venerdì 4 novembre 2011

l’Unità 4.11.11
Il segretario del Pd «Domani tutti in piazza per riprenderci il nostro futuro di persone libere»
A San Giovanni «Una festa di popolo». Politica e tanta musica, con Vecchioni e Marlene Kuntz
L’appello di Bersani «Uno sforzo unitario per ricostruire l’Italia»
di Virginia Lori

qui

Repubblica 4.11.11
Bersani: "In piazza con noi chi ha a cuore l´Italia"
Domani il Pd a San Giovanni: "Via Berlusconi, ricostruiamo il Paese". Di Pietro ci sarà
Attesi 14 treni, 2 navi, oltre 700 pullman. Vendola: "Guardo con grande simpatia"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il Partito democratico "riapre" Piazza San Giovanni alle grandi manifestazioni dopo il sabato nero degli scontri, tre settimane fa. Lo fa per un appuntamento che sarà sicuramente pacifico, ma ha tutte le intenzioni di mandare un chiaro messaggio agli italiani: Berlusconi deve andare a casa. Domani la grande piazza di Roma sarà invasa dal popolo democratico con il caldo suggerimento del segretario Pier Luigi Bersani di sventolare soprattutto bandiere tricolori. «Il nostro intento è di riunire tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese per avviare insieme una ricostruzione democratica, sociale ed economica», dice il leader del Pd. Non verranno invocate elezioni, si dirà che c´è bisogno di un cambio a Palazzo Chigi. Subito.
La manifestazione scatta alle 12,30 con la musica, altra protagonista della kermesse. Si comincia con le note dell´ensemble multietnico Med free Orkestra e con Ziggy. Più tardi sul palco saliranno Marlene Kuntz e Roberto Vecchioni. Ma il clou scatta alle 14,30 quando Bersani e gli ospiti daranno un senso politico alla giornata. Sono stati invitati a parlare il leader della Spd Sigmar Gabriel, il candidato alle presidenziali francesi, il socialista François Hollande e il vicepresidente della Dc cilena Jorge Burgos. Sono stati Beppe Fioroni e Lucio D´Ubaldo a organizzare l´arrivo del dirigente sudamericano. In qualche modo andava equilibrata la presenza dei socialisti con un esponente cattolico che desse il senso di un partito progressista, che è fuori dall´alveo del socialismo classico.
In piazza ci saranno banchetti per la raccolta di fondi in favore delle zone alluvionate della Liguria e della Toscana. A rompere le parole dei politici puri, Laura Boldrini, portavoce dell´Alto commissario per i rifugiati, parlerà degli immigrati, dei richiedenti asilo. «Per riprendere il posto che ci meritiamo nel mondo c´è bisogno di uno sforzo corale. Per questo chiediamo a tutti di venire in piazza con noi, alle diverse associazioni impegnate nella società, ai movimenti civili, a coloro che hanno a cuore il futuro degli italiani», dice ancora Bersani in un invito aperto. I militanti del Pd si sono già mossi. È prevista un´affluenza record con 14 treni, 2 navi, oltre 700 pullman già riempiti. Si spera nella clemenza del meteo.
La manifestazione verrà trasmessa in diretta sul sito del Pd (www.partitodemocratico.it), sul twitter di pdnetwork (con # cinque11), sul sito di Youdem, la televisione del partito (www. youdem.tv) e sul satellite (canale 808 della piattaforma di Sky), ma anche sul sito dell´Unità e di Europa, su repubblica.it e corriere.it, su Rainews24 e Skytg24.
Ci saranno l´Idv e il suo leader Antonio Di Pietro. Ci sarà anche Matteo Renzi, che partirà per Roma subito dopo la posa della prima pietra della tramvia a Firenze. Mancherà Nichi Vendola che quel giorno accoglie Napolitano in Puglia. Ma il capo di Sel guarda «con grandissima simpatia alla manifestazione». E tifa perché dal popolo Pd sorga un movimento per le elezioni anticipate, scavalcando l´idea di un governo di emergenza. «Auguro un successo a Bersani - spiega Vendola - perchè considero l´appuntamento del Pd un pezzo importante della costruzione di un cantiere comune». L´area Marino avrà una sua folta rappresentanza. «La manifestazione è certamente un passaggio importante per mandare a casa il governo Berlusconi», dice il coordinatore Michele Meta.

Repubblica 4.11.11
L’aggressione nella capitale. Gli attivisti attaccavano manifesti contro la mafia. Tra le vittime anche un consigliere di circoscrizione
"Comunisti vi uccidiamo", poi le sprangate quattro militanti Pd finiscono in ospedale
d Massimo Lugli


La condanna di Alemanno: violenza intollerabile E la Procura apre un´inchiesta
"Raid guidato da un leader di Casapound". Ma il centro sociale di estrema destra nega

ROMA - «Uccidiamo quei comunisti». Il grido di guerra e, subito dopo l´aggressione: quattro militanti del Pd che stavano affiggendo manifesti sui muri di Montesacro massacrati a sprangate da una squadraccia di almeno dieci teppisti. A terra, feriti e sanguinanti, sono rimasti in quattro tra cui il capogruppo del partito democratico al quarto municipio, Paolo Marchionne. Il più grave, Luca Quartu ha uno zigomo fratturato ed è ricoverato, un altro, Lorenzo Agostino ha un braccio rotto (15 giorni) e gli altri due se la caveranno in 8 e 7 giorni. Scambio di accuse e controaccuse con i militanti del centro sociale di estrema destra "Casapound" che ha occupato uno stabile a 200 metri di distanza dal luogo del pestaggio. Un episodio emblematico di un clima di violenza sempre più opprimente, nella capitale con aggressioni e scontri "politici" che ricordano gli anni 70.
È accaduto verso l´1 della notte tra mercoledì e giovedì quando, in via Valtournanche, il gruppo di militanti del Pd stava attaccando manifesti con la scritta «La conosci la mafia? È sotto casa tua». Un´iniziativa per protestare contro il fatto che uno stabile sequestrato alla criminalità organizzata non è stato ancora adibito a servizi sociali nella zona.
«Abbiamo sentito urlare: uccidiamo quei comunisti e poi ci sono saltati addosso come furie - racconta Paolo Marchionne, il capogruppo del partito in zona, un vistoso cerotto sulla fronte - erano una decina, armati di bastoni e tubi di ferro, col viso coperto da sciarpe, fazzoletti e caschi». Uno solo dei giovani di sinistra, tutti tra i 20 e i 25 anni, riesce a scappare, gli altri vengono abbattuti a sprangate nel giro di pochi minuti. Sulla strada, fortunatamente, passa una "gazzella" della compagnia di Montesacro in servizio di ronda e, alla vista dei carabinieri, gli aggressori si dileguano nel buio. Sull´asfalto i militari troveranno alcuni tubi di ferro pesanti come mazze.
«Uno di loro, dopo l´aggressione, si è scoperto il viso, si è avvicinato e mi ha detto: lo sai chi sono? - accusa Marchionne - gli ho risposto che lo conosco benissimo e infatti l´ho denunciato. Si chiama Alberto Palladini, detto Zippo, responsabile di zona di Casapound». Quasi immediata la replica del gruppo di destra: «Quanto avvenuto è l´ultimo atto di una chiara strategia per estrometterci dalla vita politica del municipio, portata avanti con la diffamazione e gli attentati come quello di alcuni mesi fa sotto casa di Palladino». Il sindaco Gianni Alemanno ha espresso solidarietà ai feriti e condanna del gesto di violenza («È intollerabile») mentre i deputati del Pd Enrico Gasbarra e Roberto Morassut hanno chiesto l´intervento del governo per accertare le responsabilità del pestaggio. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha telefonato ai quattro militanti picchiati mentre, sul pestaggio, stanno indagando i carabinieri. Nessuna denuncia, almeno per ora ma la procura indaga per lesioni.

l’Unità 4.11.11
L’intervista: Anna Finocchiaro
«Il governo è in agonia. Larghe intese? Difficili»
La presidente dei senatori Pd: «Un governo di transizione sarebbe la soluzione migliore per il Paese, noi siamo pronti, ma nel Pdl non vedo tante disponibilità»
di Maria Zegarelli

qui

il Fatto 4.11.11
Rita Bernardini. I cinque “pannelliani” in Parlamento
“Noi Radicali pronti a votare con il governo”


Torna la fiducia, e tornano in ballo, clamorosamente, con i boatos del Transatlantico, i voti dei Radicali. Secondo Radio Montecitorio, quando Denis Verdini dice “Abbiamo 320 voti”, già fa conto sul loro appoggio. “Berlusconi li ha già acquisiti”; sibila affilato Pasquale Laurito detto “velina rossa”, seduto su di un divanetto. Così intercettare Rita Bernardini, la pasionaria di Torre Argentina alla buvette è un modo per capire se si riprodurrà il thrilling sui voti dei Radicali. La Bernardini è dimagrita (“I digiuni aiutano”), è serena (“Ormai con tutte le balle che scrivete su di noi... ”), ma non smentisce. Anzi: “Se il governo si dovesse presentare con un emendamento che contiene la traduzione legislativa di tutti i punti contenuti nella lettera del governo all’Europa, la domanda è un’altra: perché mai non dovremmo votarlo? ”.
Magari perché i vostri elettori si potrebbero imbestialire, visto che vi hanno votato per fare opposizione nelle liste del Pd.
Ci sono tanti diversi problemi in quello che dici. Potremmo iniziare con il dire che gli elettori radicali si potrebbero imbestialire, visto quello che hanno dovuto mandare giù.
Ti riferisci al 2008?
(Sorride) Mi riferisco a una serie di fatti politici che si sono verificati a partire dal 1976 in poi, a dire il vero…
Parti da Adamo ed Eva?
Ma se vogliamo stare ai più recenti, ti ricordo che noi non abbiamo potuto presentare la nostra lista, come invece è stato consentito a Di Pietro.
Se vi foste presentati da soli quanto avreste preso?
Non è la domanda giusta. Saremmo stati eletti sicuramente, perché nella coalizione viene ammessa alla ripartizione dei seggi la prima lista che non supera il 4%. Dopo Di Pietro, che lo ha superato, c’eravamo noi.
Non mi dirai che dissentite ora perché vi hanno dato sei seggi nelle liste del Pd nel 2008!
Dico che la gente si dimentica tante cose.
Ad esempio?
Che i nostri elettori all’epoca hanno dovuto mandare giù un inspiegabile veto alla candidatura di Marco Pannella! Che subito dopo si è detto no anche a Sergio D’Elia!
Ma tutto questo precede l’inizio della legislatura. Lo sapevate quando vi siete “sposati” con Veltroni.
Non tutti sanno che c’era stato un patto, anche dopo il voto, con il Pd, per promuovere le nostre battaglie parlamentari. Solo un anno fa eravamo d’accordo con Bersani a presentare proposte di legge sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro e sui diritti civili.
E come è andata a finire?
Tutto dimenticato! Pensa che con Bersani non ci sono stati più contatti nemmeno dopo quello che è successo nell’ultima fiducia. Non ci ha chiamato!
Forse non voleva a litigare.
Bè, fa male. Quando siamo andati a cena da Berlusconi, pochi giorni fa...
Ahi, ahi!
Quando siamo andati a cena da lui, Marco ha parlato per mezz’ora elencando tutte le riforme liberali che lui ha promesso e non ha mai realizzato, in questi 17 anni. Sai cosa ha detto Berlusconi?
No, dimmelo tu.
Nulla. È rimasto in silenzio perché non c’era nulla da obiettare. Erano i punti su cui avevamo stretto l’alleanza elettorale fra il 1994 e il 1996, nella speranza di fare la rivoluzione liberale di cui questo paese ha bisogno.
Ma quindi perché mai Berlusconi dovrebbe essere credibile se le ripropone ora?
Appunto. Anzi, mi preoccupa di più sapere i numeri degli altri, i suoi ce li ha davvero.
Nulla è certo.
Tranne una cosa. Quello che è scritto nella lettera all’Europa, penso alla possibilità di licenziare e alla flessibilità del mercato del lavoro, o alle pensioni, è quello che noi inascoltati chiediamo da anni. Se fosse la volta buona non capisco perché, proprio noi che abbiamo fatto i referendum dieci anni fa per realizzare queste riforme, proprio noi dovremmo opporci.
Ma allora avete già deciso!
Non abbiamo deciso nulla. Prima vediamo il testo, poi decideremo cosa fare. Come sono abituati a fare i Radicali: sempre e solo nel merito. (lutel)

