mondo arabo e islamico, perché in passato si è soffiato sul fuoco di queste differenze alimentando, da un lato, negli occidentali forti paure del mondo islamico e, dall’altro, nutrendo negli arabi un crescente odio nei confronti dell’Occidente, visto come dominatore. In realtà mai come in questo caso il nostro eurocentrismo è fuori luogo. L’Europa politica ha perso ogni credibilità perché per decenni ha sostenuto molte delle dittature oggi cadute.
Cosa sta accadendo nelle elezioni di questi mesi?
Siamo nella fase della legittimazione elettorale. E non deve stupire che a vincere siano i partiti islamici. Era prevedibile e normale, perché tutti questi gruppi da Ennahda in Tunisia ai Fratelli Musulmani in Egitto, passando per i salafiti in Libia e il Marocco sono stati le principali vittime dei regimi degli ultimi 30 anni. Sono stati questi movimenti a soffrire in misura maggiore, a contare tra i loro sostenitori e simpatizzanti migliaia e migliaia di morti, di torturati e desaparecidos. Solo in Tunisia si stima che il regime di Ben Ali abbia assassinato oltre 30.000 persone. È normale che la popolazione oggi voti per questi movimenti perché hanno, in un certo senso, la ‘maestà del dolore’ e della sofferenza. Guardi che in Europa dopo la Seconda guerra mondiale è accaduta la stessa cosa. Quello che sta accadendo nei paesi del Nord Africa oggi è assolutamente identico a quanto accadde in Francia tra il 1944 e il 1949, quando il Partito comunista francese ottenne un successo incontenibile alle elezioni. Tutta la campagna elettorale del Partito francese fu incentrata su un unico messaggio: “Siamo il partito dei 16.000 fucilati”.
Cosa accadrà in futuro? L’Occidente si farà prendere dalle sue paure e tornerà a ripudiare i risultati delle rivoluzioni che tanto aveva sostenuto?
I poteri occidentali non credo lo faranno. Se lei legge il programma dei movimenti islamici presentatisi alle elezioni di questi mesi si renderà conto che sono tutti, da un punto di vista economico, dei neoliberali. Mantengono una forte presenza nella politica sociale dei loro paesi, ma non hanno alcuna intenzione di chiudere con il liberalismo, anzi. Proprio per questo gli americani, gli occidentali, amano questi movimenti. Perché stia tranquillo che i grandi capitali non si preoccupano della sharia o dei diritti delle donne, si preoccupano degli interessi dell’oligarchia del capitale globale. Questa è la preoccupazione di Washington, di Sarkozy e di Monti. Ecco perchè questi nuovi governi godranno dell’appoggio totale degli occidentali.
La Stampa 3.12.11
Così il Sole danzava tra i megaliti di Stonehenge
Nuove scoperte sugli allineamenti nel giorno del solstizio “E’ la prova che il sito è più antico di quanto si pensasse”
di David Keys
Culti primordiali Gli archeologi stanno individuando un’area sacra molto vasta che si estende oltre il primo cerchio Le processioni E’ probabile che avessero luogo a mezzogiorno, quando la nostra stella si trovava nel punto più alto
Il monumento Le pietre più grandi pesano tra 25 e 50 tonnellate e furono tagliate da una collina distante 30 km dal sito archeologico I turisti Il sito è sempre più popolare ed è diventato un luogo di pellegrinaggio per molti seguaci del Celtismo, della Wicca e di altre religioni neopagane
Il mito di Stonehenge non fa che crescere
LE RICERCHE Sono state condotte con speciali radar e tecniche geomagnetiche
4-5 mila anni. E l’età presunta del sito di Stonehenge secondo le ricerche che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni
500 anni. I nuovi studi condotti da un team inglese e tedesco retrodatano Stonehenge di circa mezzo millennio"
LE SIMULAZIONI Effettuate con modelli computerizzati, sono partite da due fosse rituali
Una serie di nuove scoperte archeologiche vicino a Stonehenge lo spettacolare circolo preistorico di megaliti antico tra 4 mila e 5 mila anni che si trova nel Sud dell’Inghilterra suggeriscono che il sito dell’«età della pietra» più famoso al mondo potrebbe essere già stato un luogo sacro in un’epoca ancora più antica di quanto ipotizzato finora dagli archeologi.
La nuova prova una serie di tre allineamenti solari vicino al monumento suggerisce che l’«aura religiosa» di Stonehenge risalga ad almeno 500 anni prima della creazione del primo cerchio di mega-pietre del sito stesso.
Le nuove informazioni – risultato delle indagini archeologiche ancora in corso e condotte dalle università di Birmingham e di Bradford nel Regno Unito e dall'Università di Vienna in Austria – dimostrano anche come il culto del sole a Stonehenge fosse ancora più importante di quanto si fosse ipotizzato in precedenza in molti studi.
