domenica 30 ottobre 2011

l’Unità 30.10.11
Il sondaggio
Il Pd primo partito tiene il Pdl a distanza ma cresce la sfiducia
Centrosinistra avanti di 11 punti rispetto alla coalizione di governo. L’area
del Terzo polo stabile tra l’11 e il 13%. La crisi economica fa sentire i suoi effetti
di Carlo Buttaroni


Pd primo partito, centrosinistra in vantaggio di 11 punti sulla coalizione di Governo e consolidamento di un’area terzo-polista che, secondo la rilevazione, negli ultimi mesi si colloca stabilmente tra l’11% e il 13%.Sono questi i dati più rilevanti dell’indagine Tecné sulla situazione politica e sui flussi di voto.
La crisi economica, quindi, fa sentire i suoi effetti. La ricerca evidenzia, infatti, una diminuzione costante di consensi al partito del Presidente del Consiglio (-4,5% rispetto ad aprile 2010 e -12,4% rispetto alle politiche 2008) e all’alleanza formata da PDL, Lega nord e Destra (-7,5% rispetto ad aprile e -13,6% rispetto alle politiche). Il sorpasso del centrosinistra è iniziato poco prima dell’estate alimentandosi anche della mobilitazione referendaria sull’acqua e sul nucleare ed è maturato negli ultimi mesi con l’inasprirsi della crisi finanziaria. Ad aprile le due principali coalizioni si trovavano in una situazione di sostanziale parità; a giugno il centrosinistra registra un vantaggio di quasi 4 punti, che diventano 8 a luglio e 11 tra settembre e ottobre.
Quanto la crisi finanziaria si avviti con la crisi politica lo evidenzia la diminuzione dell’area della partecipazione che passa dal 77,5% delle politiche, al 71,6% di aprile e al 66,6% di ottobre.
La crisi della coalizione di Governo è ancora più evidente se si analizza l’andamento del consenso, calcolato non solo tra chi esprime il voto ma su tutti gli aventi diritto.
Dal 37,3% delle politiche 2008, il centrodestra scende, infatti, al 30,1% di aprile e al 23,1% di ottobre.
Il flusso in uscita di consensi si orienta prevalentemente verso l’area del non voto e la Lega Nord non sembra in grado di attrarre gli elettori che abbandonano il partito di Berlusconi. Al contrario, nelle 10 rilevazioni prese in esame, il centrosinistra fa registrare una sostanziale stabilità di consensi (tra il 30% e il 33%).
Il vantaggio del centrosinistra non nasce soltanto dalla stabilità elettorale ma dalla capacità di compensare al suo interno i flussi di consenso in uscita dai singoli partiti. Nel complesso, infatti, la base elettorale del centrosinistra si sposta a sinistra a favore soprattutto di Sel e Idv e diminuisce il peso del Pd all’interno della coalizione: alle politiche del 2008, ogni 100 voti ottenuti dai partiti di centrosinistra, 80 provenivano da elettori del Pd, mentre a ottobre la quota scende a 60. Al contrario, il peso del Pdl, all’interno del centrodestra, non cambia di molto rispetto alle politiche: nel 2008 era pari al 78%, oggi è al 72%. Segno evidente che è l’intera coalizione di centrodestra a perdere consensi.
Dai dati emerge la corrispondenza tra crisi economica e comportamento elettorale: al crescere del disagio si registra una diminuzione della partecipazione elettorale e l’aumento del consenso ai partiti che sembrano interpretare meglio la protesta.
Più di ogni altra cosa l’indagine fotografa il passaggio politico che si sta consumando in questi mesi. Sotto la spinta della crisi sembra volgere al termine una stagione che ha visto come principale protagonista Silvio Berlusconi. Un distacco che matura nell’opinione pubblica dieci anni dopo il «patto con gli italiani», siglato nella trasmissione di Bruno Vespa, in cui si annunciava una rivoluzione infrastrutturale e un nuovo miracolo.
E forse è proprio aver portato così in alto le attese a segnare così fortemente il distacco. Dopo dieci anni le strade italiane sono ancora la metà di quelle tedesche e francesi. Anche gli italiani si scoprono più poveri, compresi quelli che lavorano. Lo stipendio medio di un dipendente colloca, oggi, l’Italia nella parte bassa della classifica europea e i lavoratori italiani, con meno di 15 mila euro l’anno, percepiscono un reddito netto pari al 56% di quello degli inglesi, al 71% di quello dei tedeschi, all’83% di quello dei francesi e all’88% di quello degli spagnoli.
Nonostante gli stipendi siano più bassi, il costo della vita è, invece, tra i più alti: fatta 100 la media dei Paesi della zona euro, l’Italia è a quota 104 e una giornata tipo fatta di colazione, spostamenti, spesa, telefonate, eccetera impegna l'84% dello stipendio. In Germania è circa la metà (43%), in Spagna è il 59%, in Francia il 61%, in Inghilterra il 59%. Senza calcolare i costi dell’abitazione. A dieci anni dal patto con gli italiani 8 dei quali al governo del Paese delle promesse di Berlusconi sono rimaste poche tracce.
Al contrario, il futuro si è fatto più minaccioso, la forbice delle iniquità si è aperta, sono aumentate le famiglie povere e le nuove generazioni hanno di fronte la prospettiva di una condizione che sarà sicuramente peggiore a quella dei loro genitori.

Corriere della Sera 30.10.11
Il Pdl recupera consensi. Effetto Grillo, Pd in calo
E quattro italiani su cinque bocciano l'innalzamento dell'età pensionabile
di Renato Mannheimer


Il governo si trova in una situazione molto complicata e pericolosa. Stretto tra le pressioni dell'Europa, che lo incita ad agire presto ed efficacemente, e tra le sempre più profonde divisioni interne (sia tra Pdl e Lega, sia all'interno dei due partiti della maggioranza) che, attraverso veti e controveti, gli impediscono spesso di agire. Ma, a fronte di queste forti difficoltà, l'esecutivo gode di un elemento che gioca a suo favore: anche le forze di opposizione sono travagliate da analoghi, se non talvolta più intensi, conflitti interni ciò che rende anche per loro assai complesso esercitare un'azione incisiva. Il centrosinistra — e lo stesso Pd — appare diviso anche su scelte e orientamenti fondamentali, quali, ad esempio, il giudizio sulle richieste contenute nella lettera inviata a suo tempo dalla Bce, l'opportunità di rendere più flessibili i contratti di lavoro o — è il caso più recente — la proposta di elevare l'età pensionabile.
Questo quadro di incertezza che caratterizza entrambi i poli si riflette nella distribuzione delle intenzioni di voto. Che vede nelle ultime settimane un rafforzamento relativo dell'area di centro — specie per ciò che concerne Fli — vista come possibile alternativa alla scelta diretta verso le due coalizioni maggiori. E mostra, al tempo stesso, un trend che per molti può costituire una sorpresa: un lieve incremento del seguito virtuale del Pdl e, contemporaneamente, una erosione del consenso al Pd. Quest'ultima può essere dovuta, come si è detto, all'effetto paralizzante dei conflitti interni — sul programma e sulla leadership — che finisce con il togliere credibilità allo stesso Bersani. Parte dei voti in uscita dal Pd sembrerebbero essersi diretti verso il Movimento di Grillo.
Viceversa, l'andamento (non sappiamo se temporaneo o meno) di parziale crescita del Pdl pare provenire da un parziale ripensamento dei molti che, nei mesi scorsi, avevano abbandonato l'opzione per il partito di Berlusconi per rifugiarsi tra gli indecisi: non a caso, in queste ultime settimane il numero di chi non si pronuncia sulla propria scelta di voto ha subito una contrazione.
Al di là di questi mutamenti parziali, però, il quadro complessivo delle intenzioni di voto resta sostanzialmente stabile e continua a vedere il centrosinistra superare — attualmente di 7 punti — il centrodestra. Ciò non significa, tuttavia, un'automatica prevalenza nel risultato elettorale, in quanto appaiono determinanti le scelte di alleanza dei partiti di centro, che possono, di fatto, determinare la vittoria dell'una o dell'altra coalizione. La maggioranza dei votanti per il terzo polo pare preferire tuttavia una collocazione autonoma.
Spesso indipendentemente o quasi dalle loro scelte di voto, tutti gli elettori chiedono al governo, seppure in forme diverse, di procedere celermente con iniziative concrete che favoriscano lo sviluppo del Paese e, al tempo stesso, contribuiscano a ridurre la spesa pubblica. Quali sono, nello specifico, queste richieste? Sono elencate nella tabella qui a fianco. Alcuni provvedimenti, come si è detto, risultano auspicati dalla quasi totalità della popolazione: ad esempio, ridurre il numero dei parlamentari, combattere più efficacemente l'evasione fiscale, incentivare le imprese che assumono e favorire la nascita di nuove attività. Anche l'idea di una qualche forma di tassa patrimoniale è vista con favore dalla maggioranza dei cittadini.
Viceversa, il provvedimento di cui più si è discusso in questi ultimi giorni, l'elevamento dell'età pensionabile, suscita diffuse perplessità. Solo l'8% degli italiani lo giudica «molto opportuno», mentre un altro 12% lo definisce «abbastanza opportuno». Nell'insieme, dunque, quattro italiani su cinque condannano questa prospettiva. La percentuale di contrari appare più elevata tra i votanti per i partiti di opposizione e per la Lega, ma è molto consistente anche all'interno della base elettorale del Pdl.
Un'altra difficoltà per l'esecutivo, che vede la contrarietà di una quota significativa dei suoi stessi sostenitori, proprio su uno dei provvedimenti simbolo della manovra progettata.

l’Unità 30.10.11
Dalla convention di Napoli il leader Pd manda un messaggio ai rottamatori: «Non scalciate»
«Bisogna mettersi a disposizione, non può esserci un ricambio senza rinnovamento di idee»
Bersani: siamo un collettivo basta divisioni giovani-vecchi
Il segretario dei Democratici inaugura “Finalmente Sud”, la scuola di politica dedicata agli under 35. E incoraggia gli oltre duemila giovani raccolti in platea: «Ci vogliono idee, metodi e protagonisti nuovi».
di Simone Collini


