mercoledì 26 ottobre 2011

Repubblica 26.10.11
Il 5 novembre
Manifestazione a Roma, boom di adesioni "Riempiti 15 treni e centinaia di bus"


ROMA - Quindici treni, una nave, centinaia di pullman partiranno alla volta di piazza San Giovanni, a Roma, il prossimo 5 novembre. Il Pd lancia così la sua «festa popolare per la ricostruzione del Paese, per lanciare l´alternativa al berlusconismo». A San Giovanni ci saranno spazi per le famiglie e spettacoli con diversi gruppi musicali. Oltre a Bersani, che chiuderà, interverranno il candidato alle presidenziali francesi François Hollande e il segretario del Spd tedesco, Sigmar Gabriel.

il Riformista 26.10.11
Bersani spera nel voto e prepara la sua piazza
Opposizioni. Il Terzo Polo sarebbe stato favorevole all’idea Letta
a Palazzo Chigi. Tra i democrat, restano invece posizioni diverse
di Ettore Maria Colombo

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l’Unità 26.10.11
Assisi e la pace, 25 anni dopo
Domani si ripeterà la preghiera ecumenica che ebbe come protagonista Giovanni Paolo II. Ci sarà il Papa e al dialogo parteciperanno anche non credenti. Ma a suo tempo nella Chiesa molte furono le resistenze
di Domenico Rosati

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l’Unità 26.10.11
Il Sinodo e la profezia del ’71
Quarant’anni fa la Chiesa denunciava «l’influsso del nuovo ordinamento industriale e tecnologico» che favorisce «ingiustizie economiche» e «impedisce il raggiungimento dei diritti umani e civili»
di Filippo Di Giacomo s.j.

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La Stampa 26.10.11
Religioni, il dialogo passa dal bene
di Enzo Bianchi s.j.


Nella giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo indetta da papa Benedetto XVI si possono scorgere, accanto a una sostanziale continuità con l’iniziativa di Giovanni Paolo II nel 1986, qualche accento di novità. A questa giornata, infatti, sono convocate anche personalità del mondo della cultura che non si professano religiose; inoltre, l’incontro è intitolato «Pellegrini della verità, pellegrini della pace», mettendo così in rilievo come la ricerca della verità sia essenziale perchévi possaessere una ricercadella pace.
Quanti presumono di conoscere Benedetto XVI e lo additano sovente come «correttore» dei suoi predecessori hanno gridato al tradimento e alcuni di loro si sono persino rivolti a lui con lettere che lo invitavano a cancellare questa iniziativa. I tradizionalisti scismatici esprimono la loro condanna, e lo stesso fanno anche alcuni cattolici che temono l’evento perché lo giudicano un incoraggiamento al sincretismo o al relativismo, secondo il quale tutte le religioni si equivalgono. Così ancora una volta nella nostra Chiesa, sempre più divisa e conflittuale, si profilano accuse e contrapposizioni che segnano con la diffidenza ogni iniziativa e la rendono occasione per una negazione di chi, lungi dall’avere un’altra fede, semplicemente appare con diversità di stile, di toni, di atteggiamenti pastorali, di modi di porsi nella storia e in mezzo agliuomini.
Aldi là delle reazioni anche scomposte,la volontà di Benedetto XVI di fare proprio lo spirito di Assisi conferma il cammino di dialogo voluto dal Vaticano II e mostra come la Chiesa cattolica abbia la consapevolezza di una missione veramente universale: una missione, cioè, che riguarda tutti nel rispetto del cammino e delle vie religiose di ciascuno, nella convinzione che tutti gli uomini sono fratelli perché figli di un unico Padre e Creatore e chea nessuno di loro potrà maiessere estraneoil mistero pasquale di Gesù. Va anche detto che molti timori riposano su un fondamentale malinteso: si presume che il dialogo richieda di mettere da parte la propria fede e dimenticare la verità. In realtà, il dialogo implicaun’autenticareciprocità,chiede di ascoltarel’altro e la sua fede con rispetto ma, nello stesso tempo, di parlare con parresía della propria fede. Il dialogo interreligioso esige che ciascuno dei due partner conosca la propria tradizione e le resti fedele, che sia un testimone della propria fede senza la pretesa di imporla all’altro. Il dialogo, se ben compreso, fa addirittura parte dell’evangelizzazione,perché è solo dialogando in modo autentico che si assume lo stile di Gesù, lo stile del Vangelo,quello dei discepoli inviatitra le genti.
Il cammino del dialogo è un percorso coerente con la grande tradizione della Chiesa. Fin dai primi secoli i padri della Chiesa, interrogandosi sulle diverse tradizioni religiose in mezzo alle quali i cristiani erano una realtà nuova e minoritaria, discernevano i semina Verbi, cioè la presenza di «semi della parola di Dio», di tracce dello Spirito Santo, di raggi di verità. In tutte le realtà, in tutta la storia ha sempre operato la parola di Dio e insieme a essa, mai da essa dissociato, lo Spirito di Dio; con l'incarnazione, poi, è Dio stesso che si è fatto uomo, carne, e ha abitato in mezzo a noi. La Parola ha sparso i suoi semi di vita nelle culture di tutte le genti, semi che inizialmente sono nascosti ma che poi si sviluppano e appaiono nella storia, nelle diverse culture. Detto altrimenti, Cristo è la verità unica, maraggi della sua luce si trovano in ogniessere umano, creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Verità, queste, mai smentite, che hanno condotto Paolo VI a constatare che «le religioni ... hanno insegnatoa pregare a intere generazioni»,mentre Giovanni Paolo II attestava: «Noi possiamo ritenere che ogni preghiera autentica è suscitata dallo Spirito Santo che è misteriosamente presente nel cuore di tutti gli uomini».
Ma a quali condizioni è possibile convocare credenti di diversa fede e religione a pregare per la pace? Quando fu organizzato l’incontro del 1986, in risposta alle diverse contestazioni sollevate nei confronti dell’iniziativa papale si affermò con insistenza che il pellegrinaggio ad Assisi non era voluto per «pregare insieme», ma per «stare insieme per pregare». In tal modo si è ribadita l’impossibilità di una preghiera comune, perché questa è possibile solo tra cristiani di diverse confessioni, che riconoscono il Dio trinitario e confessano come unico salvatore Gesù Cristo. I cristiani non possono fare proprie le formulazioni di preghiera di altre religioni e, reciprocamente, gli altri non vorrebbero certo adottare le preghiere cristiane. La preghiera, eloquenza della propria fede, ci chiede di pregare insieme come cristiani che confessano la fede espressa nel Credo apostolico; ci chiede anche di pregare insieme tra ebrei e cristiani (almeno attraverso i salmi), figli gemelli dell’Antico Testamento che confessano lo stesso Dio e attendono da lui la piena redenzione. Ci è però impedito di fare una preghiera comune e pubblica con credenti di altre religioni: l’unica cosa che è sempre possibile condividere con tutti è un silenzio adorante vissuto gli uni accanto agli altri, nella certezza che Dio vede, unisce, accoglie ciò che sale dal cuore umano come desiderio di bene e di salvezza. Dio conosce chi cerca il suo volto: lui certo vede e crea una comunione che noi non possiamo né misurare né riconoscere. Tuttavia, come ricordava Giovanni Paolo II nel discorsoalla curia romana nel 1986, coscienzae fede ci diconoche «c'è un solo disegno divino per ogni essere umano che viene a questo mondo, un unico principio e fine», perché «le differenze sono un elemento meno importante rispetto all’unità che invece è radicale, basilare e determinante».
Noi cristiani crediamo che Gesù Cristo è l’unico salvatore, l’unico mediatoree l’unicoSignore degli uomini, ed è proprio questafede in lui che ci spinge verso gli uomini del mondo, delle diverse culture e religioni, con grande simpatia, con il desiderio di ascoltare ciò che brucia nel loro cuore, con il desiderio anche di imparare da loro, nel dialogo e nel confronto schietto, libero, capace di reciproca accoglienza. Non siamo degliingenui ottimistima, anzi, è confatica che cerchiamodi assumere i sentimenti, gli atteggiamenti e i pensieri di Gesù, lui che ha voluto incontrare tutti: sani e malati, giusti e peccatori, ricchi e poveri, ebrei e appartenenti alle genti, persone con la fede in Dio o che non conoscevano Dio. Gesù non ha mai giudicato né condannato nessuno, si è addirittura seduto alla tavola degli impuri, dei peccatori e dei maledetti: e come potremmo noi, suoi discepoli, rifiutarci di accogliere qualcuno dei nostri fratellie sorelle in umanità?
Sì, noi uomini e donne siamo tutti ciechi in cerca di essere guariti, zoppi che faticano ad andare avanti, balbuzienti nel parlare a Dio, spesso sordi nell’ascoltarlo. Siamo pellegrini in cerca della verità, della giustizia e della pace: tutti invochiamo e attendiamo la salvezza, quella «salvezza[CHE]nonsta nelle religioniin quanto tali, maè collegata con esse, nella misura in cui portano l’uomo al Bene unico, alla ricerca di Dio, alla verità e all'amore».