I tre nuovi allineamenti solari appena individuati nel celeberrimo sito si trovano tra l’importante megalito noto come «Heel Stone» e due grandi fosse rituali: si evidenziano rispettivamente all'alba e al tramonto nel giorno del solstizio d’estate e dovevano accompagnare la processione rituale condotta tra i due fossati e il centro di Stonehenge a mezzogiorno, quando il sole raggiungeva il punto più alto del suo ciclo annuale. Le due fosse rituali sono situate all'interno del monumento più vasto che fa parte del paesaggio sacro di Stonehenge e che è una specie di percorso sopraelevato, lungo tre chilometri, noto tra gli addetti ai lavori come «Cursus».
«Se si misura la distanza a piedi tra i due fossati, intorno al perimetro del “Cursus”, la processione a mezzogiorno si sarebbe trovata esattamente a metà strada, con il sole proprio a picco su Stonehenge. Questa è più di una semplice coincidenza e indica che la lunghezza del “Cursus” e il posizionamento delle fosse hanno un preciso significato», sostiene Henry Chapman, l'archeologo dell'Università di Birmingham che ha lavorato ai modelli degli allineamenti elaborati con le ricostruzioni computerizzate del paesaggio di Stonehenge.
Le scoperte suggeriscono anche che il «Cursus» sia stato appositamente realizzato proprio per celebrare il giorno del solstizio d’estate, una data-chiave che era associata con la specifica sacralità del sito di Stonehenge, molto prima che fosse eretto il primo cerchio di pietre. Le nuove prove, quindi, suggeriscono che l’importanza del luogo sia di molto antecedente alla costruzione del «Cursus» stesso. Fino ad ora, invece, gli archeologi tendevano a pensare il contrario.
Questo totale ribaltamento della cronologia è particolarmente significativo, perché fa intravedere la possibilità che il sito di Stonehenge possa, in realtà, essere non soltanto marginalmente più antico del «Cursus», ma sostanzialmente e decisamente più antico.
Negli Anni 60 gli archeologi trovarono un sito rituale mesolitico risalente all’8000 a. C. in quello che oggi è diventato il parcheggio di Stonehenge: il divario di ben 5 mila anni tra quella zona e il cerchio di Stonehenge spinse la maggior parte degli studiosi a ritenere improbabile una continuità «sacrale» tra i due luoghi. Ma, con le nuove scoperte, il divario temporale si è drasticamente ridotto.
E’ possibile, quindi, che le ultime scoperte spalanchino una nuova ipotesi, quella di un’ininterrotta sacralità del sito di Stonehenge proprio a partire dall’epoca del Mesolitico.
I nuovi allineamenti solari che rivelano una realtà del tutto inedita sono stati scoperti nell’ambito di uno studio quadriennale sulla geofisica dell’intero paesaggio di Stonehenge. Utilizzando alcuni radar in grado di penetrare il terreno e le tecniche della magnetometria, gli archeologi stanno cercando di «passare ai raggi X» tutto il terreno circostante, fino a una profondità di due metri su una superficie totale di 14 chilometri quadrati. Questa indagine approfondita la più grande di questo genere mai realizzata al mondo – sarà completata tra due anni, come spiega il direttore del progetto, l’archeologo dell'Università di Birmingham Vince Gaffney.
Parlando delle scoperte multiple delle fosse e delle loro potenziali implicazioni, il professor Gaffney ha sottolineato che «questa è la prima volta che facciamo un’osservazione simile a Stonehenge e questa ci fornisce una visione molto più sofisticata e precisa di come potrebbero essersi svolti i rituali tra il “Cursus” e tutta la zona circostante».
Ora si pensa che decine di siti finora sconosciuti possano tornare alla luce grazie all’indagine geofisica in corso, nota come «Stonehenge Hidden Landscape Project» (Progetto per il paesaggio nascosto di Stonehenge). Solo negli ultimi 18 mesi sono state trovate almeno 25 aree rituali precedentemente ignote.
E’ quindi molto probabile che le future scoperte nel paesaggio sacro di Stonehenge – grazie al lavoro degli archeologi di Birmingham e Bradford e dei loro colleghi del «Ludwig Boltzmann Institute» dell’Università di Vienna trasformeranno ulteriormente le conoscenze sulle origini, sulla storia e sul significato del famosissimo monumento.
TRADUZIONE DI Carla Reschia
La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Pareyson, l’uomo è una tragedia di libertà
di Gianni Vattimo
La riscoperta Vent’anni fa moriva il filosofo che ha lasciato un profondo solco nell’esistenzialismo contemporaneo Si ristampano le sue opere, e lunedì un convegno lo celebra
Luigi Pareyson in un ritratto di Paolo Galetto per «Tuttolibri»
Il convegno che si tiene in questi giorni a Torino è dedicato, nel ventennale della sua morte (e mentre presso l'editore Mursia si pubblicano le sue opere complete), al pensiero estetico di Luigi Pareyson. La scelta del tema è certamente giustificata, giacché la teoria della formatività (così Pareyson aveva intitolato il suo rivoluzionario libro: Estetica. Teoria della formatività , uscìto nel 1954; oggi in edizione Bompiani, 1988) è stata senz'altro la prima ragione della sua notorietà nella filosofia italiana dell'epoca (anche se Pareyson appena ventenne aveva già prima pubblicato il fondamentale libro su L'esistenzialismo e Karl Jaspers , 1940, riedito da Marietti, 1983), e resta ancora la sua opera più conosciuta in Italia e all'estero. Ma forse una ragione di opportunità si aggiunge a questa, per giustificare la scelta del tema del convegno: da un lato l'estetica è anche la prima formulazione della sua filosofia, con il centrale concetto di interpretazione che era destinato a divenire un termine essenziale della filosofia continentale europea degli anni seguenti; d'altro lato, è nel nocciolo dell'estetica che i discepoli di Pareyson, che hanno poi preso strade teoriche diverse, si riconoscono come una scuola. Così, è difficile pensare che il più noto oggi (e anche ormai il più anziano) dei suoi scolari, Umberto Eco, potesse seguire il maestro negli sviluppi essenzialmente ermeneutico-religiosi del suo pensiero successivo. A Eco è affidata la relazione di apertura del convegno, dunque, non solo per una ragione «pubblicitaria», del resto legittima; ma come un modo di riprendere Pareyson, per così dire, dall'origine.
