l’Unità 11.11.11
Il leader: il bene del Paese prima dell’interesse di parte. Casini: «Siamo a un passo dal baratro»
Nel Pd prevale la decisione di non indicare propri dirigenti come possibili ministri
Le condizioni di Bersani: «Ora equità e nomi nuovi»
Tra le condizioni poste dal leader dei Democratici, la «discontinuità» rispetto all’attuale governo e la necessità di una nuova legge elettorale. Monito a Sel e Idv per evitare il “fuoco amico”.
di Simone Collini
«Certo che per noi sarebbe stato meglio andare subito a votare, ma il bene del Paese viene prima degli interessi di partito o dei destini personali». Pier Luigi Bersani non si stupisce delle perplessità e delle critiche che militanti e simpatizzanti del Pd esprimono via web, del fatto che mezza segreteria (a cominciare dal responsabile del settore Economia e lavoro Stefano Fassina) evidenzi i rischi che comporta questa scelta, o che l’autore della ormai storica “Velina rossa” Pasquale Laurito bocci il «governo dell’ammucchiata» e annunci che al prossimo giro mancherà il suo voto, dopo 67 anni di militanza tra Pci, Pds, Ds e Pd.
Bersani sa bene quale sia nei sondaggi il vantaggio del centrosinistra rispetto al centrodestra, così come sa che con le urne nel 2013 tutto, candidatura alla premiership compresa, rischia di essere messo in discussione. Ma il leader del Pd ripete a tutti i suoi interlocutori che stiamo vivendo «la crisi più grave dal dopoguerra ad oggi» e che a situazioni di emergenza si deve rispondere con soluzioni di emergenza, che «i partiti sono un mezzo non un fine» e che il Pd «non fa business» sulla crisi del governo ma lavora perché già la prossima settimana l’Italia abbia un governo guidato da Mario Monti.
LE CONDIZIONI DEL PD
Al Quirinale, dove molto probabilmente domenica si apriranno le consultazioni, il leader del Pd andrà a dire che il suo partito è pronto a sostenere un esecutivo che abbia «un profilo di netta e inequivocabile novità» e che sul fronte economico adotti misure di «equità». Tra le condizioni che pone Bersani c’è la «discontinuità» rispetto all’attuale governo, e quindi è difficile che il Pd dica sì a nomi che compaiono nel totoministri che circola in queste ore, che vanno da Frattini a Nitto Palma a Fitto. C’è la necessità che a sostenerlo sia il Pdl, e non «frange» di partito. E poi ci sono le condizioni per così dire programmatiche, visto che il Pd vuole utilizzare i prossimi mesi per approvare una nuova legge elettorale, una riforma per dimezzare il numero dei parlamentari (che in quanto costituzionale richiederebbe almeno 12 mesi di tempo), misure per l’occupazione e altre redistributive sul piano fiscale: «Per uscire dalla crisi serve uno sforzo comune ma chi ha di più deve dare di più», è il messaggio rilanciato da Bersani nel corso di un incontro a Montecitorio a cui partecipano anche Fini, Casini e Alfano. Praticamente tutti i leader della nuova maggioranza che, se tutto andrà come previsto, sosterrà l’esecutivo Monti.
Bersani sa che questa scelta rischia di avere come prima conseguenza una lacerazione nel centrosinistra. E che difficilmente non avrà ripercussioni, alle urne, un fuoco amico contro il Pd protratto per mesi. Per questo il leader dei Democratici ieri mattina ha incontrato il responsabile Organizzazione di Sel Francesco Ferrara (uno degli uomini più vicini a Nichi Vendola dai tempi di Rifondazione) per chiedere che intenzioni abbiano ma soprattutto per raccomandare un atteggiamento responsabile in questo delicato passaggio. E per questo Bersani ha lanciato un messaggio piuttosto chiaro nei confronti di Antonio Di Pietro: «Non è che uno può andar per funghi durante il governo d’emergenza e poi tornare con noi per la campagna elettorale».
Questo passaggio segna comunque un rafforzamento dell’asse col Terzo polo. Casini, che ha passato la mattina a incontrare ex pidiellini e “responsabili” che stanno lavorando per dar vita a un nuovo gruppo alla Camera (Antonione, Destro e Gava da ieri sono intanto al Misto), dice che «siamo a un passo dal baratro, ci dobbiamo fermare e far prevalere l’unione». Poi, avverte il leader dell’Udc, «ciascuno potrà tornare alla posizione precedente». Ma sarà più facile farlo se i partiti sosterranno il nuovo governo senza entrarci.
E infatti il ragionamento che prevale in queste ore tra i Democratici è di non indicare nessun esponente Pd come ministro. Alle consultazioni Bersani (che critica l’esercizio al totoministri di queste ore) dovrebbe dare il suo assenso per un governo formato da personalità autorevoli, credibili a livello internazionale, e non esponenti di partito.
La Stampa 11.11.11
Bersani rischia tutto
Dilemma Bersani appoggiare Monti col rischio di sparire
La probabile vittoria alle elezioni barattata col governo tecnico
di Federico Geremicca
Mettetevi nei suoi panni, cioè negli abiti di chi era pronto ad incassare di fronte a elezioni a gennaio l’investitura a candidato-premier senza nemmeno il rischioso fastidio della prova delle primarie. Mettetevi nei panni di Pier Luigi Bersani, insomma, così da capire come il piombare in campo di Mario Monti poteva somigliare per lui ad una vera e propria sciagura. «Invece non un tentennamento assicura Rosi Bindi, la voce intermittente per qualche problema col telefono -. Non un’oscillazione. E se devo dire chi si è speso, anzi chi si sta spendendo di più per convincere i dubbiosi perché qualche dubbioso c’è l’abbiamo anche noi nemmeno io tentenno: Bersani».
Si potevano avere dei dubbi, in questo giovedì di tensione e di passione: sarebbero stati legittimi. Si poteva pensare a qualche giochino, anzi doppiogiochino: in politica se ne vedono ogni giorno, e se ne vedranno ancora. E si poteva, infine, immaginare l’umano prevalere dell’interesse personale e di partito: la storia è piena di scelte dettate da paura o da egoismo. Al contrario, da ieri sera una cosa è diventata irreversibilmente chiara: se dall’inizio della prossima settimana Monti siederà a Palazzo Chigi, molto lo si dovrà certo a Giorgio Napolitano, ma il resto del merito sarà suo, dell’uomo che «mica siamo qua a smacchiare i leopardi»...
Intendiamoci: se si provano a enumerare i vantaggi e gli svantaggi personali e di partito che la scelta comporta, verrebbe da dire che la rotta individuata dal leader del Pd ricorda da vicino un tentativo di suicidio. I democrats, infatti, barattano un futuro prossimo certo (la pronosticata vittoria alle elezioni anticipate) con un domani del tutto incerto; Bersani rende di nuovo contendibile con le primarie la postazione di candidato premier; il Pd si espone agli attacchi che gli arriverannoda sinistra, a cura di chi resterà fuori dal governo (Di Pietro e Vendola, al momento); «e c’è un rischio per noi forse ancor più serio aggiunge Rosi Bindi -. E cioè che all’ombra di un lungo governo tecnico e di fronte a un Pdl che cambia pelle, il Terzo Polo slitti di nuovo dall’altra parte del campo, e la frittata è fatta. È un pericolo vero: ma noi siamo gente seria, e vengono prima i pericoli ai quali Berlusconi ha esposto il Paese...».
Sarà pure così, anzi è certamente così: ciò non toglie che, dietro l’apparente sicurezza, tutto il Pd ha fibrillato a lungo intorno alla scelta da fare. Riunioni al largo del Nazareno, sede del partito; faccia a faccia più o meno riservati nei corridoi di Camera e Senato; telefoni roventi per tentare di capire se il governo nascerà davvero e se (domanda che non guasta mai...) vi entreranno uomini del Pd; interrogativi irrisolti sull’accelerazione e la direzione imposte da Giorgio Napolitano all’andamento della crisi. Se il partito ha tenuto la barra dritta e ha messo tutto il proprio peso (politico e parlamentare) al servizio di una soluzione, è senz’altro per la posizione assunta sin da subito da Bersani. Non possiamo rischiare la bancarotta è stato il ragionamento per poi magari ereditare il classico cumulo di macerie: dobbiamo insistere per un governo che tiri fuori il Paese dal pantano in cui è finito.
Non ad ogni condizione, naturalmente. E le condizioni del Pd almeno quelle fondamentali sono due e sono chiare. La prima, un governo che marchi una grande discontinuità rispetto a quello uscente: quindi Gianni Letta, Nitto Palma, Franco Frattini e compagnia bella possono metterci una pietra sopra e prenotare un viaggio oppure una vacanza. La seconda, la parola chiave dei provvedimenti che andranno presi per fronteggiare la crisi deve essere «equità»: Bersani non dice patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ma è chiaro che senza assicurazioni in questo senso, la disponibilità del Pd potrebbe traballare. Va bene assumere come riferimento la lettera della Bce: ma una cosa è farne un riferimento e altra è trasformarla nel nuovo Vangelo...
Tutto bene, dunque, in casa democratica? Dirlo sarebbe una bugia: ma il dado è tratto e ora non si può arretrare. «Il passaggio è storico ammette Nicola Latorre -, si sta certificando la fine della Seconda Repubblica: una fine sancita dal governo di Berlusconi e determinata non dai giudici, come lui temeva, ma dal fallimento della sua politica». Festeggia (assai in privato...) anche Matteo Renzi, croce e delizia (più la prima che la seconda) del segretario del Pd. «Quel che sta accadendo confessa è il trionfo dell’idea di rottamazione. E che a mettere il timbro sul fallimento di un’intera classe politica sia un signore di quasi settant’anni, può sembrare paradossale ma ci sta, ci sta...».
Corriere della Sera 11.11.11
La linea del Pd: un esecutivo senza ministri politici
Prodi: sconfitta dei partiti. Casini: falso
di Alessandro Trocino
ROMA — Un governo tecnico fatto di tecnici. È l'orientamento del Partito democratico, per portare a termine le necessarie e dure riforme economiche e, al contempo, evitare una troppo plateale compromissione con un esecutivo composto anche dal Pdl. Ma sulla scelta di un esecutivo tecnico arrivano le considerazioni non proprio entusiastiche di Romano Prodi. Che, in un'intervista alla radio svizzera, spiega: «Ho estrema fiducia in Monti, siamo più amici che colleghi. Anche se, certo, il governo tecnico è un po' una sconfitta per la politica. Il Paese è ancora nella lunga transizione iniziata con la fine dei grandi partiti storici». Parole che provocano l'immediata replica piccata di Pier Ferdinando Casini: «Non siamo davanti a un esproprio della politica, ma a un atto di volontà. C'è la sconfitta della politica per quei governi che non sono riusciti a governare il Paese. E a Prodi dico, sommessamente, che anche il suo non c'è riuscito».
Il Pd, nonostante le obiezioni prodiane, è convinto della necessità di un governo tecnico. «C'è il problema dell'Italia», riassume Pier Luigi Bersani. Che vede il Pd «a due passi dalla vittoria» proprio in virtù di questa impostazione «responsabile». Il segretario interviene alla presentazione di un libro di Maurizio Lupi e l'istantanea della giornata immortala la nuova grande alleanza dopo la famosa foto di Vasto (con Di Pietro e Vendola): stavolta al fianco del segretario del Pd ci sono Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano. Bersani spiega che con Monti serve un profilo di «netta, inequivocabile, novità» e sui contenuti «serve equità».