Il testo è la lectio magistralis che Enzo Bianchi terrà oggi ad Assisi alla vigilia della preghiera per la pace con il Papa.

il Riformista 26.10.11
Posseduti da Satana? Andate da Padre Elia
Sacerdote, teologo, medico, esperto di bioetica, è il primo esorcista
direttamente incaricato dalla Diocesi di Roma. In occasione dell’uscita
de “Il segreto di Fatima. Salvati da una profezia”, parla del ruolo della
comunità ecclesiastica e affronta la questione della possessione diabolica
di Andrea Di Consoli

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Repubblica 26.10.11
Utopia, libertà e fede Il metodo maieutico
Le letture divine del cardinal Martini
di Vito Mancuso


Esce il Meridiano che raccoglie gli scritti pastorali e spirituali dell´ex arcivescovo di Milano
Il cattolicesimo non dogmatico di questi testi ci fa capire il rapporto dell´uomo con il bene
Se c´è un limite alla selezione è l´aver trascurato le sue illuminate posizioni in campo bioetico
C´è sempre una finalità pratica in queste parole: l´azione, il lavoro, la caritas

Alla fine ciò che determina il valore di un essere umano è il metodo, più che i contenuti della mente o le azioni compiute dalle mani. A dire chi siamo e a conferire la nota dominante alla nostra personalità è il metodo con cui guardiamo e affrontiamo la vita. Il Meridiano dedicato da Mondadori al cardinale Carlo Maria Martini raccogliendone gli scritti principali è, innanzitutto, un solenne discorso sul metodo.
Il metodo di Martini si chiama "lectio divina". In verità nel mondo reale noi possiamo leggere solo ciò che vediamo, quindi solo ciò che per definizione non è divino, come i testi scritti dagli uomini o i fenomeni naturali. Se si giunge a parlare di lectio "divina" non è quindi per l´oggetto materiale che viene letto, il quale è e rimarrà sempre del tutto umano nella misura in cui può essere colto dall´occhio, letto e compreso. Se si parla di lettura "divina" è piuttosto per l´intenzionalità che guida chi legge, un´intenzionalità che proviene dalla profondità dell´uomo interiore dove, diceva Agostino, "habitat veritas". La lettura del reale è così definibile come "divina" quando legge il mondo alla luce della realtà ontologica e assiologia sottesa al concetto di Dio, quando cioè lo legge con la convinzione che la realtà prima e ultima sia il bene, o la bellezza, l´amore, la giustizia, tutti modi differenti per dire la medesima cosa. Da questa intenzionalità proveniente dalla profondità spirituale sorge, in alcuni, ciò che la tradizione spirituale chiama "lectio divina" del reale. Praticare e insegnare questo metodo è stato a mio avviso il lavoro peculiare della vita e del magistero di Carlo Maria Martini.
Lungo la sua vita egli ha letto il mondo umano come un testo da interpretare alla luce delle promesse divine attestate dalla Bibbia e prima ancora scolpite nell´anima di ogni giusto. In particolare ha letto quella caratteristica del tutto peculiare del mondo umano che si chiama "città", e non a caso il Meridiano è suddiviso nelle sue tre grandi parti con i nomi delle tre città della vita di Martini: Roma, Milano, Gerusalemme. In questa prospettiva egli ha praticato anzitutto un´onesta attenzione analitica (nel suo lessico: discernimento), rispettando sempre le singole individualità senza mai ricondurle a formule generiche. Ne parlo per esperienza personale, avendo avvertito i suoi occhi posarsi tranquilli per capire il fenomeno, senza voler sapere già la soluzione e senza voler incasellare ciò che gli stava davanti in schemi preconfezionati, dottrinali o pastorali che fossero. Mai, in Martini, il dogma ha prevalso sulla vita reale, mai la lettera ha ucciso lo spirito, ed è in questa prospettiva che vanno lette le sue illuminate prese di posizione in campo bioetico, assunte pubblicamente una volta che non fu più arcivescovo di Milano ma da sempre coltivate dentro di sé, così diverse dalla gelida intransigenza di altri prelati. E se c´è un limite alla selezione operata dal Meridiano è proprio l´aver trascurato questi testi. Le posizioni bioetiche, così come quelle teologiche delle Conversazioni notturne a Gerusalemme, sono la logica conseguenza del primo elemento del metodo martiniano di approccio al reale, teso a custodire il singolo fenomeno in tutta la sua complessità e fragilità. In questo senso Martini è un esempio tra i più limpidi del cattolicesimo liberale e non-dogmatico, riassunto alla perfezione dal suo motto episcopale: «Pro veritate adversa diligere».
Il secondo momento del metodo martiniano di lettura divina del reale consiste in ciò che si potrebbe laicamente definire immaginazione creatrice, ovvero capacità di saper prevedere e favorire il grado di evoluzione del fenomeno. Il criterio-guida di tale immaginazione creatrice è il bene qui e ora, il massimo del bene qui e ora che da un singolo essere umano o da una singola situazione è possibile far scaturire. Ognuno di noi infatti contiene di più di quello che appare in superficie. Lo stesso vale per le istituzioni e i sistemi. Ogni cosa contiene di più di ciò che appare in superficie. La "lectio divina" del reale è un´arte maieutica che sviluppa le potenzialità umane e spirituali alla luce della sapienza e della profezia divina. Non è l´ideologia politica o dottrinale che schematizza e incasella i fenomeni in una direzione prefissata, neppure però è un atto notarile che registra ciò che appare premiando chi ha e punendo chi non ha, com´è tipico di ogni prospettiva conservatrice. La "lectio divina" legge il fenomeno concreto alla luce delle esigenze e delle potenzialità divine e tende a suscitare in esso una risposta pratica, concreta, operosa. La finalità della lettura divina del reale infatti è sempre pratica, è l´azione, il lavoro, la caritas. Si piega sul fenomeno ma non vi si appiattisce, piuttosto lo innalza, lo eleva sollecitando la sua libertà al di più che può dare, e che già contiene in sé.
Ne viene una singolare combinazione di analisi oggettiva e di carica utopica, di adesione al presente e di slancio verso il futuro, nella quale il primo momento è più freddo e riguarda la mente, il secondo è più caldo e riguarda la volontà, con il cuore e le mani chiamati a porsi in empatia col fenomeno e a sostenerlo facendolo camminare e indicandogli la direzione. Il metodo-Martini in quanto "lectio divina" sgorga da questo duplice movimento della mente e del cuore.
Tale metodo riproduce esattamente il metodo di Gesù quale appare nei Vangeli, come quando per esempio il rabbi di Nazaret rifiutò di applicare la lapidazione per la donna sorpresa in adulterio come prescriveva la Legge (oggi diremmo il Codice di diritto canonico) e però al contempo le disse "non peccare più", senza cadere nella nebbia nichilista di un al di là del bene e del male. L´attenzione al singolo è sempre più importante delle norme generali, ma con la finalità di sollecitarlo verso il puro e severo ideale della fedeltà al bene e alla giustizia.
Tutto questo significa proporre un modello di fede cristiana funzionale al mondo. Ciò appare in modo chiaro nel tipo di preghiera che Martini privilegia, che non è la preghiera di pura lode come vuole la classica mentalità religiosa, ma è la preghiera di intercessione, che per Martini è la preghiera per eccellenza in quanto riproduce il movimento fondamentale del Dio biblico, cioè la comunione e l´alleanza col mondo. Vi sono tradizioni che ritengono di raggiungere il vertice dell´esperienza spirituale quanto più trascendono il mondo. Non così la Bibbia e la tradizione giudaico-cristiana, che vive invece della comunione Dio-Mondo, una comunione non statica ma dinamica, per meglio dire dialettica, in quanto vive tale rapporto come compiutezza nel momento della sapienza e come incompiutezza nel momento della profezia, come "già e non-ancora". Sapienza e profezia sono le due anime speculative della spiritualità ebraica e Martini, che ama Israele e che non è pensabile senza il suo legame con Gerusalemme, le riproduce perfettamente nella sua visione cristiana. Egli non ha mai cessato di sostenere che senza un organico legame con l´ebraismo non si dà cristianesimo autentico.
Il tutto, come si accorgerà il lettore del Meridiano, con uno stile che privilegia la chiarezza e la semplicità. Martini infatti ha fatto sempre uso della sua grande intelligenza e della sua vasta preparazione nella direzione della semplicità, risultando un uomo che diffonde umiltà e mitezza. Proprio come il suo Maestro, che un giorno definì se stesso "mite e umile di cuore".