Un'origine che, a prima vista, può sembrare difficile da collegare con gli esiti «tragicisti» e esplicitamente religiosi del suo itinerario filosofico: penso soprattutto agli scritti raccolti in Ontologia della libertà , uscito postumo (Einaudi, 1995) che oggi più ancora dell'estetica, e presso filosofi della generazione più «giovane» (una delle relazioni del convegno sarà tenuta da Massimo Cacciari) mantiene vivo l'interesse intorno al maestro torinese. La diade Eco-Cacciari segna bene i confini estremi della presenza di Pareyson nella filosofia di oggi. E il convegno torinese, che nasce come iniziativa della cattedra di Estetica oggi tenuta a Torino da Federico Vercellone, anche per i non specialisti e gli studiosi più giovani è una buona occasione per capire come la teoria della formatività possa aver dato luogo agli sviluppi ultimi del pensiero tragico. Il quale, non dimentichiamolo, è concentrato intorno alla problematica, e scandalosa, nozione del «male in Dio», una nozione inseparabile dalla ontologia della libertà. Detto sommariamente, se al mondo c'è libertà, e cioè se la nostra esperienza di esser liberi ha un senso, anche Dio deve essere pensato come libero; ma dunque come qualcuno che «sceglie» e decide, tra un positivo e un negativo tra bene e male, qualunque cosa essi significhino; e non come l'atto puro della metafisica classica che è già sempre perfetto e compiuto: il problema della predestinazione, e della stessa creazione, su cui si sono spaccate le teste di tanti teologi sarebbe insolubile se Dio fosse caratterizzato da questa perfetta immutabilità.
E l'estetica che c'entra? Pareyson elabora la teoria della formatività analizzando l'esperienza del fare artistico: che sebbene non necessitato da niente, non è arbitrario: l'artista si corregge, rifà, cambia. Guidato da quello che Pareyson chiama «forma formante». Ma proprio perché non è arbitrio, la forma che nasce nella creazione artistica, e in qualunque evento legato all' iniziativa umana, è manifestazione di una presenza che trascende la pura relazione tra il soggetto e l'opera. E' questa trascendenza, la presenza di una «legalità» non riducibile alla iniziativa cosciente del soggetto, che avvia alla riflessione sull'esperienza religiosa. L'essere che accade così nel fare umano non si lascia spiegare in termini razionali, è affare di libertà: se si vuole, qui c'è una traccia degli studi pareysoniani sul romanticismo e l'estetica kantiana del genio. Ma soprattutto, questo è un modo di render conto della irriducibilità della cultura alla pura funzionalità vitale: come le opere d'arte, anche se in misure e maniere diverse tutte le forme culturali sono creazioni non «richieste» né «spiegate» da ciò che veniva prima, dunque opere della libertà. Ciò che è libero è imprevedibile e non deducibile dal già dato. Per questo l'esperienza religiosa ha senso come esperienza mitica: delle origini può esserci solo racconto (è il senso del termine greco mythos), mai discorso razionale, logico-deduttivo.
I miti non si scelgono, si ereditano: Pareyson è stato un cristiano credente, e tuttavia è molto probabile che anche la sua fede cristiana fosse storico-mitica più che metafisicamente certa. Ma anche nella sua esperienza della religione come mito non c'è arbitrarietà, come già nell'esperienza estetica. La presenza della trascendenza (come in tanti dei suoi autori: Jaspers, Barth, Heidegger, Schelling; fino a Dostoevskij) non si lascia includere nell'orizzonte tranquillizzante della logica; ha piuttosto i tratti aperti e problematici della libertà, o se si vuole della vita.