Già circolavano i primi nomi di esponenti del Pd candidabili per il nuovo esecutivo: Enrico Letta, Anna Finocchiaro, Sergio Chiamparino, Luciano Violante. Nomi che però non sembrano più spendibili nella nuova prospettiva. Bersani (e con lui tutto il partito o quasi) si è convinto che è preferibile un governo tutto tecnico, sul modello di quello Dini del '95. Al limite con due vicepremier politici (i due Letta?) e un sottosegretario alla Presidenza del Terzo polo. Rosy Bindi è per un governo tutto tecnico. Enrico Letta ha fretta: «Il governo Monti va bene tecnico o politico purché nasca entro lunedì: altrimenti non si salva nessuno».
Ma il nuovo scenario apre un dissidio a sinistra: l'Idv ha praticamente deciso di stare fuori da un esecutivo che farà «macelleria sociale». Quanto a Sel, Nichi Vendola dalla Cina detta le condizioni: l'obiettivo sono le elezioni in fretta. Nel frattempo può esserci un governo ma in totale discontinuità e che faccia «una patrimoniale pesante».
Corriere della Sera 11.11.11
Bersani preferisce i tecnici per prevenire la fronda interna
di Maria Teresa Meli
ROMA — E dopo l'entusiasmo, la paura. Al quartier generale del Pd si calcolano i futuri, possibili, danni del governo che verrà.
«È una partita difficile, è ovvio che non possiamo non giocarla, perché ne va dell'identità del Partito democratico, noi non siamo una grande Sel, ma una formazione politica riformista»: parla così, Pier Luigi Bersani per spiegare ai suoi per quale ragione non si può dire di no al governo Monti. «È impossibile scegliere un'altra opzione, anche se ce la giochiamo tutta: potremmo finire per non contare nulla». È questa la preoccupazione — motivazione — che spinge il segretario del Partito democratico ad andare avanti lungo una strada che potrebbe presentare molte incognite per il Pd. Per questa ragione Bersani punta a un governo tecnico. Per non farsi coinvolgere troppo e per non coinvolgere troppo il proprio partito. Al segretario del Pd sono già stati presentati dei nomi: Giuliano Amato all'Interno e Maurizio Lupi alla Giustizia. Non ha detto di sì, non ha detto di no. Ma una cosa è certa: non vuole farsi coinvolgere nel balletto dei ministeri. «Se andiamo avanti lo facciamo per senso di responsabilità, non certo perché vogliamo dei posti nel futuro governo». Bersani ha paura della prova a cui è chiamato il Pd, e non lo nasconde.
L'altro ieri sera, al coordinamento del Partito democratico i big hanno esaminato la situazione. Andrea Orlando, responsabile Giustizia, non ha nascosto le sue perplessità: «Noi non possiamo dire di no al governo Monti, ma dobbiamo anche sapere che con Vendola e Di Pietro fuori, per noi sarà difficilissima». Ma in fondo gli alleati di Vasto sono l'ultima preoccupazione del leader del Partito democratico. Il vero timore, da quando Berlusconi ha bloccato il tiro al piccione dentro il Pdl, è un altro: resisterà l'elettorato del Pd a questa prova? D'Alema, nel più prosaico dei modi, l'ha spiegata così: certamente non possiamo stare fermi, perché sennò lasciamo al Pdl un canale preferenziale con il Quirinale, e questo non possiamo permettercelo.
Ma la paura è un'altra, appunto. Quella vera, che attanaglia Bersani e che fa costruire barricate al suo fedelissimo Stefano Fassina, l'unico a invocare il voto anticipato. Monti o non Monti, il Pd si sta prendendo una bella responsabilità. Il cui significato non sfugge al vice segretario Enrico Letta: «Per la prima volta, dobbiamo lavorare insieme al centrodestra, un cosa inimmaginabile, è questa la vera difficoltà». Monti o non Monti, Bersani teme non Berlusconi, e nemmeno i veltroniani, grandi fautori di quel governissimo che il segretario del Partito democratico avrebbe volentieri archiviato. Monti o non Monti, Bersani teme di ritrovarsi nella parte dell'unico grande elettore del governo d'emergenza nazionale. Vede Berlusconi nicchiare, Di Pietro dire di no, Umberto Bossi fare pernacchie, Vendola mandare messaggi confusi dalla Cina, e lui resta lì a sgranare il rosario delle elezioni. Ma c'è un'altra preoccupazione che incombe. Ha un nome e cognome. Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze si era preparato alle elezioni e alle primarie, convinto che l'anno prossimo si sarebbe arrivati alle elezioni. Ora il quadro è diverso, il segretario morde il freno e si chiede cosa dirà Renzi del governo che sta per nascere. E non importa che sia fatto da tecnici: il sindaco di Firenze potrebbe, in corso d'opera, attaccare quell'esecutivo e disvelarne le magagne. Potrebbe stare sempre lì con il dito alzato, a sottolineare errori e difficoltà.
È di questo che ha paura Bersani. Del dito alzato di Renzi, della concorrenza nel campo del centrosinistra. Avere Renzi contro, per Bersani, sarebbe ben peggio che perdere lungo la strada del governissimo, Italia dei Valori o Sel. Il segretario è ben conscio di questo pericolo, e sa anche che per il Pd questa è la partita della vita o della morte. «È chiaro — ha detto — che avremo tutti contro, che ci spareranno dentro e fuori il partito, ma non possiamo arrenderci e fare finta di niente, ne va dell'identità del Pd: se ci arrendessimo, se decidessimo di stare fuori, saremmo morti, non si capirebbe per quale ragione abbiamo fatto il Pd. In ballo c'è la nostra ragione sociale: o siamo un partito riformista o non siamo nulla».
Corriere della Sera 11.11.11
Pisapia: è Monti la soluzione migliore
intervista di Elisabetta Soglio
Sindaco Giuliano Pisapia, governo Monti sì o no?
«È chiaro che avrei preferito che l'Italia non si trovasse a questo punto, però sappiamo di chi è la responsabilità. Ho già detto e ripeto che in questa situazione un governo affidato al senatore Mario Monti sarebbe la soluzione migliore per uscire da una situazione che rischia di portare al collasso l'Italia».
Quali vantaggi intravede in questa scelta?
«Ci aiuterebbe ad uscire dalla crisi, a restituire credibilità al Paese e, vorrei aggiungere, a restituire dignità al termine "responsabili" che in questi mesi ha perduto il suo valore. Oggi sono in gioco la capacità e la volontà di essere responsabili di fronte a una situazione che potrebbe portare al disastro».
Un governo tecnico?
«Al contrario: un governo profondamente politico. Sarebbe auspicabile che fosse appoggiato da una maggioranza che sceglie di guardare all'interesse del Paese più che a quello del proprio partito».
Sì alle larghe intese, insomma?
«Solo un'ampia condivisione potrà consentire di fare scelte difficili, ma necessarie. Scelte che non siano di macelleria sociale, ma che ci portino fuori dalla crisi e diano un segnale forte per lo sviluppo del Paese. E solo un'ampia condivisione darebbe forza e coraggio per le riforme istituzionali».
E le riforme?
«Procedano parallelamente. Servono le riforme istituzionali: una nuova legge elettorale, il Senato delle Regioni, il taglio dei parlamentari. Oltre a garantire un risparmio, darebbero un segnale profondo di reale cambiamento e di sviluppo della democrazia».
Sel chiede un governo a tempo: lei cosa ne pensa?
«Non ho letto ancora cosa dice Sel. Ma è chiaro che bisogna darsi un periodo, spero possano bastare sei-otto mesi, per poi restituire la parola ai cittadini».
Di Pietro teme che un governo Monti sia un governo delle banche e della finanza: condivide?
«Il timore c'è sempre. Ma possiamo fidarci di una personalità come Mario Monti che dovrà seguire le indicazioni che provengono dall'Europa per non farci piombare in una crisi irreversibile, ma che sarà capace di non colpire chi è già stato tartassato e i soggetti più deboli che invece devono essere aiutati. Per garantire lo sviluppo dell'economia ci sono soluzioni alternative: la patrimoniale, la lotta all'evasione fiscale, i grandi stipendi, i costi della politica».
Come giudica il «no» dell'Italia dei Valori?
«Vedo passi avanti: dicono che valuteranno se votare alcune riforme. In questa fase abbiamo un obbligo politico e morale di condivisione di alcune scelte, uscendo dalla logica elettoralistica».
Che alleanze prefigura per il futuro?
«Mi piacerebbe si seguisse l'esperimento milanese. Noi abbiamo proposto agli elettori una coalizione di centrosinistra molto ampia e unita in cui si sono riconosciuti anche l'associazionismo e personalità moderate. A livello nazionale ci sarà bisogno di costruire una coalizione ampia che abbia presa diretta sul territorio, goda dell'apporto di personalità credibili in Italia e all'estero. Non parlo di partiti, ma di singole persone».
Il governo Monti sarà un vantaggio per Milano?
«Se ci sarà un governo Monti, sono certo avrà la sensibilità di capire che il tema della riforma economica non può passare dalla penalizzazione degli enti locali, come accaduto negli ultimi anni. Sono molto fiducioso, perché Mario Monti sa bene quanto siano importanti temi come Expo e sa che aiutare Milano significa aiutare la ripresa di tutto il Paese, che inevitabilmente deve passare da qui».
Un governo amico, dunque?
«Un governo che non dimostri disinteresse, come ha fatto il governo Berlusconi con Milano».
l’Unità 11.11.11
Sel dice «ni», Idv «no» Ma la partita è aperta
Il partito di Vendola apre a Monti con tanti paletti: «Comunque presto al voto» Di Pietro è più netto e si attira numerosi dissensi, anche fra i militanti
E Bersani: non puoi andare a funghi e tornare per la campagna elettorale
di Maria Zegarelli
Adesso la domanda è cosa resterà di quella fotografia di Vasto che secondo alcuni era «incompleta», secondo altri «sbilanciata», ma qualcosa era e ora rischia di essere semplicemente una foto ricordo. Grande preoccupazione in Idv e Sel che davanti al probabile governo Monti hanno posizioni diverse ma non lontanissime tra di loro e sicuramente più distanti dal Pd.
Ieri dopo una segreteria riunita ad hoc Sel ha aperto ma solo un po’ all’esecutivo di transizione mettendo così tanti paletti (tra cui patrimoniale e discontinuità) da far dire ad uno dei collaboratori di Nichi Vendola, che «se qualcuno si azzarda a dire che Sel dà l’ok si becca una querela». Chiude Antonio Di Pietro che non darà il suo voto, ma valuterà provvedimento per provvedimento e comunque prenderà una posizione definitiva domani mattina durante una riunione con i gruppi di Camera e Senato perché la discussione è accesa e la base del partito è in fibrillazione. Intanto l’ex magistrato è dovuto correre ai ripari prima per lo scivolone a Porta a Porta poi con la sua gente. L’altra sera da Vespa ha detto che Pd-Pdl «si accorgeranno che non possono stare insieme, visto che due maschi in camera da letto non fanno figli», sollevando accese proteste. Ieri, dopo aver chiesto scusa alla comunità omosessuale, ha promesso quanto prima un incontro con Arcigay. E proteste anche dalla sua base, su Facebook e sul sito, alla notizia che non avrebbe appoggiato il governo di transizione. «Di Pietro l’ho sempre sostenuta ma ora mi sembra come Bossi e se continua così il mio voto è certamente perso», scrive Rosita, in uno dei tanti messaggi «dissidenti». Sul sito i dipietristi a metà pomeriggio sono praticamente spaccati: 1038 lo appoggiano 919 no. Il leader Idv posta: «Noi non parteciperemo a questo governo. Quindi per essere chiaro, non voteremo la fiducia al governo Monti. Ma in Parlamento, se ci dovesse essere qualche provvedimento corretto e coerente, non ci sottrarremo a votarlo». Tanto per fare un esempio: riforma elettorale e legge «del buon esempio», ossia un colpo di spugna su caste, privilegi e costi della politica. Ma dal suo enturage raccontano anche che l’ex pm non avrebbe gradito il fatto di non essere stato invitato al Colle durante le consultazione informali dei giorni scorsi. E come se non bastasse anche il segretario del Pd Pier Luigi Bersani non è andato morbido durante il caminetto dell’altra sera: «Non è che uno può andar per funghi durante il governo tecnico e poi tornare per la campagna elettorale».