l’Unità 26.10.11
Il dibattito su Todi
Non mi convince la lettera dei quattro  «marxisti ratzingeriani»
di Francesco Benigno


La lettera aperta, firmata da quattro intellettuali di formazione marxista (Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca) alla vigilia del recente convegno di Todi, contiene una proposta che merita di essere discussa, tanto per la qualità dei proponenti quanto per la tematica che avanza. La lettera ha il tono di un invito alla sinistra a misurarsi con le posizioni della Chiesa a partire dalle tesi di papa Benedetto XVI e del cardinale Bagnasco, considerate il terreno più adatto per far crescere una visione critica comune dei guasti e delle degenerazioni della società contemporanea. Si tratta, osservano i quattro, di un’emergenza antropologica: una crisi della democrazia il cui aspetto più cogente e significativo sarebbe costituito dalla manipolazione della vita. Di questa convergenza sarebbe così fondamento la condanna del relativismo etico e il confronto sul terreno dei «valori non negoziabili», a partire dalla difesa della vita umana «sin dal concepimento».
Non si tratta di una mossa da politique d’abord. Lo esclude, prima ancora che la lettera stessa, la biografia dei firmatari, più portati a immaginare strategie e scenari di largo respiro che tattiche ad uso della quotidiana schermaglia politica. Si tratta invece di un modo di rilanciare la discussione aperta nel gennaio 2004 da Jürgen Habermas e dall’allora cardinale Ratzinger sulle «basi morali dello stato liberale». Al centro della discussione stanno infatti da allora questioni fondamentali che riguardano la «condizione spirituale del tempo». Una condizione post-secolare in cui le religioni, lungi dal rappresentare un elemento residuale, costituiscono invece una riserva valoriale fondamentale tanto rispetto all’incapacità dei sistemi democratici di mantenere ciò che implicitamente promettono, quanto di difendere i meccanismi della decisione pubblica dall’invadenza di un mercato sregolato e di una tecnica ad esso asservita. A queste basilari questioni i “marxisti ratzingeriani” offrono tuttavia una risposta assai parziale e problematica, che viene affermata a costo di una duplice semplificazione. La prima è quella di ridurre il ruolo della religione (e più latamente della religiosità) nel mondo contemporaneo a quello della presenza della Chiesa cattolica. Da sempre, e ancor più in un mondo globalizzato, le religioni sono diverse, divergenti, e talora, purtroppo confliggenti. Il fondamentale contributo offerto della religione alla riflessione contemporanea non può che essere quindi declinato al plurale. Allo stesso modo la lettera sorvola non solo sulle differenze di posizioni nell’ambito delle religioni cristiane, ma anche su quelle interne alla Chiesa cattolica. Ben diversa era stata la posizione di Habermas, per cui un’alleanza tra la ragione e le fedi andava fondata sul riconoscimento dell’autorità della ragione naturale, vale a dire sui fallibili risultati della scienza nonché sui principi universalistici dell’egualitarismo giuridico. La giusta ricerca di un patrimonio morale condiviso da laici e credenti delle più diverse fedi potrebbe allora iniziare più facilmente da valori comuni: ad esempio, come ha ricordato Bagnasco a Todi, dalla «presa in carico» da parte del corpo sociale dei più poveri e dei più indifesi, che «manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato, di un popolo e di una Nazione».

il Riformista 26.10.11
Biotestamento, l’etica a fini politici
di Franca Chiaromonte e Antonia Tomassini

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il Riformista 26.10.11
La pasionaria Warren porta i fanti democrat all’assalto di Wall Street
Lotta di classe? Si batte contro i privilegi delle banche. Non ha paura di dire che «senza l’aiuto dello Stato nessuno sarebbe diventato ricco»
Obama prova a stargli dietro. Ma la campagna di Elizabeth per il seggio che fu dei Kennedy è una sfida anche al pragmatico Barack in cerca del bis
di Dario Fabbri

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Corriere della Sera 26.10.11
Gli occupanti rivali di Saint Paul
Nella City non c'è posto per tutti
di Fabio Cavalera