"Con i suoi studi estetici e ontologici è stato il maestro di una nuova generazione a partire da Eco Un cristiano credente che si è interrogato sulla nozione scandalosa e dolorosa del «male in Dio»"
La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Il mondo è sporco chiamate Ludwig
di Ferdinando Camon
Serial killer nazisti Abel e Furlan, uomini primitivi, armi primitive: 10 o 16 o più omicidi
Abel e Furlan, ovvero la banda Ludwig: si ritenevano imprendibili, e volevano essere presi. Il loro motto era: Gott mit uns, e lo introducevano con l’esplicazione: «La nostra fede è nazismo / la nostra giustizia è morte / la nostra democrazia è sterminio». Hitleriani in ritardo
Devo al lettore una premessa: non sono imperturbabile di fronte al grande-orrido tema che questo libro tratta. Ludwig era il nome collettivo della banda composta di Abel e Furlan, e forse qualche altro, che commise una lunga serie di efferati omicidi, secondo i pareri 10 o 16 o più. Un serial killer doppio, o un serial killer in due. Scoperti mentre erano in piena azione, arrestati, condannati, evasi, ritrovati, han saldato il conto con la legge. I problemi che lasciano aperti sono tanti. Perché due? Come facevano ad agire in blocco come uno solo? Perché sceglievano quelle vittime, prostitute ma anche frati, adulti ma anche ragazzi, in particolare ragazzi delle discoteche? Perché uccidevano usando un martello o i coltelli o il fuoco? Perché si son chiamati Ludwig? Perché quelle rivendicazioni in nome della virtù e dell’onore? Perché scrivevano le rivendicazioni in caratteri runici? Come mai sono un tedesco bavarese e un italiano veronese? Sono stupidi o intelligenti? Come vanno con gli studi? Pluribocciati o ben promossi? E come vanno con le donne? Omosessuali, eterosessuali, repressi o inibiti? Si son redenti?
Ma quel che mi turba è un altro motivo, e lo dico subito: han mandato la rivendicazione di qualche delitto dalla mia città, ed esattamente dalla stanza dove adesso sto scrivendo questo articolo, perché qui abitava lo zio di Furlan. Quando lo zio è morto, ho acquistato un pezzettino del suo appartamento ed eccomi qui. Ho lasciato sul campanello il nome «Furlan», per la sua vasta-funebre gloria: è un nome collegato (secondo i miei calcoli) a 16 omicidi, non me la sento di sostituirlo col mio cognome, ancora bloccato, quanto ad omicidi, a quota zero. Quando sono stati presi, da veri dilettanti, stavano spargendo benzina in una discoteca, ognuno con la sua tanica: avevano forato le taniche e le portavano in giro per bagnare la moquette, e poi darci fuoco. Sono stati acchiappati subito. Dunque, sono loro. L’ultimo attentato fa pensare, per l’ingenuità, che volessero essere presi. È il solito sospetto per tutti i serial killer: lanciano messaggi per essere liberati da se stessi. La benzina aveva un forte odore, tutti lo sentirono. Entrando in questo studio, dove loro hanno dormito, appena varcata la soglia tiro su col naso, per sentire se c’è traccia di benzina. Entrando qui, entro nel cranio di un mostro.
Mandavano rivendicazioni anche per delitti vecchi di anni, ma insoluti. Sfidavano la polizia. Nelle rivendicazioni fornivano le prove: la marca del martello, la forma del coltello… Si ritenevano imprendibili, e volevano essere presi. Il loro motto era: Gott mit uns, e lo introducevano con l’esplicazione: «La nostra fede è nazismo / la nostra giustizia è morte / la nostra democrazia è sterminio». Hitleriani in ritardo. Torna la solita domanda che ci poniamo quando un serial killer opera per anni: possibile che il padre, la madre, la moglie, il marito non si accorgessero di nulla? Ebbene, qui abbiamo il padre di Abel che dice «sì, qualcosa sospettavo, mio figlio non era normale».
Per Abel si sottovaluta, a parer mio, il trauma da giovane, quando la sorellina di sei anni gli morì fra le braccia. Quel trauma entrò come una bomba nel suo cervello. Il libro (piano, lineare, senza astuzie) spiega il gruppo come composto di un induttore e un indotto, una personalità dominante e una succube, Abel su Furlan. È possibile che il gruppo si sia sempre più rafforzato nel delirio, che questo delirio fosse tenue all’inizio e disperato alla fine. Alla fine, hanno in due una sola psiche, quel che dice uno vale anche per l’altro. Il mondo è sporco, bisogna purificarlo. Non tutti gli uomini sono, niccianamente, degni di vivere, si tratta di estirpare gli indegni. Il fuoco è il più perfetto strumento di purificazione. Se l’elemento induttore infonde il suo delirio nell’elemento indotto, l’elemento indotto però, alla fine, a me pare il più lucido nell’analizzare se stesso e il compagno: il libro si chiude con una intervista a lui, ed è un dialogo di allucinante sincerità. C’è tutto lì. Tutto di sé, e dell’altro, e degli altri. Lui è Dio. Elimina quelli che non rispondono ai suoi criteri morali. Una selezione etica. Niente pistole, ma ferro e fuoco, preferiti per la loro primitività. Ad uomini primitivi, armi primitive.
"Un tedesco bavarese e un ragazzo veronese: uccidevano prostitute, frati, adulti, ragazzi delle discoteche"
il Fatto 3.12.11
Caccia e ossessione
Aribert Heim, l’ultimo nazista
di Marco Dolcetta
In tutta la letteratura internazionale, compreso “I medici nazisti” di Robert Lifton, sino al 2000, il suo nome non era mai apparso da nessuna parte, lo stesso Simon Wiesenthal non lo aveva mai individuato e indicato come criminale da perseguire.