Di Pietro insiste: «Noi dell’Idv non possiamo accettare di sederci al fianco di Berlusconi», meglio il voto subito. Sulla stessa linea anche Leoluca Orlando, mentre è più cauto Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera che in questi mesi ha tessuto insieme alle altre opposizione la trappola parlamentare in cui alla fine è caduto Silvio Berlusconi. «È una situazione straordinaria, in tre giorni c’è stata una rivoluzione. Come facciamo a ignorarlo? dice Ne dobbiamo discutere per arrivare ad una posizione comune». Insomma, Donadi che avrebbe preferito il voto a gennazio, davanti al baratro in cui è finito il Paese, non è certo che la linea indicata da Di Pietro sia la migliore. E dal Senato Elio Lannutti: «Sto litigando con mio figlio: lui sta con Di Pietro io invece penso che sia un errore dire no a Monti», mentre Pancho Pardi scrive una lettera al partito auspicando il sostegno a Monti.
Dibattito acceso anche sulla pagina facebook di Nichi Vendola (in viaggio in Cina) che si esprime a favore del voto subito. Chi concorda e chi dissente, come Isabella B.: «A votare per rassicurare i mercati??? Nichi ti sei conquistato l'8%, (anche il mio voto) ma così lo perderai presto...». E allora il comunicato della segreteria prova a far chiarezza: «Un governo di emergenza non può che essere a tempo e con un immediato obiettivo: fronteggiare l’emergenza dei conti con una patrimoniale vera, che non colpisca i cittadini che stanno già pagando gli effetti nefasti della recessione». Vendola, intanto, dalla Cina manda un video messaggio in cui ribadisce che Sel non appoggerà «soluzioni pasticciate». Con un governo a scopo, aggiunge, «si possono fare in pochi mesi soltanto alcune operazioni di segno capovolto rispetto a ciò che si è fatto in questi anni, a ciò che ha fatto l’Europa liberista. Mettere al centro delle politiche di risanamento e del contenimento del debito pubblico l’equità sociale, stimolare la crescita purché sia una crescita ambientalmente e socialmente sostenibile». Poi, voto, prima del 2013. Fabio Mussi è preoccupato: «Il fatto che si arrivi al collasso del blocco berlusconiano senza avere in campo una proposta e una leadership già riconosciuta credo sia una delle ragioni del rischio gravissimo che corriamo come centrosinistra». E Claudio Fava: «Se qualcuno pensa che con questo governo si possa preparare il futuro scenario politico non ci siamo proprio. Qui non si tratta di essere affezionati alla foto di Vasto ma di evitare che si faccia un salto indietro che ci riporta agli anni Novanta».
La Stampa 11.11.11
Vendola: “Servono patrimoniale e taglio delle spese militari”
“Cambiare segno: Bce, Fmi e Commissione Ue non possono dettare legge”
intervista di Riccardo Barenghi
ROMA. Nichi Vendola Il leader di Sel vede di buon occhio un governo tecnico solo in caso di forte discontinuità con quello del centrodestra: patrimoniale tasse su rendite e transazioni finanziarie taglio delle spese militari
È in Cina, Nichi Vendola, dove ha accompagnato una delegazione di imprenditori pugliesi che lavorano in settori come la depurazione dell’acqua, le energie rinnovabili, lo smaltimento di rifiuti, un progetto in comune col ministero degli Esteri: «Ma non vi preoccupate, il viaggio se lo sono pagati tutto da soli, il costo per la mia Puglia è di poche migliaia di euro. Io non viaggio portandomi dietro la corte dei miracoli, non spendo e spando i soldi pubblici... ».
Però lei sta laggiù mentre qui la situazione economica e politica precipita, Berlusconi si dimette mentre si profila un governo tecnico guidato da Mario Monti. Se fosse qui cosa direbbe?
«Direi quello che le dico adesso. E cioè che il governo Monti (persona che io apprezzo e rispetto profondamente), ha un senso solo se è un governo di scopo: alcuni provvedimenti di equità sociale come una patrimoniale pesante, la tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie e il taglio delle spese militari. Dopo di che fine della storia e si va al voto tra pochi mesi».
Vendola, ma qui si discute di tutt’altro: i mercati che precipitano, gli impegni presi con la Bce, le pensioni, il taglio della spesa pubblica, le privatizzazioni, il mercato del lavoro... Altro che pochi mesi e altro che equità sociale: la prospettiva è lacrime e sangue fino al 2013.
«Beh, allora non mi avranno. Io non accetto di farmi militarizzare dalle grandi banche internazionali che hanno provocato apposta la speculazione sull’Italia proprio per riuscire a dirigere il nostro Paese da fuori. Se il professor Monti dovesse accettare questo schema, e con lui il Partito democratico di Bersani, allora sarebbe non solo la sconfitta della sinistra ma di tutta l’Italia. E il trionfo postumo del berlusconismo che ci ha portati dritti in questa situazione».
Ma come, Berlusconi se ne va e trionfa?
«Certo, se le politiche restano le stesse, se il liberismo non viene messo in discussione, se non si imprime una forte discontinuità col passato. Io non intendo farmi eterodirigere da organismi economico-finanziari non eletti da nessuno. La Bce, il Fondo monetario, la stessa Commissione europea non sono certo organismi eletti dal popolo. Mi risulta invece che in Italia ci sia ancora un Parlamento, ci siano dei partiti, ci sia la democrazia: possiamo discutere come risanare i nostri conti, cosa cambiare, cosa salvare, chi penalizzare e chi privilegiare, o dobbiamo solo ubbidire come soldatini incapaci di intendere e di volere? Altrimenti siamo al commissariamento della politica. Per dirla seccamente: se Monti intende essere il volto perbene di chi opera la macelleria sociale, allora neanche comincio a discutere».
Ma un governo di larghe intese come quello che si profila, non può certo essere un governo rivoluzionario...
«Oggi la vera rivoluzione non è certo la presa del Palazzo d’Inverno bensì l’equità sociale. Ecco, io dubito fortemente che un governo frutto di una compromissione con quelli che ci hanno guidato verso il baratro possa rappresentare una svolta politica, economica e sociale».
E allora, niente governo Monti?
«Se si limita nel tempo e negli interventi, dandogli quel segno di discontinuità, può anche provarci. A condizione che però sia il Partito democratico e non Pdl a segnare la strada nelle forme e nei contenuti. Altrimenti se dopo tutto quello che è successo, tutto quello che abbiamo detto e fatto contro Berlusconi, fosse ancora lui il deus ex machina del gioco politico, sarebbe una resa senza condizioni del centrosinistra. E di tutto il Paese».
Lei chiederà al Presidente Napolitano di essere consultato seppur in maniera informale visto che Sel non è presente in Parlamento?
«Non ci penso nemmeno, la Costituzione parla chiaro e io non ho alcuna intenzione di forzare la nostra Carta con trucchetti da bassa politica. Peraltro la settimana scorsa Napolitano è stato in Puglia e dunque abbiamo avuto modo di parlare di tutto. Lui conosce molto bene il mio pensiero, cioè quello che le ho appena illustrato. E sa quanto io apprezzi il ruolo che ha avuto in questi anni e anche negli ultimi giorni».
l’Unità 11.11.11
I pilastri: patrimoniale e rispetto per il lavoro
Per superare una situazione di emergenza qualcuno farà sacrifici maggiori Ma anche seguendo la Costituzione si potrà dare fiducia ai mercati
di Ronny Mazzocchi
La sempre più probabile formazione di un nuovo governo guidato da Mario Monti
costituisce un passaggio cruciale di questa fase politica e forse dell’intera Seconda Repubblica. Il clima di emergenza nazionale in cui sta avvenendo questo cambio della guardia non deve però farci perdere di vista un punto fondamentale. Le cure da cavallo che il nuovo governo dovrà somministrare al Paese per riacquistare la fiducia dei mercati e sottrarci all’azione devastante degli speculatori non solo non saranno indolori, ma non saranno nemmeno socialmente neutrali. Qualsiasi politica economica presenta infatti costi di aggiustamento differenti per le diverse categorie sociali e almeno nel breve e medio periodo ci sarà sempre qualcuno che ci perderà e qualcuno che ci guadagnerà. Le situazioni "win-win", quelle in cui tutti traggono vantaggio da un provvedimento, sono assai rare nella teoria economica e ancor di più nella realtà di tutti i giorni.
Stendere un programma di governo, soprattutto in questa delicata fase, significa quindi avere ben presente che per raggiungere gli obiettivi del risanamento dei conti pubblici e del rilancio della crescita economica non vi è una sola ricetta a disposizione. La scelta di una o l’altra delle opzioni disponibili avrà dunque un contenuto politico che determinerà anche chi dovrà sostenerne i costi. Su queste basi risulta evidente che il giudizio sul nuovo governo non potrà prescindere dal progetto che questo presenterà al paese su due temi fondamentali: fisco e lavoro. Si tratta di elementi che già da mesi sono oggetto di un acceso dibattito pubblico e che sono finiti nel mirino delle missive che da Bruxelles e Francoforte sono state spedite al precendete esecutivo. Se è vero come ormai hanno riconosciuto tutti che un approccio unicamente fiscale al problema del debito sovrano rischia di costituire una cura peggiore della malattia, non si può sicuramente prescindere dal trattare il problema delle entrate come un tema secondario. Così come è vero che il lavoro, con le sue implicazioni sociali, non potrà che essere sottratto alla dittatura giuslavoristica a cui da anni si trova sottoposto, quasi che la disoccupazione e la precarietà fossero un problema di design contrattuale e non una questione economica. Fisco e lavoro si muovono su due binari paralleli e fra loro inscindibili. Comunque si intenderà agire su questi temi non si potrà non tenere conto da un lato di una maggiore equità nella redistribuzione del carico fiscale fra contribuenti e tipologie di redditi e, dall’altro, nell’individuazione di una politica economica capace di garantire un lavoro decente e sicuro così come garantito dalla nostra Costituzione.
Per quanto riguarda il fisco, due sono i pilastri su cui bisognerà muoversi: per prima cosa sarà necessario riequilibrare la tassazione da chi paga a chi evade, perché in Italia l’evasione fiscale ha raggiunto livelli patologici ed è profondamente ingiusto che una parte della popolazione possa sottrarsi in questa fase allo sforzo di risamento del Paese. Il secondo è che l’imposizione fiscale dovrà essere spostata dal lavoro alla rendita, perché il fisco dovrà premiare la partecipazione al processo produttivo, l’assunzione di rischio e l’imprenditorialità, mentre dovrà essere scoraggiata in ogni modo la rendita parassitaria e improduttiva. Sempre nell’ottica di una maggiore equità, accanto a questi due elementi si potrà poi prevedere una imposizione sul patrimonio, che si preoccupi comunque di salvaguardare le piccole ricchezze da una tassazione eccessivamente invasiva. Per quanto riguarda il lavoro, sarà invece necessario prendere le mosse dai positivi passi avanti costituiti dagli accordi che le parti sociali hanno recentemente raggiunto sul potenziamento della contrattazione di secondo livello pur nella cornice insostituibile del contratto nazionale. È sulla strada del dialogo che si potrà ottenere anche un allungamento della permanenza dei lavoratori nel mercato del lavoro, attraverso forme di incentivazione o di pensionamento parziale.
