il Giornale 7.11,11
Prodi rientra in campo e falcia subito Bersani
di Paolo Guzzanti
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il Tempo 7.11.11
Prodi bacchetta Bersani: "Non riesce a sfondare"
Il leader del Pd ribatte al professore: "Noi siamo stati ben peggio di ora. Siamo migliorati, sondaggi compresi. E questo ci fa dire che possiamo solo migliorare"
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l’Unità 8.11.11
Addio a Onorina,
la gappista «Wanda» che mai ebbe paura
di Bruno Gravagnuolo
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l’Unità 8.11.11
Oggi nel voto sul Rendiconto sarà chiaro che il premier non ha più i numeri per governare
Pd, Terzo Polo e Idv verso l’astensione: poi sarà una mozione di sfiducia a dare il colpo del koL’opposizione: dimostriamo che non c’è più maggioranza
di M. Ze.
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il Fatto 8.11.11
Senza parole, fino alla fine
Il Vaticano non riesce a “scaricare” apertamente il Cavaliere neppure pochi istanti prima del suo tramonto. E la stella polare sembra essere solo la tutela dei privilegi economici garantiti
di Marco Politi
Alla crisi del berlusconismo il Vaticano arriva smarrito e disorientato. E muto. Anno dopo anno i vertici vaticani hanno sostenuto il Cavaliere nonostante la sua indecenza e la sua incapacità e soltanto il 22 settembre scorso, recandosi in Germania, papa Ratzinger ha segnalato al presidente Napolitano l’esigenza di un “sempre più intenso rinnovamento etico” per il bene dell’Italia. Poi Oltretevere non ha più disturbato il premier, lasciando che la situazione degenerasse. Le foto della Minetti e altre pupe vestite da suore, pubblicate dal Fatto, stanno lì a testimoniare a chi il Vaticano stagione dopo stagione, a forza di contestualizzare, ha rinnovato la fiducia. Si è dovuto aspettare il 26 settembre perché il cardinale Bagnasco denunciasse a nome dell’episcopato l’“aria ammorbata” dal regime berlusconiano e chiedesse discontinuità. Subito dopo, però, il segretario della Cei monsignor Crociata si è affrettato a comunicare che la Chiesa non fa i governi “e non li manda a casa”. Ennesimo aiutino mediatico alla tattica dilazionatrice di Berlusconi, disastrosa per il Paese.
E COSÌ ANCORA per settimane, mentre l’Italia rotolava verso la rovina, le gerarchie ecclesiastiche – a differenza della Confindustria che finalmente aveva imboccato la strada della pressione crescente per voltare pagina – hanno scelto di stare zitte invece di chiarire ulteriormente che il bene comune del-l’Italia richiedeva l’allontanamento urgente di Berlusconi. Nemmeno la constatazione che tre quarti degli italiani bocciano B. (come da sondaggio di Famiglia Cristiana) ha spinto i vescovi a farsi sentire. Paradossalmente è stato il Financial Times a lanciare l’esclamazione, che avrebbe potuto venire dai pulpiti: “In nome di Dio, dell'Italia e del-l'Europa, Berlusconi vattene! ”. In realtà, esaurita la stagione di Ruini che non a caso ha premuto finché ha potuto per far tornare Casini ad allearsi con Berlusconi, la Chiesa italiana non ha più una linea strategica su come affrontare la perigliosa e complicata transizione a quella che sarà la Terza Repubblica. Non ha una sua visione dell’Italia post-berlusconiana, ma non ha nemmeno il coraggio di affidare decisamente il timone ai cattolici impegnati in politica. A Todi il cardinale Bagnasco, pressato dal Vaticano, dagli atei devoti e dai conservatori ecclesiali, ha dovuto risfoderare la dottrina dei principi non negoziabili, Un diktat inadatto per qualsiasi moderno governo europeo, di destra o di sinistra. In queste settimane cruciali si è liquefatta anche l’ambizione della carovana di Todi di rappresentare quel “soggetto culturale e sociale” cattolico in grado di “interloquire con la politica”. È nel vivo della battaglia che si affermano i protagonisti. A cose fatte sono bravi tutti a chiedere rappresentanza. Nella crisi attuale un singolo democristiano come Pisanu ha rappresentato di più e meglio la tradizione del cattolicesimo politico moroteo di quanto non siano riusciti a fare i grandi oratori di Todi.