Secondo il Wiesenthal center di Gerusalemme, come Mengele, Aribert Heim fu l'apoteosi del sadismo.
Durante la guerra era stato per un breve periodo nel campo di Mauthausen a praticare esperimenti su cavie umane, per lo più repubblicani spagnoli imprigionati. Con dei modi estremamente educati, chiedeva ai prigionieri di calarsi i pantaloni, rassicurandoli che non avrebbe fatto loro del male, per poi iniettagli del benzene nel corpo, lo stesso tipo che si usava come carburante per gli aerei. Durante l'agonia dei suoi pazienti, il dottor Heim, appuntava minuziosamente tutte le fasi dell’esperi-mento su un taccuino, dove tra le tante atroci descrizioni, risulta anche l’uccisione di due fratelli ebrei di 18 e 20 anni, di cui aveva poi usato il cranio come fermacarte.
COSÌ DAL 2005, il Centro Simon Wiesenthal ha lanciato una campagna mondiale chiamata “ultima chance” per cercare di trovarlo.
Heim scomparve subito dopo la guerra e da quel punto si conoscevano solo alcuni frammenti di quella che era stata la sua vita.
Nel 1945 era stato arrestato dagli americani ma poi rilasciato. Successivamente a Berlino, aveva acquistato un edificio di 42 appartamenti, dove aveva aperto una clinica ginecologica.
Nel 1962, i giudici tedeschi finalmente decidono di andarlo a cercare a Baden Baden, senza trovarlo, ma da quel momento si scoprono tracce che lo collegano ai nazisti in America. Quasi certamente la sua prima destinazione era stata l’Uruguay, dove negli anni Sessanta dovrebbe aver aperto una clinica psichiatrica della città di Paysandu, dopo di che sarebbe andato in Patagonia.
Nel 2005, anno dell’operazione “ultima Chance”, le prove che indicano il nazista in Sudamerica sono molte: sua figlia maggiore, Waltraudt, vive a Puerto Montt, nel sud del Cile, e almeno quattro persone giurano di averlo visto lì e a Bariloche, dall'altra parte del crinale andino in terra Argentina (dove risiedeva Priebke prima dell’estradizione in Italia, ndr). Quando la polizia cilena ha gestito il caso, ha scoperto che Waltraudt si era recata in Europa almeno cinquanta volte in venti anni, senza che questa sapesse spiegare in modo convincente la motivazione di questi frequenti viaggi. Anche sui conti bancari di Heim, fino ad allora, si erano registrati frequenti movimenti.
Un avvocato, che ancora oggi ha in affitto tutto il fabbricato degli appartamenti a Berlino, ha detto che alcuni testimoni lo avevano incontrato in Spagna, descrivendolo stupito perché avevano cominciato a indagare seriamente su di lui e curioso di sapere a che punto erano le indagini. La famiglia afferma che morì nel 1992. La morte, secondo Rudiger suo figlio, si era verificata a causa di un cancro nei pressi del Cairo, dove era scappato con il nome Tarek Farid-Iussein. Naturalmente il corpo non è mai stato trovato. Secondo le dichiarazioni di suo figlio, Heim era stato iniziato all’islam nella moschea Tar El del Cairo, ed era stato quindi sepolto in una fossa comune nel deserto, seguendo l’antica tradizione islamica della sua nuova religione. Ma la verità probabilmente è un'altra.
SEGUENDO la pista della sua fuga che va dal continente Europa al Sudamerica e non a quella più misteriosa verso il medio oriente, si possono individuare alcune azioni comuni all’operatività del programma “Odessa”, il sistema di fuga progettato dai nazisti per rifugiarsi verso terre sicure, sembra infatti che dopo il 1945, Heim abbia usufruito della protezione e dell’appoggio degli alleati occidentali. Arrestato subito dopo l’armistizio viene poi rilasciato dagli americani per vivere liberamente nella neonata Repubblica federale tedesca, questo significa che anche i giovani servizi segreti della Germania occidentale filo americana, l’“organizzazione Gehlen”, dal nome di Reinhardt Gehlen, capo dei servizi segreti della Wehrmacht sul fronte russo, lo aveva preso in simpatia. L’attività contro di lui riprende intorno agli anni Sessanta, quando Gehlen si ritira dall’organizzazione, costringendo Heim a una fuga verso il Cile, quando per lui l’aria tedesca era diventata ormai irrespirabile. La sua destinazione sarebbe stata a Colonia Dignidad, in terra cilena, a sud di Santiago. Bisogna aggiungere che quel territorio non era cileno, bensì ancora di pertinenza giuridica del defunto Terzo Reich, infatti era abitato esclusivamente da tedeschi.
Io personalmente ho girato un filmato sulla vita quotidiana della colonia nel 1980. A suo tempo un ambiente lindo e ordinato con abitanti che parlavano la lingua e vestivano un abbigliamento tipico degli anni 40, quasi tutti ex orfani di guerra, furono invitati a risiedere là dall’organizzazione Gehelen, gestita allora da un certo Paul Schafer.