Di sera spariscono e le 200 tende si svuotano, il campo della protesta «Occupy London Stock Exchange», nella City, diventa un deserto. «Non c'è da stupirsi» confessa uno degli indignati che, sorpresa, è un conservatore tutto d'un pezzo, Robin Smith, 48 anni, consigliere dei tory al municipio di Wokingham. «Siamo normal middle class, ceto medio normale, e manifestiamo come possiamo e quando possiamo». Così, la normal middle class va a dormire al caldo o va a curare il gatto lasciato solo a casa o va a consumare la cena con la famiglia (per sincera ammissione). «Che importa? Al mattino e al pomeriggio portiamo allegria e sorrisi. Rivitalizziamo il Miglio Quadrato, il fortino dei banchieri, altrimenti triste e deprimente».
Quella di Londra è una protesta part time senza colori politici, militante di giorno, molto meno la notte. La polizia ha usato gli infrarossi per sbirciare dentro le tende e ha scoperto che nove su dieci col calare del sole si svuotano. Ben piantate davanti alla cattedrale di San Paolo, ma abbandonate e silenziose.
Il movimento anti-City ha il suo tranquillo e quotidiano tran tran e, rivelano i sondaggi, gode della simpatia di una bella parte dell'opinione pubblica. Gente pacifica, con una missione nobile e impossibile: portare la voce dei nuovi poveri nel cuore del capitalismo finanziario. La Chiesa anglicana ha accolto con simpatia gli indignati e le loro tende, senza immaginare i tempi della «resistenza». Ora comincia a preoccuparsi. E si lamenta.
Gli ingressi alla Cattedrale di San Paolo sono stati chiusi: non si sa mai che qualche scalmanato la possa combinare grossa. Giusto. La «serrata», però, sta costando 20 mila sterline al giorno, pari ai mancati incassi delle visite di fedeli e turisti. Bel problema. Il decano di San Paolo sollecita il sindaco Boris Johnson a muoversi e valuta l'ipotesi di una causa per danni contro gli indignati. I manifestanti stanno lì, di giorno, nei loro ripari. «Prima ci dicono siete i benvenuti, poi ci vogliono cacciare. A chi diamo fastidio? Un po' di effervescenza non è la fine del mondo». Ingenui, hanno dimenticato un comandamento: qui il business è il business. Alla City i colori delle tende non piacciono affatto. Banca o Chiesa che sia, alla fine i conti, quelli veri, devono tornare.

il Riformista 26.10.11
Rispunta la rabbia dei giovani nella Tunisia del compromesso storico
La lotta continua?
di Francesco Candelaro

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il Riformista 26.10.11
Kojève, quel “filosofo della domenica” che esplorò la nozione di autorità
In un saggio del ’42 lo studioso spiega un concetto che destò poca attenzione nei pensatori occidentali, ma che è fondamentale per ogni analisi politica o teoria dello Stato
di Corrado Ocone

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Corriere della Sera 26.10.11
Processo a de Felice, ma non ci sono prove
di Giovanni Belardelli


Il piccolo libro di Gustavo Corni su Fascismo. Condanne e revisioni (Salerno, pp. 126, 12) affronta un tema di grande rilievo: la forte contiguità o sovrapposizione tra studi storici e politica, che proprio riguardo al fascismo è stata in Italia particolarmente rilevante. Ma lo fa in un modo che lascia a dir poco perplessi.
I primi capitoli consistono in gran parte nell'esame di alcune importanti opere su fascismo e Resistenza. Si tratta di un'esposizione non priva di interesse: ad esempio, l'analisi delle principali storie del fascismo di ispirazione marxista fa emergere la difficoltà che ebbe tanta nostra storiografia ad allontanarsi dagli schemi della Terza Internazionale, che collegavano a filo doppio il fascismo ai grandi gruppi capitalistici. Ma non mancano le lacune. Se si dedica tutto un capitolo alla importante storia della Resistenza di Roberto Battaglia, si dovrebbe anche ricordare come quel libro, prima della pubblicazione nel 1953, fosse stato letto e corretto dal leader comunista Luigi Longo. Stupisce poi l'assenza, tra le opere esaminate, della Storia d'Italia nel periodo fascista di Giovanni Mira e Luigi Salvatorelli, che ebbe una grande influenza nel diffondere il paradigma antifascista che Corni analizza. Si tratta, in questo e altri casi, di esclusioni che tanto meno si giustificano poiché si è invece trovato il modo di dedicare spazio a episodi marginali, come la contestazione di Craxi col lancio delle monetine fuori dell'hotel Raphaël nel 1993: un fatto che, con l'argomento del libro, c'entra poco o nulla. Sono tutte tracce di una certa frettolosità che forse va posta anche in relazione con il fatto che il volume deve essere stato pensato in origine per un pubblico non italiano, come indicano certi chiarimenti del tutto superflui su chi sia Berlusconi, chi fosse Montanelli, cosa è stata Tangentopoli e così via.
Il libro cambia tono e carattere quando arriva ad occuparsi delle opere di Renzo De Felice, che, dopo un'iniziale esposizione all'apparenza neutra, sono in realtà sottoposte a un esame di «correttezza politica». Ovviamente Corni non nega (e come avrebbe potuto?) l'importanza della vera e propria rivoluzione storiografica di cui De Felice fu protagonista, ma a lui imputa d'essersi fatto troppo guidare da intenti politici («i panni dello studioso sine ira et studio… gli erano sempre stati stretti»). Gli rimprovera addirittura di aver «liquidato in poche pagine» la Repubblica sociale italiana, quando è noto (e Corni lo aveva ricordato in altra parte del libro) che l'ultimo volume del Mussolini defeliciano dedica poco spazio alla Rsi perché l'autore era morto prima di poter terminare il volume. Perfino un'affermazione ovvia di De Felice, come il fatto che «antifascismo» e «democrazia» non si equivalgono (ovvia, perché non tutti gli antifascisti erano democratici, come dimostra ad abundantiam il caso di Stalin) viene considerata da Corni un'ulteriore prova a carico.
Ma appunto, a mano a mano che si avvicina alla fine, il pamphlet acquista i caratteri della requisitoria, per giunta non suffragata da prove. Afferma ad esempio Corni che Ernesto Galli della Loggia, dopo e in conseguenza dei suoi studi sfociati nel volume La morte della patria, avrebbe «salutato il (primo) governo Berlusconi come l'alba» di una nuova stagione politica. L'onere di scoprire dove e quando l'abbia detto viene lasciato però al lettore; in realtà sarebbe bastato rileggere un suo editoriale sul «Corriere della Sera» del 26 gennaio 1994 per vedere come fin dal titolo (No cavaliere) Galli della Loggia desse invece un giudizio negativo sulla discesa in campo di Berlusconi. Naturalmente, anche Giampaolo Pansa, l'autore del Sangue dei vinti, riceve la sua buona dose di critiche, senza che Corni riesca ad apprezzare come quel libro abbia contribuito a infrangere il tabù che per decenni aveva reso sospetto ogni riferimento alle uccisioni perpetrate da partigiani comunisti dopo il 25 aprile 1945.
Purtroppo, in questi e altri casi, Corni appare animato da una strabordante intenzione polemica che richiama certa storiografia degli anni Settanta, quando uno storico poté definire l'Intervista sul fascismo di De Felice un libro che rischiava di produrre «tra i giovani… guasti assai gravi» (Nicola Tranfaglia). Ma si tratta di tempi che, nonostante questo pamphlet, sono e restano (per fortuna) lontani.