Naturalmente la rete, messa in piedi con il convegno umbro, continuerà ad agire, ma per l’oggi – nelle ore drammatiche che l’Italia sta vivendo – si registra nuovamente la generale afasia dell’associazionismo cattolico. Unica eccezione le Acli, che dopo aver chiesto il mese scorso le dimissioni di Berlusconi sono tornate a ribadire fermamente la necessità del suo allontanamento. E la Cisl, che ha insistito sull’esigenza di un governo di larghe intese.
LA GERARCHIA ecclesiastica, nella tempesta in corso, è rimasta come acquattata sotto la bufera. Non si esprime. Sul piano sociale ha dalla sua una posizione più volte rimarcata di attenzione ai problemi del precariato giovanile e di denuncia dell’intollerabile evasione fiscale. Nonché l’aiuto economico prestato in questi anni da organizzazioni ecclesiali a tante famiglie in difficoltà. Questione del lavoro e tutela della famiglia sono temi sistematicamente toccati. L’immagine di Bagnasco con l’ombrello tra i disastrati di Genova mostra una Chiesa vicina alle angosce della gente. Ma sul piano politico la gerarchia ecclesiastica naviga a vista. Avrebbe visto di buon occhio un governo post-berlusconiano basato sull’alleanza Pdl-Lega-Udc. Ma anche in Vaticano hanno capito che è un’utopia. Adesso la Cei e i vertici vaticani sembrano affidarsi – loro malgrado – alla strategia di Casini per la creazione di un governo d’emergenza trasversale che vada dal Pdl ai Democratici.
Più di ogni cosa il Vaticano teme nuove elezioni, che sancirebbero lo sfaldamento del partito berlusconiano, il ridimensionamento della Lega (con la sua ambigua difesa dei principi non negoziabili ratzingeriani) e l’emergere di un forte blocco di centrosinistra. Ancora una volta la stella polare sembra essere la tutela delle posizioni di privilegio economico-istituzionale conquistate. E soprattutto Oltretevere hanno il terrore di una maggioranza che sblocchi in Parlamento quelle leggi sulle coppie di fatto e il testamento biologico, che Berlusconi e i suoi alleati hanno sempre affossato.
Repubblica 8.11.11
Dov’è finità l’egalité
Il mito della meritocrazia può distruggere la società
"Sta declinando l’idea della democrazia come uguaglianza, ed è molto pericoloso"
"Il culto della creatività individuale può minare il legame tra le persone"
Nel suo ultimo saggio Rosanvallon spiega perché la promozione delle differenze economiche sia un rischio
di Fabio Gambaro
Solo una società fondata su una vera uguaglianza può garantire la coesione sociale necessaria ad affrontare le difficili prove del nostro tempo. Per Pierre Rosanvallon è una certezza. Il celebre studioso delle forme della politica lo ribadisce nel suo ultimo libro, La société des egaux (Seuil), appena uscito in Francia e già in corso di traduzione in molte lingue. L´intellettuale francese che insegna al Collège de France e dirige La République des idées vi analizza la crisi del concetto di uguaglianza in una società, la nostra, dominata da differenze sociali sempre più marcate. Analisi da cui poi nasce la proposta di "una società degli eguali" che suona quasi come un contributo teorico al movimento degli indignados. «Gli indignados sono solo la punta dell´iceberg di un protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione sociale», spiega Rosanvallon, di cui in Italia sono disponibili diverse opere, tra cui Il popolo introvabile (Il Mulino). «Purtroppo però l´indignazione non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano. La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega?
«La società condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l´idea che il merito possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche di trent´anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato sull´uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale della democrazia contava di più?
«Certamente. Per le rivoluzioni americana e francese, più che il regime politico contava l´idea di una società senza privilegi e differenze sociali. Per questo la parola "uguaglianza" era tanto importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e condivisa. Nella frattura sociale rischia d´insinuarsi il populismo, vale a dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il populismo risponde con l´esaltazione di un sentimento di comunità fittizio, basato su un´ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent´anni l´eguaglianza sociale è arretrata?
«La società ha progressivamente abbandonato il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo dell´individualismo?
«E´ stato un fattore strutturale determinante, per altro favorito dall´avvento del nuovo capitalismo d´innovazione, il quale valorizza la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poi la meritocrazia e l´uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica dell´individualismo».
In che direzione?