«Oggi avviamo un progetto che non ha precedenti nella storia della politica italiana», dice Pier Luigi Bersani arrivando a Napoli per inaugurare una scuola di formazione riservata a ragazzi under-35 delle regioni del Mezzogiorno che durerà un anno (attraverso appuntamenti come questo e soprattutto mediante la costruzione di una rete on-line) e che sarà poi estesa anche alle regioni del Nord. «Mi sembra una notizia no?», e sorride. «Ma se devo essere proprio sincero...». Il leader del Pd sa bene qual è l'attenzione mediatica riservata al Big Bang di Matteo Renzi e quale a questo appuntamento. Ma non si scandalizza, anzi ai duemila ragazzi che lo salutano con una standing ovation alla Mostra d'oltremare dice innanzitutto: «Stiamo facendo formazione alla politica, e allora la prima cosa da imparare è l'autonomia della politica. Rapporti amichevoli con la comunicazione, ma guai ad esserle subalterni. Anche perché il mestiere della politica non è il mestiere della comunicazione». Inevitabile, in una giornata come questa, andare col pensiero alla Leopolda. Anche perché Bersani dedica una parte dell'intervento con cui apre “Finalmente Sud!” alla questione del rinnovamento, insistendo però su un fatto: «La distinzione fra giovani e adulti è una stupidaggine di proporzioni cosmiche. Tocca ai giovani andare avanti, a chi sennò? Ma noi siamo un collettivo. Da soli non si salva il mondo. Non si può dar l'idea che un giovane per andare avanti deve scalciare, deve insultare».
RICAMBIO SENZA CAMBIAMENTO
Ma non è solo questo ciò che non convince Bersani, quando sente parlare della necessità, che pure riconosce, di rinnovare la classe dirigente del partito. Del resto se ha insistito, anche tra le perplessità di una parte dei vertici del Pd, per organizzare questa scuola di formazione è proprio perché giudica necessario «far girare la ruota». Lo dice a questi ragazzi che rappresentano i “ricostruttori d'Italia”, dal momento che «senza il Sud l'Italia non può farcela». Quello che però non piace a Bersani è assistere a movimenti che sembrano prefigurare un «ricambio senza cambiamento». E non è solo perché a muovere aspiranti rottamatori sembra più che altro lo slogan «vai via tu che arrivo io che sono più giovane». Dice il leader del Pd: «Serve un ricambio con cambiamento. Ci vogliono idee, metodi e protagonisti nuovi. Non una di queste cose senza le altre. Perché è inutile mettere il vino nuovo in otri vecchi. Non si possono contrabbandare per nuove idee degli anni 80. Abbiamo già dato». Un riferimento a chi pensa si possa rispondere alla crisi in atto riproponendo le ricette sul mercato del lavoro lanciate da Reagan, Thatcher e rilanciate in casa nostra da Craxi e soci. «Non possiamo riscoprire idee che ci hanno portato al disastro e venderle per cose nuove».
Davide Zoggia, seduto tra le prime file insieme ad altri membri della segreteria, dice che il messaggio di Bersani serve a ribadire «la necessità di un lavoro collettivo» e che non ci sono interpretazioni «legate a personalizzazioni»: «Sbaglia perciò chi, come Matteo Renzi, legge questo intervento come una critica nei suoi confronti. Bersani non ha nemmeno citato Renzi, ha chiamato la classe dirigente italiana ad un'assunzione di responsabilità e a lavorare insieme per la ricostruzione del Paese». Che poi è effettivamente il cuore del discorso che fa il leader del Pd di fronte ai duemila ragazzi arrivati a Napoli.
La ricostruzione per Bersani dovrà partire da una “riscossa civica” perché Berlusconi non è il solo responsabile, se ci troviamo in questa difficile situazione economica e sociale. «C'era chi sapeva. Perché le classi dirigenti italiane hanno taciuto? Io ho una teoria: che oltre all'ideologia berlusconiana c'è un egoismo di classe, per cui a lungo si è pensato che i piedi se li bagnassero solo quelli di terza classe. Quando si son bagnati i piedi anche loro hanno iniziato a dire che qualcosa non andava. Ma adesso basta, con l'egoismo sociale non si va da nessuna parte. Chi ha di più deve dare di più, altrimenti i piedi ve li bagnate pure voi. Senza equità il Paese non si salva».
Per ricostruire servirà però «tempo e lavoro». Per questo è necessaria una scuola di formazione come questa. Che Bersani dedica alle 72 vittime delle stragi di Oslo e di Utoya. Per ricordare quei ragazzi le autorità norvegesi dissero ai funerali che era stato attaccato quanto di meglio c'è in democrazia: i giovani impegnati in politica. Dice Bersani chiudendo l'intervento, prima che sul maxischermo partano le immagini di quel campeggio e di quei ragazzi sorridenti spazzati via dalla follia omicida: «Gli diremo che nel Sud dell'Europa la fiaccola è accesa e va avanti».

Corriere della Sera 30.10.11
Il giorno del Big Bang
Le primarie e i rischi di un nuovo «scisma»
A sinistra si riapre il vaso di Pandora
di Antonio Polito


E Big Bang fu. Il Pd sta davvero esplodendo. Dopo la settimana dei TQ (Trenta-Quarantenni)
e il documento dei T (Trentenni), è arrivato il sabato del Q (Quanto si odiano). Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani si sono ieri reciprocamente mandati a quel paese.
E, data la tenera età del sindaco rottamatore, non poteva che essere il paese dei balocchi, dove Bersani vorrebbe sbattere i giovani che «scalciano per farsi strada» e dove Renzi non vuole andare perché — parole sue — «io non sono un asino».
In attesa di accertare chi abbia ragione su questo delicato punto politico, bisogna spiegare perché scoppi una rissa di queste proporzioni nel partito che i sondaggi danno in testa, e per giunta nel pieno di un dramma nazionale ed europeo che dovrebbe consigliare al Pd modi più proficui di occupare il proprio tempo. La prima spiegazione è che la sinistra italiana non è mai così ebbra di litigi come quando sente aria di vittoria. E infatti ieri non solo Bersani s'è scagliato (ovviamente senza mai nominarlo) contro Renzi. Ma anche Vendola è accorso a dargli man forte, bollando il ragazzino molesto con il marchio infamante di «liberista». E de Magistris non ha mancato di prendere le distanze a sua volta, perché non sia mai che uno che «scassa» come lui si faccia scavalcare da uno che «rottama» soltanto. Può stare tranquillo Alessandro Baricco, che parlando al convegno di Firenze ha esortato la nuova sinistra a «non aver paura di perdere»: se ne avranno l'opportunità, non esiteranno.
Il fatto è — ed ecco la seconda spiegazione della furia dello scontro — che Renzi apre il vaso di Pandora delle ambizioni di tutti coloro che sognano di diventare il candidato premier del centrosinistra. Bersani si era accordato con Vendola per una piacevole gara a due, che il segretario del Pd contava di vincere senza spargimenti di sangue. Ma se Renzi apre le porte ad altre e magari numerose candidature di provenienza democratica, Bersani rischia seriamente di perdere le sue primarie a vantaggio di Vendola. Per questo il segretario sembra pensare a un qualche meccanismo di eliminatoria interna pre-primarie per evitare la ressa. Gioco pericoloso: rischiamo così di rivedere, con altri protagonisti, lo storico scisma di Veltroni che vince tra i militanti e D'Alema che lo scavalca nel voto dei dirigenti, origine di una rivalità infinita e letale per la sinistra italiana.
La kermesse di Firenze ha perciò ottenuto il suo obiettivo politico: costruire la candidatura di Renzi quasi in contrapposizione al Pd ufficiale, il cui simbolo non compariva nella sala ma che era evocato sotto forma di dinosauri disegnati alle pareti. Eppure non è sembrata in grado di segnare quel passaggio dalla provocazione alla proposta che Renzi aveva annunciato. Non sarà facile per lui oggi tirare fuori dal mare di parole ascoltate le cento proposte per l'Italia promesse. L'uomo si conferma un ottimo showman, no Renzi no party. Ma è chiamato a dare almeno qualche indizio del suo peso politico.
Un effetto però il giovane sindaco l'ha prodotto: da oggi Bersani non dovrà più preoccuparsi soltanto di non avere nemici a sinistra, finendo così per inseguirli annacquando un po' alla volta il suo passato riformista. Ora sa che ha anche un concorrente a destra. È un bene per il Pd. Ma forse è anche la condanna di Renzi, almeno finché gioca nel campo tradizionale degli elettori di sinistra, i quali non gli perdoneranno mai di aver preso un caffè con Berlusconi, per giunta a casa sua. D'altra parte, non sono sicuro che Tony Blair sarebbe mai diventato leader del Labour se ci fossero state le primarie.
Antonio Polito

Il leader Sel: con il sindaco di Firenze non si esce dal liberismo, con Bersani sensibilità comune
Le critiche dei centristi alle primarie di coalizione: «Il Pd superi l’alleanza di Vasto»
Vendola contro Renzi: «Sei tu il vecchio». Udc: pronti a correre soli

l’Unità 30.10.11
Se si vota, primarie
di coalizione a gennaio Pd, sceglie la Direzione
di S. C.


Bersani incassa la standing ovation che gli riservano i duemila ragazzi arrivati a Napoli da tutte le regioni meridionali e prepara la road map verso la candidatura alla premiership del centrosinistra. Innanzitutto i tempi: se si dovesse aprire la crisi di governo nei prossimi sessanta giorni e non ci fossero le condizioni politiche per dar vita a un governo di transizione, le primarie di coalizione si dovranno tenere a gennaio. Una data che mette d'accordo anche Vendola e Di Pietro. Dopodiché, le regole. Il leader del Pd, che ieri ha inaugurato la scuola di formazione che per un anno impegnerà duemila segretari di circolo, amministratori e rappresentanti di associazione under-35, non appena ha visto un fiorire di possibili candidature tra i suoi stessi compagni di partito, ha messo in chiaro che non intenderà mettersi “al riparo di una norma statutaria” (lo Statuto approvato ai tempi di Veltroni prevede che sia il segretario il candidato del partito alle primarie).
In concreto vuol dire che, senza apportare modifiche allo Statuto, Bersani chiederà al Pd, «che ha gli organismi e i mezzi per decidere in solidarietà e responsabilità», chi sarà il candidato del partito. Ancora più in concreto vuol dire che non appena si capirà che si va al voto anticipato in primavera, Bersani convocherà la Direzione, chiedendo che i duecento membri del parlamentino democratico decidano con una votazione chi sarà per il Pd a sfidare Vendola, Di Pietro ed eventuali altri candidati. E se Renzi, Chiamparino o altri contesteranno il fatto che quell'organismo rispecchia gli equilibri di maggioranza e minoranza interni al partito e che quindi il risultato sarà scontato, nello staff del segretario si fa notare fin d'ora che quegli equilibri sono stati determinati da primarie che ci sono state due anni fa, che Renzi ha sbagliato a fare il parallelo con Martine Aubry («i segretari possono perdere») e che Bersani al contrario della leader dei socialisti francesi, che non era stata scelta attraverso meccanismi di ampia partecipazione e che ora è stata sconfitta da François Hollande per la corsa all'Eliseo è stato eletto dopo una consultazione che ha coinvolto tre milioni di persone.
Renzi ha fiutato l'aria e già inizia a lanciare frecciate: «Tutti i giochini sulle primarie li lasciamo agli addetti ai lavori. Noi ragioniamo di cose che possono interessare e servire agli italiani, non agli schiacciatasti del Parlamento». Il sindaco di Firenze, se effettivamente alla fine valuterà di avere buone chance per potersela giocare, si candiderà alle primarie nonostante il Pd scelga un altro candidato. E se è praticamente impossibile che gli organismi dirigenti decidano di ricorrere a misure estreme come l'espulsione dal partito, sarebbe però complicato per Renzi partecipare alle primarie di coalizione. Le regole dovranno infatti deciderle insieme i vertici del Pd con quelli di Sel e Idv (di coinvolgere l'Udc in questa partita ancora ci sperano, i Democratici, ma è assai probabile che con i centristi si siglli successivamente un patto di legislatura). E né Vendola né Di Pietro si stanno mostrando troppo entusiasti all'idea di fare un pezzo di strada insieme al sindaco di Firenze. È anzi proprio dal governatore della Puglia che arrivano le parole più dure nei suoi confronti: «È il vecchio, con una cultura politica essenzialmente di destra».