Repubblica 4.11.11
Il premier minaccia “Elezioni anticipate
"Resistere fino a dicembre, poi solo le urne" e il Cavaliere pensa al paracadute dei Radicali
di Francesco Bei


Resistere a tutti i costi, restare in sella almeno fino a metà dicembre. Solo quello importa, su questo unico obiettivo il premier sta mobilitando tutte le risorse disponibili. «Se riusciamo ad arrivare a dicembre con la legge di stabilità – ripete ai suoi in queste ore – allora è fatta. Anche se ci votano contro non c´è più spazio per un governo tecnico. Possiamo andare alle urne a fine gennaio, dobbiamo tenerci pronti».
Gli spazi pubblicitari per le affissioni sono già stati prenotati. Nella suite dell´hotel Carlton di Cannes, trasformata in una "war room", Berlusconi telefona a Roma e ascolta preoccupato il resoconto dei contatti di Denis Verdini e Angelino Alfano con i deputati ribelli.
I grandi della terra lo attendono per cena, Paolo Bonaiuti si affaccia sulla soglia ogni cinque minuti, ma le notizie da Montecitorio sono sempre più nere e impongono la massima attenzione: saltano pezzi del Pdl, una pedina dopo l´altra cade nella rete segreta tessuta in queste settimane da Casini con l´aiuto di Paolo Cirino Pomicino.
In certi momenti lo stesso Berlusconi ha la tentazione di gettare la spugna, si fa sopraffare dallo sconforto. «Questo potrebbe essere il mio ultimo G20», ha confidato ieri con una punta di amarezza. C´è persino un corrente di pensiero, tra i falchi del Pdl, che glielo consiglia apertamente.
L´idea, se dovesse avere successo la "trappola" preparata da Casini, sarebbe quella di mettersi all´opposizione di un governo tecnico comunque debole, cogliendo tutti i vantaggi della situazione. Gridando ogni giorno contro il «governo del ribaltone» Berlusconi potrebbe infatti provare a risalire dall´abisso del 23% di fiducia che gli accredita l´ultimo sondaggio riservato di Euromedia. Intanto però c´è da combattere la battaglia del peone. La maggioranza è sotto i 310 ma Verdini, al telefono, garantisce al premier di avere ancora dei «jolly» tenuti segreti «da giocarsi nelle emergenze». Nel mazzo ci sarebbe persino un deputato ex Margherita, mentre il corteggiamento si allarga alla pattuglia dei radicali, ormai in rotta con il Pd. «Se nel provvedimento del governo ci fossero le liberalizzazioni che chiediamo da 40 anni - si chiede sibillina la senatrice radicale Donatella Poretti - perchè non dovremmo essere contenti?».
«Dobbiamo resistere fino a dicembre», impone il Cavaliere. Il calendario, illustrato ieri nella riunione con Sarkozy e Merkel, dovrebbe portarlo dritto alla meta. È stato studiato a questo scopo. La fiducia sulla legge di stabilità, che conterrà le misure concordate con l´Europa, sarà votata al Senato nell´ultima settimana di novembre. Poi il ddl passerà alla Camera, dovrà essere calendarizzato, discusso e votato. Così da arrivare a metà dicembre. «A quel punto - ne è convinto Berlusconi - siamo a cavallo, i giochini finiranno. Anche l´ultimo dei deputati capirà che, se cadiamo noi, ci sono sole le urne». Il Cavaliere teme tuttavia che Napolitano possa avallare il disegno di un altro governo. Lo ha messo in grande allarme quella nota del Quirinale con cui ieri si ribadiva «la libertà» dei deputati in attesa dei prossimi voti in Parlamento. Prima della legge di stabilità c´è infatti da superare la boa del Rendiconto dello Stato, un altro voto ad altissimo rischio. «Stracquadanio che ti ha detto?», ha chiesto ieri Berlusconi da Cannes a Verdini. Il coordinatore del Pdl: «Mi ha giurato che loro il Rendiconto lo votano, come hanno fatto l´altra volta». E Berlusconi: «E tu ti fidi?».
La partita che il premier sta giocando è ad altissimo rischio. Per questo vengono valutate tutte le opzioni, contando anche sulle possibili divisioni fra le forze d´opposizione. Dopo la sfida lanciata da Renzi a Bersani, il segretario del Pd potrebbe anche convenire sul voto anticipato a fine gennaio, decretando la morte del governo tecnico. Almeno è quello che sperano nel Pdl.
«Con il governo tecnico - ragiona il ministro Gianfranco Rotondi - Renzi avrebbe un anno di tempo per organizzarsi mentre, se si andasse al voto a gennaio, il candidato premier non potrebbe che essere l´attuale segretario del Pd. Questi calcoli Bersani se li fa e magari, sul Rendiconto, qualche assenza nelle file del Pd ci potrebbe essere». Speranze.

il Riformista 4.11.11
Dare battaglia sulla legge elettorale
di Emanuele Macaluso

qui

il Fatto 4.11.11
Matteo Renzi
Il giovanilismo può far male
di Angelo d’Orsi


La “proposta politica” del Renzi, al di là, o al di qua, del contenuto – su cui si sono già espressi giudizi pertinenti, tirando in ballo gli anni Ottanta o, al più, il blairismo dei Novanta – è deprimente, non solo, ma anche per la sua insistita evocazione del valore della giovinezza. Il bamboccione fiorentino, un mirabile prodotto della schiatta dei “figli di papà”, che strepita e annuncia di non volersi candidare, che convoca alla sua americanata politici di lungo corso, e qualche nuovo guru (ah, Baricco!), propone come rivoluzionaria, anzi, addirittura eversiva, la sua ricetta: rinnovare il partito, che egli interpreta come fare, sic et simpliciter, il “ricambio generazionale”. Cambiano i simboli, cambiano le denominazioni, argomenta l’astro nascente della politica “democratica”: possibile che non debbano cambiare gli uomini? A chi come Renzi, che pure si presentò alla Ruota della fortuna di Mike Bongiorno nel lontano 1994 (toh, guarda! L’anno della discesa in campo...), appare piuttosto digiuno di storia, vale la pena ricordare che giunge buon ultimo, nella nobile apologetica giovanilista. Molti altri prima di lui hanno perorato, come valore politico in sé, la gioventù; e, diciamo la verità, non si direbbe che abbiano reso un buon servigio a questo Paese. All’inizio del secolo scorso i futuristi hanno minacciato sfracelli, chiedendo una rivoluzione generazionale; nel Manifesto di fondazione si legge “I più vecchi di noi hanno 30 anni... ”. Il giovanilismo fu la loro bandiera, che si fuse con le istanze politiche del nazionalismo imperialista. Volevano dare l’assalto alle stelle, distruggere città insopportabilmente vecchie quali Roma, Venezia e Firenze, animati dalla pura retorica della forza propria dei giovani che sentono di poter osare tutto e nulla temere, nemmeno la morte (sarà poi vero?). Ben presto, però, si accontentarono di qualche prebenda e un po’ di spazio nell’editoria, nel giornalismo, e nelle commesse pubbliche per ornare i palazzi del regime fascista. E da teppisti divennero uomini d’ordine. E cercarono casa a Roma, a cominciare dal loro leader Marinetti, sedotto dal potere mussoliniano.
IL FASCISMO, appunto: se lo ricorda, Renzi, l’inno delle camicie nere? “Giovinezza, giovinezza... ”, con quel che segue. Benito Mussolini usò, prima per salire ai vertici del Partito socialista, poi per imporsi sulla scena nazionale, proprio l’argomento dell’età. Fu il più giovane presidente del Consiglio, dopo esser stato il più giovane leader dei socialisti, ovviamente, vestendo i panni del capo della corrente dei “rivoluzionari”, contro la “gerontocrazia” del Psi. E la Marcia su Roma, che seguì a un biennio di violenze contro socialisti e comunisti (ecco, il frutto delle “audacie” giovanili), fu etichettata come rivoluzione dei giovani. Essere giovani significava esser portatori di un valore che gli altri, i “vecchi”, non avevano. I giovani hanno coraggio, disprezzano il pericolo, sono creatori, innovatori: e l’Italia, fu definita nazione giovane che aveva diritto al suo posto al sole, contro le vecchie Inghilterra e Francia... Sappiamo come finì.
Allora, siamo certi che il giovanilismo possa costituire un buon messaggio politico? V’è da dubitarne, invece; v’è da pensare che la polemica generazionale tradisca la pochezza di contenuti, e la carenza di senso di responsabilità. Ancora una volta Gramsci insegna. Ecco cosa leggiamo in un passaggio (provvidenziale) dei Quaderni del carcere: “Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi”. Nella politica italiana, dentro e fuori il Pd, non si vedono grandi uomini; pullulano invece i camerieri. O aspiranti tali.

Corriere della Sera 4.11.11
Le (non) terapie della sinistra europea
di Paolo Franchi


Curioso. Molto curioso. La guida politica, e qualcosa di più, dell'Europa è saldamente in mano all'autonominato direttorio franco-tedesco. Ma i due leader del direttorio in questione, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, hanno in comune un problema davvero non secondario. I sondaggi e le elezioni regionali e locali valgono quel che valgono, ci mancherebbe: a primavera in Francia, e nel 2013 in Germania, può succedere di tutto. Se si votasse oggi, però, Sarkozy dovrebbe con ogni probabilità cedere il passo al socialista François Hollande; e in Germania la coalizione tra i cristiano-democratici e i (quasi desaparecidos) liberali, guidata dalla Merkel, dovrebbe arrendersi a un'alleanza rosso-verde. O magari verde-rossa.
Curioso. Molto curioso. In Europa, la sinistra non sembra avere niente di particolarmente significativo da dire sulla crisi, salvo che questa ha parecchio da spartire con il falò delle vanità di un liberismo sino a ieri trionfante, che la Terza via di Tony Blair così come la Neue Mitte di Gerhard Schroeder non si sono rivelate strategie efficaci e che però non si può nemmeno ritornare, come se il mondo non fosse radicalmente cambiato, al modello socialdemocratico tradizionale. Parecchie banalità, poche analisi, ancor meno terapie. Sulla crisi pressoché permanente del socialismo francese del dopo Mitterrand, poi, così come su quella della Spd del dopo Schroeder, c'è una letteratura sconfinata. Eppure i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi, con tutti i loro guai, rischiano di tornare, magari più per i demeriti degli avversari che per meriti propri, ma questo in politica succede spesso, alla guida dei rispettivi Paesi.
Curioso. Molto curioso. È vero che viviamo in tempi calamitosi, in cui ogni giorno ha la sua croce e ragionare su cosa potrebbe succedere tra qualche mese sembra un lusso che non ci possiamo permettere. Ma forse guardare con un po' di attenzione a quello che sta succedendo in Francia e in Germania non sarebbe una perdita di tempo. Se domani a governarle fossero, come è possibile e anzi al momento probabile, i socialisti e, in coalizione con i Verdi, i socialdemocratici, cambierebbe qualcosa nel modo di affrontare la crisi dell'Europa? Per ora bisogna accontentarsi di indizi, o poco più. Nel primo turno delle primarie socialiste francesi, per esempio, la vera sorpresa è stato il diciassette per cento del «sinistro» Arnaud Montebourg, che vorrebbe lo Stato nei consigli di amministrazione delle banche nonché misure protezionistiche contro l'espansionismo cinese, ed è fautore di un «capitalismo cooperativo». È difficile credere che il realista Hollande, comprensibilmente in cerca di consensi moderati, possa fare proprie queste tesi: ma in qualche modo (tutto sta a vedere quale) dovrà tenerne conto, perché anche in Francia l'indignazione e il risentimento hanno una base sociale ampia, alla quale rischia di attingere a piene mani Marine Le Pen, l'unica antieuropeista dichiarata tra i candidati che contano per l'Eliseo. Quanto alla Spd e ai Verdi tedeschi, condividono con tutti i loro compatrioti l'orrore per il dilagare del debito pubblico, a cominciare, si capisce, da quello altrui. Ma hanno criticato aspramente la Merkel per le sue titubanze di fronte al populismo tedesco, e non è solo il sempiterno Martin Schulz a chiedersi polemico se il deficit democratico di cui soffrono le sue istituzioni non rappresenti per l'Europa un pericolo mortale. Tutto questo non basta, naturalmente, a far presagire terremoti prossimi venturi. Dovrebbe indurre, però, quanto meno a un supplemento di riflessione. Anche se è difficile fermarsi a riflettere quando la casa brucia.
Curioso. Molto curioso. Ci si aspetterebbe che la prima a farlo fosse la sinistra o, se si preferisce, il centrosinistra. Che invece sembra o non interessarsi troppo di quel che capita a un paio d'ore di volo da Roma o vivere la cosa più come un problema che come una finestra di opportunità: non per oggi, certo, perché oggi tocca mandar giù pane amaro, ma, quanto meno, per il futuro prossimo. Domani a piazza San Giovanni, alla manifestazione nazionale del Pd, ci saranno Hollande e il segretario della Spd, Sigmar Gabriel. Non saranno in gran forma, ma stanno benino. Fossimo in Pier Luigi Bersani, approfitteremmo della loro cortesia per chiedere qualche ragguaglio in più.