«Agli albori della democrazia, l´individualismo era universalizzante. Essere un individuo significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la stessa libertà. Da qui l´idea di una società d´individui simili e uguali. Oggi invece prevale la domanda di singolarità, l´individualismo che ci distingue dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d´elezione nella società dei consumi. Abbiamo l´impressione di avere un potere supplementare sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicano come ideale della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere l´uguaglianza al centro della società?
«Insistere sul merito e sull´eguaglianza di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia dell´uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo. Dall´eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all´eguaglianza come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società d´eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si può più pensare all´uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. Ma accanto a questa eguaglianza "di posizione", va promossa l´eguaglianza "d´interazione", da cui dipende il sentimento di reciprocità, che è fondamentale per la coesione sociale».
Perché la reciprocità è così importante?
«C´è reciprocità quando ciascuno contribuisce in modo equivalente ad una società dove l´equilibrio dei diritti e dei doveri è lo stesso per tutti. L´assenza di reciprocità produce il sospetto sociale e la mancanza di fiducia nei confronti della collettività. Più la fiducia viene meno, più i cittadini si allontano gli uni dagli altri. La reciprocità è alla base delle cosiddette "istituzioni invisibili" che regolano la vita sociale: vale a dire, la fiducia, la legittimità, il rispetto dell´autorità. Oggi le istituzioni invisibili penano a mantenere il loro statuto e la loro efficacia. Ecco perché è necessario rimettere l´uguaglianza al centro dello spazio sociale, rendendo possibile tra l´altro quell´eguaglianza "di partecipazione" che è al centro della vita politica democratica. La possibilità per tutti di intervenire nella vita pubblica, anche al di là dell´esercizio del voto. Favorire questo tipo d´uguaglianza, da cui poi dipende anche la redistribuzione economica, è interesse di tutti. Un mondo di disuguaglianze, infatti, oltre ad essere un insulto ai più poveri, è anche un mondo dominato dall´insicurezza, dalla violenza e da costi sociali sempre elevati. La società della disuguaglianza non solo è ingiusta, ma è anche una minaccia per tutti».
La Stampa 8.11.11
Amitav Ghosh
Da un fiume d’oppio è sgorgato il capitalismo
Nel nuovo romanzo racconta la competizione tra indiani e britannici all’inizio dell’800 per il commercio della droga verso i mercati cinesi
di Maria Giulia Minetti
Intervista
Giunto al secondo volume della cosiddetta «Trilogia dell’Ibis» - il terzo è di là da venire, «ma arriverà, arriverà... », assicura lui - Amitav Ghosh ha già scritto ben più di mille pagine e speso in ricerche e stesura quasi otto anni, eppure al lettore il tempo impiegato appare perfino breve davanti alla mole, all’ampiezza del racconto.
In apertura del trittico (nel primo volume, cioè, intitolato Mare di papaveri, uscito nel 2008) l’autore muove storia e personaggi in India, dai campi di papaveri da oppio del Bihar al porto di Calcutta. Nel nuovo libro, intitolato Fiume di oppio e in uscita per Neri Pozza, la vicenda si sposta in Cina, nel porto di Canton, dove attraccano le navi dei mercanti inglesi e indiani che trasportano la droga destinata al mercato cinese. L’epoca sono i tardi Anni Trenta dell’Ottocento, appena prima che scoppi la Guerra dell’oppio, che contrapporrà la volontà dell’Imperatore Celeste, deciso a bandire il traffico della letale sostanza, a quella del governo di Sua Maestà Britannica, impegnato a difendere i principi del «free trade» e i diritti del capitalismo.
Da questo sfondo storico, che è la sostanza stessa, la ragion d’essere della narrazione, emergono decine di personaggi, centinaia, migliaia di comparse, si delineano costumi, abitudini, comportamenti; si indagano istituzioni, si illustrano mestieri, si spiegano tecniche, si trascrivono linguaggi, si esplorano territori, si inseguono mete artistiche e scientifiche... Amitav Ghosh lavora con la minuzia e la pretesa esaustiva dell’enciclopedista, ma l’enciclopedia è al servizio di una narrazione continuamente sorprendente, densa di colpi di scena, di rovesci di fortuna e raddrizzamento di torti, agnizioni, salvataggi, travestimenti, trappole, tempeste, evasioni...
In fondo lei ha scritto il più colto, il più impegnativo dei feuilleton, signor Ghosh. Il ritmo è quello. Perfino le parti massimamente erudite, le disquisizioni botaniche, commerciali, legali hanno un sottofondo eccitante, la promessa di una scoperta, di una sorpresa.