Muoversi, invece, sulla strada già inaugurata dal ministro Sacconi, spingendo ad esempio per una maggiore facilità di licenziamento, oltre ad essere inutile allo scopo di aumentare il numero di occupati, rischia di avere ricadute negative. Rischia di essere difficile da spiegare a tutti quei lavoratori che, ancora una volta, si sentirebbero gli unici a doversi far carico di una crisi di cui non si sentono però colpevoli ma soltano vittime.
l’Unità 11.11.11
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non na-
scono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!».
Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
l’Unità 11.11.11
Caro professore, dimentichi Gelmini
di Mila Spicola
Caro professor Monti, dicono di Lei che da lunedì potrebbe essere a capo di un nuovo governo per “salvare” l’Italia. Se così sarà non possiamo che esserne contenti. Vorrei però porle un quesito, un dubbio da professoressa di periferia: riscriverebbe oggi il suo editoriale del 2 gennaio 2011? Quello dal titolo: «L’esempio di Gelmini e Marchionne: meno illusioni per dare speranze»?
In effetti è l’esempio quello che distingue un vero statista da un mediocre politico, lo diceva Luigi Einaudi al nipotino, ma spero che il suo esempio non sia l’attuale ministro in carica a viale Trastevere. Da bocconiano non può che ritenere fondamentale la salvaguardia e la promozione del merito. Ma, e non vuole essere un gioco di parole: entri nel merito se vuol parlar di merito. Specie quando tratta della scuola.
Ritengo il suo giudizio del 2 gennaio un po’ affrettato, me lo lasci passare, nell’affermare che «grazie alla sua determinazione, (della Gelmini) verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti e nel fare ricerca». Tutto possiamo fare e mi metto nei panni di un ragazzo che cresce in una scuola di periferia di una città non qualunque come Palermo tranne affermare che le ricadute di quei provvedimenti siano andati a vantaggio di quel ragazzo. Se avesse voglia e tempo le spiegherei come e perché. Ma lo potrebbe fare anche un mio collega di Belluno o di Cologno Monzese. Quello che è stato punito e penalizzato da quella “determinazione” è proprio quel ragazzino: sia in quanto ultimo della classe, perché non ho modi, tempo, strutture e risorse per recuperarlo, sia in quanto primo della classe, perché, per gli stessi identici motivi non riesco a potenziarlo. L’handicap italiano nel formare studenti deriva dal divario enorme che esiste tra i diversi contesti socio-economici e familiari di provenienza. Per cui gli ultimi a scuola, e le posso assicurare lo verifico ogni ora, ogni giorno, ogni mese e ogni anno di lavoro, sono sempre i bambini che hanno famiglie più povere, o disagiate, o con problemi. E sono loro ad essere stati colpiti dai tagli indiscriminati di questo governo. Non certo il docente non meritorio: ovunque sia. Il mio collega immeritorio sta ancora là: dietro la cattedra e con gli stessi deficit. Il ragazzino bisognoso sta ancora là: dietro un banco quando ce l’ha, con meno ore, meno attenzione, meno qualità. E lo perdo. È il primo che perdo: quello che dovrei invece curare e recuperare. È per garantire quel ragazzo che le scrivo.
La Stampa 11.11.11
Da Oltretevere arriva la benedizione al candidato premier
di Andrea Tornielli
CITTÀ DEL VATICANO. La Caritas in veritate sembra quasi un documento guida di governo tecnico della società, in cui l’economia ha un ruolo fondamentale, come esito naturale della riflessione etica, con la quale concordano anche coloro che non condividono la visione etica cattolica». Così parlava Mario Monti in San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa, il 23 febbraio 2010, presentando l’enciclica sociale di Benedetto XVI, invitato dal cardinale Vicario di Roma Agostino Vallini. In quella occasione, il presidente della Bocconi disse pubblicamente di «essere cattolico».
Il governo guidato da «SuperMario» sembra essere un’idea che non dispiace nei sacri palazzi. Ieri pomeriggio L’Osservatore Romano ha elogiato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricordando che «diverse forze, politiche, e non solo» gli «riconoscono un equilibrio e una sapienza esemplari nella guida di questo difficile passaggio della vita del Paese».
Il giornale vaticano ha anche dato notizia della nomina di Monti a senatore a vita, e ha significativamente riportato il telegramma del premier Silvio Berlusconi nel quale si citano gli «altissimi meriti acquisiti nel campo scientifico e sociale» e si augura al nuovo senatore «un proficuo lavoro nell’interesse del Paese». Sugli sviluppi della crisi, L’Osservatore Romano osserva che «sembra accreditarsi sempre di più l’ipotesi di un nuovo governo rispetto a quella di uno scioglimento anticipato delle Camere, ipotesi che comunque rimane ancora in piedi. Sembra quindi probabile che Napolitano verifichi ulteriormente la possibilità che il Parlamento sia in grado di esprimere una nuova e sufficientemente ampia maggioranza parlamentare».
Non ha voluto invece commentare le concitate vicende delle ultime 48 ore il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, che a un giornalista che gli chiedeva qualcosa in merito ha risposto: «Oggi non parlo del caso Italia». Chi ha parlato a tu per tu Bertone negli ultimi giorni racconta di averlo trovato non solo preoccupato ma anche contrariato per l’«arroccamento» manifestato nelle ultime settimane da Silvio Berlusconi. Oltretevere, come pure al vertice della Conferenza episcopale italiana, non c’è mai stato alcun desiderio di ribaltoni, ma la consapevolezza che il declino della stagione berlusconiana e il baratro a cui l’Italia si sta avvicinando avrebbero richiesto una responsabilità diversa e la disponibilità da parte del Cavaliere di fare «un passo di lato» favorendo la nascita di un governo guidato da un premier da lui indicato. Invece «è prevalsa invece la logica del muoia Sansone con tutti i filistei», sussurra uno dei più stretti collaboratori del Papa, «ora però le elezioni, in questa fase delicatissima per il Paese, rischiano di essere un salto nel buio…».
Anche i vertici della Conferenza episcopale sono contrari alle elezioni come pure a ribaltoni con governi sostenuti da maggioranze diverse da quella uscita dalle urne nel 2008. Monti ha buoni rapporti con il rettore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi, uomo notoriamente molto vicino prima al cardinale Camillo Ruini e ora al suo successore Angelo Bagnasco. E non è un caso se anche dalle associazioni del mondo del lavoro che hanno dato vita al Forum di Todi siano arrivati segnali di assoluta contrarietà all’ipotesi delle elezioni anticipate e aperture verso l’ipotesi del governo Monti. È probabile che sia in Vaticano come ai vertici della Chiesa italiana si sarebbe preferito un passaggio più soft, con un nuovo governo politico sostenuto dalla stessa maggioranza ma allargata al centro. Ipotesi praticabile fino a poco tempo fa, oggi non più.
Repubblica 11.11.11
Così tramonta un regime
di Guido Crainz
Negli anni trionfali di Berlusconi era possibile sostenere con molti argomenti che non si trattava comunque di un regime: ma come definire il crollare per disfacimento che è sotto i nostri occhi, l´assenza totale di ricambio all´interno del centrodestra, le fughe accelerate e talora sorprendenti, dopo gli "irresponsabili" afflussi dei mesi scorsi (talora con protagonisti non dissimili)? "Muore ignominiosamente la Repubblica" scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà.
All´indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell´agenzia giornalistica di regime: "Il Duce non c´è più, la mia vita non ha più scopo", lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l´argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.
Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C´è in realtà poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della "seconda repubblica" è il più malinconico epitaffio sia della "prima" che della "seconda".
Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della "prima Repubblica" è stata solo o prevalentemente questa "società incivile" ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?
Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della "prima repubblica" esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società civile incontaminata: le conseguenze dell´abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell´imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: "quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell´insieme della società.
Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un´Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un´Italia "senza più legge né desiderio": ma tornare a "desiderare", a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società. E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall´agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei "furbetti" e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità.
Da qui occorre ripartire, da quella "ricostruzione etica" evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l´intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un´inversione di tendenza cui chiamare il Paese.
Repubblica 11.11.11
Oggi all’Accademia della Crusca un convegno sulla lingua con cui fu scritta la Carta
Quelle diecimila parole che fanno la costituzione
Nel testo l´aggettivo "eguale" appare quattro volte; "sacro", invece, una. Manca il termine "laicità", mentre "solidarietà" compare in un passaggio
di Emzo Golino
arlo Azeglio Ciampi l´ha definita "la Bibbia laica"; Giorgio Napolitano, il giorno del giuramento, affermò che «l´unità costituzionale» si è fatta «sostrato dell´unità nazionale». Gli anni passano e sempre più, in Parlamento e fuori, si accentua il dibattito – pur necessario, ma afflitto da striscianti velleità lottizzatorie – sulla necessità di aggiornare la nostra Carta cambiando con saggezza specifiche norme. Arriva dunque opportuno il convegno multidisciplinare sui concetti e le parole del lessico costituzionale italiano dal 1848 al 1948 organizzato oggi a Firenze dall´Accademia della Crusca e aperto dalla presidente Nicoletta Maraschio. Partecipano costituzionalisti, storici, linguisti. L´ultima relazione della giornata è di Erasmo Leso, storico della lingua italiana all´Università di Verona, studioso del linguaggio giacobino e del linguaggio fascista. Si occupa del rapporto fra lingua della Costituzione e lingua di tutti iniziando dalle analisi pionieristiche di Tullio De Mauro (autore della più volte accresciuta e ristampata Storia linguistica dell´Italia unita, Laterza) approdate poi nel saggio introduttivo al testo della Costituzione edito nel 2006 da Utet-Fondazione Bellonci. Infatti, a sessant´anni dal voto del 2 giugno 1946 e dalla nascita del Premio Strega, la Fondazione decise di assegnare alla Carta un Premio Strega speciale: autore collettivo i 556 parlamentari eletti dal popolo.
Professor Leso, dal 1° gennaio 1948, e per tutto l´anno – dopo l´approvazione il 22 dicembre 1947 a larghissima maggioranza – il testo doveva essere depositato in ogni Comune per consentire ai cittadini di prenderne visione e cognizione. Ma quanta gente, allora, avrà potuto leggerlo e capirlo?
«De Mauro ricorda che nel 1951 solo il 40 per cento della popolazione aveva la licenza elementare o titoli superiori. Ma per la sua estrema leggibilità, sia pure con l´aiuto di lettori più esperti, oggi – precisa De Mauro, indicandone la consistenza numerica – il testo è di lettura facile per tutta la popolazione in possesso di licenza elementare, quasi il 90 percento. Si tratta di 9369 parole: i lemmi singoli sono 1357, i periodi 420, e ogni periodo ha in media 19,6 parole».
Un ventenne, studente universitario, le chiede due parole chiave di ieri e due di oggi della nostra Carta: lei quali indicherebbe?
«"Libertà", e se ne capisce l´intenzione visto che l´Italia usciva dal ventennio fascista; e "lavoro", una scelta al cospetto di un Paese distrutto che doveva essere ricostruito. Oggi invece, "solidarietà" e ancora "lavoro"».