l’Unità 4.11.11
Intervista a Maurizio Landini
«Pagano sempre i soliti. Va cambiata la politica Ue»
Oggi il segretario Fiom sarà in corteo con i metalmeccanici della Lombardia che scioperano per otto ore contro l’assenza di politiche industriali
di Giuseppe Vespo

qui

il Fatto 4.11.11
A Roma prove di stato di polizia. Studenti schedati a scuola
Cariche contro chi tenta di violare il divieto di manifestare
di Chiara Paolin


Sono arrivata a scuola alle otto meno un quarto e ho visto una cosa incredibile. Davanti al marciapiede, dove di solito parcheggiamo i motorini, era tutto pieno di poliziotti. Tre camionette blu e due auto con agenti in borghese. Un mio compagno si è avvicinato e ha chiesto: ma che state facendo? Identifichiamo quelli che vanno alla manifestazione, hanno risposto. Poi è arrivata la preside e li ha cacciati, mica ci potevano stare qui”. Fulvia, ieri mattina, non è andata con gli altri. C’era una lezione di filosofia cui teneva, per quello è rimasta al Liceo Mamiani in viale Delle Milizie, quello della fiction tivù “I Liceali”. “Sennò ci andavo eccome – spiega mostrando sul cellulare le foto scattate al mattino –. Vedi, cinque classi sono andate via in blocco, più altri sparsi, circa 140 ragazzi in tutto. E la Polizia dietro, una scena ridicola: hanno detto che eravamo una scuola a rischio, ma quando mai”.
Identica scena in altri istituti del centro: Tasso, Giulio Cesare, Virgilio, Righi, licei ritenuti pericolosi per aver dichiarato – in anticipo – di voler partecipare al corteo che sfidava l’ordinanza Alemanno contro i raduni in centro dopo il disastro del 15 ottobre. E gli studenti hanno deciso di organizzare una manifestazione proprio contro il divieto, convergendo sulla stazione Tiburtina. Da lì, tutti insieme, si doveva arrivare alla Sapienza passando dal centro.
MA, DAVANTI alla stazione, i circa 300 manifestanti hanno trovato i poliziotti schierati in assetto antisommossa: hanno urlato slogan, mostrato i loro scudi di cartone e gommapiuma, gridato la voglia di futuro oltre le nubi del presente italiano. In risposta, niente autorizzazione al corteo. Gli studenti hanno tentato di forzare il cordone, gli agenti hanno caricato: spinte e manganellate su giovani in gran parte minorenni, del tutto disarmati. Dopo le botte, alcuni si sono spinti in un’area interna al piazzale per sfondare la rete del cantiere e tentare la fuga. Gli agenti hanno attaccato ancora: oltre alla manifestazione non autorizzata, c’era il danneggiamento. Altre manganellate, qualche ragazzino inseguito nelle vie laterali, e poi un cordone tutto intorno alla piazza. “Ci hanno sequestrato, non possiamo uscire di qua senza farci identificare – raccontava un ragazzo al telefono –. Adesso ci sediamo per terra e vediamo che succede”. Dopo una lunga mediazione, cui hanno partecipato diversi genitori e alcuni esponenti dell’opposizione, si è arrivati alla soluzione: si poteva lasciare la zona a gruppi di trenta per raggiungere la Sapienza, ma niente centro. Alla fine tutti si sono riuniti davanti all’università decidendo di riconvocarsi per il 17 novembre: con o senza il consenso di Alemanno.
Che ha commentato così: “Per fortuna non ci sono stati grandi incidenti, e mi dispiace sinceramente che la forza pubblica sia dovuta intervenire. Però ci sono delle regole che tutti devono rispettare. È chiaro che il Questore ha dovuto fare il suo mestiere, così come il sindaco che deve rispettare i diritti degli studenti ma anche quelli dei cittadini romani che non vogliono vedere la propria città messa sempre a dura prova da continue manifestazioni”. Dunque massima sintonia tra le istituzioni cittadine, e una certa soddisfazione per aver evitato noie al traffico. Peccato che la stazione sia rimasta chiusa per ore, i bus dirottati e le vie di accesso chiuse. Giuseppe, papà di uno studente 17enne, è stupito da tanta approssimazione: “Ho assistito a una gestione della piazza ridicola. Centinaia di agenti ed elicotteri per pochi studenti. Impediscono ai ragazzi di uscire dalla piazza. Ma con quale credibilità si agisce così? Perché dovrebbero identificare ragazzini minorenni che non rappresentano nessuna minaccia quando nel Paese ci sono rappresentanti in odore di crimini ben più gravi? ”.
SECONDO la Questura, tutto regolare. L’avviso rivolto alla popolazione sui rischi “civili, penali e amministrativi” del partecipare a un corteo non autorizzato era sufficiente a giustificare la richiesta di documenti a tutti quelli che apparivano in procinto di organizzare o seguire l’evento. Flavia scuote la testa: “C’era anche un fotografo davanti alla scuola, la mattina. Faceva strane foto, non credo fossero per i giornali”. Le identificazioni ieri sono state oltre 300, e ora verranno denunciate almeno dieci persone per “invasione di terreno”. Nei confronti degli altri si sta valutando l’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento.
Insomma Digos e agenti, tutti impegnati a perseguire pericolosi studenti liceali mentre ieri il Tribunale del Riesame ha deciso gli arresti domiciliari per sette tra gli arrestati di San Giovanni. Uno resta in carcere a Roma e un altro a Chieti (Leonardo Vecchiolla). Per altri due romani, tra cui Fabrizio Filippi detto er Pelliccia, si deciderà nei prossimi giorni.

La Stampa 4.11.11
Fecondazione, un diritto poco europeo
di Vladimiro Zagrebelsky


Il diritto ad avere figli, anche superando la propria incapacità, è oggetto di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Due coppie austriache, non in grado di generar figli se non ricorrendo alla procreazione medicalmente assistita, resa possibile dai progressi della scienza medica, non hanno potuto realizzare il loro desiderio per il divieto posto dalla legge. Per la prima coppia si trattava di procedere a una fecondazione «in vitro» con dono dello sperma da parte di un estraneo, per la seconda si sarebbe dovuto procedere alla fecondazione «in vitro» con dono di ovuli femminili. La legge austriaca esclude la fecondazione «in vitro» eterologa (cioè con dono di gameti femminili o maschili di persona estranea alla coppia) e permette solo quella «in vivo» con dono di sperma. In Europa la scienza e la legislazione in materia sono in rapida evoluzione e così la sensibilità sociale. Come sappiamo, in Italia a seguito della legge n. 40 del 2004 è vietato il ricorso a ogni tecnica di procreazione assistita di tipo eterologo, sia essa «in vitro» o «in vivo». Tra i Paesi del Consiglio d’Europa, la stessa restrizione generale è adottata solo dalla Lituania e dalla Turchia, mentre la Germania, la Croazia, la Norvegia e la Svizzera limitano la proibizione al dono di ovuli femminili. Negli altri Paesi la procreazione eterologa è permessa, rimanendo escluso soltanto il commercio dei gameti.
Le due coppie si rivolsero ai giudici del loro Paese, fino alla Corte costituzionale, che però ritenne giustificata l’esclusione imposta dalla legge nazionale. Contro questo risultato negativo esse hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ora reso la sua sentenza. La Corte ha sottolineato la complessità e delicatezza delle questioni legate alla filiazione, sul piano legale e sociale. Essa ha riconosciuto l’esistenza di una tendenza verso l’ammissione delle nuove tecniche di procreazione eterologa, ma ha ritenuto che ancora mancasse in Europa un approccio comune (per esempio in materia di diritto del nato a conoscere l’identità del donatore di gamete) e ha quindi concluso che le scelte operate dall’Austria rientrano nel margine di valutazione nazionale che in materia deve essere riconosciuto agli Stati. Diviene sempre più frequente da parte della Corte europea il ricorso (rifugio?) al criterio del margine di valutazione nazionale, che però, se troppo allargato, finisce con il contraddire il suo ruolo di difesa dei diritti individuali anche con l’armonizzazione in Europa delle linee essenziali dei diversi diritti nazionali. Ma è proprio questo ruolo europeo che è negli ultimi tempi negato da diversi Stati con critiche e attacchi, che mettono la Corte in difficoltà.
L’argomento fondamentale svolto dai ricorrenti davanti alla Corte era basato sull’irrazionalità del divieto, che finiva con il discriminare senza ragione coloro che si trovavano nelle loro condizioni rispetto non solo a chi aveva la fortuna di non aver bisogno di tecniche mediche ma anche a chi poteva ricorrere alla fecondazione «in vivo» con dono dello sperma di un uomo estraneo alla coppia. Questa ingiustificata e discriminatoria limitazione andava a incidere sul diritto fondamentale al rispetto della vita familiare garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E su questo punto - che si trattasse cioè di una limitazione di quel diritto fondamentale - la Corte europea ha condiviso l’opinione dei ricorrenti. Non si trattava per la verità di questione controversa, poiché c’erano precedenti della Corte nello stesso senso ed anche i giudici austriaci avevano ammesso che le scelte della coppia sul se e come avere figli sono un aspetto del diritto al rispetto della vita familiare. La questione quindi riguardava la legittimità e la proporzione dell’interferenza statale nel diritto dei ricorrenti.
Il governo austriaco - appoggiato dal governo italiano e in parte da quello tedesco - sosteneva che il divieto era giustificato, sia dalla preoccupazione di evitare il crearsi di legami «atipici» tra il figlio nato e la pluralità di genitori (più «padri» o più «madri»), sia dalla necessità di escludere possibili fenomeni di sfruttamento della donna nel caso di dono di ovuli femminili e di «affitto dell’utero», fino al rischio di permettere pratiche eugenetiche. Ma, come facevano valere le due coppie, gli eventuali abusi possono essere contrastati e anche nell’adozione talora sorgono difficoltà e si creano legami plurimi, con la famiglia originaria e con quella adottiva, senza per questo che l’adozione sia vietata. D’altra parte, le pratiche mediche che erano loro vietate, sono facilmente disponibili in altri Paesi europei (come dimostra una facile ricerca su Internet). In proposito il governo austriaco ha sostenuto che la possibilità pratica di sottrarsi al divieto ne dimostrava la scarsa incidenza sul diritto delle coppie ricorrenti, tanto più che è comunque assicurato l’ordinario stato di filiazione al figlio nato con quelle tecniche vietate. Vien da chiedere, allora, perché negare il diritto in patria e costringere le persone a cercar soluzione all’estero? In definitiva, a giustificazione del divieto restava l’atipicità o inusualità di quel tipo di filiazione, per come percepite in parti della società austriaca e forse anche in altre. Quale forza però può assegnarsi all’argomento che resiste all’inusuale, cioè al nuovo, quando si tratta di cogliere le possibilità oggi offerte dalla scienza per soddisfare legittimi desideri e fondamentali diritti delle persone?