«Ma certo! È ciò che volevo. In Bengala abbiamo una grande tradizione di feuilleton, proprio nel senso francese, il feuilleton alla Sue, alla Dumas... Nei primi decenni dell’Ottocento - l’epoca del mio libro - c’erano molti scrittori del genere a Calcutta. Scrivevano in bengali ma anche in inglese. E avevano un grande pubblico».
Come mai, per «ambientare» il suo feuilleton, ha scelto il periodo in cui fiorisce - e deflagra - il commercio dell’oppio?
«In realtà non l’ho scelto, l’ho trovato. Quando scrivevo Il palazzo degli specchi ho cominciato a interessarmi ai coolies, i poveracci che lasciavano l’India per andare a lavorare altrove praticamente come schiavi. L’emigrazione, quello mi interessava. Ma andando a vedere ho scoperto che i coolies hanno cominciato a lasciare l’India negli Anni Trenta dell’Ottocento. La prima generazione di coolies veniva dal Bihar. Il Bihar era stato ricco, uno dei granai dell’India. Poi gli inglesi imposero la monocoltura dell’oppio, e la gente si impoverì disperatamente. Non aveva più da mangiare. L’attuale povertà del Bihar è ancora un lascito di quei tempi».
E così ha cominciato a seguire la pista dell’oppio?
«Sì, e seguendola sono arrivato in Cina».
Ma in Cina lei ci arriva a bordo di un veliero indiano, non britannico. Il suo mercante di oppio, Barham, è un parsi di Bombay. Lontanissimo dai campi del Bihar, da Calcutta e da Canton.
«Mi interessava il ruolo degli indiani nel traffico dell’oppio. E quel ruolo era rivestito soprattutto da mercanti parsi, della costa Ovest dell’India. Vista la fortuna che gli inglesi avevano col commercio dell’oppio, negli Stati indiani occidentali ci fu chi osò sfidarne il monopolio, coltivò l’oppio nel retroterra del Gujarat, del Rajastan, del Maharashtra, lo caricò sulle navi nel porto di Bombay, circumnavigò il subcontinente e si presentò a Canton in diretta concorrenza coi commercianti britannici».
Una concorrenza fortunata, secondo quello che lei racconta.
«Fu la nascita dell’imprenditoria indiana, marcò per sempre la differenza tra l’Ovest e l’Est del Paese. Tutte le maggiori compagnie indiane hanno cominciato con l’oppio. Vuole saperne di più? Si legga Bombay - Opium City dello storico Amar Farooqi».
L’oppio come origine e metafora del capitalismo. Sorprendente.
«L’oppio “è” il capitalismo. Il commercio dell’oppio è una diretta conseguenza, un’applicazione perfetta delle idee di Adam Smith. La ricchezza delle nazioni viene pubblicato nel 1776, pochi anni dopo gli inglesi, che avevano un problema con la Cina spendevano un’impressionane quantità di sterline nell’importazione del tè - trovarono il modo di equilibrare l’uscita con una nuova entrata: quella derivata dalla vendita dell’oppio indiano ai cinesi. S’inventarono un prodotto, assolutamente non necessario ma “addictive”, e lo vendettero alle masse».
Una volta deciso che l’oppio sarebbe stato il Leitmotiv, come s’è organizzato, per scrivere? Salman Rushdie mi ha detto che segue uno schema ferreo, precostituito. Solo uno dei protagonisti di Shalimar il clown l’ha sorpreso rifiutandosi di accettare il proprio destino. Ne è rimasto turbato...
«Ah, ecco perché leggendo i libri di Salman si ha l’impressione che non sia interessato ai personaggi, ma a qualcos’altro. Per me è l’esatto contrario. I miei personaggi mi sorprendono sempre, non so mai che cosa combinano. Son dovuto arrivare quasi a metà di Fiume di oppio prima di accorgermi che era Bahram il protagonista».
Quindi lei non sa quello che accadrà da un capitolo all’altro?
«Assolutamente no. Vengo continuamente preso alla sprovvista. In pratica per me scrivere un libro consiste nel correre dietro ai personaggi, seguirli per vedere che cosa combinano».
Vuol dire che tutte le ricerche connesse a Mare di papaveri eFiume di oppio - enormi, basta vedere l’elenco delle fonti alla fine dei volumi - sono per così dire «improvvisate»? Si documenta in corso d’opera, seguendo vicende imprevedibili?