Corriere della Sera 30.10.11
Il piano di Pier Luigi per le primarie. Un solo candidato scelto dal partito
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Il Big Bang c'è già stato, ma lo ha fatto Bersani»: non è l'amore per il paradosso che spinge Beppe Fioroni a parlare così. Il leader degli ex popolari del Pd è preoccupato: «Il segretario, annunciando una road map che prevede l'alleanza stretta con Di Pietro e Vendola, dà l'addio a ogni ipotesi di alleanza con il terzo polo. E dicendo che non deve essere necessariamente lui il candidato del Pd alla premiership del centrosinistra apre il cantiere della torre di Babele. Che succederà ora? Si candideranno Renzi, Civati, Bindi, e poi chissà chi altro? Un caos. Fermiamoci: non facciamoci del male. Il mio è un appello a tutti quelli che ci stanno facendo un pensierino: candidatevi se proprio vi scappa, ma evitiamo l'autolesionismo».
Fioroni è preoccupato sul serio: teme l'esplosione del suo partito, già abbondantemente diviso e lacerato. Ma la road map di Bersani non è solo quella che il segretario ha esposto pubblicamente in un'intervista al Messaggero, lasciando intendere che vi saranno più candidati del Pd alle primarie. Quello è stato un ballon d'essai per testare le reazioni del partito. E in questo senso la presa di posizione di Fioroni non lascia spazio ai dubbi. Il vero obiettivo del segretario, però, è un altro: disinnescare Renzi, senza far mostra di temerlo o di voler tarpare le ali alla dialettica interna o, peggio, al dibattito che si è aperto in seno all'elettorato non militante del centrosinistra.
L'idea di andare con più candidati del Pd alle primarie non passa nemmeno per l'anticamera del cervello di Bersani. Non è questo che ha in mente. Anzi. Quando il leader dei «Democrats» ha spiegato che non si attaccherà allo statuto, che non seguirà la regola secondo cui il candidato del partito alle primarie è automaticamente il segretario, Bersani non intendeva aprire le porte a tutti. La sua road map è un'altra. L'ha spiegata così ai fedelissimi: «Non penso assolutamente di andare a un voto dove da una parte ci sono Di Pietro e Vendola, e dall'altra dieci candidati nostri. Sarebbe un suicidio per il partito». Anche perché (ma questo Bersani non lo ha detto esplicitamente), dividendosi, si correrebbe il rischio di regalare la vittoria a Vendola. «Quello che io dico — è stato il ragionamento del segretario — è che sarà il Pd, con i suoi organismi dirigenti, a scegliere chi si presenterà alle primarie. Non mi faccio scudo dello statuto, ma mi presto al voto della Direzione e anche a quello dell'Assemblea Nazionale. Se decideranno che è meglio che non sia io il candidato, certo non ne farò una questione personale».
Insomma, il piano di Bersani è quello di delegare la scelta al partito. Il quale partito, è ovvio, sceglierà lui, visto che nell'apparato Renzi non ha grande influenza: viene sopportato nel migliore dei casi, quando non è odiato o temuto. Basterà questo a bloccare il sindaco di Firenze? Non è affatto detto. Anche Renzi ha una sua road map: dopo la Leopolda scriverà un altro libro, e andrà in giro per l'Italia a presentarlo. La sua sarà, di fatto, una campagna elettorale, anche se il primo cittadino del capoluogo toscano non ha ancora deciso se gli servirà per scendere in pista, o solo per rimanerci, aspettando di capire quale sarà l'evoluzione della situazione politica italiana.
Ma la domanda è questa: se Renzi dichiarerà pubblicamente che intende partecipare alla gara per la leadership, riuscirà Bersani a mantenere il suo piano e a evitare che si vada alle primarie, o l'onda d'urto di quell'iniziativa sarà tale da costringerlo a riscrivere il suo copione? Perché se Bersani non reggesse alla pressione si aprirebbero le cataratte: chi impedirebbe a Rosy Bindi di candidarsi? E chi fermerebbe Civati o Marino?
Nell'attesa, il partito si posiziona e si riposiziona. Le tante correnti, e i loro rivoli, si dividono in tre tronconi fondamentali. La «nuova destra» (la definizione, ovviamente è di comodo), dove c'è Renzi, ma ci sono anche i veltroniani e Gentiloni e Letta. Il loro leader futuribile e possibile è il sindaco di Firenze. La sinistra di stampo classico, di cui fanno parte i giovani turchi Fassina e Orfini. Il loro leader del futuro è Enrico Rossi. Poi c'è (poteva mancare in un partito che per due terzi è composto da ex pci?) quello che si potrebbe definire il centro berlingueriano, che media: sta a sinistra, ma sogna di diventare un partito socialdemocratico di stampo moderno. La particolarità è che a rappresentarlo non è, come sarebbe scontato, il segretario, ma Nicola Zingaretti. Già, il vero anti-Renzi è il presidente della Provincia di Roma.
Insomma, dire che la confusione è grande è un eufemismo. L'unica cosa certa sono le alleanze, almeno su questo si è raggiunto un punto fermo. Nel loro ultimo incontro Bersani e Casini si sono separati consensualmente e amichevolmente: se si andrà alle urne nel 2012 non ci sarà nessuna intesa elettorale con il terzo polo. Tornando al partito, è un quadro del Pd e per il Pd non certo confortante. Ma non è detto che le polemiche siano di nocumento al centrosinistra. Ne è convinto Paolo Gentiloni: «Grazie all'iniziativa di Renzi cominciamo finalmente a parlare di contenuti e a dividerci sulla politica. Non dobbiamo avere paura di questa contingenza, ma anzi dobbiamo prenderla come un'occasione».

il Fatto 30.10.11
Il Fondo monetario si prepara a salvare Italia e Spagna
Così anche la Cina potrà intervenire nella crisi europea
di Stefano Feltri


Per ora è solo un’indiscrezione, ma considerata molto credibile: il Fondo monetario internazionale sta discutendo con l’Unione europea di interventi straordinari per Italia e Spagna. Le ragioni sono evidenti: dopo l’accordo di mercoledì a Bruxelles tra i capi di Stato e di governo dell’Unione il Fondo salva Stati Efsf è stato potenziato da 440 a 1000 miliardi di euro. Ma si tratta di una forza teorica, fatta più di garanzie e di ingegneria finanziaria che di soldi reali. L’asta di titoli di Stato italiani di venerdì ha dimostrato che gli investitori non credono che l’Italia sia al sicuro: il Tesoro ha venduto i Btp a 10 anni al tasso record del 6,06 per cento, il più alto da quando c’è l’euro a proteggere i nostri conti.
Più di così, però, l’Europa non può fare. Di capitali in circolazione ce ne sono pochissimi, le banche europee dovranno trovare 106 miliardi, in teoria per proteggersi dal mancato rimborso di metà del debito greco, come deciso a Bruxelles, il pratica per far fronte a scossoni maggiori. Come una crisi dell’Italia, le cui banche infatti sono tra quelle che dovranno trovare più soldi, 14,7 miliardi di euro. E non sarà facile trovarli. Il capo dell’Efsf, Klaus Regling, è volato a Pechino a cercare di convincere i cinesi a investire nel salvataggio degli Stati europei, finanziando il fondo. Il governo della Repubblica popolare si è dimostrato freddo ma possibilista. Le notizie filtrate ieri da Washington sulla rete di salvataggio attorno a Spagna e Italia sembrano indicare quale sarà la soluzione: un aumento di capitale del Fondo monetario che oggi può contare su 383 miliardi di dollari (più altri 600 promessi ma non versati). Se si deciderà di rafforzare il Fmi per poi intervenire in Europa, magari direttamente nel fondo Efsf salva Stati la Cina potrebbe raggiungere due obiettivi: impiegare parte delle sue riserve che accumula esportando e aumentare il proprio peso dentro un’istituzione un tempo simbolo del Washington consensus, il predominio economico americano sulla globalizzazione. Anche il Portogallo, stando ad altre indiscrezioni riportate dalla Reuters, anche il Portogallo (già beneficiario dei programmi dell’Efsf) avrebbe chiesto agli Stati Uniti di intervenire direttamente in Europa, si immagina sempre con il Fmi. Se ne discuterà nei dettagli al vertice del G20 di Cannes, la prossima settimana, forse davvero l’ultima possibilità di trovare un metodo globale per affrontare la crisi del debito prima che uno dei focolai più pericolosi deflagri.
E l’Italia cosa può fare? Più passano i giorni, meno le promesse del governo Berlusconi nella lettera al consiglio europeo vengono considerate credibili. L’Economist parla di “due italiani”: “uno potrebbe condannare l’euro [Berlusconi], l’altro salvarlo [Draghi]”. Il Financial Times dice in prima pagina che “L’Italia rovina il clima dopo l’accordo europeo”, alludendo alla pessima asta dei Btp. Il ministro delle Finanze tedesco, il durissimo Wolfang Schaeuble in un’intervista avverte che se l’Italia non si muove in fretta saranno i mercati a punirla. Ma i giorni scorrono e di azioni concrete del governo non c’è traccia. Confcommercio, in uno studio, indica da dove si potrebbe cominciare: la politica cosa ogni anno 9 miliardi, 350 euro a famiglia, 150 a persona. Basterebbe tagliare di un terzo questa voce di bilancio per poter ridurre di quasi un punto percentuale l’Irpef e far ripartire la crescita. Ma una promessa del genere è troppo perfino per Berlusconi.

Corriere della Sera 30.10.11
Il Fondo salvataggi alla Cina «Pronti a lavorare in yuan»
di Gabriele Dossena


A ruoli capovolti, con le parti che si invertono. L'euro, da moneta di riserva globale, adesso spalanca le porte a ogni tipo di valuta, per far fronte alla crisi del debito. Così Klaus Regling, numero uno del Fondo europeo di stabilità finanziaria (l'Efsf), è volato a Pechino, all'indomani dell'accordo raggiunto dai leader europei per tentare di superare le difficoltà della zona euro, con un chiaro — e dichiarato — obiettivo: «Ascoltare potenziali investitori». Precisando, sempre dalla Cina, che il Fondo salva Stati europeo può emettere debito in qualsiasi moneta, e se emetterà bond in yuan dipenderà solo da Pechino. Per inciso, secondo fonti cinesi, Pechino potrebbe iniettare tra 50 e 100 miliardi di dollari nel Fondo salva Stati. Forza dei tempi. Che stravolgono la filosofia e le ambizioni scritte nell'atto di nascita della moneta unica.