Lo scontro sulla pedofilia
2006 IL RAPPORTO MURPHY
320 vittime accusano 46 sacerdoti per il periodo 1975-2004
2007 IL SEGRETO PONTIFICIO
La Santa Sede oppone il silenzio a ogni richiesta di informazione
2010 LA LETTERA DEL PAPA
Benedetto XVI accusa i preti colpevoli: avete tradito la fiducia
2011 IL RITIRO DEL NUNZIO
Dopo le critiche di Dublino, il Vaticano richiama il nunzio

La Stampa 4.11.11
“Divorzio” dalla Santa Sede Dublino chiude l’ambasciata
“È una scelta dettata da motivi economici”. Padre Lombardi: liberi di decidere
di Giacomo Galeazzi


Dublino «divorzia» dal Vaticano e, tra le proteste dei vescovi dell’isola, la cattolicissima Irlanda lascia la Curia Romana. Il governo chiude l’ambasciata presso la Santa Sede e assicura che è una scelta dettata da motivi economici legati alla crisi e non dal «grande freddo» nei rapporti diplomatici con la Santa Sede. Rapporti, però, che attraversano una fase molto difficile. Tre mesi fa sia il premier Enda Kenny sia il Parlamento avevano severamente censurato la Chiesa di Roma, tacciandola di «sabotare le inchieste sui preti pedofili». Non era mai successo che Dublino parlasse con tanta forza contro il Vaticano, accusandolo di mettere i propri interessi davanti a quelli delle vittime degli abusi.
La decisione dell’esecutivo irlandese (che ha chiuso anche le rappresentanze in Iran e a Timor Est) è stata presa «per rispondere agli obiettivi del programma dell’Ue e dell’Fmi e riportare la spesa pubblica a un livello accettabile». Replica il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi: «La Santa Sede prende atto della decisione dell’Irlanda. Naturalmente ogni Stato che ha relazioni diplomatiche con la Santa Sede è libero di decidere, in base alle sue possibilità e interessi, se avere un ambasciatore presso la Santa Sede residente a Roma oppure residente in un altro Paese». Ma «importanti sono i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e gli Stati, e questi non sono in questione».
In seguito alle polemiche sullo scandalo-abusi, il 25 luglio la Santa Sede aveva richiamato a Roma il nunzio apostolico a Dublino «per consultazioni». Un fatto rarissimo, che ha fatto ancora più rumore perché coinvolge un Paese d’incrollabile tradizione cattolica. Al momento il posto di «ambasciatore del Papa» a Dublino è vacante in quanto il nunzio Giuseppe Leanza, prima richiamato in Vaticano, ha poi avuto un nuovo incarico a Praga. La nunziatura è comunque regolarmente aperta.
A settembre la Santa Sede ha inviato una lettera al governo di Dublino, riconoscendo la gravità degli abusi sui minori. Ma il Vaticano ha respinto seccamente, come infondata, l’accusa del governo irlandese di aver ostacolato le indagini e impedito all’episcopato nazionale di denunciare i preti pedofili alle autorità civili. Il governo irlandese ha riconosciuto «la serietà» della risposta vaticana, pur ribadendo che le sue passate posizioni «hanno dato il pretesto ad alcuni per non collaborare» con le autorità del Paese. Ieri, infine, la decisione di chiudere l’ambasciata romana.
«Profondo disappunto» per la «serrata» è stata espressa dal cardinale Sean Brady, arcivescovo di Armagh e Primate d’Irlanda, avvisato con una telefonata del ministero degli Esteri. Brady ha detto che «molti altri condividono questa delusione», ricordando che le relazioni tra i due Stati risalgono al 1929. «Questa decisione sembra mostrare poca considerazione per l’importante ruolo svolto dalla Santa Sede nelle relazioni internazionali e per i legami storici con il popolo irlandese», lamenta il porporato. «Spero che, nonostante questo passo deplorevole, la stretta e reciprocamente vantaggiosa collaborazione tra l’Irlanda e la Santa Sede nel mondo della diplomazia possa continuare» e che Dublino nomini al più presto «un nuovo ambasciatore residente presso la Santa Sede». Per la Segreteria di Stato la delicatezza dei rapporti che intercorrono in questo momento tra la cattolicissima Irlanda e il Vaticano «merita una particolare attenzione».

Repubblica 4.11.11
Irlanda
Dopo lo scontro sui preti pedofili chiude l´ambasciata presso la S. Sede


DUBLINO - Il governo irlandese ha annunciato la chiusura della sua ambasciata presso il Vaticano a Roma, una delle suoi sedi diplomatiche più antiche, aperta nel 1929. La motivazione ufficiale è la riduzione dei costi, ma le relazioni tra Irlanda e Santa Sede, un tempo solidi alleati, non sono mai state così tese dopo gli scandali di pedofilia esplosi nel Paese e le accuse di aver coperto gli abusi che il governo di Dublino aveva rivolto contro i vertici della Chiesa. Tanto che a luglio il Vaticano aveva richiamato "per consultazioni" il nunzio apostolico in Irlanda. Il ministro degli Esteri di Dublino, Eamon Gilmore, ha precisato che i due fatti non sono legati. «Per rispondere agli obiettivi del programma dell´Unione europea e del Fondo monetario internazionale e riportare la spesa pubblica a un livello accettabile, il governo è stato costretto a tagliare numerosi servizi pubblici» ha spiegato. Tra i tagli, c´è anche la chiusura delle ambasciate in Vaticano, in Iran e l´ufficio di rappresentanza in Timor Est. «La Santa Sede prende atto della decisione dell´Irlanda» ha commentato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. «Ciò che è importante sono i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e gli Stati, e questi non sono in questione per quanto riguarda l´Irlanda».

La Stampa 4.11.11
La madre di Tornay scrive a Benedetto XVI
Duplice delitto e suicidio tra le guardie svizzere “Voglio sapere la verità”


«Voglio la verità su mio figlio», si appella al Papa, Muguette Baudat. Dopo «13 anni di silenzio del Vaticano», lettera aperta a Benedetto XVI per richiedere i documenti e contestare la versione ufficiale, secondo la quale il vicecaporale Cedric Tornay il 4 maggio ‘98 ha ucciso il comandante delle Guardie Svizzere Alois Estermann (sospetto ex agente della Stasi) e sua moglie Gladys in preda a un raptus per una mancata promozione e poi si è tolto la vita. La madre di Tornay ritiene falsa la ricostruzione della magistratura vaticana. Per lei sia Cedric sia il comandante e la moglie sarebbero stati vittime di una «messinscena orchestrata per eliminare Estermann e avere un assassino pazzo e morto». Muguette Baudat ritiene l’inchiesta della Santa Sede «piena di dissimulazioni,contraddizioni e menzogne nel tentativo di celare una verità inconfessabile». Il Vaticano «finora non ha mai risposto alle nostre richieste», ma ora «deve conformarsi alle regole del diritto internazionale» e, «come sulla pedofilia nel clero, è giunto il momento per una comunicazione più aperta su dossier scottanti».

Corriere della Sera 4.11.11
Infanzia, una Carta contro gli abusi

Otto milioni di bambini sono scomparsi nel mondo nel 2011. Tra il 10 e il 20% dei bambini europei ogni anno rischia di essere vittima di abuso sessuale. Ogni anno 80 mila persone in Italia partono per turismo sessuale. Per continuare a fare qualcosa, dice Ernesto Caffo di Telefono Azzurro, «per il tanto lavoro fatto i cui risultati non sempre sono all'altezza», ieri è stata sottoscritta la Carta di Roma contro gli abusi all'Infanzia, alla fine dei lavori organizzati da Telefono Azzurro e Icmec (International Centre Missing Exploited Children).

Papandreou rinuncia al referendum e sfida la destra
l’Unità 4.11.11
Intervista a Luciano Canfora
«È inaccettabile che si debbano cedere pezzi di sovranità»
Lo studioso: «Quest’Europa che detta legge
ai governi ricorda la “Santa Alleanza”: strutture sovranazionali con atteggiamenti semi-coloniali»
di Andrea Carugati

qui

La Stampa 4.11.11
Il gigante asiatico è diventato il primo fornitore militare della repubblica islamica
“Pechino viola l’embargo e vende armi a Teheran”
Gli Usa: “Sanzioni Onu ignorate, all’Iran tecnologia nucleare cinese”
di Paolo Mastrolilli


La Cina continua a vendere armi all’Iran. Di sicuro armi convenzionali, che molto probabilmente violano le sanzioni Onu, ma forse anche tecnologia utilizzabile nel settore nucleare. La denuncia è contenuta in un rapporto della «Us-China Economic and Security Review Commission», una commissione del Congresso, che verrà pubblicato il 16 novembre. Si tratta di una rivelazione che aumenta la pressione sul presidente Obama, proprio mentre da Israele e dalla Gran Bretagna arrivano voci di un possibile intervento militare a breve contro Teheran.
Il rapporto sostiene che Pechino ha venduto alla Repubblica islamica armi per 312 milioni di dollari, e questa cifra riguarda solo gli scambi ufficiali. Così ha scavalcato come primo fornitore la Russia, che ha rallentato i commerci dopo le sanzioni approvate all’Onu. La Cina ha sicuramente passato all’Iran missili per colpire le navi, tra cui i pericolosi C-802, che aveva promesso agli Stati Uniti di non cedere. Queste armi forse non violano l’«Iran, North Korea and Syria Nonproliferation Act» del 2006, perché non superano la gittata di 300 chilometri e non possono portare testate con 500 chili di esplosivo, però infrangono altre misure come il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and Divestment Act» del 2010, che vietava l’esportazione nella Repubblica islamica di «armi convenzionali avanzate». Il rapporto, però, aggiunge anche un sospetto molto più grave: «Ci sono voci secondo cui la Cina, o entità cinesi, hanno continuato silenziosamente a fornire sostegno all’Iran nella ricerca di armi di distruzione di massa e missili balistici». Una chiara violazione delle sanzioni Onu.
L’ambasciata di Pechino a Washington ha smentito tutto, dicendo che rispetta alla lettera tutti i trattati di non proliferazione, e sollecitando il Congresso ad abbandonare questa mentalità da guerra fredda. Il rapporto, però, arriva in un momento delicato. Due giorni fa Israele ha provato con successo un missile balistico che potrebbe colpire l’Iran, mentre alcuni media scrivono che il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak stanno cercando di convincere i parlamentari della necessità di attaccare. E che l’ipotesi sia concreta è dimostrato anche dall’apertura di un’inchiesta per appurare il responsabile della fuga di notizie che ha portato i media ieri a rivelare le intenzioni del governo Netanyahu. E ieri in Israele c’è stata un’esercitazione ipotizzando attacchi missilistici iraniani su Tel Aviv.
Tutto questo aumenta la pressione su Obama. Parlando a margine del G20, il capo della Casa Bianca ha detto che il programma nucleare iraniano continua a rappresentare una minaccia e perciò la comunità internazionale deve mantenere alta l’attenzione. Molti analisti, però, sono convinti che Obama non ha alcun interesse a lanciarsi in un’altra guerra durante la campagna presidenziale, e infatti Washington ha usato il recente complotto contro l’ambasciatore saudita solo per chiedere più sanzioni. Il ministro degli Esteri iraniano Salehi ha comunque risposto alle voci, promettendo al giornale turco Hurriyet una «risposta brutale», se l’Iran verrà attaccato.