La Stampa 26.10.11
Sarà femmina e nascerà in una megalopoli africana l’essere umano che il 31 ottobre ci farà superare quel traguardo. E nel 2100 saremo 15 miliardi. Si apre il dibattito sul futuro dell’umanità
di Paolo Mastrolilli


È già partito il conto alla rovescia per il neonato numero sette miliardi

Non abbiamo ancora fatto in tempo a salutare il bambino che ci porterà sopra la soglia dei sette miliardi di abitanti sulla Terra, e già dobbiamo prepararci per dare il benvenuto all’essere umano numero quindici miliardi.
Da tempo i demografi prevedono che entro la fine di questo mese l’umanità supererà il primo traguardo, e quindi già guardano a che cosa accadrà entro la fine del secolo in corso. Per celebrare i sette miliardi di persone, lo United Nations Population Fund (Unfpa) pubblica oggi un rapporto in cui sostiene che quello che abbiamo visto finora è nulla. Il testo, intitolato «The State of the World Population 2011», prevede che alla fine dell’anno 2100 sul nostro pianeta ci saranno quindici miliardi di esseri umani: la popolazione mondiale, dunque, raddoppierà in meno di un secolo.
Un’accelerazione preoccupante, che è destinata a riaccendere le polemiche sulla cosiddetta «Population Bomb», ossia la bomba demografica. La Terra, in altre parole, sarà in grado di sfamare e sostenere ad un livello di vita decente tutte queste persone? E se la risposta a questa domanda fosse negativa, qual è la strategia migliore per affrontare quest’emergenza? La questione è antica e assai dibattuta.
La popolazione mondiale cresce nei Paesi in via di sviluppo, perché le nascite aumentano e la mortalità infantile diminuisce, grazie ai progressi della medicina. Nei Paesi ricchi invece la popolazione cala, ma non abbastanza per compensare la crescita nel resto del mondo.
Davanti a questo problema si confrontano due gruppi. Da una parte ci sono i «neomalthusiani», convinti che il pianeta non può sopportare così tante persone. Propongono di frenare la crescita attraverso l’istruzione delle famiglie, il miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi poveri e la pianificazione famigliare.
Ma questo è il principale punto di scontro con l’altro gruppo, che potremmo definire dei «pro life». Ne fanno parte la Chiesa cattolica e altre istituzioni religiose o laiche, contrarie all’aborto e in generale all’intromissione dell’uomo nelle questioni della vita. I loro esperti sostengono che in realtà l’intera popolazione mondiale potrebbe vivere già oggi agevolmente nel solo stato americano del Texas.
Oltre alla questione demografica c’è quella geopolitica. Per anni l’aumento della popolazione in Paesi emergenti come India e Cina ha fatto supporre che il pendolo del potere globale si stesse spostando, portandoci verso la fine del dominio occidentale e soprattutto degli Usa. Ora ci sono studi di istituti come Bank of America e Boston Consulting Group che sostengono il contrario: l’individuazione di nuove fonti di energia, insieme alla fine del gap produttivo tra Cina e Stati Uniti, starebbero aprendo la strada a un nuovo «secolo americano», nonostante l’impetuosa crescita della popolazione in Asia.
Qualunque sia la risposta corretta a queste domande sul piano scientifico, l’importante sarà salutare il bambino (o la bambina) numero sette miliardi senza pregiudizi ideologici, trattandolo come un’opportunità invece che una minaccia.
"A chi vorrebbe frenare la crescita demografica si contrappone un gruppo contrario a ogni intervento"

La Stampa TuttoScienze 26.10.11
L’ebollizione che ci fa coscienti
Darwin sì, Dio no: così Dennett ci spiega l’anima
di Maurilio Orbecchi


E se invece di derivare da un’Assoluta Intelligenza fossimo stati assemblati nel corso di qualche miliardo di anni da una natura assolutamente ignorante di ciò che stava facendo, né aveva in mente di costruire alcunché? Noi siamo condizionati dalla nostra psicologia immediata e ingenua; per questo motivo siamo indotti a pensare che per realizzare qualcosa sia necessario un progetto. Ma l’evoluzione della vita - afferma Daniel Dennett, evoluzionista, filosofo della mente, scienziato cognitivista, direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University - è la dimostrazione di come per costruire una macchina pensante, tremendamente complicata come un essere umano, non sia necessario sapere come farlo. È sufficiente quella che chiama «ebollizione dal basso» («bubble up»), termine con cui Dennett descrive la teoria di Darwin: in natura emergono casualmente alcuni caratteri che, se funzionali all’ambiente, si conservano; altrimenti vengono eliminati.
Daniel Dennett, a Torino la scorsa settimana per ricevere il premio «Mente e cervello» del Centro di psicologia cognitiva, ha illustrato in due conferenze, al Rettorato dell’Università e al Centro incontri della Cassa di Risparmio, come la stessa coscienza sia spiegata dalla teoria dell’evoluzione.
La coscienza, a suo avviso, non ha nulla di misterioso perché è una proprietà emergente che nasce dall’incontro di miliardi di cellule e infinite connessioni cerebrali. I loro scambi producono elementi nuovi, come l’unione di due atomi d’idrogeno e uno di ossigeno formano l’acqua. È la complessità del sistema nervoso a far emergere la coscienza nel corso dell’evoluzione. Se però la coscienza non è un mistero divino, è un rebus. Tuttavia si tratta di un enigma che ha iniziato a risolversi quando abbiamo costruito i computer dotati di funzioni che prima erano riservate alla sola mente, come la memoria, il calcolo, il riconoscimento delle forme. Dennett non ha dubbi che, nel momento in cui saremo in grado di costruire computer sufficientemente complessi, anche in loro emergeranno forme di coscienza: a suo avviso la coscienza, infatti, è l’effetto dell’aumento della competenza, non la causa della stessa.
Secondo Dennett, quindi, non esiste nulla di immateriale in noi: non c’è una sorta di spettro dentro il corpo chiamato, secondo le varie credenze «Anima», «Psiche», «Io», «Sé», che pensa, sente e muove il corpo. Questi sono termini che definiscono una specie di macchina virtuale inesistente, che dà superpoteri all’organismo. Poiché noi siamo il nostro corpo, è quindi solo il nostro organismo, e non un’altra entità, che sente, ama, soffre, riflette e ha coscienza di sé. Tutto il lavoro psicologico e intellettuale svolto da quella specie di ente superiore, chiamato anima o psiche, è distribuito in vari circuiti neurali. Una teoria neuroscientifica della coscienza, dunque, deve essere in grado di scomporre questo immaginario idolo centrale in tante parti diffuse nel cervello, nessuna delle quali può essere autonomamente un soggetto. Per di più, proprio perché noi siamo macchine costruite dalla natura in tempi immemorabili, e la nostra coscienza deriva dalla complessità di questa macchina corporea, la domanda «che cosa succede dopo la morte?», secondo Dennett, è una pura assurdità.
L’assenza di qualcos’altro in noi, rispetto al nostro organismo, comporta anche la conseguenza che vada respinta, come una chimera, la possibilità che possa esistere una sorta di zombie, un essere con un comportamento umano, ma senza coscienza. Non solo qualsiasi androide sufficientemente complesso fabbricato dall’uomo avrebbe una coscienza, ma noi stessi siamo una sorta di robot molto complicati, anzi una colonia di trilioni di robot (le nostre cellule), i cui interscambi hanno fatto emergere gradualmente barlumi di coscienza, fino a quella che abbiamo oggi.
Il dibattito sull’evoluzione della coscienza trova le sue radici fin dal dissidio tra i fondatori della teoria dell’evoluzione, Charles Darwin e Alfred R. Wallace. Il secondo si allontanò dal primo proprio per seguire un’idea spiritualista sull’origine delle facoltà mentali. Non ci sono dubbi che Daniel Dennett, con la sua teoria naturalistica della coscienza, esprima invece il darwinismo nella sua versione più completa.