«Esattamente. Come farei a divertirmi, se no? ».
il Fatto 8.11.11
Quei patrioti del Btp che non vogliono pagare il conto
Applausi all’appello del “corriere” dalle grandi banche felici di scaricare sui risparmiatori i titoli invenduti
di Vittorio Malagutti
Ci sono i superbanchieri come il gran capo di Intesa, Corrado Passera e Antonio Vigni, direttore generale del Monte dei Paschi di Siena. E poi gli onorevoli Italo Bocchino, finiano della prima ora, con il berlusconiano (pentito?) Giorgio Stracquadanio. Ma anche il popolo degli imprenditori e degli artigiani del Nordest non ha proprio potuto fare a meno di far sentire il suo caldo sostegno all’iniziativa. Tutti in piedi. Tutti ad applaudire il signor Giuliano Melani da Pistoia, che si è comprato un’intera pagina sul Corriere della Sera di venerdì per esortare gli italiani a comprare titoli di Stato “per non svendere il Paese, per fare a meno del governo e dell’Europa”. Così recita, testuale, l’appello firmato Melani, che nel weekend si è fatto una scorpacciata di interviste ai giornali con tanto di comparsata televisiva.
INSOMMA, il vero patriota compra titoli di Stato. Il popolo dona il suo oro alla Patria per sfuggire all’assedio dei mercati cinici e bari. E infatti Bocchino e Stracquadanio hanno solennemente annunciato di aver messo mano al portafoglio: il primo ha comprato 20 mila euro di Btp e il secondo addirittura il doppio. Sfortunatamente i mercati, in apparenza non troppo impressionati dalla discesa in campo di Bocchino e Stracquadanio (o forse sì, ma in senso contrario a quello auspicato dagli interessati), hanno tirato dritto per la loro strada. Ieri le quotazioni dei bond targati Italia hanno perso ancora quota e lo spread ha frantumato l’ennesimo record superando quota 490 punti.
Nel futuro prossimo, in assenza di novità sul fronte politico, la situazione non potrà che peggiorare, anche nella fantascientifica ipotesi che gli italiani accorrano in massa in banca per comprare titoli di Stato. Alcuni di coloro che in questi giorni si sono precipitati ad applaudire pubblicamente il simpatico Melani lo sanno benissimo, ma indossare la maschera del patriota può servire a farsi con comodo gli affari propri.
Prendiamo i banchieri, che negli anni scorsi si sono abbuffati di Btp per ingrassare i bilanci. Ora che si mette male, i top manager tipo Passera e Vigni, hanno un disperato bisogno che qualcuno prenda il posto delle banche, almeno in parte, quando si tratterà di sottoscrivere i titoli di stato nelle aste dei prossimi mesi (300 miliardi da piazzare da qui a fine 2012). Secondo i dati dell’ufficio studi della Banca d’Italia, gli istituti di credito nazionali possiedono il 12,6 per cento del totale dei titoli pubblici italiani in circolazione, che ammontano a circa 1.600 miliardi. Alla fine del 2009, la quota delle banche non arrivava al 10 per cento (9,8).
NEL GIRO di meno di due anni, quindi, i gruppi creditizi hanno aumentato la loro esposizione al debito sovrano di Roma di oltre il 20 per cento. Adesso però quel malloppo scotta. E allora può far comodo, eccome, scaricarne un po’ sulle famiglie. Tanto più che, queste ultime, invece, tra il 2009 e il 2011 hanno mantenuto invariata al 14,3 la loro quota sullo stock complessivo di titoli di stato. Il banchiere vende, la famiglia compra. Quello che ci vuole per dare una mano ai conti degli istituti. Non si capisce quale sia la convenienza per i piccoli risparmiatori a farsi carico dell’invenduto delle banche. Le stesse banche che, negli ultimi due anni sono riuscite a risparmiare decine e decine di milioni di imposte con operazioni finite nel mirino della magistratura. A questo proposito Melani potrebbe chiedere informazioni ai vertici di Unicredit, il gruppo creditizio per cui lavora, che pochi giorni fa si è visto sequestrare 245 milioni di euro dal tribunale di Milano nell’ambito di un’inchiesta per una presunta truffa all’erario.
A ben guardare, però, non si spiega neppure l’entusiastica accoglienza che l’appello di Melani avrebbe raccolto, secondo il Corriere della Sera, tra i piccoli imprenditori del Nordest. Tutti ricordano gli appelli provenienti da quella parte del Paese a ridurre gli sprechi statali e a indirizzare i capitali verso la produzione. Meno rendite più lavoro, questo lo slogan caro al Nordest. Che invece adesso plaude a una proposta che vorrebbe gettare altro denaro nel gran falò del debito improduttivo gestito dallo centralista e sprecone.