Tendenza alla semplificazione, sobrietà espressiva, quasi nulla di enfasi aulica sono caratteristiche ormai accertate del nostro lessico costituzionale. Vuole suggerirmi qualche esempio? «Articolo 52, prima riga: "la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". L´aggettivo "sacro", certamente impegnativo a causa del complesso significato e nell´uso alto del termine appare soltanto qui, e non altrove. Anzi, un frammento in cui si parlava di "sacri principi di autonomia e dignità della persona umana" è stato lasciato cadere».
Insomma, la regola è stata l´antiretorica, quasi un understatement rispetto alla rutilante oratoria fascista.
«Sì, altra norma adottata dai costituenti è quella di far passare un messaggio senza nominarlo esplicitamente, senza riassumerlo in parole d´ordine, in slogan. "Eguaglianza", che pure è una parola fondamentale nello spirito dell´intera Costituzione appare solo tre volte; "eguale" appena quattro volte, e "uguale" mai».
E le parole più frequenti?
«In prima linea "legge", 138 volte, più 41 al plurale; e – ovviamente – "Repubblica" con 95 occorrenze. A distanza si collocano "diritto", 55 volte plurale compreso, "Costituzione" 36, "cittadino" 29 plurale compreso, "lavoro" 18, "libertà" 13 e via scrutinando...».
Con il senno di poi, avrebbe diminuito o aumentato la frequenza non solo di queste, oppure ne avrebbe introdotto qualche altra mai citata?
«Avrei inserito la parola "laicità", assente, e aumentato "solidarietà", presente una sola volta».
l’Unità 11.11.11
Contraccezione d’emergenza Più efficace di quella del «giorno dopo»
A pagamento Sarebbe a carico delle donne e venduta solo dopo il test
Arriva la pillola dei 5 giorni dopo Ed è già polemica: «È abortiva»
Ginecologi e medici della contraccezione: negli altri Paesi è gratis, si prende direttamente in farmacia e non c’è bisogno di alcun test. D’Agostino: «Dopo 5 giorni è aborto». I medici: «Nessun effetto abortivo».
di Dora Marchi
L'arrivo della pillola dei cinque giorni è vicino. Il farmaco è stato approvato dalla commissione tecnico-scientifica dell'Agenzia italiana del farmaco il 12 ottobre. Manca solo il passaggio al consiglio di amministrazione e la pubblicazione del decreto. Poiché la pillola è stata messa in fascia C, dunque a carico dell'utente, il percorso potrebbe essere più rapido, basta, infatti, il decreto del direttore generale. Ma per i ginecologi è un danno per le donne che il farmaco sia a pagamento e chiedono di cambiare.
La pillola dei “5 giorni dopo” funziona fino a cinque giorni dopo un rapporto sessuale non protetto, è, quindi, «contraccezione d’emergenza». È considerata più efficace rispetto a quella “del giorno dopo”, che può essere presa entro 72 ore e la cui efficacia decresce ogni 12 ore. La nuova pillola non ha evidenziato finora perdite di efficacia nell' arco dei 5 giorni. Gli effetti collaterali sono definiti «da leggeri a moderati». Contraccettivo d'emergenza significa che le due pillole non sono abortive, diverse dalla RU486, che invece induce l'interruzione della gravidanza.
Il Consiglio Superiore di Sanità ha dato un suo parere tecnico, in cui vieta l'utilizzo del farmaco solo in caso di gravidanza accertata, l’Agenzia del farmaco potrebbe, nel dettare le prescrizioni, uniformarsi a questo parere. In sostanza per ottenere il farmaco bisognerebbe fare un test di gravidanza precoce. Anche su questo punto la Società italiana di ginecologia e ostetricia esprime la propria contrarietà. «Siamo soddisfatti che il farmaco sia stato approvato e che i tempi per il suo arrivo si stiano accorciando, ma ha affermato il presidente dei ginecologi Nicola Suricosiamo assolutamente contrari che la pillola sia in fascia C, ovvero a carico dell'utente. In altri paesi infatti, come in Gran Bretagna sottolinea l'esperto la pillola dei 5 giorni dopo è gratuita ed è distribuita senza prescrizione medica direttamente in farmacia». Inoltre, precisa Surico, «c'è un altro aspetto che ci continua a vederci totalmente contrari: l'obbligo di effettuare un test di gravidanza ematico preventivo prima di prescrivere la pillola. Questo penalizza molto le donne e va detto che in nessun paese al mondo dove la pillola è già disponibile è stato posto tale veto che, tra l'altro, preclude anche la capacità diagnostica del medico».
«Il farmaco è stato registrato dall'Emea come contraccettivo d'emergenza quindi non c'è nessun dubbio abortivo», sottolinea Alberto Aiuto, manager della ditta che dovrebbe commercializzare il farmaco in Italia. Ma la polemica divampa: «La pillola si prende spiega il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella e non si sa se ha agito il meccanismo contraccettivo o abortivo». Il bioeticista cattolico Francesco D'Agostino: «Cinque giorni dopo il rapporto è probabile che il concepimento sia avvenuto. Il farmaco non impedisce quindi la fecondazione dell'ovocita, ma evita l'annidamento dell'embrione. Questo è aborto». Di diverso avviso Emilio Arisi, della Società di medicina italiana di contraccezione: «A quelle dosi il farmaco non è abortivo. E come dice l'Oms la gravidanza si ha quando l'embrione si è impiantato nell'utero, non quando ovulo e spermatozoo si incontrano. Se una donna richiede la pillola, vuol dire che la gravidanza non la vuole, dunque è meglio evitare un aborto volontario dopo».
il Fatto 11.11.11
A Varese arrivano i neonazisti e la Lega non li ferma
Una formazione indipendente ispirata alla cultura hitleriana
Cerca un territorio favorevole dove radicare le idee
L’Anpi denuncia: “I partiti che governano tendono a tacere su tali iniziative”
di Elisabetta Reguitti
Siamo una formazione politica indipendente ispirata al partito nazional-socialista. Prendiamo spunti dagli ideali dei partiti che hanno accolto le istanze nazionaliste e socialiste, portate alla massima espressione dalla Germania di Hitler”.
Cosa aggiungere? La dichiarazione, raccolta dal sito Varesenews, è racchiusa in un’intervista fatta a Pierluigi Pagliughi leader del sedicente Nsab-Mlns (Nationalsozialistische arbeiterbewegung) Movimento nazionalista socialista dei lavoratori che dopo il suo tentato ingresso nel comune di Duno (il più piccolo comune del varesotto con 110 elettori e che fu palcoscenico della prima battaglia partigiana) nelle ultime settimane ha tentato di varcare anche la soglia di Varese. Città al centro di una polemica per l’intitolazione di un giardino pubblico a Giovanni Gentile, intellettuale, padre della riforma scolastica, militante della Repubblica di Salò e tra i firmatari del Manifesto della Razza. Davvero troppo per i rappresentanti dell’Anpi che erano già insorti per quel presidio, organizzato dal nuovo movimento, poi vietato dalla Questura con un decreto in cui si faceva chiaramente riferimento al fatto di “evitare la propaganda di idee discriminatorie”. Una scelta che per il presidente del comitato provinciale dell’Anpi Angelo Chiesa è coerente con il dettato costituzionale “che proibisce ogni iniziativa che si richiama al passato nazifascista”. Ma per una manifestazione vietata c’è un’intitolazione assicurata per la giunta del leghista Attilio Fontana che si era speso, con una lettera pubblica, nel tentativo di de-politicizzare la figura del repubblichino Gentile.
“Varese sembra la culla dell’eversione” incalza Chiesa che ripercorre alcune tappe di apparizione del movimento nato nel 2002 (e con circa 200 iscritti) con l’obiettivo di correre nella cosiddetta “provincia etnica dell’Insubria”. Chiesa ricorda che si erano presentati alle penultime elezioni comunali di Duno “e li abbiamo stoppati scrivendo un appello agli elettori. Quel movimento è fatto di gente che viene da fuori Varese che evidentemente considera questa città terreno favorevole per il radicarsi di un certa ideologia pericolosa” spiega il rappresentante Anpi che certo non fa sconti ai “partiti politici dominanti” (Lega in primis) che “tendono a tacere su tali iniziative politiche”. Sembra insomma che nonostante le recenti invettive di Bossi contro Tosi (“È uno stronzo ha portato i fascisti nella Lega”) anche nel Carroccio conviva una certa anima “nera” accondiscendente e benevola verso movimenti come quello di Pagliughi, che affermò di essere “nazista dall’età di venti anni” e di ritenere l’ideologia nazista “giusta di fondo, tant’è che furono i lavoratori a votare Hitler”.
Parole, tra l’altro, che furono oggetto di un’interrogazione parlamentare. E in attesa di nuove evoluzioni del Movimento nazionalista socialista dei lavoratori a Va-rese rimane il parco pubblico dedicato al fascista Giovanni Gentile. Una scelta attuata d’imperio secondo il capogruppo del Pd in Consiglio comunale Fabrizio Mirabelli che ricorda che lo era stato già nel 2005 quando venne avanzata la proposta in circoscrizione e di nuovo ora con una decisione presa, ma non discussa in nessuna seduta di consiglio. Come usavano dire un tempo: “Le radici profonde non gelano mai”.
Corriere della Sera 11.11.11
E Gramsci annunciò la rivoluzione
In un discorso del 1922 a Mosca spiegò: «L'Italia è matura»
di Antonio Carioti
Antonio Gramsci è un autore così studiato ed esplorato che la scoperta di un suo inedito può sorprendere. Ma gli archivi di Mosca sono una miniera inesauribile per chi abbia la pazienza di scavare a fondo. Così due ricercatori italiani affiliati all'Università inglese di Exeter, Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, hanno ritrovato il testo dell'intervento tenuto da Gramsci, il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico. Si pensava che nella fase iniziale della sua permanenza in Russia (era arrivato in maggio come delegato del Pci nell'esecutivo dell'Internazionale comunista) l'intellettuale sardo avesse potuto combinare poco, per via di gravi problemi di salute sfociati nel ricovero in sanatorio, ma ora si dimostra che riuscì a portare il suo contributo in quella sede. Nell'Archivio statale russo di storia socio-politica (Rgaspi) è stata rinvenuta anche la sua scheda personale di partecipazione alla Conferenza, con tanto di firma autografa.
Il testo reperito dai due studiosi, che lo presentano con un saggio sul prossimo numero della rivista «Belfagor», diretta da Luigi Ferdinando Russo, ci mostra un Gramsci poco più che trentenne e ancora partecipe dell'estremismo rivoluzionario che caratterizzava all'epoca il Pci, guidato da Amadeo Bordiga. Insiste, notano Balistreri e Carlucci, sulla imminente «disgregazione dell'ordine sociale borghese». Anzi, «vede nel fascismo una conferma estrema di questo processo disgregativo, e quindi dell'esistenza di condizioni mature per una rivoluzione proletaria». Due mesi e mezzo dopo, con la marcia su Roma, al governo sarebbe invece arrivato, per restarci molto a lungo, Benito Mussolini.
Colpisce il parallelo che Gramsci traccia fra le camicie nere e il partito antibolscevico dei Socialisti rivoluzionari (Sr), erede della tradizione populista russa. In entrambi i casi, sostiene, si tratta di rinnegati che, provenendo da sinistra, sono diventati «collaboratori della borghesia». Potrebbe sembrare una polemica propagandistica, ma è curioso che certe similitudini tra il populismo degli Sr e il fascismo siano state rilevate, molti anni più tardi, da un esperto del mondo slavo come Enzo Bettiza nel libro Il mistero di Lenin (Rizzoli, 1982).