REPRINT:
The Economist 29.10.11
Special report: Italy
Oh for a new risorgimento
Italy needs to stop blaming the dead for its troubles and get on with life
says John Prideaux

qui

The Economist 29.10.11
The euro-zone crisis
China to the rescue?

qui


La Stampa 30.10.11
Deng, lo strano comunista che ha cambiato il mondo
Una biografia del leader cinese: feroce nelle repressioni, visionario nelle riforme
di Gianni Riotta


Il padre delle riforme Un manifesto gigantesco a Pechino ricorda ai passanti il ruolo di Deng Xiaoping, che dopo la morte di Mao ha cambiato la Cina
Il professore di Harvard Ezra Vogel è nato nell’Ohio nel 1930. Uno dei maggiori esperti in Cina e Giappone, insegna ad Harvard dal 1964. Dal 2000 si è dedicato a scrivere la biografia di Deng
Quale leader del XX secolo ha, a vostro giudizio, migliorato la vita del maggior numero di esseri umani? E quale leader ha più a lungo mutato le sorti del mondo? Il presidente Roosevelt, che batte la crisi del 1929 e Hitler, il pacifista dell’indipendenza indiana Gandhi, Mandela, il reverendo King, Watson&Crick del Dna, Jobs del computer, i pionieri di femminismo ed ecologia, Wolf e Bateson?
Nelle 876 pagine della sua biografia «Deng Xiaoping and the transformation of China» il professor dell’università di Harvard Ezra Vogel propone il leader della nuova Cina come campione del Novecento. Centinaia di milioni di cinesi devono a Deng il passaggio, in una generazione, dalla fame, la miseria e la fatica dei campi al benessere, la ricchezza, standard di vita occidentali. Se il XXI secolo è già definito - forse con un pizzico di fretta patriottica - dallo studioso di Singapore Kishore Mahbubani «Secolo asiatico», il merito è di Deng, che muta la Cina della ciotola di riso al giorno nel gigante economico, diplomatico e militare profetizzato da Napoleone: «Quando la Cina si sveglierà, scuoterà il mondo».
Mao chiamava Deng «Ago in un batuffolo di cotone», il soprannome dei compagni nel Partito comunista cinese era più grigio, «Fabbrica d’acciaio». Per tutta la vita diede poca confidenza, non strinse amicizie profonde, si tenne chiuso dentro il cuore e l’anima. Vogel, 81 anni, riesce a raccogliere pochi aneddoti sui 92 anni del leader cinese, riservato e schivo, tipico quadro comunista, senza archivio di carte, appunti, diari. Nato al tramonto della Dinastia Qing, fuma e beve, adora il pane e i formaggi (gusti acquisiti a 16 anni, emigrato in Francia dove si converte al comunismo con il futuro primo ministro Zhou en Lai), gioca a bridge e userà fino all’ultimo le sputacchiere care ai cinesi della sua generazione. Niente università, solo un anno alla Scuola di partito a Mosca. Non si apre neppure in famiglia, la prima moglie muore giovane, la seconda lo lascia, la terza, Zhuo Lin, gli dà tre figlie e due figli. A uno di loro, Deng Pufang, le Guardie Rosse, durante la Rivoluzione Culturale, spezzano la schiena buttandolo dal quarto piano: resta paraplegico.
Per tutta la vita la sua sola ossessione è sviluppare la Cina, creare le fabbriche, le scuole, le strade, i palazzi, la vita che ha visto brillare a Parigi e che nella fame, le guerre, le persecuzioni dell’antico impero sembra perduta. Lavora con metodo e, non appena la morte di Mao apre alle caute riforme di Hua Guofeng, per vent’anni guida i cinesi al futuro, ammonendoli «Arricchitevi!». Non ha gli slogan di Mao, Rivoluzione culturale, Grande Balzo in Avanti, tutti finiti in tragedia. Deng accetta e scarta le idee con pragmatismo da «Fabbrica d’acciaio», quel che funziona si usa, quello che non funziona si rottama. I risultati sono formidabili: «In Occidente nessuno, nel 1978, immaginava che il Partito comunista cinese potesse guidare la nazione a una crescita economica più rapida dei Paesi capitalistici. Neanche gli studiosi ne avevano la più pallida idea», riconosce Vogel.
Il paradosso della Cina di Deng, gigante economico che usa gli strumenti del mercato in uno Stato comunista a partito unico, azzera ogni ideologia del ‘900, liberale o socialista, e vale qui la risposta di Vogel alla domanda «Quale leader ha migliorato la vita di più persone nel secolo?»: Deng Xiaoping.
Dove invece gli storici delle prossime generazioni dibatteranno è sulle contraddizioni di Deng, prima del famoso viaggio in America del 1979, quando il minuscolo leader cinese si cala sulle orecchie da Topo Gigio il cappellone Stetson dei cow-boy e saluta come a un rodeo. Perché dei massacri del maoismo Deng è corresponsabile, fin dall’epica Lunga Marcia che salva l’esercito popolare nel ‘34. Durante la riforma agraria 1949-1951
Deng epura i piccoli agricoltori, la classe di suo padre, e riceve l’elogio macabro di Mao «Hai avuto successo, ne hai liquidati un bel po’…». Vogel stima le vittime fra i due e i tre milioni. Altrettanto brutale il padre della nuova Cina è nel capeggiare la «Campagna contro la Destra» del 1957, che stermina 550.000 intellettuali e dissidenti, gli scienziati, i tecnici, la classe culturale indispensabile al boom cinese. E ancora nel Grande Balzo in Avanti del 1958-1961, un crimine che scatena per le assurde scelte di Mao la carestia dei 45 milioni di morti, Deng è fedele alla linea.
Toccano poi a lui gli arresti domiciliari nel 1966 come «neocapitalista», il campo di lavoro nello Jianxi a spalare letame, le torture inflitte al figlio. E ancora nel ‘75-‘76, tra la morte di Mao e la sconfitta dei radicali della Banda dei Quattro, Deng è costretto all’autocritica e emarginato. Nell’esilio rurale in Jianxi, solo e in silenzio, capisce che le forze produttive del capitalismo, della scienza e della tecnologia batteranno il modello socialista. Finito il lavoro nei campi, stila tra un mozzicone e l’altro il piano che, una volta arrivato al potere dopo Hua Guofeng, imporrà al Paese sterminato.
Resta a suo carico la strage degli studenti che chiedevano, oltre al benessere, libertà, a piazza Tiananmen, nel 1989: «L’Occidente se ne dimenticherà presto» commenta cinico e realista e anche stavolta, purtroppo, vede bene. Vogel non lo assolve, ma inquadra storicamente la tragedia: senza il partito unico la Cina non si sarebbe sviluppata, ricadendo nelle faide dei signori della guerra.
Prevarrà nel futuro l’immagine dello stoico Deng che nel campo di lavoro progetta la salvezza della Cina o il complice delle stragi? Per ora, il piccolo figlio del possidente Deng Wenming è il leader del ‘900 che più influenza il nuovo secolo: quando le navi da guerra cinesi incrociano nell’Oceano Indiano, quando Pechino rileva debito americano ed europeo, quando compriamo scarpe a buon prezzo, perdiamo posti di lavoro, esportiamo beni di lusso alla borghesia cinese. E’ stato Deng Xiaoping a svegliare la Cina e il mondo non finirà a lungo di scuotersi.

La Stampa 30.10.11
Obbligatorie le impronte digitali sui documenti d’identità
Pechino approva due nuove leggi per la lotta contro il terrorismo


Il Parlamento cinese ha adottato ieri due nuove leggi che inaspriscono la legislazione antiterrorismo già in vigore nel Paese, e rendono obbligatorie le impronte digitali sulle carte d’identità nazionali. Le norme approvate dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare mirano a «rafforzare la stabilità sociale», hanno indicato dei deputati ai giornalisti. La prima legge - ha detto il parlamentare Li Shuwei - dà una definizione giuridica di «terrorismo», fissando più chiaramente gli obiettivi e le condizioni di intervento delle unità antiterroristiche in Cina. Sono definiti terroristici gli atti destinati a creare un clima di paura o a esercitare pressioni sulle istituzioni dello Stato o sulle istituzioni internazionali, con la violenza, il sabotaggio e la minaccia. La Cina aveva già adottato numerose leggi antiterrorismo, ma l’assenza di una definizione chiara poneva problemi di interpretazione, ha aggiunto il parlamentare, sottolineando che la nuova legge fornirà una base giuridica alla partecipazione della Cina alla lotta contro il terrorismo a livello internazionale. Le nuove regole sembrano puntate essenzialmente contro i movimenti ribelli degli uiguri nello Xinjiang, dove sono frequenti moti, attentati e attacchi alle sedi del governo. Secondo Pechino, c’è il rischio che gli uiguri, musulmani, possano avere contatti con l’islamismo radicale internazionale, ma finora i separatisti venivano perseguiti in base ad accuse di «attentato alla sicurezza nazionale» e non di terrorismo. La nuova definizione di terrorismo serve anche a facilitare le richieste di cooperazione verso i servizi di intelligence di altri Paesi, soprattutto il Pakistan e gli Usa.

l’Unità 30.10.11
Nella legge di stabilità cancellato il fondo di 184 milioni per dare voce ai “giornali di idee”
Da l’Unità al Secolo d’Italia In pericolo il futuro di centinaia di aziende, con 4mila dipendenti
Niente soldi all’editoria così si uccidono le testate «scomode»
«È una volontà politica», denuncia il Comitato per la Libertà e per il diritto all’Informazione. Rischiano di sparire centinaia di realtà editoriali che non rispondono alle logiche del mercato ma che esprimono la voce dei territori e della società civile.
di Roberto Monteforte


Un appello al presidente della Repubblica è un gesto estremo. Da allarme rosso. Questa volta il pluralismo dell' informazione è veramente a rischio. Un’intera realtà editoriale, quella dei giornali di idee e non profit, delle testate cooperative e politiche di
ogni orientamento da Liberazione e il Manifesto sino al Secolo d'Italia e alla Padania, da l'Unità a Avvenire e al Riformista, sino a Nuova Ecologia, Rassegna Sindacale e ai settimanale diocesani che assicurano l’informazione locale da gennaio rischiano di dover chiudere. Sono le voci spesso scomode delle idee, di realtà editoriali che non rispondono alle logiche del mercato, che esprimono la voce dei territori e della società civile, che rischiano di sparire. Lo dicono drammaticamente le cifre.
Invece dei 184 milioni di euro previsti dal Fondo per l’editoria per il finanziamento “diretto”, l’anno prossimo al netto dei 50milioni destinati a far fronte al pagamento del debito che il governo ha con l’Ente Poste per le tariffe agevolate e degli oltre 40 milioni della convenzione tra lo Stato e la Rai saranno disponibili non più di 30 milioni di euro. È quanto stabilisce la “legge di stabilità”, ora in discussione al Senato. Sono briciole.
LA SCURE DI TREMONTI
Nel 2006 per il Fondo editoria erano stati stanziati oltre 420 milioni di euro. Troppi per il ministro Tremonti. Nel 2008 scendono a 336 milioni. Per il 2010 erano previsti 344 milioni. Alla fine scendono a 195 milioni e tale cifra era quella prevista dalla “legge di stabilità” anche per gli esercizi 2011 e 2012.
Con la manovra del luglio 2008 Tremonti ha cancellato il “diritto soggettivo” al finanziamento diretto. Solo alla fine dell’anno di riferimento e “a riparto” tra i diversi aventi diritto, si saprà la quota parte del contributo pubblico cui si ha diritto. Un duro colpo al settore, che ha reso incerta la definizione dei bilanci e delle garanzie da fornire al sistema bancario.
In questi anni deputati e senatori, in modo “trasversale”, sono riusciti a garantire al Fondo quei 195 milioni di stanziamento. Il settore dell’editoria, attraverso dure ristrutturazioni e stati di crisi, e malgrado la forte penalizzazione sul mercato pubblicitario, sino a oggi ha retto. Ora, con i “tagli lineari” voluti dal governo Berlusconi, centinaia di aziende rischiano di essere cancellate. Sono quattromila, senza considerare l’indotto, i dipendenti che rischiano di finire per strada.
«È una volontà politica» hanno denunciato i promotori della conferenza stampa contro i tagli al Fondo per l’editoria, tenuta lo scorso 27 ottobre al Senato e indetta dal Comitato per la Libertà e per il diritto all’Informazione. La Fnsi, Mediacoop, Confcooperative, Cgil, Federazione dei giornali diocesani e i direttori dei giornali coinvolti hanno chiesto “criteri rigorosi e innovativi” per accedere ai “finanziamenti diretti”, a partire dall’accertamento del reale numero di dipendenti regolarmente assunti a tempo indeterminato, della vendita e distribuzione. Chiedono che i risparmi che si conseguiranno con l’operazione di “pulizia” siano utilizzati “per finanziare l’innovazione digitale e la crescita della domanda di informazione”.
I tagli, in realtà, finirebbero per aggravare la crisi. Per gli ammortizzatori sociali a tutela dei lavoratori si spenderebbe più di quanto sarebbe necessario per garantire il Fondo per l’editoria. Senza contare le perdite per gli enti previdenziali e le entrate per lo Stato, dall’Iva all’Irap.
L’appello ai parlamentari è quindi che sia ripristinato il Fondo. Vi sono gli emendamenti dell’opposizione presentati dai senatori del Pd Vita e Lusi, cui si è aggiunta la firma del senatore Butti del Pdl. Lo schieramento è trasversale. La battaglia di libertà per il pluralismo continua.