Nel piccolo ospedale ebbi occasione di imbattermi nel dottor Aribert Heim, circondato da avvenenti infermiere , dove svolgeva attività medica nel pronto soccorso, col nome di Aribert Heim appunto…
NON ESSENDOSI nuovamente scatenata la caccia globale e pubblica ad Heim, con tanto di taglia, lui viveva apparentemente tranquillo e soprattutto senza dover nascondere la sua vera identità. In quell’occasione abbiamo avuto la possibilità di parlare della sua gioventù in Germania. Mi colpì molto quando mi disse: “Lei ricerca verità che riguardano una generazione che l’ha preceduta, quello che è successo è un mistero, mi creda... pensi che Heydrich era discendente di ebrei, il nonno materno si chiamava Suss, ma lui falsificò le carte, Eichmann parlava correttamente l’yiddish, Rosemberg, Jodl, Frank, tutti di sangue ebreo”. Interdetto e sorpreso, seppi solo replicare che non tutti quelli che hanno avuto questi nomi fossero necessariamente ebrei.
La Stampa TuttoLibri 3.12.11
Maria Luisa Spaziani
“Caro Montale, ti raggiungo nell’Olimpo”
di Mirella Serri
La Volpe, legata a lungo al Nobel degli «Ossi di seppia», di cui offre un ritratto non paludato, sta per entrare nel Pantheon della letteratura
«”Studiare? Ma il meno possibile! ”, sosteneva mio padre convinto che la scuola e i libri mi avrebbero portato su una strada che non era la mia. “Papà, voglio fare qualcosa di diverso, con una mia personale impronta, riconoscibile! ”, gli dicevo. “Occupati dell’azienda, dei nostri macchinari dove è inciso in bronzo, a lettere cubitali, Spaziani”». Ma il vil metallo non appagava la torinese Maria Luisa, occhi verdi e boccoli neri, che il nome lo voleva stampigliato su carta: tutte le sere, nell’abitazione di via Pesaro, si discuteva del futuro della ragazzina che coltivava un’insana (a detta del padre) attrazione per la poesia. Alimentata, peraltro, dallo stesso genitore. Già, proprio così: «Signorina Felicita, a quest’ora / scende la sera nel giardino antico... »: finita la cena, in casa Spaziani, si levava la tovaglia e si metteva a tavola l’antologia. Ecco Guido Gozzano, ecco scrittori oggi completamente dimenticati come Giovanni Cena e Vittoria Aganoor Pompilj, e poi Salgari, Pinocchio eFiammiferino di Luigi Barzini. «Che nei lontani Anni Venti del secolo passato era considerato una tappa fondamentale per i bambini, quasi quanto il capolavoro di Collodi: ma su tutti sovrastava il vate Carducci», aggiunge la scrittrice oggi punto di riferimento della lirica italiana e famosa traduttrice, la cui opera omnia il prossimo anno sarà pubblicata nel Pantheon riservato una foto d’angolo, con uno sguardo pensoso ma anche divertito, sembra tenere sotto controllo i visitatori che si addentrano in questo sacrario dove, tra i tanti cimeli, c’è pure una busta del «Corriere della sera» (la «grotta azzurra» la chiamavano gli amanti) dove il poeta conservava uno dei riccioli della Volpe.
La natal Torino e la letteratura...
«A Torino si viveva nel religioso rispetto di autori come Piero Gobetti. Io ero affamata di libri. Di tutti i tipi. Cominciai anche a appassionarmi a letture in lingua originale: Il conte di Montecristo eMadame Bovary furono il mio primo sbarco sul pianeta dei francesi. Alla loro traduzione mi dedicherò in anni successivi insieme alle opere di Pierre de Ronsard, Jean Racine, André Gide, Marguerite Yourcenar. Poi è il momento degli ungheresi, Sándor Petöfi e Ferenc Molnár con i suoi Ragazzi della via Pál. Ad attrarmi c’erano i racconti di viaggio, come Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India di Gozzano o Orio Vergani, e i tedeschi, da Goethe a Hermann Hesse, che amavo moltissimo per la sua vicinanza ai romantici e alle filosofie orientali».
La scoperta degli «Ossi di seppia» montaliani quando arrivò?
«Fin da piccola ero convinta che sarei diventata un poeta (non poetessa, parola che detesto). I primi versi li buttai giù a 12 anni: “la primavera /stagione dei fiori/ con la dolcezza risveglia i colori”. Le liriche di Montale furono la sorpresa sconvolgente dell’anno dell’esame di maturità ma prima avevo letto Ungaretti. Nel 1942 l’autore del Porto sepolto ritornò a Roma dal Brasile e tenne la sua lectio magistralis alla Sapienza. Partii da Torino con la mia nonna ligure che, molto risparmiosa, aveva avuto dei biglietti omaggio delle ferrovie e voleva assolutamente consumarli. Ero seduta in seconda fila nell’Aula Magna quando Ungaretti mi chiamò alla lavagna per scrivere un paio di versi leopardiani. Alla fine della meravigliosa lezione gli consegnai un numero della rivista che avevo fondato e dirigevo, “Il dado” vi collaboravano, tra gli altri, Vasco Pratolini, Sandro Penna ma pure Virginia Woolf -, e lui mi chiese di accompagnarlo a casa. Abitava lontanissimo e facemmo chilometri, io spingendo la mia bici e lui chiacchierando di Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire. Montale invece lo conobbi personalmente alla fine degli Anni Quaranta agli incontri culturali che si tenevano il venerdì al teatro Carignano. Il giorno dopo venne a cena a casa dei miei genitori e dopo aver bevuto, forse, mezzo bicchiere in più, si mise a danzare agitando il tovagliolo e imitando una baiadera che aveva visto qualche tempo prima in Libano».