Come si spiega l’inversione di rotta? Mistero. A meno di non malignare che i tanti padroncini di Verona, Padova e Tre-viso, un’area dove si concentra buona parte dell’evasione fiscale del Paese, non cerchino in realtà di esorcizzare lo spettro delle tasse. Perchè di questo passo l’amministrazione pubblica, messa alle strette, potrebbe anche decidere di mettersi a combattere seriamente i furbetti. O magari (disgrazia delle disgrazie) a Roma potrebbero inventarsi addirittura un qualche tipo di imposta patrimoniale.
il Fatto 8.11.11
Obama salvato dagli immigrati
di Maurizio Chierici
I ragazzi hanno ragione quando ci rinfacciano il senso di colpa dell'essere sopravvissuti agli anni felici e di non esserne del tutto innocenti. Per altri popoli sono stati anni di guerre e di umiliazioni mentre la nostra civiltà stava inventando la più mastodontica agenzia viaggi della storia e se il secolo appena passato dovrà proprio avere un nome sarà il secolo degli emigranti. Insopportabili perché arrivano dal sud per sconvolgere il nord bene educato. Ma adesso sono qui: cosa ne facciamo? Soluzioni che non coincidono fra i protagonisti del G20 di Cannes. Per esempio, due a confronto: il Cavaliere d'Italia che ha affidato il governo al razzismo delle leghe, diffidenza, esclusione, rimpatri forzati, insomma la morte della speranza; e il signore della Casa Bianca, mezzo figlio dell'emigrazione, impegnato a recuperare l'amicizia degli elettori dai nomi latini perché senza il loro voto non torna presidente. Bisogna riconoscere che due signori tanto diversi affrontano la situazione con la stessa sincerità. Il Cavaliere misura la vita nel denaro e si comporta di conseguenza: non riesce a immaginare niente di diverso. L'altro presidente ha imparato la vita nelle difficoltà e senza ipocrisia dialoga con chi gli somiglia. Chi punta sul ticket miliardi-potere, chi sul confronto tra diritti e dignità, con qualche furbizia, perché sono i latini a decidere se resterà a Washington. Rappresentano il 23 per cento di un elettorato tendenzialmente democratico: il 67 per cento lo ha sostenuto nella prima scalata, ma la crisi sta cambiando molte cose. Promesse rimandate, Repubblicani che attribuiscono ogni depressione agli errori di Obama, non solo per “l'inutile populismo” della riforma sanitaria allargata a milioni di esclusi buona parte di origine latina; soprattutto per “l'ambiguità politica verso paesi tradizionalmente ostili”. Cuba e Venezuela. E i profughi antichi e nuovi che dalla Florida rimpiangono i piaceri perduti all'Avana o sfogliano gli oroscopi aspettando la caduta di Chávez, sono l'elettorato ideale che può congelare l'apertura democratica. Ogni candidato repubblicano va in pellegrinaggio fra gli eterni profughi di Miami con l'umiltà di chi si inginocchia nella grotta di Lourdes. Promettono ritorni in patria e dittatori in fuga anche se ormai non creduti da chi dovrebbe sostenerli. E loro lo sentono; lo sanno. E cambiano strategia. Forse l'esempio italiano suggerisce qualcosa: imbottigliare le colonne d'Ercole del benessere con mura invalicabili, insomma sigillare i mille chilometri della frontiera messicana e poi nessuna tolleranza. Al Congresso svuotano la legge sull'immigrazione proposta da Obama per garantire una vita normale ai nuovi cittadini. Insomma, riesce difficile immaginare come possano attrarre la simpatia del 40 per cento dei latini decisivi per la vittoria se continuano a maltrattarli. Ecco che per diventare maggioranza gli eredi di Bush si aggrappano al voto bianco. “Perché siamo bianchi e non marron” e perché “un vero americano bianco deve essere repubblicano”. Bambinate anche perché l'impressione è che i bianchi Usa siano sempre meno pallidi. Quei matrimoni misti, tragedia dell'umanità. Lontana dall'isterismo della razza perduta, la mano di Obama è un invito abbastanza sincero. Gli immigrati lo sentono: stanno discutendo come combinare le ambizioni di un protagonista, col futuro non differenziato di milioni di senza nome che continuano a inseguire il sogno americano. Facile capire come sia più semplice sognare con Obama e più complicato nelle mani degli ariani polenta e osei.