Va sottolineato peraltro, notano Balistreri e Carlucci, che lo scopo principale dell'intervento di Gramsci è accreditare il Pci come unico vero partito rivoluzionario italiano, di fronte alle pressioni dei sovietici che insistono per un accordo con i socialisti massimalisti. Un contrasto in cui il giovane sardo si trovò a sperimentare per la prima volta i «metodi tendenti a imporre burocraticamente idee precostituite» tipici della mentalità bolscevica.
Corriere della Sera 11.11.11
Il brano
«Le camicie nere assomigliano ai socialisti russi»
Pubblichiamo un brano tratto dal resoconto del discorso di saluto tenuto a Mosca da Antonio Gramsci il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico
In Italia in questo momento non c'è governo: né borghese, né socialista, né anarchico; non c'è nessun governo. Esistono alcune piccole cricche autonome che hanno il controllo del paese. I fascisti hanno ucciso più di cinquemila operai, ne hanno feriti più di trentamila, hanno distrutto cinquecento cooperative, hanno devastato mille e cinquecento amministrazioni comunali. Vedete in quali condizioni tragiche si trova il proletariato.
Per quanto riguarda il Partito socialista, attraversa un periodo di completa disgregazione, ha creduto in diversi riformismi, e nel fatto che si potesse superare pacificamente il movimento banditesco dei fascisti. Tuttavia, come dimostra l'esperienza, il Partito socialista si è sbagliato, e in Italia rimane solo il Partito comunista a condurre la lotta.
Il compagno Gramsci propone un interessante parallelo tra gli Sr (Socialisti rivoluzionari) e i fascisti, per quanto ciò possa sembrare strano ad una prima impressione. Tuttavia, conoscendone i membri, si può affermare che il fascismo è sorto sulla base di quella stessa psicologia da cui sono sorti gli Sr. Anch'essi, ex anarchici e terroristi, sono ora collaboratori della borghesia. Il loro (dei fascisti) capo è il rinnegato Mussolini, e tra le loro file si trova una massa di socialisti e anarchici rinnegati. I fascisti sono solo più franchi degli Sr, e si sono subito sbarazzati di ogni maschera. In tal modo la borghesia, del tutto disorientata di fronte agli attacchi terroristici dei fascisti, non sapendo cosa fare, si rivolge alla Chiesa in cerca d'aiuto, le fornisce somme enormi e di recente le ha dato due miliardi. Il deficit è enorme. La borghesia si rifiuta di compiere qualsiasi forma di sacrificio finanziario.
Questi fatti costituiscono senza dubbio condizioni mature per una rivoluzione. Non c'è altro partito capace di rappresentare un centro serio di opposizione agli elementi del vecchio sistema ormai in disfacimento se non il Partito comunista.
Corriere della Sera 11.11.11
Il neonazismo russo. Un paradosso apparente
risponde Sergio Romano
La stampa russa, ultimamente, sta dando risalto al fenomeno neonazista interno ai confini della Federazione. Questo perché, a quanto pare, ultimamente se ne registra una particolare reviviscenza. Sarebbe interessante, però, capire come il Paese che ha pagato il più alto tributo di sangue nella guerra contro i Nazisti debba, a distanza di oltre settant'anni, ancora confrontarsi con realtà del genere. A prima vista è quantomeno sorprendente.
Giulio Prosperi
Caro Prosperi,
Il fenomeno non è recente ed era già visibile nell'ultima fase dell'Unione Sovietica. Il suo volto meno inquietante era Rodina (patria), una rivista fondata nel 1989, ma nipote di una testata nazionalistica fondata nel 1873 ai tempi della Russia imperiale. Dietro la nuova Rodina, tuttavia, vi era già da tempo il mondo molto più preoccupante e semiclandestino di Pamjat (memoria), una organizzazione di militanti nazionalisti, anti-semiti e xenofobi che godeva di una certa simpatia anche in certi apparati dello Stato sovietico. Si diceva allora che fosse stata addirittura incoraggiata e finanziata dal Kgb, interessato a controllare una organizzazione che affondava le sue radici in una parte della società e poteva servire, all'occorrenza, per qualche provocazione.
Dopo il colpo di Stato dell'agosto 1991, Pamjat uscì dall'ombra e divenne maggiormente visibile. Seppi che aveva la sua sede in un quartiere di Mosca, riuscii ad avere il suo numero di telefono e chiesi un appuntamento presentandomi come un giornalista italiano (ero stato inviato in Russia da La Stampa). Fui ricevuto da tre persone sui quarant'anni in un salotto arredato con qualche vecchio mobile e tappezzato alle pareti dai ritratti degli ultimi Romanov. Cercai di capire i loro programmi, ma furono piuttosto reticenti. Mi parlarono dell'anima russa, delle sue tradizioni nazionali e religiose, dell'importanza di onorare e conservare il passato. Forse non avevano ancora capito quale sarebbe stata la linea della Russia di Boris Eltsin nei loro confronti e preferivano essere prudenti. Ma erano certamente nazionali e populisti con un forte pregiudizio anti-ebraico.
Più tardi sono apparsi nuovi movimenti, più esplicitamente nazionalisti e xenofobi. Il loro antisemitismo appartiene alla storia di tutti i movimenti nazionalisti della Russia imperiale, ma le bestie nere delle organizzazioni più recenti sono soprattutto i caucasici (ceceni, ingusceti, daghestani, azeri) e gli immigrati provenienti dall'Asia Centrale e dall'Africa. I riferimenti al nazismo possono sembrare sorprendenti, ma sono dovuti a due fattori. In primo luogo lo Stato nazista resta ai loro occhi un affascinante deposito di liturgie razziali e razziste, un ricco repertorio in cui è più facile reperire argomenti, immagini e simboli. In secondo luogo la Germania è sempre stata il Paese da cui la Russia ha tratto il meglio e il peggio della sua storia. La sua famiglia imperiale aveva una percentuale straboccante di sangue tedesco, i suoi socialisti e comunisti avevano studiato Hegel e Marx, i suoi industriali avevano lavorato con macchine e modelli tedeschi, e i suoi militari, infine, si erano addestrati con l'esercito tedesco per parecchi anni fra la prima e la seconda guerra mondiale.
Repubblica 11.11.11
Così la nostra specie ha conquistato il mondo
La storia di tutti noi ha avuto inizio meno di 200.000 anni fa in una remota valle etiope
L´esposizione è curata da scienziati guidati da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani
Un viaggio alla scoperta delle origini dell´uomo Da oggi al Palazzo delle Esposizioni di Roma
di Marco Cattaneo
È trascorsa a malapena una decina di giorni da quando le Nazioni Unite hanno indicato in una neonata filippina l´abitante numero sette miliardi dell´unica specie capace di colonizzare il pianeta a tutte le latitudini e con ogni clima. Già, perché si trovano esemplari di Homo sapiens dallo sperduto villaggio di Alert, sull´isola di Ellesmere, all´estremo nord del Canada, appena 800 chilometri dal Polo Nord e una notte gelida e buia che dura da ottobre a febbraio, fino alle torride distese deserte della depressione della Dancalia, nel Corno d’Africa.
E pensare che la storia di tutti noi ha avuto inizio – più di un inizio, in verità – meno di 200.000 anni fa non lontano da quell´anticamera dell´inferno, in una remota valle dell´Etiopia da cui la nostra specie ha mosso i primi passi. È lì che nacque un nuovo membro della famiglia del genere Homo, che quasi un milione di anni prima si era già spinto a esplorare gli angoli più remoti del vecchio mondo, prosperando e differenziandosi in un intricato "cespuglio evolutivo", come lo definiscono i paleoantropologi. Ed è da lì che quel bipede con una postura perfettamente eretta e un´intraprendenza senza pari ha piano piano conquistato il pianeta, attraversando ogni sorta di pericoli e finendo, forse più di una volta, sull´orlo dell´estinzione – soprattutto a causa dei violenti cambiamenti climatici che hanno scosso la Terra – durante la sua breve, fortunata avventura.
Al lungo viaggio di Homo sapiens è dedicata l´omonima mostra in programma da oggi al 12 febbraio 2012 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, dove un gruppo di scienziati di fama internazionale, sotto la guida di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, raccogliendo nell´esposizione un complesso di reperti che non ha pari al mondo, ha dipanato la matassa della nostra evoluzione sbrogliando il filo che ci ha portato fin qui. O, meglio, i fili. Che partono da uno dei reperti di più recente scoperta, Australopithecus sediba, un controverso ominide di 2 milioni di anni fa le cui caratteristiche morfologiche lo collocano a metà tra i suoi parenti più stretti e i più lontani antenati del genere Homo, quello che un tempo si sarebbe impropriamente detto un "anello mancante". Lee Berger, che lo ha scoperto in Sudafrica, porterà a Roma, per la prima volta al mondo, il calco autorizzato di A. sediba, perché l´originale è troppo fragile per esporlo al rischio di un viaggio. Di qui, la prima sezione della mostra esplora le vicende delle prime specie del genere Homo, agili camminatori che lasciarono l´Africa per arrivare al cuore dell´Europa e spingersi fino alle estreme propaggini dell´Asia, facendoci incontrare, per la prima volta in Italia, l´originale del cranio di Homo georgicus, un fossile di 1,8 milioni di anni fa scoperto nel Caucaso che rappresenta, per ora, il più antico abitante d´Europa.
Ma è con la seconda sezione che ha inizio il nostro viaggio nel senso più stretto, caratterizzato da un´ondata di successive uscite dall´Africa che ha il culmine circa 60.000 anni fa. E subito scopriamo che fino a poche migliaia di anni prima che gli Egizi costruissero le piramidi non eravamo soli. Quando Homo sapiens lascia l´Africa incontra altre specie cugine. C´è l´uomo di Neanderthal in Europa, gli eredi di Homo erectus sull´isola di Giava, , l´uomo di Denisova, in Siberia, l´ultimo scoperto, e nella remota isola indonesiana di Flores, gli "hobbit" che hanno accompagnato la nostra specie fino a 12.000 anni or sono. Ed è qui che facciamo alcuni degli incontri più interessanti della mostra. Il primo proprio con Homo floresiensis, grazie alla splendida ricostruzione realizzata da Lorenzo Possenti, artista toscano specializzato in modelli per le scienze naturali e apprezzato a livello internazionale. Che è anche l´autore della ricostruzione del bimbo di Lagar Velho, un enigmatico fossile portoghese di circa 25.000 anni fa cui le indagini genetiche attribuirebbero un padre neanderthaliano e una madre H. sapiens. Sì, perché l´analisi del DNA ha ormai accertato che, durante il suo viaggio, la nostra specie non si è solo incontrata con le altre, ma ha anche generato ibridi, almeno con i Neanderthal. Ed ecco entrare in gioco la frontiera della paleoantropologia degli ultimi anni: l´analisi del DNA antico, il più prezioso alleato degli scienziati nel ricostruire la storia dell´uomo e delle sue differenze, che ci porta dritto alla genetica delle popolazioni, la scienza che proprio Cavalli Sforza ha contribuito a fondare.