La Stampa 4.11.11
Addio ai paperoni di Pechino La Cina deve colpire i ricchi per fare il loro bene
di John Foley


Secondo un sondaggio di Hurun Report, metà dei cinesi ricchi vorrebbe emigrare. Vadano pure. Le misure di controllo sui capitali della Cina renderebbero molto difficile l’espatrio dei 2.700 miliardi di dollari in possesso della parte più abbiente della popolazione. Ciò che serve è creare le condizioni perché emerga una nuova generazione di ricchi, e ciò significa varare riforme sgradite o inaccettabili per gli attuali paperoni. Quasi tutti i paesi vantano un’élite scontenta. Anche in Gran Bretagna, secondo uno studio di Lloyds Tsb, un terzo dei cittadini ricchi vorrebbe emigrare. L’élite cinese avrebbe forse più motivi di altre per lasciare la madrepatria - ad esempio, le condizioni più svantaggiose in termini di inquinamento, assistenza sanitaria e istruzione, per non citare l’alta inflazione e l’instabilità sociale. La stella del basket Yao Ming è stato criticato per aver scelto la cittadinanza Usa per la figlia Amy. Tuttavia, diverse delle ragioni per cui molti cinesi vorrebbero emigrare sono le stesse che hanno permesso loro di arricchirsi. Per lunghi decenni, l’immissione di capitali a buon mercato nell’industria pesante ha creato eserciti di milionari, ma ha lasciato un paesaggio sfregiato e problemi ambientali.
La moneta sottovalutata ha consentito agli esportatori di accumulare ricchezze, ma ha creato una sottoclasse di lavoratori migranti che rappresentano una minaccia per l’ordine sociale. Anche la corruzione ha prodotto un grande numero di milionari. Credit Suisse calcola che gli introiti non dichiarati ammontino a 1.400 miliardi di dollari, e solo la Russia si classifica alle spalle della Cina nell’indice di corruzione di Transparency International. A tutto questo si sommano i mercati chiusi della Cina, che tagliano le ali ai ricchi ma alimentano le loro fortune proteggendoli dalla concorrenza estera. Il governo può fare molto per creare nelle nuove generazioni il desiderio di restare in patria. Può intervenire con più durezza sulle fonti di inquinamento e allentare il controllo del settore pubblico sul capitale a basso costo.

Corriere della Sera 4.11.11
I cinesi mandati a lezione di etica
Il gigante alla ricerca di coesione
di Matteo Del Corona

qui

Corriere della Sera 4.11.11
Il misterioso Lin Biao
Fra condanna e riabilitazione
risponde Sergio Romano


Anni fa, la prima volta che sono stato a Zhuzhou, i nostri ospiti ci hanno portato a visitare la casa natale di Mao Zhe Dong nel villaggio di Shao Shan, comprensibile meta d'obbligo per tutti i cinesi che hanno una venerazione per il loro «presidente Mao». Recentemente ho visitato una fabbrica nella città di Tuang Feng, vicino a Wuhan, e qui i nostri partner ci hanno portato a visitare la casa natale di Lin Biao nel villaggio di Lin Jia Da Wang (villaggio della famiglia Lin). Sono rimasto molto sorpreso perché ricordavo Lin Biao (allora si scriveva Piao) come ispiratore della Rivoluzione culturale e dissidente assieme alla banda dei quattro, abbattuto nei cieli della Mongolia mentre fuggiva dalla Cina dopo un tentativo di golpe fallito. Alla mia osservazione, la guida prontamente ha replicato che erano tutte calunnie messe in giro per discreditare agli occhi di Mao, il loro eroe «maresciallo Lin Biao». Corrisponde a realtà storica quanto riferito dai giornali dell'epoca? Come mai questa riabilitazione postuma?
Sante Bondioli

Caro Bondioli,
N ella storia del comunismo cinese e della Repubblica popolare, Lin Biao è uno dei personaggi più interessanti ed enigmatici. Durante l'ultima fase della guerra contro il Kuomintang, fu l'artefice della vittoria, il maresciallo che ruppe il fronte del nemico e aprì all'Armata popolare la strada di Pechino. Nel 1959, quando divenne ministro della Difesa, rivoluzionò le forze armate abolendo i simboli del grado sulle uniformi militari. Nel 1965 annunciò la rivoluzione mondiale e disse che sarebbe stata quella delle campagne contro le città, dei contadini in armi contro i ceti sociali corrotti delle aree urbane. Nei mesi seguenti, dopo l'inizio della rivoluzione culturale, schierò l'Armata popolare con gli iconoclasti che, ispirati dalle parole di Mao, stavano «bombardando il quartier generale», vale a dire lo stesso partito comunista cinese. Nel 1969, durante il nono congresso del Pcc, divenne il delfino di Mao. Agli occhi di coloro che cercavano di decrittare gli avvenimenti cinesi, sembrò che Lin Biao e l'esercito fossero allora schierati con il «Grande Timoniere» contro le vecchie nomenklature. Ma due anni dopo, nel settembre del 1971, Lin abbandonò precipitosamente la Cina, e il suo aereo, forse diretto verso l'Unione Sovietica, si schiantò al suolo mentre volava al di sopra della Mongolia.
Qualche tempo dopo Lin venne denunciato alla pubblica opinione come traditore, golpista, leader di quella «banda dei quattro» che aveva complottato contro il potere di Mao. Ma sulle ramificazioni del golpe e sugli obiettivi politici dei congiurati, la Cina ci ha dato soltanto notizie generiche e non verificabili. Chi sperava che qualcosa di più trasparisse dalla massa di libri, memorie e saggi storici apparsi recentemente in occasione dei festeggiamenti per il novantesimo anniversario della fondazione del partito, è andato deluso. Come ricorda David Shambaugh in un articolo apparso sul New York Times del 30 giugno, l'ultimo compendio di storia del partito arriva al 1978, ma gli eccessi della rivoluzione culturale vengono genericamente attribuiti agli «opportunisti di sinistra», fra cui Lin Biao continua a figurare in primo piano. È probabile tuttavia che qualche eccezione venga fatta per il suo ruolo nella guerra di liberazione. È questa forse la ragione per cui al suo villaggio è permesso di celebrarlo come gloria locale.

il Riformista 4.11.11
Perché Cina e India “devono”aiutare la vecchia Europa
Interessi. Hu Jintao: «Nessun miglioramento nell’economia globale senza una ripresa di quella europea». Singh: «Non possiamo permetterci una crisi che si diffonda in tutto il mondo»
di Andrea Pira

qui

Repubblica 4.11.11
Più veloce ed economico, si svolgerà sul web non bisognerà ricorrere a legali né andare in aula
In Gran Bretagna l'addio sarà fai-da-te
La proposta è stata messa a punto dal ministero della Giustizia dopo mesi di consultazioni
di Enrico Franceschini


Ci sono divorzi veloci, come quelli celebrati a Las Vegas (altrettanto rapidi dei matrimoni che si fanno da quelle parti), e divorzi lenti, come quelli a cui si arriva per esempio in Italia, dopo anni di separazioni legali, tribunali, carte bollate. Ma non s´era ancora mai sentito di un divorzio fai-da-te: negoziato, concluso e sottoscritto dai diretti interessati, ovvero da marito e moglie. Ex-marito ed ex-moglie, non appena apposta la firma in calce all´apposito documento, sebbene sia una firma per modo di dire perché l´intera procedura, per velocizzarla ancora di più, si svolge su Internet.
È un´idea del governo di David Cameron, che è un premier conservatore come appartenenza di partito e un certo tipo di valori, ma indubbiamente innovatore dal punto di vista delle novità che sforna da Downing Street al ritmo di un prestigiatore dal cappello. Non tutte magari vanno a compimento, vedi il suo progetto di una Grande Società di stampo kennediano in cui tutti si aiutano l´uno con l´altro e prendono l´iniziativa (senza chiedere un soldo allo stato - qui stava il punto debole, e un po´ sospetto in tempi di crisi, dell´iniziativa). Ma in assoluto non è certo brutta l´idea di dare più autonomia ai cittadini, ridurre la burocrazia e nel contempo fare risparmiare qualche soldo alle finanze pubbliche.
La proposta (perché di questo per ora si tratta) messa a punto da una commissione del ministero della Giustizia britannico prevede la creazione di un "divorce information hub", un network di informazioni sul divorzio, a cui i cittadini possono accedere gratuitamente attraverso il web. Il sito in questione darebbe alle coppie che hanno deciso di separarsi una guida passo per passo su come dissolvere il loro matrimonio, comprese istruzioni e consigli sull´ammontare degli alimenti e sulla custodia dei figli. Lo scopo più ampio della riforma, che include anche altri problemi normalmente amministrati dai tribunali, è incoraggiare la gente a fare da sola nel tentativo di risolvere le dispute meno gravi senza ricorrere alle corti di giustizia. La magistratura dovrebbe essere considerata, afferma il rapporto, come l´ultimo mezzo per portare al divorzio, spingendo le coppie a usare il sito Internet invece che giudici e avvocati. Soltanto nel caso in cui marito e moglie non riescano a mettersi d´accordo, ci sarebbe la necessità di fare intervenire il tribunale.
«Un sistema di questo tipo, se diventerà legge, porterebbe a una notevole riduzione dei tempi per arrivare a un divorzio, a un risparmio di denaro pubblico e privato e a un minore stress per i figli», dice l´autore del rapporto governativo, David Norgrove, al Times di Londra. Il progetto è il risultato di mesi di consultazioni e analisi. Non tutti sono contenti, però. L´organizzazione "Fathers for Justice" lo critica temendo che una giustizia fai-da-te privi i padri di un´informazione adeguata sui diritti di cui godono nell´assegnazione della custodia dei figli, notando in particolare che il rapporto respinge la proposta di dare "uguali diritti" sui figli a marito e moglie, limitandosi a parlare di "uguale accesso". E poi ci sono i dubbi degli avvocati divorzisti, non proprio entusiasti alla prospettiva di perdere migliaia di clienti.

Repubblica 4.11.11
La lunga marcia di Occupy Oakland così l'America riscopre lo sciopero
di Enrico Deaglio


Mercoledì la città sulla baia di San Francisco è stata bloccata. Chiusi il porto, gli uffici, i negozi, le scuole Ma la protesta è sfociata nella violenza: nella notte scontri tra anarchici e polizia, con 40 arresti e molti feriti