il Riformista 8.11.11
Se Nietzsche da nazista divenne uomo di sinistra
Teorie. Azzarà nel suo nuovo saggio per Manifestolibri ripercorre le varie interpretazioni che Vatti- mo ha attribuito al filosofo tedesco. Interpretazioni che rifettono l’evoluzione di una certa fetta del pensiero politico, dalla contestazione del ’68, alla svolta neoliberista e alla crisi degli ultimi anni. Esce invece un volume curato da Vivarelli per Giuntini sugli scritti dell’autore dello “Zarathustra” sugli ebrei
di Corrado Ocone
qui
Corriere della Sera 8.11.11
L'uomo che voleva un altro Islam
La sfida dell'imperatore Dara Sikoh: fondere le religioni
di Giorgio Montefoschi
I viaggiatori moderni che, stremati dal viaggio nelle pianure infuocate a sud di Delhi, arrivano finalmente a Fatehpur Sikri, la città deserta che fu capitale dell'impero moghul tra il 1570 e il 1586, sono ripagati dalla bellezza di un luogo splendido. L'insieme dei palazzi imperiali e dei vari edifici fatti costruire in arenaria rossa dal grande sovrano moghul Akbar per celebrare la sua vittoria (Fatehpur significa «la città della vittoria») su una dinastia musulmana che governava il Gujarat, lascia senza fiato, ed è nel medesimo tempo struggente, come sono struggenti tutti i luoghi che hanno avuto breve vita.
Infatti, Akbar e la sua corte dimorarono a Fatehpur Sikri solo dodici anni. Poi l'imperatore partì per nuove imprese militari (regnò dal 1556 al 1605) e presto la città fu lasciata a un inarrestabile abbandono. Ma, in quei pochi anni, Akbar fece meraviglie: sale per le udienze, biblioteche, padiglioni per il riposo, sale del tesoro, gigantesche stalle per gli elefanti, magazzini, uffici, chioschi dai quali scrutare di notte le stelle. Lo stile architettonico era persiano; le decorazioni, indiane. Akbar, che non avendo studiato era e rimase analfabeta, era un convinto assertore della libertà del pensiero e della tolleranza universale verso tutti, indipendentemente dalle diverse religioni. Come era accaduto nei califfati della Spagna araba in cui convivevano musulmani cristiani e ebrei, nella sua corte si incontravano poeti e mistici, artisti e filosofi sia musulmani che induisti. E si scambiavano informazioni e nozioni e tesori di antica sapienza riguardanti la medicina, la matematica, le scienze naturali; si confrontavano le verità e gli enigmi sui misteri dell'anima e dell'Altrove; in un apposito padiglione costituito per le traduzioni lavoravano gomito a gomito letterati musulmani e pandit indù. Così, la tradizione degli studi persiani sui millenari saperi indiani, già avviata attorno all'anno Mille e proseguita nel XIII secolo, conobbe un momento di eccezionale fervore — e, dal sanscrito, furono tradotte in persiano opere fondamentali come il Mahabharata o il Ramayana, ad esempio.
Erede di questo fervore e di quelle aspirazioni fu il bisnipote di Akbar: Dara Sikoh, nato il 20 marzo del 1615 in Rajasthan e morto tragicamente nel 1659. Affiliato alla confraternita sufi della Qadiriyya; seguace delle dottrine mistiche del musulmano Ibn 'Arabi; curioso e aperto a ogni incontro che avesse al centro la Parola e l'anima (dunque frequentatore assiduo delle parole e dei silenzi, superiori alle parole, degli yogin indiani: specchio dei sufi musulmani); convinto assertore del fatto che l'induismo non fosse affatto un politeismo, come poteva sembrare, bensì una religione monoteista e, insieme, della incontrovertibile profonda assonanza di tutti i libri divini (la Bibbia, i Veda, il Corano) in quanto espressioni dell'unico e solo e vero Dio, Dara Sikoh scrisse una quantità di opere a testimonianza del suo credo e promosse una quantità di traduzioni, tra le quali va segnalata la traduzione persiana delle Upanishad, sulla quale si basò Anquetil-Duperron per la sua versione latina — la prima ad apparire in Occidente — ai primi dell'Ottocento.