È con la terza e la quarta sezione della mostra che entriamo nel vivo della specialità di Homo sapiens, le migrazioni. Perché dai primi spostamenti di gruppi sparuti, contemporaneamente alla rivoluzione degli strumenti del Paleolitico e alla nascita delle prime espressioni simboliche, l´uomo comincia a colonizzare il pianeta in modo più sistematico. Raggiunge le Americhe, l´Australia, le isole del Pacifico, si differenzia per gli strumenti che usa e le lingue che parla, invade territori ostili, e infine si ferma – si fa per dire – creando insediamenti sedentari dove domestica piante e animali.
Arriva fino ai giorni nostri, il percorso di Homo sapiens, con la riscoperta delle Americhe e una lettera originale di Cristoforo Colombo al suo mecenate Luís de Santángel, conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Vi narra, il navigatore genovese, la sorpresa di aver incontrato, di là dall´Atlantico, non i mostri con il corpo di uomo e la testa di cane descritti da Marco Polo nel Milione, ma uomini e donne del tutto simili a noi, e anche piuttosto cordiali…
L´avventura si conclude con quei sette miliardi di esseri umani che oggi popolano il pianeta, figli di antenati comuni che hanno battuto ogni sorta di avversità. Parliamo quasi settemila lingue diverse, abbiamo diverso colore della pelle, forma degli occhi e del naso, mangiamo alimenti diversi. Ma c´è una sola storia ad annodare le nostre diversità, è scritta nel nostro genoma e oggi gli scienziati possono raccontarla con sempre maggiore dovizia di particolari. Per questo Homo sapiens è molto più che una mostra: perché alla fine del percorso scopriamo di quale magico guazzabuglio di ingredienti è fatta quell´immensa impresa collettiva che è la civiltà dell´uomo.
Repubblica 11.11.11
Ricavato da un osso di grifone preistorico, ha 35mila anni: è lo strumento più antico
Il misterioso suono del primo flauto
Possiede un timbro curiosamente rotondo e pieno per nulla stridulo e nasale
di Guido Barbieri
Hanno riposato li sotto, uno accanto all´altra, per trentacinquemila anni. Sopra di loro c´erano appena tre metri di terra e a separarli non più di settanta centimetri. Eppure nessuno, fino all´altro ieri, era riuscito a scoprirli. Finalmente nel 2008 un gruppo di archeologi dell´Università di Tubingen li ha riportati, letteralmente, alla luce. E ci hanno raccontato una storia che lascia a bocca aperta. Lei, sei centimetri di altezza, seni pronunciati e fianchi abbondanti, è Venere, la cosiddetta "Venere di Hohle Fels", dal nome della caverna della Valle di Ach, nella Germania sud occidentale, dove è stata ritrovata. E´ la più antica rappresentazione del corpo umano mai rinvenuta in età paleolitica, cinquemila anni più anziana di tutte le altre Veneri preistoriche. Lui, invece, ventidue centimetri di lunghezza, otto millimetri di diametro, cinque fori e un´imboccatura a "V", è un flauto, il "Flauto 1 di Hohle Fels", e condivide con la sua compagna, oltre allo stesso sito e alla stessa età, un primato storico invidiabile: secondo Nicholas Conard, lo scopritore delle due creature, è infatti il più antico strumento musicale mai ritrovato fino ad ora.
I ricercatori tedeschi sostengono che l´antenato del "moderno" flauto diritto sia stato ricavato dal radio di un grifone preistorico, un meraviglioso rapace che esibisce un´apertura alare di due metri e mezzo. Ma il dettaglio più stupefacente è un altro: sulla parte superiore dello strumento, che verrà esposto per la prima volta in Italia al Palazzo delle Esposizioni, si notano chiaramente delle piccole tacche di misurazione: l´anonimo faber ha dunque calcolato con precisione la distanza tra i singoli fori di emissione e ciò significa che l´homo sapiens, sin dall´inizio dalla sua avventura terrestre, possedeva ben chiara la nozione di "intervallo", ossia della distanza "matematica" che separa un suono dall´altro. Le cinque (o forse sei) aperture consentivano di articolare in ogni caso una linea melodica estremamente complessa, in grado di realizzare con naturalezza toni, semitoni e quarti di tono.
Il "Flauto 1" possiede un timbro curiosamente rotondo e pieno, per nulla stridulo e nasale. Il colore è chiaro, ma le note più gravi sono ben appoggiate e scure. La dinamica è ovviamente limitata, ma la gamma del piano e del forte è sufficientemente ricca. Insomma il "Flauto di Hohle Fels è tutto tranne che uno strumento rozzo e rudimentale. Il fatto poi che il primo strumento musicale e la prima rappresentazione del corpo umano abbiano esattamente la stessa età dimostra senza ombra di dubbio che la nostra civiltà ha imparato molto presto ad elaborare il principio della "elaborazione simbolica" e che la musica, le arti figurative, forse anche la poesia, costituivano già allora il fondamento delle relazioni umane e della costruzione di una identità comune. Chi ha ancora il coraggio di dire, allora, che l´homo sapiens è un uomo primitivo?
Corriere della Sera 11.11.11
Brera. L’ospite russo
La leggenda dei due industriali innamorati di luce e colori
Con le loro mitiche collezioni fecero cambiare idea a Lenin
di Francesca Montorfano
qui
Corriere della Sera 11.11.11
Nei pittori i mecenati vedevano riflessi la loro inclinazione per la follia e la voglia di ribellione
Quanto costa l’arte di un’altra vita
I miliardari che sognarono con Picasso e Matisse
di Francesca Bonazzoli
qui
La Stampa 11.11.11
Incontro
Neshat, siamo colpevoli di essere artisti
L’artista iraniana esordisce nella regia teatrale con OverRuled un’opera dedicata a chi ha il coraggio di ribellarsi al potere
di Fiamma Arditi
In Italia la prossima estate Shirin Neshat, artista, fotografa, regista cinematografica, è nata in Iran nel 1957 ma da oltre trent’anni vive negli Stati Uniti. Dopo la prima di questa sera a New York, l’opera con cui esordisce nella regia teatrale, OverRuled, nel 2012 andrà in Turchia e durante l’estate arriverà in Italia, in tournée nei principali festival
“S iamo come dei pionieri, stiamo inventando il nostro modo personale di fare una performance». In una pausa delle prove Shirin Neshat, artista, fotografa, regista di cinema, racconta della sua ultima sfida: l’esordio nella regia teatrale. «Vogliamo che questo nostro lavoro non assomigli assolutamente a niente, che provochi e coinvolga lo spettatore come non è mai stato fatto prima». OverRuled, atto unico scritto da Shoja Azari e Behrang Azari (questa sera la prima a New York), partecipa a «Performa», la biennale di Performance Arts cominciata da RoseLee Goldberg nel 2005 e arrivata alla quarta edizione. Per tre settimane New York accoglie in teatri, gallerie, piazze e spazi industriali quello che esiste al mondo di più innovativo nell’ambito di questa forma d’arte. L’idea di fondare questo nuovo appuntamento di avanguardia internazionale era venuta alla Goldberg proprio guardando Turbulent, il primo video realizzato da Shirin nel 1998, che l’anno successivo aveva vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Nel 2001 le aveva commissionato Logic of Birds, una produzione multimediale realizzata insieme ad altri registi, e finalmente quest’anno è riuscita a convincerla a fare questo passo. Shirin ama mettersi alla prova e ha detto sì. «All’inizio ero preoccupata, come lo ero quando ho fatto il mio primo film», confessa senza timore di dimostrare la sua fragilità. «Soprattutto non volevamo cadere nei clichet, nella retorica dell’accusa al potere. Ma allo stesso tempo volevamo essere sicuri di essere convincenti».
OverRuled è un processo contemporaneo, ma anche fuori del tempo e dello spazio, agli artisti, colpevoli di avere immaginazione, idee, di provare cammini nuovi. Si ispira al regime iraniano (arrivata da Teheran negli Usa nel 1978, cittadina del mondo nel suo modo di esprimersi, Shirin Neshat continua a sentirsi iraniana nel cuore), ma anche a quelli che hanno provocato l’onda lunga della primavera araba, delle dimostrazioni pacifiche di Wall Street. «Una cosa inaudita per gli Stati Uniti, dopo l’epoca della guerra in Vietnam», osserva. Il suo modo di dirigere è attento, minimalista, silenzioso. Come una direttrice d’orchestra, le basta un cenno, uno sguardo per raggiungere ognuno dei protagonisti. Le comparse in scena, i militari, i funzionari sono tutti giovani amici, artisti, ai quali ha chiesto di partecipare a questa sfida senza essere retribuiti. I costi della produzione infatti sono all’osso. Il che non ha impedito a Neshat di investire sulla passione, sul talento, sulla concentrazione e il bisogno di sentirsi parte di una unica comunità silenziosa di tutti questi ragazzi, che danno vita e coralità all’opera teatrale.
OverRuled, intessuta della musica e dei versi composti da Mohsen Namjoo, uno dei più affermati giovani musicisti mondiali, che dall’Iran si è trasferito in California, diventa così un’epopea, un’opera epica dedicata alla paura primordiale dell’uomo di essere giudicato e al suo primordiale bisogno di esprimersi in maniera libera. È una metafora, attuale più che mai, sul modo in cui il potere schiaccia gli esseri umani e impone la sua logica senza interrogarsi sulle loro necessità. Gli accusati siedono tra il pubblico, quasi a simbolizzare che siamo tutti sotto accusa per il solo fatto di essereindividui e avere delle opinioni. Sono artisti, scrittori, musicisti, perché l’arte in tutte le sue forme è stata sempre, in passato come oggi, in Occidente e in Oriente, una minaccia al potere costituito. Un enorme tavolo divide gli imputati dal giudice e dai burocrati, che in movimento lento e costante sfogliano libri e recuperano documenti nei classificatori vecchi e polverosi.
La scenografia di Shahram Karimi mette in evidenza il valore inutile e obsoleto delle carte, delle parole, della legge scritta, per esaltare il valore poetico dei monologhi degli artisti, ispirati all’insegnamento di Al-Halaj, il mistico persiano del IX secolo accusato di portare il misticismo alle masse, di sentirsi uno con Dio e di predicare come la divinità sia in ognuno di noi. «Shoja Azari ha dato profondità anche al giudice», sottolinea Shirin, «il quale diventa così un personaggio più complesso. All’inizio gli fa raccontare la parabola del figliol prodigo per sottolineare la sua disponibilità al perdono». Esistono ruoli, dunque, in OverRuled, ma non buoni e cattivi. Perché, come sottolineano gli imputati, «il creatore e la sua creazione sono una sola cosa». Anche il diavolo è parte della creazione. «Con la scusa dell’unità predicate l’unione del bene e del male», controbatte Mohammad Ghaffari nella parte del giudice, «voi proclamate che la verità si manifesta da sola e negate la necessità della legge… Il vostro modo di indottrinare i giovani è nauseabondo».
Mentre i monologhi poetici di Behrang Azari si alternano a pause di silenzio col sottofondo di suoni sporadici che crescono fino a raggiungere toni epici, lo spettatore dimentica il suo ruolo di spettatore e si sente parte di questa unità non raccontata a parole, ma provocata, capisce l’inutilità delle barriere, delle parole, dei pregiudizi. «Abbiamo messo insieme poesia, musica, recitazione, arti visive, e abbiamo dedicato OverRuled alla gente che ha il coraggio di rivoltarsi contro il potere politico, religioso, economico, contro l’autorità», osserva Shirin Neshat. «Ognuno di noi che abbiamo lavorato in quest’opera è passato attraverso esperienze personali drammatiche. Eppure non abbiamo fatto niente di sbagliato. Siamo colpevoli solo di essere artisti, di immaginare. La gente siamo noi».