SAN FRANCISCO. Mercoledì milioni di americani seduti davanti alla televisione sono stati colpiti da una notizia inusuale. In collegamento in diretta da Oakland, la città portuale nella baia di San Francisco, i reporter davano conto - in diretta, eccitati e incredubili - di un corteo che si ingrossava sotto i loro occhi. Settemila persone, famiglie con carrozzelle, ciclisti, insegnanti, casalinghe, militanti sindacali - tutti convocati da Occupy Oakland - marciavano verso il grande porto della città, e ne bloccavano gli ingressi, fermando i porta container, formando picchetti, fino all´annuncio ufficiale che tutte le operazioni erano "shut down", bloccate, fino al giorno seguente. Era la vittoria dello "sciopero generale". Anche se poi, a margine della mobilitazione, ci sono stati violenti scontri tra la polizia e manifestanti con 40 arresti e diversi feriti.
"Sciopero generale" non appartiene più in America né al linguaggio sindacale, né tantomeno quello politico, perché evoca confusamente qualcosa di sinistro: la lotta di classe, il comunismo, la contestazione sistema di vita americano. E quindi, vedere normali persone sfilare con cartelli tipo "il capitalismo è disumano", o "ridistribuite l´abbondanza" e l´onnipresente "siamo il 99 per cento", costituisce se non altro, una ironia della storia, e un elemento nuovo del paesaggio.
Ecco la storia di una giornata particolare e di quello che l´ha preceduta.
Oakland, 400 mila abitanti, si specchia in San Francisco dall´altra parte della baia. Siamo nell´ultimo lembo dell´occidente, davanti c´è solo l´Oceano pacifico e nell´immenso porto entrano ed escono le maestose portacontainer cinesi, che hanno cambiato il paesaggio economico della California. La baia che ha costruito con il ferro il Golden Gate e la flotta navale della seconda guerra mondiale, oggi si affida all´acciaio di Pechino per rifare il suo ponte danneggiato dal terremoto di vent´anni fa. Cinese americana è anche il sindaco di Oakland, la signora Jean Kuan, sessantottina in gioventù, oggi prima donna asiatica a governare una grande città americana. Nel passato della città, la presenza di Jack London e un grande sindacato dei portuali; poi l´avventura politica delle Pantere Nere, un notevole grado di violenza, l´avanguardia musicale del rap.
Tutto comincia circa un mese fa, quando sull´onda di Occupy Wall Street a New York, anche ad Oakland e a San Francisco vengono montate tende davanti ai grandi edifici della finanza per testimoniare l´avidità e l´egoismo delle banche e delle grandi corporations. Non sono molte persone, però. Se c´è qualcosa che invece ha emozionato, nel reame del capitalismo, è stata la morte prematura di Steve Jobs. In migliaia si sono realmente commossi, portando fiori e bigliettini da appicciare sulle vetrine degli Apple Store.
E così viene il 25 Ottobre. Il sindaco Jean Kuan è a Washington per servizio, e in sua assenza il capo della polizia decide che le tende nel centro di Oakland vanno rimosse. Sporcano, circola droga. Gli agenti si vestono come se fossero a Bagdad e nella notte attaccano i dormienti. Scontri, si radunano mille persone. Sassaiola. Lacrimogeni. Un ragazzo biondo cade colpito alla testa, ha gli occhi sbarrati, non parla. Nessuno lo sapeva, ma è un marine. Si chiama Scott Olsen ed è appena tornato in patria dopo due turni in Iraq. Scampato ad Al Quaeda, ora ha danni cerebrali e il cranio fratturato in patria. A questo punto, gli avvenimenti precipitano. Le tende vengono rimontate, la polizia ritirata; il sindaco si scusa, ma ormai gli avvenimenti prendono una piega imprevista. L´assemblea del movimento vota lo "sciopero generale" del 99 per cento del popolo contro l´uno per cento dei ricchi che sta mettendo alla fame l´America. Sembra una velleità sull´onda dell´emozione, ma la decisione è presa: il 2 novembre tutta la città deve fermarsi: negozi, scuole, uffici. Tre cortei si incaricheranno di chiudere le banche e nel pomeriggio dovrà fermarsi anche il porto, circondato da un picchetto di massa. E qui continuano le cose strane ed impreviste: il movimento riceve aiuti inaspettati. Prima il sindacato dei portuali, poi gli insegnanti, poi le infermiere e infine - e questo è stato davvero clamoroso - dei poliziotti, che in una lettera aperta si sono dichiarati anche loro "facenti parte del 99 per cento", impossibilitati per legge a scioperare, ma per nulla entusiasti di fronteggiare i manifestanti.
E così è arrivato il giorno fatidico. Subito dopo Halloween, in cui tutti (il 99 e l´1) avevano circolato travestiti da gatti o con parrucche viola e nella ricorrenza del "dia de los muertos" della tradizione messicana, per cui i manifesti raffiguravano uno scheletro con sombrero che annunciava la huelga e l´embargo a los ricos.
È una splendida giornata di sole e all´appuntamento si presentano insegnanti, ragazzi, portuali, pensionati, buddisti, uomini di chiesa, domestiche, commessi. Cinquanta allievi di teatro formano un balletto sulle note di I will survive, in cui i ricchi hanno il cilindro e il sigaro, mentrei poverisobbano sui gomiti. Tutti applaudono (Bertolt Brecht si sarebbe sentito a casa). Il Grand Lake Theatre, monumento architettonico degli anni Venti, gloria della città, con mosaici, colonne dorate e un organista che suona prima della proiezione dei film, annuncia «siamo orgogliosi di sospendere le proiezioni in solidarietà con lo sciopero generale», come se fosse lo spettacolo più atteso. Le persone circolano, con estrema naturalezza, tra citazioni di Lenin e di Gandhi, invocazioni alla Comune di Parigi e appelli alla distruzione del capitale. Un uomo spiega con un cartello: "cammino come un egiziano". Una distinta professoressa universitaria dai capelli bianchi incita la folla: "Tutto il mondo ci sta guardando!": toh, è Angela Davis, la militante comunista che quarant´anni fa conturbò non poco i ragazzi di mezzo mondo con la sua minigonna rossa. I cortei si sistemano davanti a Wells Fargo, Citibank, Chase e le chiudono. Sfilano i professori: "el maestro luchando sta ensenando". Un cartello: "le corporations non sono esseri umani, altrimenti in Texas le avrebbero già messe a morte". Zaffate di marijuana nella brezza. Un uomo molto piccolo: "poeti per il popolo". Due ragazzi ben vestiti: "installate pannelli solari per uno sviluppo sostenibile". Liberate i prigionieri! Legalizzate la cannabis! Tassate i ricchi! Aumentate le paghe! Finanziate le scuole! Sospendete gli sfratti! Ritiriamo i soldi da Citibank! Capitalismo = game over.
E così è andato avanti tutto il giorno, fino alla fiumana di persone che ha bloccato il porto; a notte fonda, poi, un po´ di scontri tra cinquanta anarchici e altrettanti poliziotti.
Così è andato il primo sciopero generale in America nel ventunesimo secolo. Se ce ne saranno altri, non si sa. Ma certo chi ha inventato lo slogan del 99 per cento, deve essere un genio del marketing: ha capito che il terreno era fertile.

Repubblica 4.11.11
Daniel Dennett
“Ecco perché la cultura ha bisogno della scienza"
Il filosofo americano spiega la sua teoria della competenza senza comprensione
Come i computer possiamo fare una cosa anche se non sappiamo come funziona
di Maurizio Ferraris


Nel confronto tra realisti e antirealisti non è in questione l´esistenza della realtà, ma il ruolo di schemi concettuali e pratiche sociali nella costruzione della realtà. È per esempio evidente che le tasse e i matrimoni dipendono da schemi concettuali e da costruzioni sociali, ma questo vale anche per le montagne e i numeri? E – con ricadute politiche più complesse – per entità che sembrano oscillare tra natura e cultura come, ad esempio, il sesso o le malattie? Gli antirealisti, e in particolare i postmodernisti, tendono ad allungare la lista delle realtà costruite, muovendo dall´assunto che il mondo esterno è una realtà amorfa che riceve forma e senso soltanto dai nostri schemi e dalle nostre pratiche. Questo però presuppone che il nostro rapporto con il mondo (la competenza con cui ci rapportiamo all´ambiente) consista in una ininterrotta attività deliberata e cosciente (in una comprensione). Ne abbiamo parlato con Daniel Dennett, uno dei più autorevoli filosofi della mente contemporanei, che ha elaborato l´ipotesi di una "competenza senza comprensione".
Può illustrarci in breve la sua teoria?
«Per millenni, i filosofi e altri pensatori hanno preso per buona una prospettiva "dall´alto in basso", per cui – nella maggior parte dei casi se non in tutti – la comprensione è l´origine delle nostre competenze. Pensano cioè che noi siamo competenti perché comprendiamo. Quando viceversa è molto più ragionevole pensare che la comprensione sia il risultato di elementi che, a loro volta, non comprendono se stessi».
Forse, in questo caso, un esempio aiuterebbe la comprensione...
«Possiamo fare una cosa senza sapere come funziona. Il computer non conosce l´aritmetica ma sa calcolare. In altri termini: proprio come le cose viventi oggi sono comprese come composte da organismi non viventi – ad esempio dalle proteine – che sono altamente competenti (non sono semplicemente dei "mattoni"), così le cose accompagnate da coscienza possono venire spiegate come composte da elementi altamente competenti, ma non comprendenti. In nessuno dei due casi c´è un misterioso elemento extra. Non occorre un misterioso élan vital per far sì che qualcosa viva, né uno spirito immateriale o una res cogitans per far sì che da una competenza sempre più evoluta emerga la comprensione. La coscienza è il risultato di un gran numero di attività non coscienti».
Se le cose stanno in questi termini, l´iniziativa viene molto più dal mondo – dall´ambiente in quanto dotato di informazioni e di caratteri stabili – che non dalla mente.
«Anche se pensi che devi prendere quella cosiddetta realtà esterna e vederla come qualcosa di prodotto da ciò che è nella tua testa, ti accorgi che quella cosiddetta realtà dà forma e costrizioni a quello che è nella testa di chiunque altro. E allora perché la tua testa dovrebbe essere diversa? I nostri cervelli e organi di senso si sono modellati negli eoni per estrarre informazioni vere dall´ambiente e usarle per creare previsioni sul futuro. Avere ragione è sempre stata una cosa molto importante per la vita e la morte. E non ci siamo certo evoluti contro il nostro bisogno di verità. È certamente vero che il nostro senso soggettivo della realtà è "mentale o socialmente costruito", ma i vincoli sulla costruzione sono così forti che se mostri la stessa scena a mille persone diverse provenienti da tutto il mondo, saranno d´accordo su quasi tutte le caratteristiche principali della scena, persino su quelle che non capiscono. Il fatto che possiamo comprendere, e quindi manipolare, riconoscere e integrare le differenze residue, di percezione e di convinzione, dovute a caratteristiche idiosincratiche, non ci rende imperscrutabili gli uni agli altri e non ci immerge in mondi privati. Inoltre, uno dei più grandi risultati della cultura umana è l´invenzione di migliaia, letteralmente, di "protesi" volte a cancellare le differenze soggettive dovute a nazionalità, religione, genere, età, ricchezza e educazione. Queste protesi si chiamano "scienza", che è la stessa per tutti e raggiunge ogni angolo della nostra vita. Per fare un esempio banale, mettere una rete appesa al cerchio di un canestro rende più facile per tutti, che stiano in piedi o seduti, vedere se la palla è passata attraverso il canestro».
E i disaccordi che si producono su valori, scelte politiche, decisioni esistenziali?
«Grandi differenze politiche o religiose, se irrisolte, possono in effetti sollevare ciò che a prima vista pare un ostacolo insuperabile alla cooperazione e alla comunicazione. Spesso possono portare a scontri anche drammatici. Ma è evidente che in una comunità democratica persino queste possono venire comprese e discusse. Ad esempio, si può sostenere che nonostante le "benedizioni della tecnologia e della scienza" staremmo tutti meglio, vivremmo vite migliori, in un mondo pre-moderno. Non sono d´accordo, ma penso sia un´opinione che valga la pena di esplorare, e sono felice di dare un contributo alla catalogazione delle perdite e dei compromessi che tolleriamo per amore delle "convenienze della modernità". In una conversazione sui nostri diversi punti di vista sul significato della vita non ci sarà mai una vittoria definitiva, ma comunque saremo pur sempre d´accordo su cosa siano i computer, i cellulari, gli antibiotici. E la condivisione di questi fatti sta alla base di tutte le interazioni comunicative, anche le più accese».
Alcune forme di realismo possono ridurre la critica e lo spazio della libertà?
«Il realismo riduce la tua libertà allo stesso modo che la forza di gravità e l´atmosfera. La nostra libertà è meravigliosa ma non assoluta, e senza l´"impaccio" riconosciuto dal realismo saremmo degli idioti che fantasticano. Ma non a lungo. La natura sa come porre fine alle illusioni di quelli che sottovalutano il realismo. Ripensandoci, non riesco a credere che ci siano state persone convinte dai tentativi del postmodermismo di negare l´importanza della realtà e della differenza fra il vero e il falso. Comunque a quanto pare la moda del postmoderno è scomparsa, almeno in America. Sono parecchi anni che non ne scorgo traccia negli studenti, che solitamente ai corsi mi sommergevano di domande postmoderne».