l’Unità 30.10.11
Dublino Ex ministro e poeta, è il settantenne Higgins il nuovo presidente
Ribaltamenti Smentiti i sondaggi. Determinante la crisi economica
Vince il laburista, perde la star tv Il voto a sorpresa dell’Irlanda
Pronostici ribaltati nelle presidenziali irlandesi. Vince il laburista Higgins. Emergono i suoi legami con il Fianna Fail e crolla l’«indipendente» Gallagher, favorito sino a pochi giorni prima del voto.
di Gabriel Bertinetto


Non se l’aspettava nessuno a Dublino. I sondaggi sono stati completamente ribaltati. Il politico idealista, schierato a sinistra, sconfigge l’imprenditore e star televisiva che si professava indipendente, ed era invece (o almeno era stato) in stretti rapporti con l’odiato partito conservatore Fianna Fail. Il partito che gli irlandesi considerano responsabile del tracollo economico del 2008. E che hanno punito rifilandogli il minimo storico dei consensi nelle elezioni parlamentari di febbraio.
Michael D. Higgins, 70 anni, poeta, ex-parlamentare laburista, è il nuovo presidente dell’Irlanda. Gli avevano pronosticato il 25% dei voti. Ha raggiunto il 40%. Le stesse indagini demoscopiche avevano regalato a Sean Gallagher l’illusione di un trionfante 45%. Sogni di gloria drasticamente ridimensionati dalla realtà del 28% uscito dalle urne.
DISASTRO ECONOMICO
L’esito delle presidenziali mostra quanto sia stata sconvolgente per i cittadini irlandesi la crisi degli ultimi anni, quando hanno improvvisamente scoperto la fragilità del boom conosciuto all’inizio del millennio. Boom costruito sul credito facile, speculazioni finanziarie, tagli di imposta sconsiderati. Per qualche anno il bengodi di pochi è sembrato offrire prospettive ai molti. Poi la bolla è scoppiata. Chi aveva fatto debiti per comprare la casa, si è trovato senza soldi e senza mura. Fallimenti a catena di banche e imprese. Disoccupazione alle stelle (ancora oggi il 14,3% della popolazione).
Il merito di avere sfilato a Gallagher la maschera del candidato indipendente, rivelandone il vero volto «fiannafailico», va a un illustre outsider della competizione elettorale. Si chiama Martin McGuinness, un nome che in Irlanda e nel Regno Unito è tragicamente associato agli anni del conflitto armato fra Londra e i nazionalisti cattolici di Belfast. Lui nega, ma molti ancora sospettano che per un certo tempo abbia comandato l’Ira. Un ex-terrorista insomma, anche se fu lui assieme a Gerry Adams il protagonista della svolta che portò l’Ira a deporre le armi a metà degli anni novanta.
In un dibattito televisivo, due giorni prima del voto McGuinness ha prodotto le prove del finanziamento ricevuto da Gallagher nel 2008 a favore del Fianna Fail. Non una grande somma, 5000 sterline. Ma Gallagher fino ad allora aveva negato. E oltre Manica non si perdona facilmente il politico che sgarra o che mente. Lo scoop non ha migliorato la performance elettorale di McGuinness che con il 14% è anzi andato lievemente sotto la percentuale attribuitagli dall’ultimo sondaggio. A beneficiarne è stato il
laburista Higgins con un prepotente balzo in avanti. Segno che i cittadini guardano con una relativa fiducia ai tentativi di ricostruzione economica e sociale che sta portando avanti il nuovo governo, in cui i laburisti sono presenti seppure come soci di minoranza.
LA TANA DEL DRAGO
Un’altra lezione che emerge dalle presidenziali irlandesi è la capacità della società irlandese di resistere all’ipnosi mediatica. L’associazione fra successo economico e fama televisiva ha pompato l’ascesa di Gallagher nei consensi popolari, ma non fino al punto di vaccinarlo dal giudizio negativo per certi comportamenti eticamente o legalmente scorretti. Eppure Gallagher è stato il re della trasmissione Dragon’s Den (Tana del drago), in cui alcuni ricchi e affermati umini d’affari vagliavano le proposte di giovani aspiranti imprenditori e decidevano se sostenerli con i propri investimenti.
Quanto a McGuinness, può vantare di essere andato ben oltre il bacino elettorale del suo partito, il Sinn Fein, che in Ulster è pari al 25%, ma in Irlanda è limitato al 10%. Forte del buon risultato ottenuto a Dublino, riprende a Belfast il ruolo di governo da cui si era temporaneamente sospeso.

l’Unità 30.10.11
Intervista a Radwan Ziadeh
«In Siria è strage continua. Se continua a tacere, il mondo sarà complice»
L’attivista per i diritti umani «Repressioni, fosse comuni, torture: il regime finora ha ucciso 4000 civili, oltre 200 bimbi. La comunità internazionale non alza un dito»
di Umberto De Giovannangeli


È divenuto il simbolo della rivolta popolare contro il regime di Bashar al-Assad. Per il suo impegno a difesa dei diritti umani ha conosciuto più volte le carceri del regime: è Radwan Ziadeh, 35 anni, fondatore e direttore del Damascus Center for Human Rights Studies, oltre che uno dei principali promotori della «Dichiarazione di Damasco»; attualmente è visiting scholar presso la George Washington University. «Da mesi – dice Ziadeh nell’intervista esclusiva concessa a l’Unità – nel mio Paese è in atto una insurrezione popolare contro il regime del clan Assad. La risposta sono quasi 4mila morti – tra cui oltre 200 bambini più di 30mila feriti, sono le carceri piene di oppositori, le torture sistematiche anche negli ospedali dove vengono ricoverati i manifestanti feriti, le fosse comuni, città messe a ferro e fuoco, esponenti dell’opposizione minacciati anche all’estero. Assad ha dichiarato guerra al popolo siriano come e peggio di quanto hanno fatto Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. Ma la comunità internazionale non ha alzato un dito contro di lui. E questa si chiama complicità». L’Onu, insiste Ziadeh, «deve imporre sanzioni contro gli individui e le istituzioni responsabili della repressione violenta delle proteste. Queste sanzioni dovrebbero essere simili a quelle adottate dall’Ue e dagli Usa, e il Consiglio di Sicurezza dovrebbe prendere l’iniziativa di inviare il dossier siriano all’Aja, come è stato fatto per il caso libico».
Suo fratello Yaseen, un commerciante di 37 anni, il 30 agosto è stato prelevato con la forza a Daraya, periferia di Damasco, dagli uomini di Assad. «È finito in carcere per colpa mia. Mio fratello non era mai sceso in piazza: non potendo colpire me, si rifanno su di lui», denuncia Radwan. Dal Palazzo di Vetro, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, è tornato a chiedere «la fine immediata delle operazioni militari contro i civili» in Siria.
Ban ha inoltre chiesto «la liberazione di tutti i prigionieri politici e delle persone detenute per aver partecipato a manifestazioni» ed ha esortato le autorità siriane a intraprendere «riforme ambiziose» per rispondere alle aspettative della popolazione. Professor Ziadeh, già in passato la Siria è stata teatro di rivolte contro il regime baathista. Cosa differenzia la rivolta in atto?
«In primo luogo, l’ampiezza e il numero delle manifestazioni. Le proteste di oggi non si concentrano in una o due città come negli anni ’80, bensì si sono estese in decine di città e centri minori di tutta la Siria. Un’altra differenza sostanziale è il ruolo dei mass media, che è molto diverso da quel che era in precedenza. I mass media sono una delle ragioni per cui possiamo conoscere il numero approssimativo delle vittime delle proteste in corso. Per converso non abbiamo fino ad oggi un conteggio ufficiale di quanti rimasero uccisi a Hama nel 1982, solo stime che variano dalle 20 mila alle 30 mila persone. All’epoca l’accesso all’informazione era limitato, oggi non è più così. Oggi gli eventi possono essere documentati immediatamente. La rivoluzione du Internet e dei social network quali Youtube, Facebook e Twitter, ha un ruolo fondamentale nello svelare ciò che sta accadendo e nel consentire ai manifestanti di comunicare tra di loro».
Ciò che non cambia è la reazione del regime...
«Assad cerca di mascherare la sua impotenza politica con l’esercizio brutale della forza. Il bilancio aggiornato di sette mesi di repressione è sconvolgente: 3.800 persone sono state uccise. Di queste, 3.150 sono civili e 650 militari. Da marzo, i bambini e gli adolescenti uccisi dalle forze del regime sono oltre 220, le donne 115: nel solo mese di ottobre i bambini uccisi sono almeno 31, praticamente uno al giorno. I rastrellamenti casa per casa sono ormai diventati una prassi: entrano e arrestano tutti gli uomini dai 18 ai 45 anni. A Deraa (città-simbolo della rivolta, ndr), è stata scoperta una fossa comune: nella fossa c'erano anche i resti di donne e bambini. E non è un caso isolato. Per ciò che ha fatto, e continua a fare, Assad dovrebbe essere processato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, così come si voleva per Gheddafi. Assad minaccia di destabilizzare l’intera regione se il mondo oserà contrastarlo. Ma il mondo non può subire questo ricatto. La repressione, le fosse comuni, le torture, non hanno fermato l’insurrezione. In questo contesto, è molto importante ciò che sta accadendo nell’esercito, che è sempre stato uno dei pilastri del regime: ogni giorno aumenta il numero dei soldati e ufficiali che disertano per passare con il popolo in rivolta. E queste defezioni incrinano la compattezza del regime e danno speranza a coloro che ogni giorno rischiano la vita per rivendicare i propri diritti. Il nostro obiettivo principale e tutta la nostra attenzione, in questa fase, è sull’esercito siriano».
In questo scenario, cosa chiedete alla comunità internazionale, agli Usa e all’Europa in particolare? «Chiediamo coerenza e coraggio. Chiediamo di non chiudere gli occhi di fronte al sangue che scorre nel mio Paese. Chiediamo un sostegno attivo, fatti e non parole, ad una rivolta pacifica, che chiede diritti, libertà, come è accaduto in Tunisia o in Egitto. Chiediamo la creazione di una “no fly zone” come è avvenuto in Libia, a protezione della popolazione civile cannoneggiata dall’artiglieria pesante e bersagliata dai caccia del regime. Non agire significa essere complici di un dittatore che ha dichiarato guerra al popolo».