Repubblica 11.11.11
11-11-11, Il fascino del numero perfetto
Da Pitagora fino a Jung il fascino del numero perfetto
Le svolte epocali vengono sempre previste in giorni speciali e misteriosi come questo
La numerologia è divertente ma sterile, solo una malattia infantile dell´aritmetica
di Piergiorgio Odifreddi
Palindroma e con tutte le cifre uguali: dopo 900 anni torna la data da cabala che inquieta e attrae Ecco perché gli uomini da sempre cercano significati nascosti e coincidenze per analizzare il mondo
Sembra proprio che i disfattisti che annunciavano la fine del mondo per il 20 dicembre 2012, si siano sbagliati per eccesso di ottimismo. Le calamità naturali di questi giorni, dalla Thailandia all´Italia, unite alle crisi economiche e politiche mondiali, fanno infatti sospettare che il momento della resa dei conti risulti essere ormai imminente. E, addirittura, che possa arrivare oggi stesso!
Naturalmente, le previsioni sulla fine del mondo possono solo essere smentite, perché se venissero confermate non rimarrebbe più nessuno a testimoniarle. La saggezza impone dunque di non farle, ma nell´attesa della mezzanotte possiamo almeno domandarci perché la fine del mondo non venga mai prevista per una data "qualunque", bensì sempre per qualche giorno numerologicamente significativo: ad esempio, appunto, il 20.12.2012 o l´11.11.11. Cosa c´è, in certi numeri, che ce li rende più attraenti o misteriosi di altri? Da un certo punto di vista, la data di oggi è unica, nel senso che non ce ne sono altre in cui tutte le cifre sono uguali. Anche se, naturalmente, in queste faccende si bara sempre un po´: nel caso in questione, sottointendendo il 20 nel 2011. Se fossimo vissuti 900 anni fa, oggi sarebbe stato addirittura l´11.11.1111, ma anche così possiamo comunque accontentarci.
Chi non vuole barare, basta che incominci una novena, e la finirà esattamente il 20.11.2011. Ma per ora preoccupiamoci dell´11.11.11, che per un numerologo è proprio un bel numero! Ad esempio, se lo si moltiplica per se stesso, si ottiene un palindromo composto dalle cifre dall´1 al 6, e cioè 12.345.654.321. Viceversa, il 111.111 si ottiene da quelle stesse cifre, moltiplicando 12.345 per 9, e aggiungendo 6. A dire il vero, non c´è niente di miracoloso in tutto questo: cose analoghe succedono per tutti i numeri composti di sole unità, come ci si può divertire a verificare partendo dall´11, il cui quadrato è uguale a 121 e che si ottiene moltiplicando 1 per 9 e aggiungendo 2, e finendo con il 111.111.111, che fa analogamente intervenire tutte le cifre dall´1 al 9.
Da un altro punto di vista, l´11.11.11 non è un numero primo, e risulta essere il prodotto di 3 per 7 per 11 per 13 per 37. E qui i numerologi fanno festa, perché ciascuno di questi fattori ha interesse di per sè. Ad esempio, 3 enumera le ubique triadi che costellano il pensiero umano, dalle Grazie e le Furie alla Trinità e la Sacra Famiglia. Sul 7 si potrebbe scrivere un libro intero, che includerebbe le note musicali, i colori dell´arcobaleno, i giorni della settimana, le meraviglie del mondo, i peccati capitali e i sacramenti. L´11 e il 13 sono invece da prendere con le molle, perché costituiscono il difetto e l´eccesso del 12, che enumera le costellazioni, i mesi dell´anno, le ore del giorno e della notte, le tribù di Israele e gli apostoli di Cristo.
Quanto al 37, a prima vista sembrerebbe un numero non interessante. Ma deve esserlo per forza, perché tutti i numeri sono interessanti! Parte del fascino dei numeri sta appunto nella possibilità di giocarci in questa maniera prescientifica e parascientifica, andando a caccia dei supposti segreti magici che essi nasconderebbero e racchiuderebbero. Il condizionale rivela che oggi noi consideriamo la numerologia semplicemente come una malattia infantile dell´aritmetica. Come lo sono l´astrologia, l´alchimia o la mitologia rispetto all´astronomia, alla chimica o alla storia.
Ma per potersi vaccinare nei confronti di tutte queste malattie infantili, il pensiero ha dovuto percorrerne le rispettive strade. Gli antichi non potevano infatti sapere a priori quali fossero i percorsi fecondi ed erano dunque giustificati nel provare a seguirli tutti. Tra le patrie della numerologia antica si annoverano l´Egitto, l´India, la Cina, Israele e la Grecia. In quest´ultima, in particolare, Pitagora elaborò una concezione mistica dei numeri che non si limitava a determinarne le proprietà specificamente aritmetiche, ma assegnava loro caratteristiche genericamente numerologiche. Ad esempio, i pari venivano considerati femminili, perché si potevano dividere, e i dispari maschili, per contrapposizione. Il 6 invece era perfetto, in quanto uguale alla somma dei suoi divisori propri (1, 2 e 3).
Il più noto trattato numerologico non appartiene però alla cultura occidentale, ma a quella orientale. Si tratta infatti di uno dei cinque classici confuciani, l´I ching o Libro dei mutamenti, che presenta una visione binaria del mondo basata sui 64 esagrammi ottenuti disponendo in tutti i modi possibili sei segmenti interi o spezzati. O, se si preferisce, basata sui numeri da 0 a 63 scritti in base 2, invece che in base 10: cioè, usando soltanto le cifre 0 e 1, come fanno i calcolatori elettronici, invece che le cifre da 0 a 9, come fanno quelli umani. In questo sistema, 11.11.11 non è altro che la rappresentazione binaria di 63, appunto. E corrisponde all´esagramma Ch´ien, "Il Creativo" o "Doppio Cielo", costituito da sei segmenti interi. La sentenza che l´I Ching gli associa è: "Il Creativo opera con sublime successo. E´ propizio essere perseveranti e corretti".
Chi si contenta, gode: Carl Gustav Jung, ad esempio, che nel 1949 dedicò una famosa introduzione all´opera. Leibniz invece ne rimase turbato, quando seppe dai missionari gesuiti in Cina di essere stato preceduto di millenni nella sua scoperta del sistema binario. Ma non sempre queste cose funzionano: anzi, quasi mai. Newton, ad esempio, commentò inutilmente l´Apocalisse di Giovanni, il classico cristiano della numerologia, nel tentativo di scoprire il significato recondito del numero 666 della Bestia, che lui credette di identificare nel Papa. Ma non ci sono papi, o santi, che tengano: la numerologia è sterile perché pretende di usare la matematica come uno strumento a priori di analisi del mondo, mentre la scienza ci ha dimostrato che solo un suo uso a posteriori è fecondo. Dunque, divertiamoci pure con amenità come l´11.11.11, purché ricordiamo che si tratta appunto soltanto di ameni divertimenti.
l’Unità 11.11.11
La fabbrica dei libri
Roma rinuncia alla Fiera?
di Maria Serena Palieri
Prendete un comparto vitale nell’economia di una regione e una Fiera che, mettendo in sinergia privato e pubblico, ne incrementa i risultati. Nell’anno in cui si festeggia il decennale, prendete un paio di forbici e tagliate proprio da esso... Succede a Roma, dove il 7 dicembre aprirà i battenti la X edizione di «Più libri più liberi», fiera della piccola e media editoria. Aprirà le porte a un fiume di visitatori ( 57.000, con 85.000 libri venduti) ma l’Aie che a fronte della defezione di Regione Lazio e Comune di Roma quest’anno si accolla la maggioranza dei costi, spiega che nel 2012 la Fiera dovrà traslocare.
Dove? Dove le istituzioni locali si dimostrino meno disinteressate... «Più libri più liberi» è nata non per caso a Roma: nel Lazio, con 600 marchi, l’editoria indipendente ha creato un contraltare all’industria milanese dei grandi gruppi. La Fiera trova a Roma l’alveo più naturale per le case editrici, oltre che il pubblico più folto. Enrico Iacometti, presidente piccoli e medi editori in Aie, e Fabio Del Giudice, direttore della Fiera, danno le cifre: l’editoria qui rappresentata produce un quarto dei titoli annui che escono in Italia, ma ha difficoltà enormi a raggiungere le vetrine; quest’editoria è una specialità italianissima: in Olanda gli editori indipendenti sono 4/5; entrare in Fiera è un traguardo ambito: 100 gli editori in attesa che si liberi uno stand; l’evento costa 1.200.000 euro, fin qui coperti per metà da Regione, Comune, Provincia, Ministero, Camera di commercio. A latitare, per complessivi 320.000 euro, i primi due: mercoledì la Provincia ha rinnovato l’impegno per 100.000 euro. La Regione ha comunicato per mail il taglio dei fondi. Il Comune promette «un tavolo intraistituzionale». In Aie commentano: «Le decisioni vanno prese entro febbraio 2012, o Roma dirà addio alla sua Fiera». Dagli editori parte il tam tam per un appello.
il Riformista 11.11.11
Terra, è scontro nel quotidiano dei Verdi
Con quella che può prendere la forma di una serrata, la vicenda che tormenta da mesi la vita stessa di Terra (il quotidiano ecologista organo dei Verdi, ma dato in gestione alla società terza Undicidue rilevata da Luca Bonaccorsi che si è nominato direttore) è giunta al massimo livello di scontro. I redattori e i collaboratori non vengono pagati dall’aprile scorso (né sono stati pagati i relativi contributi previdenziali) e, per giunta, il direttore-gestore ha deciso d’autorità la trasformazione del quotidiano in...settimanale, annunciando una sola uscita, al sabato. In segno di protesta, mercoledì i giornalisti allora hanno picchettato la sede del giornale cercando di riaprire la trattativa mandata già due volte a monte proprio da Bonaccorsi. Insieme a loro anche il segretario della Stampa romana, Paolo Butturini, il componente della giunta della Federazione della stampa Giovanni Rossi, e soprattutto il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, l’editore naturale e comunque il titolare del finanziamento pubblico destinato a Terra. Per tutta risposta Bonaccorsi ha sprangato la porta d’accesso alla redazione.
Nei giorni scorsi, dopo la ripetuta rottura delle trattative, l’Associazione romana della stampa e il Comitato di redazione del giornale avevano denunciato per comportamento antisindacale la Unidicidue e il suo direttore. Avevano inoltre presentato un esposto alla Presidenza del consiglio per ottenere il sequestro cautelativo del finanziamento pubblico; e segnalato Bonaccorsi all’Ordine dei giornalisti della Toscana (dov’è iscritto come pubblicista) per violazione del principio di solidarietà tra colleghi. In un comunicato si segnalava che «la Unidicidue e Bonacccorsi non sono nuovi a questi comportamenti: hanno più volte violato le regole dei contratti di solidarietà, hanno pervicacemente ignorato quanto prescritto dall’art. 34 del contratto giornalistico non erogando le retribuzioni dei lavoratori e utilizzando lavoratori non contrattualizzati in sostituzione di giornalisti a tempo determinato».
I Verdi ha annunciato Bonelli nel corso del picchettaggio hanno incaricato i loro legali di adottare tutte le iniziative possibili per la rescissione del contratto di gestione, a suo tempo firmato da altro gruppo dirigente della Federazione dei Verdi. Il Comitato di redazione, che aveva già indetto e realizzato sette giorni di sciopero impedendo l’uscita del giornale, è intenzionato a proseguire l’agitazione, e ha dato atto a Bonelli delle iniziative avviate contro Undicidue e della concreta solidarietà espressa ai giornalisti.