La Stampa TuttoScienze 26.10.11
Il gene delle nostre parole
A un decennio dalla scoperta Foxp2 regala nuove sorprese
di Gabriele Beccaria


Si dice che le parole non lasciano fossili. In realtà non è proprio così. I fossili esistono, ma bisogna scovarli e interpretarli. All’interno di noi, nella fabbrica biologica del nostro essere: il Dna.
Sono 10 anni che la traccia è stata identificata, ma adesso il lavoro di analisi su quella esile traccia sta snocciolando risultati a catena. E così si comincia a capire qualcosa di più sul perché non stiamo mai zitti e siamo diventati la specie che si identifica con le proprie infinite invenzioni verbali.
La storia ha origine nel 2001, quando si scopre un’intera famiglia della periferia londinese con problemi di articolazione dei suoni. L’aspetto che all’epoca sorprese di più i neurologi era che l’intelligenza non c’entrava. Le capacità intellettuali dei genitori e dei quattro figli risultavano normali. Il loro problema era la pronuncia delle parole e, a volte, la capacità di capirle correttamente. Solo dopo una laboriosa ricerca emerse una nonna con una piccola, eppure decisiva, mutazione in un gene, chiamato Foxp2: era quel pezzo di Dna l’indizio fossile che nascondeva la chiave dell’enigma.
La storia, ora, continua con un duplice colpo di scena. Frederique Liegeois, neuroscienziata cognitiva allo University College di Londra, ha sottoposto la famiglia nota agli studiosi con la sigla «Ke» alle analisi con l’fMRI, la tecnica di risonanza magnetica funzionale che visualizza in diretta il funzionamento del cervello: quando le «cavie» dovevano scandire una serie di termini particolarmente difficili, non si osservava l’«accelerazione» standard dell’attività dei gangli basali, l’area responsabile dei veloci movimenti muscolari e facciali che rendono possibili le acrobazie linguistiche.
Contemporaneamente, un team di Oxford non ha mai smesso di studiare il «fossile». Prima si è reso conto che il gene è tutt’altro che raro: esiste da 300 milioni di anni e tutti i vertebrati terrestri lo condividono. Poi ha osservato che nell’uomo Foxp2 si è come imbizzarrito e che due aminoacidi nella proteina prodotta dal gene sono cambiati in appena pochi milioni di anni. Nessun’altra specie presenta questa stranezza, anche se le alterazioni nelle regioni dei cromosomi possono avvenire più spesso di quanto si pensasse. Negli uccelli canori, per esempio, provoca problemi di apprendimento delle note e condanna le vittime all’isolamento sociale.
Gli studi sono proseguiti e sulla rivista «PloS Genetics» ha debuttato l’ennesima (e non l’ultima) sorpresa: Foxp2 regola il «wiring» - vale a dire le connessioni - di molti neuroni. Indagando il tessuto embrionale del cervello, Sonja Vernes e Simon Fisher hanno visto che la proteina codificata agisce come un interruttore globale. E’ il direttore d’orchestra di decine di altri geni, ciascuno responsabile dell’accensione e dello spegnimento delle reti con cui comunicano le cellule del cervello. Alla fine emerge uno scenario complesso, di reciproci legami e labirintiche ridondanze, che sembra essere il «grande facilitatore» del linguaggio. Le sinapsi e i canali che si creano nell’essere umano non vengono replicati dagli altri mammiferi e i test con i topolini ingegnerizzati in laboratorio hanno confermato questa eccezionalità.
La nuova ipotesi, a questo punto, è che Foxp2 dev’essere comparso come un regolatore dell’apprendimento dei movimenti corporei. Solo in un secondo tempo avrebbe «imparato» a regolare la crescita neuronale. E, finalmente, in una fase successiva si sarebbe incaricato di generare un sofisticato mix, in cui le competenze muscolari e le abilità cognitive si sarebbero strettamente legate, dando così voce al linguaggio. Il gene - con ogni probabilità - è solo la punta dell’iceberg. Il decennale delle sue avventure scientifiche è l’inizio di una storia che si annuncia lunghissima.

La Stampa TuttoScienze 26.10.11
Neutrini più veloci della luce? Allora l’Universo non ha senso
Il “ko” dei fisici: “Violato il principio di conservazione dell’energia”
di Barbara Gallavotti


Alcuni fisici sperimentali sospettano che le misure registrate dal test «Opera» siano legate a specifiche anomalie nei «pacchetti» delle particelle
I laboratori Il Gran Sasso e in basso il Cern di Ginevra: i due centri sono protagonisti del clamoroso esperimento in cui i fasci di neutrini sembrano smentire Einstein

Comunque vada, questi neutrini più veloci della luce finiranno con il causare un mal di pancia a qualcuno. Ai loro scopritori, se si riveleranno banalmente lenti. E, in caso contrario, al fisico teorico e divulgatore Jim Al-Khalili, che si è detto pronto a mangiarsi i pantaloncini, se i risultati verranno confermati. Per non parlare dei bruciori che causerebbero al notissimo fisico italiano che ha giurato, in caso, di divorare una scarpa. A scatenare simili perverse fantasie culinarie non è un evidente errore fatto dall'esperimento «Opera» (quello che ha consentito di misurare la velocità dei neutrini dal Cern di Ginevra al Gran Sasso), perché dopo oltre un mese di attacchi serrati la sua analisi continua a resistere ai molti tentativi di farla crollare.
Piuttosto, lo scetticismo è causato dal fatto che neppure il più fantasioso fisico teorico sembra essere in grado di conciliare l'esistenza dei neutrini superveloci con alcuni principi basilari e apparentemente irrinunciabili. E questo a dispetto di discussioni e incontri riservati nei quali le menti migliori del pianeta hanno concesso ogni libertà alla loro immaginazione.
Un colpo di mannaia a chi vorrebbe assistere a una epocale rivoluzione scientifica è stato dato dal Premio Nobel Sheldon Lee Glashow e da Andrew Cohen. Secondo i due fisici, se i neutrini andassero davvero più veloci della luce, allora lungo il tragitto dovrebbero perdere energia, emettendo un elettrone e un positrone (il positrone è una particella identica all' elettrone ma di carica opposta). Quindi, al Gran Sasso, dovrebbero arrivare neutrini con un’energia inferiore rispetto a quella posseduta al momento della partenza. Purtroppo, però, i dati di «Opera» non mostrano nessun indizio di un fenomeno del genere e niente risulta neppure dalle recenti osservazioni dell'esperimento «Icarus», un altro dei giganti a caccia di neutrini allestito ai Laboratori del Gran Sasso, a breve distanza da «Opera». D'altro canto, immaginare neutrini che viaggino più veloci della luce senza perdere energia significa, secondo Glashow e Cohen, contraddire il principio cardine della conservazione dell'energia e trovarsi di fatto in un universo sconosciuto e beffardo, nel quale non vale più nessuna delle regole alle quali pensavamo che ubbidisse.
I teorici, insomma, si dibattono, oscillando tra la tentazione di immaginare l'inimmaginabile e il sospetto che sia meglio non sprecare tempo a spiegare un risultato che verrà smentito.
Gli sperimentali, dal canto loro, continuano la caccia all'errore e la svolta potrebbe arrivare prestissimo. Fra le obiezioni all'esperimento c'è quella secondo cui i neutrini sembrerebbero arrivare prima semplicemente perché è prima che alcuni di essi partirebbero. Infatti, possono essere immaginati come passeggeri di un lunghissimo treno, i quali a un certo punto scendono dal loro vagone e cominciano a correre verso il Gran Sasso: i ricercatori assumono che i passeggeri siano in numero uguale in ogni vagone, ma, se fossero concentrati in testa, arriverebbero mediamente prima del previsto, perché a molti sarebbe risparmiato di percorrere la lunghezza del convoglio. Per rispondere a questa obiezione già dalla prossima settimana il Cern modificherà l'invio dei neutrini verso l'Italia, realizzando «pacchetti» più concentrati e distanziati (di fatto, «treni» con un unico vagone). Ad attendere le particelle nelle viscere del Gran Sasso non ci sarà più solo «Opera», ma un vero e proprio schieramento di esperimenti, che, oltre a «Icarus», comprende anche «Borexino» e forse «LVD» («Large Volume Detector»).
Oltreoceano, i ricercatori del Fermilab di Chicago dovranno invece riesaminare i dati di «Minos»: un esperimento situato nel cuore di una miniera che già da tempo aveva misurato una velocità dei neutrini apparentemente anomala, seppure con un margine di errore tale da permettere ancora di pensare che non superasse quella della luce. Ora i fisici sottoporranno quel risultato a un’analisi accurata, correggendo eventuali errori sistematici di misura così da renderlo più preciso e in modo da capire se l'osservazione di «Opera» ha o meno una conferma che la renderebbe molto più forte.
Tutti gli sforzi, insomma, sono concentrati per rimettere al loro posto le dispettose particelle, ma, se proprio non ci si riuscisse, allora non resterebbe che rassegnarsi all' idea di abitare in un Universo ancora tutto da capire.