Repubblica 4.11.11
Perdonare è giusto
Dubbi e critiche di un ex magistrato "punire non serve"
di Gherardo Colombo


La condanna, anziché creare responsabilità, la distrugge e così fa con la libertà
Si può retribuire il male con il male solo se si ritiene questa davvero una soluzione positiva
L´anticipazione/ Nel suo nuovo libro, Colombo analizza la possibilità di immaginare delle pene alternative, diverse dal carcere

La concezione filosofica secondo la quale chi trasgredisce deve essere sottoposto a una pena, e cioè deve soffrire, dipende, da una più generale convinzione sull´essenza della relazione tra esseri umani: se questa è basata sulla teoria del premio e del castigo, la conseguenza della violazione della regola non può essere che il castigo.
D´altra parte l´idea retribuzionista della pena è fondata a sua volta sull´idea che sia giusta l´esclusione. Si può retribuire il male con il male solamente se si ritiene che l´espulsione dalla relazione con l´altro sia umanamente (e metafisicamente e teologicamente) non solo ammissibile, ma anche positiva al verificarsi di certe condizioni. Questa idea appartiene a una cultura più ampia, che ha le proprie applicazioni anche in altri campi, primo tra tutti quello educativo. Il modello funziona, al di là delle parole, pressappoco così: poiché hai rotto la relazione affettiva con me (con la comunità, Dio), meriti che io (la comunità, Dio) rompa la relazione affettiva con te. E quanto più grave è stata la rottura, tanto più grave deve essere la frattura da parte mia (della comunità, di Dio). Se la rottura della relazione è consistita, per esempio, nell´eliminazione della fisicità altrui, anche la tua fisicità deve essere eliminata (e quindi la pena deve essere la morte, sia essa effettiva oppure figurata, come nella prigione a vita). Se la rottura non è esaustiva, devi subire un allontanamento, un´esclusione proporzionata all´esclusione dal rapporto affettivo che avevi causato tu. (...)
Ora, questa concezione può essere in sintonia con una visione strumentale dell´essere umano il quale, proprio perché «strumento» può essere escluso, allontanato, eliminato quando non serve o infastidisce. Non vale perché è umano, ma per quello che fa: se fa bene viene premiato, se fa male viene punito. Sicuramente è invece distonica con il principio proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, e stabilito dalla Costituzione italiana, secondo il quale l´essere umano non è strumento ma ha (è) dignità. L´essere umano è degno perché è tale, non per quello che fa (...).
Quando, da magistrato, svolgevo le funzioni di giudice istruttore, succedeva che dovessi emettere mandati di cattura, provvedimenti con i quali disponevo che una persona, prevedendolo la legge, venisse rinchiusa in carcere in custodia cautelare (la prigione prima della condanna). Poniamo che avessi disposto l´arresto di una persona accusata di aver compiuto una rapina in banca minacciando un cassiere con un temperino: succedeva che qualche giorno dopo si presentasse nel mio ufficio a chiedere un permesso di colloquio la moglie, accompagnata da un bambino di pochi anni. La situazione mi poneva interrogativi insolubili, perché non ero in grado di trovare la giustificazione all´aver sottratto al bambino il papà. Quale responsabilità aveva, il bambino, perché subisse la sofferenza della privazione del padre? Se in una logica retributiva si potrebbe concepire che al (fino a quel punto presunto) trasgressore possano essere sottratti diritti fondamentali come quello alla relazione con i suoi cari, nemmeno in quella logica può essere compresa la compressione dei diritti fondamentali di terzi, come appunto il figlio. Non si può rispondere dicendo che il padre avrebbe dovuto pensarci prima, perché si tratta di un argomento che non riguarda il figlio, ma il padre (e credo sia ormai pacifico che non dovrebbe esser ammissibile che le colpe dei padri possano essere fatte ricadere sui figli). Né si può rispondere che è giusto sottrarre il padre al figlio perché gli sarebbe di cattivo esempio: l´osservazione prova troppo, perché non tiene conto, da una parte, che se così fosse il figlio dovrebbe essere escluso definitivamente dai contatti con il padre, e non dovrebbero esser consentite nemmeno le sei ore di colloquio mensili; dall´altra, che succede non raramente che persone commettano reati per necessità di altre persone che stanno loro intorno (per esempio per sopperire alle necessità della famiglia in caso di povertà). Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione (...).
Lo sviluppo del concetto di dignità, peraltro, porta a riconoscere come suo seguito quello di libertà: se le persone sono apprezzabili in quanto tali non possono essere sottomesse ma deve esser loro riconosciuta la libertà (perché la sottomissione ha senso soltanto se le persone sono incapaci, e devono perciò essere dirette da altri, e pertanto non libere). Ma se la libertà è attributo della dignità, non può essere limitata salvo che in un unico caso: quando ciò serve a consentire la libertà altrui. La libertà inoltre può essere limitata solo entro un determinato confine: che la limitazione serva esclusivamente allo scopo di consentire agli altri di esercitare la propria libertà. Con queste osservazioni è coerente che le regole pongano obblighi o divieti indirizzati a tutelare la libertà dei membri della comunità e a garantirne l´esercizio, ma è incoerente la conseguenza retributiva della violazione. È conforme al modello imporre «non uccidere», ma non è conforme far seguire «altrimenti ti uccido», perché è proprio questa seconda parte, la sanzione, a non essere in linea con dignità e tutela della libertà. Anche sotto il profilo educativo, perché fare male (pur nell´esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola. La sofferenza imposta non può, non è in grado di convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l´ordine). La pena, quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà, perché questa è inscindibile dalla responsabilità.

il Fatto Saturno 4.11.11
Vespe
Sale lo spread tra Cacciari e l’italiano
di Riccardo Chiaberge


Sull'orlo del baratro finanziario, accerchiati da galli e teutoni di Eurolandia, verrebbe voglia di dar retta a Davide Rondoni e ritirarci in qualche monastero benedettino aspettando, come suggerisce il poeta sull'Avvenire, che passi 'a nuttata e i barbari se ne vadano. “Ora et labora”. O meglio, secondo i dettami della Compagnia delle Opere, “Ora et fattura”. E nel silenzio claustrale della nostra cella, cos'altro leggere se non il libretto del Mulino sul comandamento evangelico Ama il prossimo tuo? Intenso come sempre il sermone di Enzo Bianchi, ma ancor più illuminante quello del profeta nerobarbuto Massimo Cacciari (titolo: “Drammatica della prossimità”). Eccone alcuni gustosi assaggi: «Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi». «Il Signore si ab-solve e si ad-prossima, senza mai che la relazione possa risolversi in astratta identità, in Unum est. L'Uno è Unus ed ek-siste, patibilis et patiens...Ma se il Sé non diventa capace di odiare la propria philautia (ed in ciò consiste il significato autentico di metanoia, di conversio) di fare esegesi di sé al prossimo...? ». «Il Figlio che è uomo, noi, i figli, nel cuore del Theós Agape. La sua sovrabbondanza, il suo essere Agathós, potremmo dire, custodisce in sé ab aeterno tutti i loro pathemata. Dio è proximus perché plesiosinsé–eperquestopuòesserevinto d'amore per il plesios che incontra e invocarne la philia».
Amen. Se è così che Cacciari ama il prossimo, preferiamo non essere amati. Ci dimettiamo da prossimi suoi. Sarà colpa della Crisi, anzi della cacciariana Krisis, ma lo spread linguistico tra noi e il prof è schizzato a livelli insostenibili. Metti che facciano lo stress test ai lettori: non lo passiamo di certo. Ci declassano tra i Pigs (Popoli Ignoranti,GrossolanieSuperficiali)insieme a Greci e Irlandesi. Ma forse a rischiare il Default, quanto meno sul piano sintattico, è proprio il filosofo veneziano. Tanto che da qualche giorno un gruppo di Indignados è accampato per protestadavantiallaFacoltàdiFilosofiaVita-Salute di don Verzé. «A' Massimo! – gridano i manifestanti – Rispetta il primo comandamento: fatti capire!»

il Fatto Saturno 4.11.11
Maestri del Novecento
Kojève: perché obbediamo al Capo
“La nozione di autorità” (1942) del filosofo russo, proposto da Adelphi, aiuta a capire le crisi politiche di oggi, da Obama a B.
di Andrea Tagliapietra


SE AL GIORNO d’oggi, come recita la sempreverde battuta di Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”, non c’è da meravigliarsi che la nozione di “autorità” ci appaia come un oggetto misterioso, che viene spesso confuso con il “potere” e finanche con la “legalità” dell’esercizio della forza da parte dello Stato, nonché con le pratiche retoriche persuasive che garantiscono ai governanti la conservazione del potere nel tempo. Infatti, la riflessione filosofico-politica sembra privilegiare un taglio genealogico, spiegandoci come l’autorità sorge e si trasmette, o analitico-descrittivo, isolando colui che la esercita e le sue qualità, ma non ne tematizza quasi mai l’essenza. Compito che viene svolto, invece, con iconica chiarezza, da Alexandre Kojève in un libro che, redatto nel 1942, come molti lavori del filosofo franco-russo giacerà a lungo in un cassetto, inedito, vedendo la luce in Francia solo nel 2004. La nozione di autorità ci viene proposto oggi dai tipi di Adelphi per la cura di Marco Filoni che, oltre ad accompagnare il testo con una pregevole postfazione, ha il merito di rendere nella nostra lingua la splendida sobrietà della scrittura di Kojève, che traspone l’hegeliana fatica del concetto, giocata in chiaroscuro sui limiti espressivi del tedesco, nella prosa geometrica e cristallina di Cartesio, dove, al contrario, tutto sembra essere dicibile con la massima efficacia e rigore. Ad Hegel, del resto, e alle ormai mitiche lezioni sulla Fenomenologia dello spirito, tenute da Kojève all’Ecole pratique des hautes études di Parigi dal 1933 al 1939, vera officina segreta del pensiero, non solo francese, del Novecento, rinvia anche il libro sull’autorità, perché è indubbiamente hegeliana la scoperta della sua essenza dialettica. L’autorità, spiega Kojève, è una forma di relazione attiva, anzi di azione e reazione, dove il tratto decisivo, che la distingue dal potere, dalla forza e dalla violenza, è dato dalla rinuncia libera, cosciente e volontaria all’opposizione e alla resistenza di chi le si sottomette. Non si può, quindi, comprendere l’autorità senza adottare il pensiero intrinsecamente sociale e storico della dialettica del reale. Per capire l’autorità bisogna descrivere non soltanto chi la detiene (infatti le teorie analitico-descrittive dell’autorità mancano il bersaglio), ma soprattutto coloro che la riconoscono. Chiarita l’essenza dell’autorità Kojève passa a distinguerne le quattro forme “semplici, pure o elementari” in corrispondenza con quattro capitali prestazioni teoriche del canone filosofico occidentale: la dottrina di Platone, che viene esemplificata dal “personaggio concettuale” del Giudice, che guarda all’autorità nello specchio eterno della giustizia; quella di Aristotele, espressa nella figura del Capo, che proietta l’autorità nel futuro del progetto (spesso rivoluzionario); quella detta genericamente teologico-scolastica, incarnata nella persona del Padre, che custodisce l’autorità nel passato ereditario e causale della tradizione e, infine, quella di Hegel, che si estrinseca nel ruolo del Signore, che afferma l’autorità nella tirannide esecutiva del presente. A partire da questo cristallo teorico, di rara trasparenza malgrado i continui richiami alla natura sommaria del suo lavoro, Kojève sviluppa prima un’analisi fenomenologica, metafisica e ontologica delle forme pure e/o miste, ossia combinate, con cui l’autorità si dà storicamente , e poi una serie di deduzioni che ne prendono in esame le applicazioni politiche, morali e psicologiche. Intessuta nell’esposizione, una filosofia della storia della nozione di autorità rimarca il senso decisivo della crisi e dell’eclisse moderna dell’autorità del Padre – è il tramonto della teologia politica, ma anche della forma più diffusa con cui l’autorità si dà nel mondo della vita, quella del “padre di famiglia”, ossia dei genitori nei confronti dei figli – che rende difficile ricomporre le altre tre forme di autorità in un’unità organica, che si intravede appena nella teoria della separazione dei poteri giudiziario (Giudice), esecutivo (Signore) e legislativo (Capo). Una divisione che sempre più spesso è un aperto conflitto, ossia, come insegnano vuoi le miserevoli cronache italiane, vuoi le notizie dei continui scontri tra Obama e il Congresso che ci giungono dall’altra sponda dell’Atlantico, tutt’altro che un esempio d’autorità. Non abbiamo qui lo spazio per seguire Kojève nella sua vertiginosa ars combinatoria dialettica: un esercizio di stile che riduce sapientemente a poche precise definizioni intere sezioni della storia politica occidentale e della corrispondente speculazione teorica. Del resto, come già osservava lapidario Jacob Taubes a proposito del modo geniale e aristocratico di trattare i problemi da parte del nostro filosofo, «alcuni scrivono libri interi su ciò che Kojève risolve, con eleganza, in una nota».
Alexandre Kojève, La nozione di autorità, a cura di Marco Filoni, Adelphi, pagg. 145, • 29,00