La Stampa 30.10.11
Mogliaia di coscritti si sono rifugiati nelle campagne e attaccano le forze di sicurezza
Siria, è guerra aperta “Disertori contro soldati”
E Assad avvisa: se l’Occidente interviene si scatenerà un terremoto
di Lorenzo Trombetta


Da tre giorni sono chiusi in casa gli inquilini della palazzina Sabbagh di Bab Amro, antico rione di Homs, terza città della Siria, dove per tutta la giornata di ieri sono proseguiti i tiri della contraerea dei carri armati dell’esercito fedele al presidente Bashar al Assad. «Dormiamo tra il bagno e il corridoio, le stanze della casa più lontane dalla facciata presa di mira dai colpi», racconta interpellato telefonicamente Munir, pseudonimo di un attivista di Homs, ricercato dalle milizie lealiste perché membro dei Comitati di coordinamento locale, principale piattaforma di organizzatori della rivolta in corso da sette mesi.
Il centro di documentazione delle violazioni in Siria, legato ai Comitati, ha pubblicato ieri sera sul suo sito Internet una lista di 55 civili uccisi tra venerdì e ieri. La lista è dettagliata, con nomi, cognomi, luoghi e dettagli delle uccisioni. La maggior parte delle vittime - trentuno - proviene da Homs città e dai suoi dintorni; altre diciassette uccisi a Hama, poco più a Nord; le altre vittime si dividono tra la regione meridionale di Daraa, quella nord-occidentale di Idlib, due sobborghi di Damasco e Qamishli, cittadina nel Nord-Est a maggioranza curda.
L’agenzia ufficiale «Sana» ha dal canto suo riferito dei funerali celebrati ieri di 15 tra soldati dell’esercito (tra cui due ufficiali), agenti delle forze di sicurezza, poliziotti e un civile, uccisi venerdì. Nel bilancio fornito dai media governativi non figurano i tre minorenni uccisi a Homs e Hama «per mano delle milizie di al Assad», come affermano i testimoni ripresi nei video amatoriali pubblicati su Youtube e che ritraggono le salme dei tre giovani «martiri».
L’offensiva governativa da settimane si concentra contro Homs e Hama, lungo la direttrice Sud-Nord Damasco-Aleppo, due epicentri della rivolta dove si sarebbero rifugiati centinaia, forse migliaia, di soldati disertori. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) afferma che venerdì sono stati uccisi 17 militari governativi nelle campagne di Hama da disertori. Altri venti e un ribelle sono morti invece ieri all’alba in uno scontro nel nord ovest. Per il regime si tratta di terroristi armati da Israele, Arabia Saudita, Turchia.
La guerra civile in cui sembra scivolare la Siria centrale è però ancora lontana da Damasco e il presidente Assad ha mandato ieri un messaggio preciso all’Occidente: un’eventuale azione in Siria scatenerebbe «un terremoto» e «metterebbe a fuoco l’intera regione. Volete vedere un altro Afghanistan, o decine di Afghanistan?», ha detto in un’intervista concessa al Sunday Telegraph.
«Nessuno mi ha obbligato a scendere in strada. In Siria siamo liberi di dire e fare quel che vogliamo», afferma Tania, cristiana del quartiere Qusur, che preferisce però non rivelare il suo cognome. Il governo ha annunciato che sono aperte le liste elettorali per le consultazioni amministrative del 12 dicembre. Si andrà a votare con la nuova legge, definita uno dei fondamenti del processo di riforma avviato da Assad. Processo che però non ha toccato l’articolo della Costituzione che di fatto rende il Baath il partito unico, al potere da mezzo secolo e facciata istituzionale del regime dominato dagli Assad e da alcuni clan alawiti alleati.
E oggi a Doha, in Qatar, si recherà una delegazione governativa di Damasco che dovrà dire alla commissione ministeriale della Lega Araba che ha ieri condannato le uccisioni di civili - se la Siria è disposta ad avviare, al Cairo, un dialogo con tutte le sigle del dissenso e delle opposizioni.
"Homs è sotto assedio «I tank del regime sparano sulla gente con le mitragliatrici»"

La Stampa 30.10.11
L’Islam e noi: la primavera è lontana
di Vladimiro Zagrebelsky


Due notizie giungono insieme e permettono una riflessione sulla concezione dei diritti fondamentali che ha maturato l'Europa, rispetto a quella che emerge da alcuni paesi, ove prevale la religione islamica. È di ieri la notizia che la condotta del Comune e la contrastata procedura per l’autorizzazione a costruire a Torino una moschea, luogo di culto dei musulmani, sono state convalidate da una sentenza del Tribunale amministrativo.
Le leggi italiane dunque non impediscono a chi professa la religione islamica di avere, alla luce del sole, un degno luogo di culto. Sembrerebbe ovvio, eppure è stato necessario l’intervento di un giudice, poiché vi sono resistenze.
La decisione certifica che, osservate le ordinarie norme urbanistiche, nessun impedimento può essere frapposto sulla base della fede religiosa, sgradita ad alcuni, ai cui riti è destinato il luogo di culto. Corretto e, insisto, ovvio alla luce di ciò che stabiliscono la nostra Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In questi stessi giorni le nuove autorità dell’Egitto, ed anche esponenti di quelle libiche, hanno annunciato le prime che continuerà a essere necessaria una speciale autorizzazione per costruire chiese cristiane e le seconde che lo Stato libico riconoscerà un posto privilegiato alla sharia, la legge che i musulmani ritengono rivelata da Dio. Sulla compatibilità di questa fonte del diritto con i principi che sono propri delle democrazie, si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo, quando le è stata sottoposta la questione della compatibilità, appunto con i principi democratici, dello scioglimento di un partito politico turco, che aveva nel proprio programma l’instaurazione della sharia in Turchia. E la Corte europea ha affermato che l’imposizione della sharia come legge fondamentale non sarebbe stata compatibile né con la laicità, cardine della democraticità dello Stato, né con l’eguaglianza dei cittadini. Nel progetto di quel partito, infatti, sarebbe stato reintrodotto il sistema ottomano del diverso statuto giuridico delle persone secondo la religione professata. Si può aggiungere che in diversi Paesi musulmani, che si richiamano alla sharia, la libertà religiosa di chi non aderisce alla religione islamica soffre gravi restrizioni. La libertà di religione non riguarda solo la libertà di coscienza individuale, ma anche quella di cambiare religione, di manifestare la propria adesione a una religione individualmente e collettivamente, in pubblico e in privato, con il culto, l’insegnamento e il compimento dei riti. Tutti aspetti di libertà religiosa che hanno dato luogo a talora drammatiche repressioni.
Tornando alla costruzione di luoghi di culto e alle pratiche religiose alle quali sono destinati, le due contrastanti notizie consentono innanzitutto di rilevare quanto profonda sia la diversità di tradizioni culturali e giuridiche in materia di libertà fondamentali in generale e di libertà religiosa in particolare. Anche se si è consapevoli del fatto che il superamento di pratiche restrittive fuori dell’Europa sarà probabilmente lungo e contrastato, occorre mantenere fermezza di posizioni ideali e continuità nella pressione perché l’attuale stato di cose muti. L’Unione europea e i singoli Stati membri dichiarano di tener conto della necessità di protezione dei diritti fondamentali in tutte le relazioni commerciali e di cooperazione che allacciano con altri Stati. Periodicamente il Parlamento europeo produce in proposito una abbastanza triste relazione. Abbastanza triste, perché ne risulta che troppo spesso l’interesse economico o politico prevale e spinge a chiudere gli occhi sulla natura dei governi con cui si tratta. Le recenti relazioni con i Paesi del Nord-Africa ne sono un evidente esempio.
Ma un tratto essenziale del diverso modo di intendere i diritti fondamentali in Europa e in gran parte del resto del mondo, riguarda, oltre che il loro contenuto, la natura stessa dei diritti dell’uomo. Per il loro riconoscimento e la loro protezione non vale, nei rapporti tra gli Stati, il principio di reciprocità. Uno Stato non può rifiutare sul suo territorio a cittadini di un altro Stato (o a fedeli di una specifica religione) di esercitare un loro diritto fondamentale per il fatto che in quell’altro Stato eguale riconoscimento e protezione non sono assicurati. Si tratta di una questione essenziale, che è conseguenza diretta della convinzione raggiunta in Europa, che i diritti e le libertà fondamentali appartengono alle persone originariamente e non per concessione degli Stati. Le violazioni che avvengono altrove non giustificano le violazioni che si commetterebbero in Europa. L’Europa, se così si comportasse, colpirebbe se stessa e i fondamenti della propria cultura. Oggi dunque, mentre non dimentichiamo che la libertà di religione non è garantita altrove e a chi ne soffre assicuriamo la nostra simpatia (nel senso etimologico del patire insieme), possiamo dire che siamo fortunati ed anche orgogliosi di ciò che avviene da noi, in Europa.

l’Unità 30.10.11
L’indignazione si aggira per il pianeta
Zygmunt Bauman guarda al nuovo movimento internazionale e spiega come la protesta sia diversa in ciascun Paese perché è diverso il muro che vuole abbattere per costruire un mondo più giusto di quello attuale
di Giuliano Battiston