Intesa con il nemico, questo primo incontro con Ungaretti? Quando Montale fu designato senatore a vita, Ungaretti esternò la rivalità di anni e stizzito annotò «Montale senatore / Ungaretti fa l’amore». Non rari furono poi i diverbi del poeta di «Meriggiare pallido e assorto» con Quasimodo. Condividevate anche i malumori letterari?
«No, per nulla: sono stata amica sia di Quasimodo che di Ungaretti. Con Eugenio si parlava di tutto dalle Rime petrose di Dante ai testi di Émile Boutroux che andavamo a cercare insieme alla Biblioteca Nazionale di Parigi. O di Truman Capote che gli piacque tanto da volergli inviare una delle sue opere pittoriche. Poi non lo fece e, anzi, mi incaricò di scrivere la recensione che voleva dedicargli. A volte capitava che mi sostituissi a lui. Le gelosie sul piano letterario ci preoccupavano meno di altre».
Gli scrittori cui lei si sente vicina...
«Ho sempre avuto come amici gli scrittori che più ammiravo, Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli, Ezra Pound che ho incontrato a Rapallo e poi ho frequentato a lungo in America Gadda, Moravia, Pasolini, Caproni. Il mio interlocutore più polemico è stata Fernanda Pivano. Ne ho letta tanta di letteratura americana, da Hemingway a Steinbeck da Faulkner a Dos Passos, ma non l’ho mai apprezzata con quel procedere sincopato: “ciao, disse lui”, “ciao, disse lei”».
La letteratura era insomma veramente il centro dei rapporti sociali.
«Anche di quelli amorosi.
Quando io ero una ragazza si verificava qualcosa che oggi non esiste più. Se volevi conquistare una fanciulla, a Torino, la portavi al Balôn, locale un po' fané con divanetti di velluto rosso, le offrivi un latte con la cioccolata, le prendevi la mano e recitavi D’Annunzio: “Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure /qualche dolcezza è ne la nostra vita da ieri”. Sapesse quante volte mi è capitato».
Corteggiatissima a colpi di rime ed endecasillabi. Anche il suo futuro marito si comportò così?
«Abitavamo nella stessa strada ed Elémire (Zolla), destinato a diventare un gran conoscitore di dottrine esoteriche e uno studioso di mistica, mi avvicinò sapendo che mio padre disponeva di un piccolo marchio editoriale. Voleva pubblicare un suo lavoro in cui attaccava duramente Croce. Il tomo, stampato con una serie infinita di errori, fu poi inviato al pensatore di Pescasseroli che, scambiandolo per via del suo nome per una donna, gli scrisse: “Gentilissima signorina, ho letto il suo lavoro e l’ho apprezzato anche se penso che sia un po’ troppo acerbo per rimproverarmi tante cose”».
Tante le letture di ieri. E quelle di oggi?
«Le poesie di Yves Bonnefoy, così ricche e dotate di spessore filosofico, capaci di far emergere il lato più infantile della nostra vita troppo spesso cancellato. Tiziano Scarpa e il suo Stabat mater, un’opera decisamente controcorrente perché, contro la frenesia e la velocità, privilegia la lentezza e la pensosità». "«Mio padre voleva che mi occupassi dell’azienda famigliare, io mi immergevo in Guido Gozzano» «Il mio interlocutore più polemico? La Pivano, non apprezzavo la letteratura americana piena di “ciao disse lui”» «Oggi apprezzo Bonnefoy, capace di far emergere il lato più infantile della nostra vita»"
Repubblica 3.12.11
La controversia tra il nuovo realismo e chi sostiene il primato dell´interpretazione
Il postmoderno ucciso dalle sue caricature
È difficile accettare l´idea per cui tutto dipende esclusivamente dagli schemi concettuali. Se ne dovrebbe concludere che non esistono nemmeno le sedie o i computer
di Diego Marconi
Molti filosofi, e anche molti non filosofi, condividono la convinzione che la verità o falsità dell´enunciato "Sulla Luna ci sono montagne alte più di 4000 metri" non dipenda da noi né dal nostro linguaggio, ma dipenda soltanto da come è fatta la Luna, e in particolare da quanto sono alte le sue montagne. Che alcune di esse sono più alte di 4000 metri era già vero prima che esistessero esseri umani, e sarebbe stato vero anche se la nostra specie non fosse mai apparsa sulla Terra. Chiamiamo questa convinzione "l´intuizione realista". D´altra parte, molti filosofi – e molti non filosofi – condividono anche la convinzione che la realtà possa essere descritta in vari modi diversi, e che il modo in cui la descriviamo dipenda dal nostro linguaggio, o, se si preferisce, dai nostri concetti. Se non avessimo il concetto di montagna non potremmo né dire né pensare che sulla Luna ci sono montagne alte più di 4000 metri. Chiamiamo questa seconda convinzione, non meno largamente condivisa della prima, "intuizione ermeneutica".