La Stampa TuttoScienze 26.10.11
Il centro dei ragazzi prodigio
Biologia. Si chiama European Molecular Biology Laboratory ed è uno dei cuori europei della ricerca avanzata Età media 37 anni e turn-over veloce: “Solo così si arruolano cervelli freschi e si possono elaborare nuove idee”
di Ugo Finardi


Si chiama EMBL, European Molecular Biology Laboratory, ed è nato nel 1974 per l'iniziativa di 10 Paesi europei - tra cui l'Italia - ai quali altri 10 si sono aggiunti fino ad oggi. Com’è facile immaginare lo scopo di questa fondazione è la creazione di un centro di ricerca di livello mondiale per gli studi di biologia molecolare. Risultato raggiunto: l'EMBL è tra i primi cinque istituti al mondo (e il primo europeo) per qualità della produzione scientifica.
Anche la presenza di scienziati di fama è significativa. Se il primo direttore fu l'inglese Sir John Kendrew, Premio Nobel per la Chimica nel 1962 (assieme all'austriaco-britannico Max Perutz) per gli studi sulla struttura delle proteine con la diffrattometria a raggi X, l’EMBL vanta altri due Nobel (per la Medicina): sono Christine Nüsslein-Volhard ed Eric Wieschaus, che hanno ottenuto il riconoscimento con l’americano Edward B. Lewis per le scoperte sul controllo genetico delle fasi precoci dello sviluppo embrionale.
Per costituire il centro è stato utilizzato lo stesso modello del più celebre CERN di Ginevra e la sede principale si trova a Heidelberg, nel Land tedesco del BadenWürttemberg. Esistono però diverse altre sedi, ciascuna con una propria specificità. Ad Amburgo e a Grenoble si trovano due sezioni di biologia strutturale, collegate ai laboratori dei due sincrotroni DESY ed ESRF, mentre a Hinxton, in Gran Bretagna, c’è l’Istituto Europeo di Bioinformatica EBI e a Monterotondo, nel Lazio, nel campus del CNR, è sorta una sezione impegnata negli studi sulla biologia e sulle mutazioni genetiche del topo.
Per chi visita il campus di Heidelberg una delle prime realtà a colpire è la presenza di giovani. L'età media molto bassa - 37 anni, comprendendo tutto lo staff fino al direttore - è frutto di una specifica politica di reclutamento ed è uno dei cardini dell'altissimo livello raggiunto. Gli scienziati, infatti, qualunque sia l'età d’ingresso, possono rimanere all’EMBL per un massimo di nove anni. Questo assicura un «turnover» continuo e il continuo ingresso di cervelli e idee nuove, di conoscenze all'avanguardia e di persone motivate. La maggior parte del personale arriva qui dopo laurea e dottorato di ricerca e, quasi sempre, dopo un’ulteriore esperienza di lavoro post-dottorato. Di conseguenza gran parte delle «new entry» è già capace di indipendenza operativa. Non sono pochi, però, i neolaureati che conseguono il dottorato all'EMBL.
Anche la provenienza geografica è significativa: dei quasi 1400 studiosi presenti nell'istituto un migliaio (tra cui 100 italiani) provengono dagli Stati membri, mentre i rimanenti (quasi 400) sono «extracomunitari». Questa composizione estremamente varia nasce da una politica di continuo «brain harvesting» (letteralmente «mietitura di cervelli»), che consente di portare a Heidelberg ricercatori di punta da tutto il mondo, creando poi un ambiente internazionale che motiva ulteriormente la ricerca. Ma si farebbe torto all'EMBL se non si ricordasse che nell'ente viene data molta importanza al controllo di qualità: la valutazione ex-post dei risultati è un esercizio che viene messo in pratica con continuità, permettendo di avere sempre il polso della situazione.
La ricerca non è però l'unica «mission». Ci sono infatti altre attività, che vanno dalla formazione di alto livello allo sviluppo tecnologico nel campo delle strumentazioni, fino alla brevettazione delle scoperte che possono presentare possibili ricadute commerciali. A questo scopo è stata creata una società specifica: così si apre la possibilità di finanziare ulteriori attività di ricerca grazie ai fondi ricavati dalla vendita dei diritti di sfruttamento. Non è un caso, quindi, che molti scienziati dell'EMBL riescano a creare piccole imprese ad alto contenuto scientifico-tecnologico, le «spin-off».

L'Osservatore Romano 26.10.11
Due occasioni per rileggere René Girard
La vera perla di casa Freud
Il sangue versato  e le geometrie del desiderio
di Oddone Camerana