Abbiamo incontrato Zygmunt Bauman a Roma, in occasione della sua lectio magistralis su Quali sono i problemi sociali oggi?, nell’ambito della Terza edizione del Salone dell’editoria sociale di Roma.
Nei suoi testi cita spesso una frase di Cornelius Castoriadis: «Ciò che non va nella società in cui viviamo è che ha smesso di mettersi in discussione». In un mondo in cui le vecchie coordinate della modernità solida stanno scomparendo, come individuare le domande più pertinenti e i problemi sociali a cui rispondere con più urgenza?
«Viviamo in un tempo di vuoto (simile all’“interregnum” dell’antica Roma), un periodo in cui i vecchi metodi con cui facevamo andare avanti le cose risultano inefficaci, mentre non ne sono stati ancora inventati di nuovi. È un periodo di cambiamento, non di transizione, perché “transizione” implica un passaggio da un “qui” a un “lì”, e sebbene conosciamo piuttosto bene il “qui” da cui cerchiamo di fuggire non abbiamo idea del “lì” dove vorremmo arrivare. Definire quali fossero i “problemi sociali” su cui intervenire poteva essere un compito difficile ma praticabile al tempo in cui i nostri antenati discutevano sul cosa ci fosse da fare, ma erano piuttosto sicuri sul chi lo avrebbe fatto, ovvero lo stato, un’istituzione potente, dotata di tutto ciò che occorresse per farlo: il potere (la capacità di fare le cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose andassero fatte e quali evitate). Oggi invece tutti i poteri che determinano la nostra condizione – la finanza, gli investimenti di capitale, il commercio – sono di natura globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti; allo stesso tempo, la politica rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato. Oggi la domanda vitale è “chi lo farà”, nel caso dovessimo decidere ciò che c’è da fare».
Gli «indignati» sostengono che a «fare le cose» non debbano più essere quelli che le hanno fatte finora. Per qualcuno, questo movimento planetario dimostra il collasso della democrazia rappresentativa, della comunità politica territorialmente definita; per altri, si tratta dell’ennesimo movimento effimero. Lei cosa ne pensa? «I manifestanti di Manhattan, così come i giovani e meno giovani del movimiento los indignados, sono privi di leader, provengono da ogni tipo di vite, razze, religioni e campi politici, sono uniti soltanto dal rifiuto di lasciare che le cose procedano come ora. Ognuno di loro ha in mente un’unica barriera o muro da mandare in frantumi o distruggere. Le barriere variano da Paese a Paese, ma ciascuna è ritenuta quella il cui smantellamento è destinato a mettere fine a tutte le sofferenze. Sulla forma che dovranno prendere le cose, ci si interrogherà solo in seguito. Combinare un unico obiettivo di demolizione con un’immagine vaga del mondo che verrà è la forza di questi manifestanti, ma anche la loro debolezza. Sono abili demolitori, ma devono ancora dimostrare di essere abili costruttori. In ogni caso, se i due giovincelli di Rhineland, Marx ed Engels, si sedessero ora a redigere il loro ormai bicentenario Manifesto, potrebbero inaugurarlo con l’osservazione che “uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro dell’indignazione”».
L’indignazione è in primo luogo il frutto della crisi economico-finanziaria. In «Vite che non possiamo permetterci», scrive che la crisi dimostra che «il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca (se cerca) di risolvere i problemi, ma quando li crea», e che «non può essere contemporaneamente sia coerente che completo». Intende dire che il capitalismo è un sistema parassitario?
«Cento anni fa, Rosa Luxemburg ha compreso il segreto dell’inquietante abilità del capitalismo di risorgere ripetutamente dalle ceneri; una capacità che si lascia dietro una scia di devastazione: la storia del capitalismo è segnata dalle tombe degli organismi viventi la cui linfa vitale è stata succhiata fino all’esaurimento. La Luxemburg confinava però la gamma degli organismi allineati per le imminenti visite del parassita alle “economie pre-capitalistiche”, il cui numero era limitato e progressivamente in diminuzione per la continua espansione imperialista. Ragionando secondo queste coordinate, la Luxemburg non poteva far altro che anticipare i limiti naturali alla possibile durata del sistema capitalista: una volta che tutte le “terre vergini” del globo fossero state conquistate, l’assenza di nuove terre sfruttabili avrebbe portato il sistema al collasso. La profezia della Luxemburg si sta per avverare? Non lo credo. Nell’ultimo mezzo secolo, il capitalismo ha imparato l’arte prima sconosciuta di produrre sempre nuove “terre vergini”. Questa nuova arte, resa possibile dal passaggio dalla “società di produttori” alla “società di consumatori”, fa sì che il profitto e l’accumulazione consistano soprattutto nella progressiva mercificazione delle funzioni della vita, nel sostituire il desiderio al bisogno come volano dell’economia. La crisi attuale deriva dall’esaurimento di una “terra vergine” artificialmente creata, quella costruita sulla “cultura delle carte di credito”. In linea di massima,lo sfruttamento di questa particolare “terra vergine” è ora finito, e ai politici è stato lasciato il compito di ripulire i detriti lasciati dal banchetto dei banchieri». Quali sono le conseguenze del passaggio dalla società solida dei produttori a quella liquida dei consumatori? «In una società di produttori i profitti venivano generati dall’incontro tra il capitale e il lavoro, e in un certo senso il capitalismo era un fattore di risentimento collettivo. Nella società dei produttori, i profitti vengono dall’incontro tra la merce e il cliente; si tratta di un evento solitario, che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione. Formati socialmente innanzitutto come consumatori e solo in secondo luogo come produttori, siamo addestrati a modellare le relazioni interumane sul modello della relazione del consumatore con i beni di consumo. Ciò porta alla fragilità e alla temporaneità dei legami interumani. Inoltre, per raggiungere il rango di consumatori, ognuno di noi deve trattare se stesso come una merce vendibile, il che intensifica la continua frammentazione e atomizzazione della società. Per finire, segue la fascinazione per il Pil (che misura soprattutto le attività di consumo): la società dei consumatori non conosce altro modo per “risolvere i problemi” e affrontare i problemi sociali che incoraggiare la “crescita economica”, ingrandendo all’infinito la pagnotta da affettare piuttosto che dividerla giudiziosamente ed equamente». L’idea dell’equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, basata sull’assunto che il progresso e lo sviluppo potessero risolvere di per sè la questione della disuguaglianza sociale, ha caratterizzato tutto il Novecento. La crisi è anche l’occasione per mettere in discussione l’idea della crescita e del progresso come fini in sé?
«I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l’arricchimento è un valore che merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, che nel dialetto della congregazione planetaria della Chiesa della Crescita Economica significa “consuma di più”. Per la fede di questa Chiesta fondamentalista, tutte le strade verso la redenzione, la salvazione, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi. E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra. Ciò che è passato sotto il più assordante silenzio, è l’avvertimento di Tim Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita (ed. italiana Edizioni Ambiente 2011, ndr): alla fine di questo secolo “i nostri figli e nipoti avranno a che fare con clima ostile, risorse esaurite, distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile”. Forse sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia e del progresso: anziché una corsa in avanti, irreversibile, che non prevede ritirate, rincorrere la felicità attraverso i negozi è solo una deviazione eccezionale, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea? La giuria non si è ancora espressa. Ma è tempo che emetta un verdetto. Più indugia, più è verosimile che sarà costretta a uscire di corsa dalla sala di consiglio. Per mancanza di cibo».
Il decano della sociologia. Il pensatore
Tra i maggiori analisti del nostro tempo, Zygmunt Bauman, nato a Poznan, Polonia, nel 1925, ha costruito un lungo percorso di ricerca. È animato da una forte passione etica e che mira, nella diversità degli argomenti trattati, a un unico obiettivo: proteggere il nostro bene comune più prezioso – la società in cui viviamo – da chi ci insegna che «qualunque cosa si raggiunga nella vita può essere ottenuta nonostante la società, e non grazie a essa». Per farlo, secondo l’autore de «La società sotto assedio» (Laterza) occorre in primo luogo porre le domande giuste, perché «porsi le domande giuste è ciò che fa differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio».

Corriere della Sera 30.10.11
Fiction e realtà. Un film ripercorre i rapporti della giovane Spielrein con Jung e Freud, ma non valorizza il suo ruolo di studiosa
Tra due maestri ma sempre fedele a se stessa
La vera vita di Sabina, da paziente a pioniera della psicoanalisi
di Danilo Di Diodoro


C' è una piccola placca commemorativa sulla casa al numero 83 di via Pushkin nella città russa di Rostov. Non la vedono in molti. Lì è vissuta Sabina Spielrein, la prima paziente sulla quale un trentenne Carl Gustav Jung sperimentò nel 1905 l'appena nata tecnica psicoanalitica freudiana. Sabina sarebbe poi diventata anche la più giovane tra le primissime psicoanaliste a pubblicare un articolo sulle nuove teorie freudiane. E introdusse il concetto di istinto di distruzione che molti anni più avanti sarebbe stato ripreso da Freud nella sua opera "Al di la del principio di piacere". Ma Sabina fu molto di più. Fu un terremoto per la psicoanalisi degli albori e per lo stesso Jung che venne travolto in una relazione ad alta temperatura emotiva con questa bella e intelligente ebrea russa. Una relazione, alla base anche dell'ultimo film di David Croneberg intitolato A Dangerous Method, nella quale i sentimenti che si svilupparono fra psicoanalista e paziente, ma anche tra un uomo e una donna reciprocamente attratti, erano ancora tra di essi molto indistinti. E fu proprio da questa primordiale confusione che sarebbe stato successivamente sviluppato il concetto di «controtransfert».
S abina Spielrein era giunta all'osservazione di Jung nell'estate del 1904, quando fu ammessa nella clinica Burgholzli di Zurigo per quella che fu diagnosticata all'epoca come una forma di psicosi isterica, un termine oggi non più utilizzato, ma che può essere comunque ricondotto all'area delle psicosi, i disturbi psichici più gravi. La nuova paziente, che nella cartella clinica è descritta all'ingresso ridente e piangente allo stesso tempo, e afflitta da tic massivi, fu presa in carico dal giovane Jung, che non aveva molta esperienza con questo tipo di patologia. Fino ad allora, il trattamento più frequentemente utilizzato in tali casi era l'ipnosi. Ma Jung decise che con Sabina avrebbe provato a sperimentare la nuova tecnica psicologica che in quegli anni cominciava a circolare soprattutto nei Paesi europei di lingua tedesca: la psicoanalisi del dottor Sigmund Freud di Vienna.
La teoria e la tecnica della psicoanalisi non erano però ancora ben definite, così Jung, che era sposato, si ritrovò esposto a un'intensa relazione affettiva con Sabina, nel tentativo di aiutarla. E la terapia sembrò funzionare: nel giro di sei mesi la paziente non aveva più sintomi e anzi la primavera successiva decise di seguire gli studi di Medicina, con l'intento di diventare anche lei psicoanalista. Intanto Jung era ormai un fervente seguace di Freud, proprio in virtù degli ottimi risultati che riteneva di aver raggiunto nel trattamento di Sabina. Jung e Freud iniziarono una corrispondenza che sarebbe andata avanti per anni fino alla loro rottura e alla "scissione" della psicoanalisi junghiana da quella freudiana.
L a relazione tra Sabina Spielrein e Jung era però diventata intanto una bufera passionale, come emerse dopo che nel 1980 lo psicoanalista junghiano Aldo Carotenuto pubblicò il libro "Diario di una segreta simmetria - Sabina Spielrein tra Jung e Freud". «Carotenuto venne in possesso dei documenti trovati negli scantinati del Palais Wilson a Ginevra, la vecchia sede dell'Istituto di psicologia» dice la dottoressa Ursula Prameshuber psicoanalista del CIPA, Centro italiano di psicologia analitica — . Tra questi documenti c'erano i diari di Sabina Spielrein e la sua corrispondenza con Jung e Freud. Fino a quel momento il nome di Sabina Spielrein era legato soltanto ad alcuni note a piè di pagina nelle opere dei due grandi psicoanalisti. La scoperta dei diari e delle lettere gettò una nuova luce sulla sua personalità, mostrando l'importanza emotiva e intellettuale che lei aveva avuto per Jung e il rapporto di reciproca stima che si era instaurato con Freud».
T ra Sabina e Jung la passione crebbe al punto che i due cominciarono a condividere fantasie onnipotenti di fusione tra la "razza" ariana, alla quale apparteneva Jung, e quella ebrea. Fantasticavano di avere un figlio, che avrebbero chiamato Siegfried e che avrebbe rappresentato una sorta di mescolanza eroica fra ariani ed ebrei. Ma nel 1908 la grandiosa fantasia andò in frantumi, quando Jung ebbe dalla moglie Emma un (vero) figlio maschio, Franz, che si aggiungeva alle due figlie femmine. Jung ebbe un primo risveglio dall'incanto passionale, e nel 1911 Sabina si trasferì a Vienna dove entrò nella Società psicoanalitica. Dice ancora la dottoressa Prameshuber: «Sabina è conosciuta più per la sua storia con Jung che per la sua produzione scientifica, eppure ha pubblicato in varie riviste scientifiche più di trenta articoli. Il più conosciuto e citato, scritto nel 1912, è «La distruzione come causa della nascita» con il quale fu ammessa alla Società Psicoanalitica di Vienna. In questo articolo parla della componente distruttiva dell'istinto sessuale, idea poi rielaborata da Freud con il concetto di "pulsione di morte". Ma sviluppò anche idee molto originali e moderne per la sua epoca, specialmente nell'ambito della psicoanalisi infantile e della psiche femminile.
La vicenda umana di Sabina ebbe una fine tragica. Nel 1923, su consiglio di Freud, tornò a Mosca e poi a Rostov, dove si riunì al marito, un medico russo sposato nel 1912. Ebbe due figlie, ma nell'agosto 1942 i tedeschi che avevano invaso la Russia giunsero a Rostov e rastrellarono gli ebrei. Sabina, pur avendone avuto la possibilità, non aveva voluto fuggire e così lei e le figlie furono trucidate.