La congiunzione dei due oceani (Adelphi, bella introduzione a cura di Svevo D'Onofrio e Fabrizio Speziale, pp 169, € 14) è il libro nel quale la dottrina dell'unicità dell'Essere e della corrispondenza delle due tradizioni mistiche, quella dell'Islam e quella dell'Induismo, diventano non più supposizioni intuitive, quanto piuttosto vere e proprie tesi suffragate dal confronto delle costruzioni teologiche e mitiche, della cosmografia, della liturgia, del sacrificio. «Come l'uomo è un individuo unico, nonostante la pluralità dei suoi organi — scriveva Dara Sikoh — allo stesso modo anche l'Essenza divina è unica e non diviene molteplice in virtù delle sue differenti determinazioni». Dio — secondo il suo pensiero, espresso nel merito al decimo capitolo del trattato — è visibile, e tutti coloro i quali lo negano vanno considerati sciocchi e ciechi, «poiché se la Santa Essenza è onnipotente, come potrebbe essere incapace di manifestare se stessa?». «Tuttavia — aggiunge appena due righe sotto — nessuno può nemmeno sostenere che è possibile scorgere la pura Essenza divina. Fintanto che la pura Essenza, che è informale e priva di attributi, non assume determinazioni e si manifesta nel velo della sottigliezza, essa è invisibile e la sua visione è impossibile». La parola chiave di questo brano, che potrebbe essere attribuito a San Paolo, come a Sant'Agostino, è la parola «pura». Lì è il mistero. Dio si fa conoscere, ma non interamente, nella sua purezza: solo attraverso un velo, in uno specchio (quello della creazione e del nostro cuore) e in enigmi. Lo vedremo nell'altro mondo — pur avendo cominciato a vederlo in quello in cui viviamo.
Dara Sikoh — s'è detto — ebbe una fine tragica. Come poteva l'erede al trono di un impero dominatore essere sospettato di condiscendenza o addirittura di fraternità con le genti che altri pretendenti allo stesso trono pensavano si dovessero dominare con la forza, i cui antecedenti sono lo sbarramento ideologico e la chiusura mentale? Come si poteva affidare la guida dell'immenso impero moghul a un uomo che, come lo descrivevano i suoi avversari, era costantemente in compagnia di bramani ed era solito considerare «quegli insulsi ciarlatani quali maestri sapienti e perfetti?». Come poteva guidare l'impero moghul un uomo che considerava i Veda parola di Dio? Un uomo che in luogo dei santi nomi di Dio aveva adottato nomi indù? Era chiaro che, se Dara Sikoh fosse arrivato al trono, la Legge coranica sarebbe stata messa in pericolo e avrebbero trionfato i miscredenti. Così, nel 1658, profittando di una grave malattia del padre, Sah Jahan, i tre fratelli cadetti di Dara Sikoh si ribellarono alla designazione paterna e marciarono contro Dara. Poi, il più capace di loro, Awrangzeb, sconfisse pure i fratelli e si proclamò sovrano. Il passo successivo fu quello di sottoporre Dara a una pubblica umiliazione, facendolo sfilare vestito di stracci per le vie di Delhi a dorso di un elefante. Quindi, lo fece processare e condannare a morte.
il Riformista Lettere 8.11.11
Armi di struzione di massa
Nelle ultime settimane, una pacifica opposizione ha scatenato i suoi “white blocs” nelle piazze e sui giornali per lanciare sputi e insulti alla volta dei Radicali. Rei, questi ultimi, di una mai dimostrata defezione dalle file del centro-sinistra e di un altrettanto fantasioso soccorso al governo uscente. Nel frattempo, quelle acque chete dei vescovi italiani stavano diramando gli inviti per il prossimo convegno di Scienza&Vita, che inizierà il 18 novembre prossimo e dove Bagnasco ci insegnerà che la vita umana comincia alla sola idea di un rapporto sessuale e che la morte arriva soltanto se un angelo passa e decreta il suo amen. Ed ecco arrivare le prime adesioni alla kermesse vaticana, avente per tema la “educazione alla democrazia” (sic!): Bersani, Alfano, Casini, Maroni... Traduzione: mentre si cercava il laboratorio della bomba atomica in casa radicale, le armi di distrazione di massa funzionavano a pieno Regime per coprire un summit di straordinaria trasversalità, dove certo non si udirà mai la bestemmia “laicità”. E, soprattutto, nessuno si scandalizzerà per questo dialogo/trattativa interforze, che non promette niente di buono in materia di bioetica e diritti civili. In fondo si sa: la politica è fatta di compromessi. Storici.
Paolo Izzo