il Fatto Saturno 4.11.11
Isaac Newton. Un genio depresso
di Vittorio Pellegrini


RICORDO LA MIA prima volta all’Università di Cambridge. Ricordo il refettorio del Trinity College, uno dei collegi più prestigiosi dell’Università, la mia stanza con un pavimento di legno antico e il letto a baldacchino. Ricordo soprattutto quel cartello davanti al prato verdissimo del Trinity che diceva: “Vietato calpestare l’erba se non accompagnati da un membro anziano del College”. Un’atmosfera sobria e stimolante. E fu proprio questo il luogo che accolse nel 1660 un giovane di origini modeste, un campagnolo con la capigliatura rossa proveniente da una fattoria del Lincolnshire; un ragazzino, dicevano, dalla mente straordinariamente acuta. Isaac Newton varcò le soglie del Trinity nell’anno in cui Carlo II fu proclamato re d’Inghilterra. In pochi anni dimostrò qualità straordinarie diventando nel 1669 il secondo titolare della cattedra lucasiana di matematica (oggi occupata dal fisico matematico Stephen Hawkins) e in quelle mura identificò il vero scopo della sua vita. Distruggere Descartes e la sua fredda meccanica della materia e scoprire, attraverso la filosofia della natura, l’armonia dell’universo creato da Dio. Come poi ripeteva in vecchiaia, uscito vittorioso dalla scontro a distanza con Descartes: «Se ho visto più lontano degli altri è perché sono salito sulle spalle dei giganti». Ma non si riferiva a Galilei o Keplero, bensì a Mosè e Gesù Cristo. Perché lui, Isaac Newton, era venuto al mondo con una missione divina: formulare un modello matematico dell’universo in pieno accordo con le osservazioni sperimentali come quelle raccolte dall’astronomo John Flamsteed nell’osservatorio di Greenwitch, fatto costruire proprio da Carlo II. E Isaac Newton, la sua vita affascinante e contraddittoria, culminata con la stesura dei Principia e la spiegazione dei moti dei pianeti attraverso la legge della gravitazione universale, è il protagonista del romanzo La parrucca di Newton, scritto dall’astrofisico francese Jean-Pierre Luminet. Un romanzo che è innanzitutto bello, e che riesce a coinvolgere nella narrazione della storia di un uomo geniale ma allo stesso tempo ambizioso e invidioso, capace di dirigere con maestria la prestigiosa “Royal Society” e la zecca dello stato e allo stesso tempo preda di forti stati depressivi che lo portavano a isolarsi per mesi. Un uomo che è considerato il padre della scienza moderna, ma che passava gran parte del suo tempo a cercare di decifrare improbabili leggi nascoste nella Bibbia e a effettuare pericolosi esperimenti alchemici. Ma ciò che trasforma il libro di Luminet in un prezioso manuale storico e di divulgazione scientifica è l’attenzione ai personaggi incontrati da Newton nel corso della sua vita. Dal “nemico” Robert Hooke, noto in particolare per la legge sull’elasticità, a Edmund Halley di cui si ricorda oggi la cometa che porta il suo nome. Fino a John Locke, filosofo empirista, padre del pensiero liberale, che fu uno dei pochissimi amici sinceri di Isaac Newton al quale offrì il terreno filosofico su cui collocare la grande costruzione matematica dei Principia. Il libro di Luminet è il frutto di un serio lavoro di ricerca tradotto in una storia romanzata, avvincente e dai ritmi serrati. Avvincente quando Luminet ci porta dentro la casa del giovane Newton intento a risolvere la luce del sole nelle sue componenti fondamentali; interessante quando Luminet si sofferma sui dialoghi spigolosi tra Newton, Fatio, Halley e Hook durante le riunioni della “Royal Society” o su quelli a distanza con Leibniz sulla paternità del calcolo infinitesimale e inquietante quando Luminet ci descrive un Newton quasi folle nella convinzione di essere il migliore fra tutti. Rimane forte la tensione nel libro che culmina nell’immenso bagliore della legge della gravitazione universale: la mela che cade dall’albero. È emozione che si propaga al lettore fino alle ultime pagine, quando Luminet ci racconta il funerale di Isaac Newton e quando ci propone l’ultimo personaggio del suo libro, un giovanotto francese dalle idee un po’ strane, tale Voltaire.
Jean-Pierre Luminet, La parrucca Di Newton, La Lepre, pagg. 384, • 24,00

il Fatto Saturno 4.11.11
Erme
Sinistra triste? Leggete Benjamin
di Marco Filoni


PARLIAMO di sinistra. O meglio, degli intellettuali di sinistra. «La loro funzione, sotto il profilo politico, è di generare non partiti ma cricche, sotto il profilo letterario, non scuole ma mode, sotto il profilo economico, non produttori ma agenti. E questa intellettualità di sinistra da quindici anni è ininterrottamente l’agente di tutte le congiunture spirituali… Il suo significato politico però si è esaurito nel convertire i riflessi rivoluzionari, nella misura in cui comparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di svago, riconducibili al consumo». Non sono parole di qualche giorno fa proclamate da sedicenti “rottamatori”. Sono parole scritte da Walter Benjamin, il grande filosofo tedesco, in un testo del 1930 intitolato Malinconia di sinistra. Si possono leggere, insieme a molto altro, in un libro davvero pregevole: gli Scritti politici. Pregevole per più d’una ragione: anzitutto la curatela, affidata a Massimo Palma, il quale sa restituire la prosa del tedesco spesso barocco di Benjamin in maniera superlativa come in passato non si era ancora riusciti a fare. Poi per i testi puntuali che vi sono acclusi: l’introduzione di Gabriele Pedullà sulla necessità di ripoliticizzare il pensatore che è diventato un’icona della filosofia del Novecento; e il testo dello stesso Palma che, insieme al ricco apparato di note, risulta una mappa fondamentale per la comprensione e la lettura di Benjamin scrittore politico. Infine, una doppia scelta. La prima, quella di riunire in questo libro tutti i testi di carattere politico (anche quelli apparentemente estranei: vi sono pure le arcinote tesi Sul concetto di storia) che abbracciano l’arco temporale dell’intera produzione benjaminiana. La seconda, quella di riproporre un’edizione delle Opere del filosofo – ci aveva provato Einaudi, ben due volte, l’ultima delle quali con volumoni esosi e la decisione di restituire i testi cronologicamente, scelta non sempre felice per un pensatore fuori dagli schemi classici quale è stato Benjamin. Insomma, ci auguriamo che gli Editori Internazionali Riuniti portino avanti sino alla fine questa meritoria impresa editoriale, assicurando anche ai futuri volumi la fortunata resa degli Scritti politici. Nei quali ritroviamo ben più d’una indicazione utile non soltanto agli studiosi. Questi sono scritti che parlano a noi e di noi. Perché sanno creare un terreno, quello appunto che l’intellettualità odierna – come quella contemporanea a Benjamin – non ha più sotto i suoi piedi. Perché il “carattere distruttivo” del filosofo equivale a una creazione: di spazio, di presente, di realtà sociale e naturale che, come annota Massimo Palma, si esprime nel tempo: «E se l’attenzione alla realtà è virtù benjaminiana per eccellenza, vero politico è chi lascia che la realtà di cui non dispone, ma che accompagna nel suo farsi significato, materia, sia il più possibile piena. Chi riesce a non parlare a(l) vuoto». È un insegnamento prezioso, da leggere e da tenere a mente. Anche perché, oggi, è un amichevole antidoto alla malinconia di sinistra.

Corriere della Sera 4.11.11
L'Homo sapiens in Europa Il primo nacque in Puglia
Trovati i resti di 45 mila anni fa in una grotta
di Giovanni Caprara


MILANO — Un bambino italiano è il più antico «uomo moderno» in Europa. Apparteneva all'Homo sapiens e i suoi resti sono stati trovati nella Grotta del Cavallo, nel Salento, in Puglia. Sono due piccoli denti e attorno ci sono conchiglie. Esaminando il tutto all'Unità Radiocarbonio di Oxford si è potuto stabilire che risalgono a 43 o 45 mila anni fa.
Contemporaneamente una mandibola proveniente dalla Kents Cavern, vicino a Torquay, nel Devon, è stata datata tra i 41 e 44 mila anni. I risultati sono stati ottenuti da due gruppi di ricercatori guidati rispettivamente da Thomas Higham dell'Università di Oxford e da Stefano Benazzi dell'Università di Vienna. Pubblicati sulla rivista britannica Nature, hanno messo a soqquadro le idee finora ritenute abbastanza consolidate circa la conquista dell'Europa da parte dell'Homo sapiens dopo la sua partenza dall'Africa 60 mila anni fa, anticipandola almeno di circa cinquemila anni.
Finora le tracce più remote della sua presenza erano state rinvenute a Pestera cu Oase, sui Carpazi in Romania, e risalivano a circa 38 mila anni fa e quelle trovate in Italia erano più recenti, tremila anni più tarde. Ora le cose sembrano essere andate diversamente e il colpo di scena arriva dalle due caverne nelle quali si lavorava da decenni.
I primi reperti nella Grotta del Cavallo venivano infatti scoperti ancora nei primi anni Sessanta del secolo scorso e gli studiosi li giudicavano appartenenti all'Uomo di Neanderthal, una specie differente abitante il Vecchio Continente tra 130 mila e 30 mila anni fa e poi estinto, forse per l'interazione proprio con il sapiens, forse per ragioni climatiche. Quelli della grotta pugliese erano valutati allora di 36 mila anni fa.
Invece analizzando le caratteristiche dei denti e il materiale circostante non solo le epoche sono cambiate ma anche l'identità dei protagonisti. Il risultato si deve, in particolare, all'utilizzo di nuove tecnologie che, ad esempio, hanno permesso di ricostruire in maniera tridimensionale i denti, le loro cavità interne, la forma delle radici cogliendo impercettibili differenze prima sfuggite appartenenti all'Homo sapiens e non al suo concorrente neanderthaliano. «E queste confermano — sottolinea Stefano Benazzi — che si tratta dei primi e più antichi europei sapiens finora conosciuti».
Tutto ciò, secondo i paleoantropologi, avvalorerebbe ulteriormente l'idea che tra le due specie oltre ad esserci stato un periodo di convivenza parallela sia avvenuta pure l'unione. Inoltre, che l'arrivo dall'Africa non si sia esaurito in una sola ondata ma che una seconda abbia avuto luogo. Infine, che i percorsi possano essere stati anche un po' differenti da quanto si era ipotizzato.
Come si può giustificare, altrimenti, un insediamento più antico nel Devon che è dall'altra parte dell'Europa rispetto alla Romania dove, si diceva, dovevano essere giunti prima? «Nella Grotta del Cavallo possiamo immaginare che siano arrivati via mare?» si chiede Camillo Facchini paleoantropologo dell'Università di Bologna.
«Il loro insediamento nell'area pone il problema — aggiunge — di possibili mescolanze culturali e etniche nell'Italia meridionale e quindi la necessità di nuovi modi di vedere il popolamento della regione. I dati raccolti su questo periodo della preistoria sono di grande interesse proprio perché aiutano a chiarire i rapporti tra culture e tra gruppi umani diversi».
La scoperta, comunque, oltre a riaccendere il dibattito sulle nostre origini, racconta con ragionevole certezza che la civiltà europea è ancora più antica.