Alla ragguardevole età di ottantotto anni il critico letterario e antropologo delle religioni René Girard continua a essere presente sulla scena degli studi consacrati alla sua specialità. Due i titoli usciti in questo 2011 che sta per finire. Il primo tradotto in italiano Violenza e religione. Causa o effetto? (Milano, Raffaello Cortina, 2011, pagine 85, euro 11), il secondo in francese Géométries du desir (Parigi, L'Herne, 2011, pagine 218, euro 9,50). Entrambi dedicati alla ripresa di articoli, conversazioni o atti di convegni accademici, testi ai quali il comune lettore avrebbe avuto accesso difficile.
L'occasione è invece preziosa e da non lasciarsi sfuggire in quanto dà modo di verificare l'attualità e la tenuta della stupefacente teoria mimetica di Girard applicata alle religioni arcaiche, al mito, nonché alla religione cristiana.
Occasione offerta non solo a chi conosce già le opere fondamentali dello studioso francese pubblicate in Italia da Adelphi, La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, ma anche a chi, stimolato dalla lettura delle recenti novità, abbia voglia poi di approfondirne il contenuto.
Vero è che in queste ultime le linee del pensiero girardiano sono esposte al completo ancorché in forma sintetica.
Si comincia dalla teoria dei rapporti interpersonali dominati dal desiderio messo in moto da quello altrui - teoria elaborata rileggendo i romanzi classici europei e riverificata sui testi dell'Antico e del Nuovo Testamento.
Si passa poi alla messa in luce della comunità i cui protagonisti della lite diventano folla compatta grazie al trasferimento su un presunto responsabile della colpa del contagio che li avrebbe distrutti. È il momento del meccanismo vittimario e della divinizzazione del presunto colpevole, momento e meccanismi che, premiati dal ritorno miracoloso all'ordine e alla pace, richiedono di venir ripetuti se non altro in via preventiva dando così vita al mito e al rito sacrificale.
Si tenga presente che la violenza di cui si parla non è quella selvaggia e rivalitaria, ma quella che, in grado di fermare quest'ultima, viene detta di "contenimento" o fondatrice o rituale o meglio ancora sacra. Ma sempre violenza è, ancorché regolata da divieti e fatta rispettare dalle istituzioni. Di qui il formarsi delle religioni arcaiche dalle quali i testi biblici e i Vangeli si distinguono in quanto oggetto della lenta e progressiva emersione dell'innocenza della vittima fino alla sua completa rivelazione, assente nel paganesimo.
In proposito, la conversazione che vede René Girard nella simultanea e inusuale veste del critico letterario e dell'antropologo è importante, in quanto mette a confronto miti e testi profetici da un lato e Vangeli e islam dall'altro, entrambi nella prospettiva del lettore o dello spettatore.
In questa luce si spiega perché, condizionato dall'estetica classicista, il gusto contemporaneo preferisce la vicenda di re Edipo alle pagine dei profeti biblici. La storia del monarca di Tebe raccoglie più consensi perché il protagonista che viene punito soddisfa il bisogno di catarsi.
Non altrettanto i salmi dai quali il lettore scorgendo "la pelliccia insanguinata della vittima" si ritrae. Lo stesso dicasi per quanto riguarda i Vangeli e il Corano.
La differenza tra cristianesimo, il cui Dio accetta di morire per salvare, e l'islam che "esclude che Dio possa accettare di soffrire" è evidente.
La centralità del tema della violenza non smette di occupare molte delle pagine in cui Girard risale alla violenza fondatrice.
Il riferimento va a quella che si annida surrettizia nelle istituzioni - esercito, polizia, carceri, sistemi giudiziari - gettando un'ombra inquietante sulla delega ad agire per conto di un potere superiore, delega e legittimazione i cui nodi i difensori della legalità e i non-violenti tentano di sbrogliare. Per quanto l'impianto giuridico fondato sulla colpa presunta della vittima sia stato smantellato dalla rivelazione cristiana, quell'impianto striscia sul fondo e continua a farsi sentire.
Sarà per questo che, spaventato dalla potenza del Crocifisso su Dioniso, Nietzsche ha brandito il presunto risentimento cristiano per invocare il ripristino della purificazione pagana.
È sulla base di questa interpretazione sul permanere di forme sacrali che René Girard ha potuto vedere i pericoli successivi degli abusi che vanno sotto il nome della difesa demagogica della vittima, forme di accaparramento della pietà, di compassione obbligatoria praticata dai professionisti dell'indignazione, l'arte di creare nuove vittime fingendo di andare in loro soccorso.
Stando così le cose, il pericolo che corre l'uomo contemporaneo sembra essere il seguente: privato della rete sacrificale dei riti e dei divieti imposti dalle religioni arcaiche e esitante a cogliere la totalità del messaggio contenuto nella rivelazione di Cristo, che spiega chiaramente come dare la colpa al prossimo non salvi, egli rischia di dimenticare di non avere altra via di uscita che quella dettata dall'amore fraterno.

il Riformista 26.10.11
Un mese di teatro su Radio 3
ascoltando il contemporaneo
di La. Lan.

qui

Corriere della Sera 26.10.11
Eresia e fuga di cervelli Paolini ridà voce a Galileo
di Emilia Costantini


ROMA — Galileo? Un personaggio vitalissimo, uno straordinario uomo di scienza, «ma anche pieno di contraddizioni: di errori ne ha fatti tanti, ha preso molte cantonate e nella vita privata era un disastro!». Parola di Marco Paolini. Affabulatore torrenziale e inarrestabile, l'attore ha aperto la stagione del Teatro Stabile di Roma, (al Teatro Argentina fino a domenica), con «ITIS Galileo», spettacolo scritto con Francesco Niccolini, grazie alla consulenza scientifica di Stefano Gattei e a quella storica di Giovanni De Martis.
Parabola semiseria sullo scienziato di Pisa, dissertazione ampia e approfondita su splendori e miserie di un protagonista davvero speciale della nostra storia. Insomma, la irresistibile ascesa di un «astro», è proprio il caso di dire, che dopo gli onori conoscerà gli orrori del carcere e l'umiliazione dell'abiura, morendo poi vecchio e cieco agli «arresti domiciliari» (dice sempre Paolini) nella sua villa vicino a Firenze.
La sigla riportata nel titolo, ITIS (ovvero istituto tecnico industriale) rimanda al mondo della scuola, perché l'intento didattico-pedagogico, come sempre nell'attore bellunese, prevarica persino lo sforzo drammaturgico e lo scopo artistico. Una lezione di «impegno civile» anche questa, come quelle cui ci ha abituato sin dai tempi di «Vajont», dove il palcoscenico rigorosamente spoglio si trasforma ben presto in luogo di analisi di un fenomeno, che viene sviscerato, scandagliato e quindi consegnato alla riflessione del pubblico. Il pretesto stavolta è l'avventura umana e intellettuale del padre della scienza moderna, ma il fine è quello di condurre un ragionamento irriverente e caustico sui rapporti tra fede, ragione e superstizione. Perché Galileo, «che usa il pensiero», nell'epoca oscura in cui visse era una «mina vagante»: unico elemento simbolico che compare in palcoscenico, sospesa in alto come un pendolo.
Paolini ripercorre l'intero tragitto esistenziale di Galileo, prendendo spunto dal celebre «Dialogo sui due massimi sistemi del mondo», e fioccano le battute sagaci: «Ma perché, dopo la rivoluzione copernicana, la mattina noi apriamo il giornale e continuiamo a leggere l'oroscopo delle stelle fisse di Tolomeo?». E ancora: «Galileo non si è mai laureato in matematica... ed è stato il più giovane precario assunto in una università». «Quando dall'università di Pisa si trasferì a quella di Padova, dove gli era stata offerta una prestigiosa cattedra, fu il primo esempio di fuga di cervelli all'estero... sì, perché all'epoca, andare da Pisa a Padova era come emigrare in un'altra nazione!».
Poi Paolini scantona nella sfera privata, quella dell'uomo Galileo: la relazione con Marina Gamba, donna da cui ebbe tre figli («... nati dalla fornicazione»), le beghe, il disbrigo degli affari domestici... «e anche le grettezze», sottolinea sornione l'affabulatore che, pur riconoscendo la «simpatia» dello scienziato, non gli risparmia critiche e giudizi taglienti. Ma la parte più spassosa dello spettacolo arriva quando vengono i nodi al pettine con la Chiesa. Qui Paolini usa un vocabolario («il Vaticano avvia un dossieraggio su Galileo») e dei riferimenti a personaggi di oggi, che divertono la platea: «Ve l'immaginate voi l'incontro di papa Urbano VIII e Galileo? È come pensare a un dialogo tra papa Ratzinger e Margherita Hack!». Alla fine il tribunale dell'Inquisizione e l'accusa di eresia: «Viene convocato a Roma, ma lui è già vecchio e malato. Vorrebbe mandare un certificato medico, ma il ministro Brunetta minaccia la visita del medico fiscale... Galileo si rassegna e, per paura di far la fine di Giordano Bruno, abiura: "Sono stato frainteso... è colpa della solita stampa!"».