Rinunciare all´una o all´altra delle due intuizioni è molto costoso. Se si rinuncia alla prima, rischia di venir fuori che l´altezza delle montagne lunari dipende dalla nostra mente o dal nostro linguaggio; ma sembra ovvio che né l´una né l´altro sono in grado di incidere sulla superficie lunare e sui suoi corrugamenti. Se si rinuncia alla seconda intuizione, si giunge alla conclusione che c´è un´unica descrizione corretta della realtà; ma quale? Pare strano dire che non è vero che nella stanza in cui sto scrivendo ci sono libri, computer e pennarelli, ma è vero soltanto che ci sono particelle elementari variamente assemblate; e poi, che cosa garantisce che i concetti che i fisici usano oggi siano davvero quelli che «ritagliano la realtà secondo le sue articolazioni», come diceva Platone? Sembrerebbe più sensato dire che è vero sia che ci sono (nella mia stanza) libri e computer, sia che ci sono particelle elementari. Dunque i filosofi si sforzano di tenere insieme le due intuizioni, quella realista e quella ermeneutica, e i diversi dosaggi dei due ingredienti generano le varie forme di realismo, e anche forme di non-realismo moderato.
Qualche decennio fa l´intuizione realistica non era molto popolare, almeno da noi in Europa, essendo considerata "ingenua", mentre l´intuizione ermeneutica andava forte. Ora il pendolo ha compiuto la sua oscillazione, e il clima si è fatto più ospitale per il realismo anche nel nostro continente (sotto altri cieli esso occupa saldamente il campo fin dal 1972, anno della pubblicazione di Nome e necessità di Saul Kripke). Ma ciò che è condiviso, o più condiviso di qualche anno fa non è tanto una versione ben definita del realismo, quanto il rifiuto delle posizioni caratteristicamente postmodernistiche di fine Novecento: pochi ormai pensano che non ci sono fatti (ma solo interpretazioni), o che la verità è un effetto del potere, o che la realtà è creata dal linguaggio o dai nostri concetti, o che scienziati che sostengono teorie incompatibili vivono, letteralmente, in mondi diversi, e via dicendo. In filosofia come altrove, si raggiunge più facilmente il consenso su quali posizioni sono sbagliate che non su qual è quella giusta.
È a questo consenso soprattutto negativo che ha avuto il merito di dar voce la proposta di un nuovo realismo. Una proposta che non si impegna a sostenere una forma precisa di realismo, ma intende soprattutto suonare la fine della ricreazione per la vulgata postmodernista. Ora vari intellettuali a suo tempo protagonisti della sbornia antirealista – di cui siamo stati tutti un po´ partecipi, chi più chi meno – sostengono di non aver mai pensato né detto che non esistono le sedie, i pianeti e gli atomi o che quando piove non è semplicemente vero che piove. Magari invece hanno detto cose di questo genere; non perché le credessero davvero ma per l´amore della boutade che contraddistingue il loro stile di pensiero. In ogni caso, questi filosofi fanno male a disconoscere le presunte boutades, perché sono effettivamente conseguenze della loro scelta di privilegiare unilateralmente l´intuizione che ho chiamato ermeneutica rispetto all´intuizione realistica. Se ogni cosa esiste solo per uno schema concettuale, allora niente esiste semplicemente, neanche le sedie; se ci sono soltanto interpretazioni, allora è un´interpretazione anche che piove, quando piove. Tutto questo è assai poco convincente. È giustissimo dirlo; ma, per il filosofo, il lavoro vero resta la faticosa mediazione tra convinzioni divergenti, ma tutte assai tenaci.
Repubblica 3.12.11
L´editoria è in crisi i dati presentati a "Più libri più liberi"
di Raffaella De Santis
ROMA Rallenta il mercato del libro. E scende l´ombra del segno negativo sul settore, fino ad oggi relativamente meno toccato dalla contrazione generalizzata dei consumi: a fine ottobre si registra infatti un 0,7% sul totale del mercato (pari a 7,1 milioni di euro di spesa in meno). Va meglio solo per librerie e Internet, che registrano un + 0,1%. È quanto emerge dai primi dati NielsenBookScan che saranno presentati a Roma il 7 dicembre a Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria, nell´ambito dell´appuntamento organizzato da Aie Dall´autore al lettore: modelli distributivi a confronto, alle 15 nella sala Smeraldo del Palazzo dei Congressi dell´Eur. I dati, che si riferiscono ai soli canali trade di varia adulti e ragazzi (librerie, indipendenti e di catena, librerie online e vendite nella Gdo), fanno intravedere come anche il settore del libro inizi a risentire della minore capacità di spesa delle famiglie italiane.