Corriere della Sera 30.10.11
Un'innovatrice nelle indagini sull'animo femminile e su quello infantile


Fu Sabina Spielrein a individuare una componente distruttiva nell'istinto sessuale, idea poi entrata nella teoria freudiana della pulsione di morte nel 1920, quando Freud le riconobbe il merito di aver iniziato la riflessione su tale tema. «Il concetto di pulsione di morte — dice Giuseppe Filidoro, psicoanalista della Società italiana di psicoanalisi — fu proposto da Freud per spiegare sadismo, masochismo e depressione, sindromi cliniche caratterizzate da distruttività e da incomprensibile ricerca attiva della sofferenza. Inoltre questo concetto serviva a Freud per spiegare la tendenza di alcuni pazienti alla ripetizione di esperienze traumatiche e a resistere alla cura psicoanalitica. L'ipotesi freudiana dell'esistenza di una pulsione di morte, derivata dalla tendenza degli organismi a tornare allo stato inorganico, non è oggi però da tutti accettata». La vicenda di Sabina e Jung aiutò però anche a comprendere il fenomeno del controtransfert. «Secondo una prima definizione di Freud, il controtransfert doveva essere considerato una reazione inconscia dello psicoanalista nei confronti dei sentimenti che verso di lui prova il paziente — spiega Filidoro —. Quando non ben "padroneggiata" dallo psicoanalista, questa reazione poteva diventare un ostacolo alla terapia. A partire dagli anni '50 il controtransfert è stato inteso non più o non solo come ostacolo al processo terapeutico, ma, se ben compreso dallo psicoanalista, come uno strumento per lo scambio comunicativo in seduta. Comunque anche oggi, nonostante ci sia molta più attenzione verso i complessi intrecci transfert/controtransfert, esiste il rischio che questi sentimenti escano dal "gioco" psicoanalitico e vengano agiti nella realtà con conseguenze potenzialmente drammatiche. Un rischio di cui ogni psicoanalista è consapevole». Infine va ricordato il contributo che Sabina diede alla psicoanalisi infantile e allo studio della psiche femminile. Dice Ursula Prameshuber : «Nel campo della psicoanalisi infantile Sabina usò l'osservazione dei bambini, introdusse il gioco nella terapia, studiò il linguaggio infantile. E nello studio della psiche femminile introdusse concetti innovativi per l'epoca, affermando che la psiche femminile si distingueva per l'empatia mentre quella maschile per l'oggettività. Un'idea ripresa da Jung nei suoi concetti di Eros legato al femminile e Logos legato al maschile».

Corriere della Sera 30.10.11
I Pirandello: due vite (anche) da pittori
Dalle suggestioni di Cézanne alla modernità di Braque e Picasso
di Sebastiano Grosso


C i sono anche sei dipinti di Luigi Pirandello (1867-1936) — accompagnati da una sezione fotografica di Angelo Pitrone sui luoghi dell'Agrigentino che hanno ispirato il premio Nobel — in questa retrospettiva del figlio Fausto (1899-1975), esponente — assieme a Ferrazzi, Marino, Meli e Janni — della seconda stagione della cosiddetta Scuola romana o Scuola di via Cavour (dallo studio della coppia Raphael-Mafai in cui si ritrovavano Ungaretti, De Libero, Scipione, Sinisgalli, Mazzacurati, Cagli ed altri) che va dagli anni Trenta alla fine della II Guerra mondiale. Esposti una trentina di olii e altrettanti pastelli.
Nella mostra romana — che segue quella alla Galleria nazionale d'arte moderna — non mancano le curiosità. Intanto un disegno inedito (Nudo di donna sdraiato, del 1938), appena ritrovato fra le carte di Fausto, dal figlio Pierluigi e dalla nuora Giovanna, che avrebbe potuto far parte della rassegna di nudi, tutt'ora esposta a Palazzo Grimani di Venezia — nell'ambito della Biennale — per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Ma anche, un Paesaggio di Anticoli Corrado (1936) di Fausto Pirandello, erroneamente attribuito al padre Luigi da Claudia Gian Ferrari, nel catalogo generale dei dipinti (Electa) da lei curato, con la scritta, sotto la riproduzione, al n. 168: «Dimensioni e ubicazioni ignote». Il dipinto, invece, che misura 34x20, si trova a Roma e appartiene al figlio di Fausto, Pier Luigi.
Luigi Pirandello era uno scrittore prestato alla pittura? Beh, intanto la tavolozza non era certo un fatto sporadico. Era solo un'altra maniera di narrare, di usare la tela come una sorta di palcoscenico dove prendeva corpo il suo «teatro» di colori.
La pittura entrava anche nei dialoghi delle sue opere teatrali, dei romanzi, delle novelle. E i ritratti scritti dei suoi personaggi avevano sempre e comunque una valenza pittorica.
Anche Ernest Hemingway — ha scritto Antonio Alessio in Pirandello pittore — diceva di «aver imparato ad usare le parole nel modo in cui Cézanne usava i colori, e di avere appreso la "struttura della prosa" studiando "la struttura della pittura di Cézanne"». Lo stesso Emilio Cecchi si chiedeva se Pirandello, nello scrivere, mescolasse «inconsciamente i due processi: della pittura e della letteratura», processo di cui qualsiasi studioso di questo «spirito instancabile e coraggioso» avrebbe dovuto tenere conto. Certo, alla fine, sarà la letteratura ad avere la meglio. Ma il figlio Fausto realizzerà il suo sogno.
Per oltre vent'anni (dal '21 al '44), Fausto passa le estati col padre, ad Anticoli Corrado, la cittadina nei pressi di Roma famosa per la bellezza delle sue donne, che aveva ospitato artisti come Corot, Böklin, Eyck, Lipinsky e continuava ad accoglierne altri. Spesso padre e figlio dipingono insieme («Mio caro Fausto, sappi approfittare di questa libertà che t'ho donato, d'arte e di vita: è l'unico modo di compensarmi»). Dal '27 al '31, Fausto va a vivere a Parigi. Ci sono Severini, Tozzi, De Chirico, Savinio, Campigli, Paresce, Magnelli, De Pisis. Il giovane Pirandello costeggia la «colonia italiana», ma se ne sta in disparte. Questione di carattere. Preferisce studiare Picasso e Derain, Cézanne e Braque. Carena e Spadini gli appaiono sempre più lontani.
Rientrato a Roma, assiste incredulo alla guerra fra anticlassicisti e novecentisti, fra critici e artisti (gli vengono in mente le parole di suo padre: «La sorveglianza critica uccide l'arte. La critica d'arte moderna è micidiale: L'avete tutti nel sangue: bisogna liberarsene») ma preferisce non immischiarsi.
«Sono mesi che non vedo nessuno — scriverà alla sorella —. Ho ottimi amici che frequento spesso: Dante, Masaccio, Piero della Francesca, Leopardi, Villon, Omero, Ariosto, Mantegna». Ancora suggestionato da cubismo e surrealismo parigini, Fausto torna alla figura. La Scuola romana lo attrae, ma non il mondo onirico di Scipione, Mafai ed altri.
I suoi nudi, i ritratti e le nature morte conservano un'eco cézanniana che, man mano, acquista un sapore espressionistico. Nei contadini a riposo, nella donna con i girasoli, nelle mucche al pascolo, nelle contadine con falce e nelle Crocifissioni resta il senso del mistero che lo accompagna dovunque e comunque, del quotidiano che non riesce a diventare eroico neppure quando viene trasfigurato. Lionello Venturi lo convertirà all'astratto concreto.

Corriere della Sera 30.10.11
Alla Strozzina di Firenze
Ispirazione e politica. Quel che resta della democrazia
di Stefano Bucci


L a maggioranza ha sempre ragione? No. Almeno secondo il 70,5% dei visitatori della mostra Declining Democracy in corso all Centro di Cultura Strozzina (CCCS) di Firenze. Il referendum legato alla esposizione curata da Piroschka Dossi, Gerald Nestler, Christiane Nestler e Franziska Nori (che del CCCS è anche direttrice) qualche ragione di riflessione la provoca senz'altro visto che i visitatori ancora convinti del potere della democrazia si fermano ad un esiguo 15,6% (il resto si dividono tra schede bianche e nulle). Anche perché la mostra che ha invitato dodici artisti contemporanei (da Lucy Kimbell a Cesare Pietrojusti), «a declinare i principi della democrazia in un momento in cui la loro validità sembra essere stata messa in discussione» ha voluto puntare l'obbiettivo proprio sulle difficoltà del mondo contemporaneo, in particolare di quello occidentale. Oltretutto, ai piani alti di Palazzo Strozzi (il CCCS si trova invece nei sotterranei dell'edificio rinascimentale progettato da Giuliano Sangallo, Benedetto da Maiano e dal Cronaca) viene proposta un'altra idea del potere, quella che lega il denaro e la bellezza (e una visita almeno per la Calunnia di Apelle di Botticelli o per l'Incontro di San Nicola del Beato Angelico la mostra, aperta fino al 22 gennaio, la merita sicuramente).
L'idea di base è quella di un'arte «trasformata in strumento di coinvolgimento». Per questo gran parte dei lavori esposti prevedono l'interazione dei visitatori (su Facebook è tra l'altro possibile trovare i risultati aggiornati del referendum). Visto che, spiega Nori, «gli artisti hanno voluto, tutti o quasi, indagare da un lato i meccanismi inceppati delle democrazie moderne ma dall'altro anche le possibili forme di partecipazione scaturite dalle nuove tecnologie di comunicazione e dai nuovi strumenti per comunicare e condividere opinioni».
Thomas Hirschhorn presenta ad esempio Where do I stand? What do I want? (2007): otto notebook rielaborati con disegni, scritti e collage mentre Francis Alÿs (Belgio) propone quel When Faith Moves Mountains che nel 2002, in Perù, coinvolse cinquecento volontari per spostare di circa dieci centimetri di una duna di sabbia larga quasi duecento metri (opera ormai considerata un manifesto dell'arte sociale). Thomas Kilpper ha affrontato invece il tema della migrazione documentando la sua esperienza a Lampedusa, dove (dal 2008) sta portando avanti il progetto A Lighthouse for Lampedusa, con l'obiettivo di costruire un faro con i frammenti delle barche approdate sull'isola. Michael Bielicky e Kamila B. Richter, con Garden of Error and Decay (2010) offrono a loro volta al pubblico «di intervenire come in un videogioco in un attacco frontale ai simboli del potere, utilizzando il social network Twitter». Stesso discorso per Democracia, un collettivo la cui nuova opera video Ser y Durar (2011) mostra alcuni giovani che, praticando il parkour all'interno di un cimitero civile, «si muovono tra monumenti e simboli ideologici creando una lirica riflessione sul rapporto tra individuo e storia collettiva». E ancora: Artur Zmijewski nella video installazione multicanale Democracies (2009) «formula un confronto tra momenti di proteste e manifestazioni in diversi paesi del mondo» e il collettivo Buuuuuuuuu, attivo su Internet, «sollecita azioni partecipative di dissenso contro gli autoritarismi di governi e istituzioni e propone una serie di azioni a cui i visitatori sono invitati a partecipare sia in mostra che nel loro blog». D'altra parte, «libertà è partecipazione», lo diceva anche Gaber.
La mostra: «Declining Democracy», Centro di Cultura Contemporanea Strozzina (CCCS), Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 19/1 (info: www.strozzina.org). Catalogo Silvana Editoriale, pp. 140, 25

Repubblica 30.10.11
All´inizio furono i blog
È la nuova stampa, bellezza
Visto, si posti
di Riccardo Luna


All´inizio furono i blog, poi divenne citizen journalism, ora si chiama "pro-am": professionisti e amatori che lavorano insieme su fatti, notizie e inchieste All´impegno di reporter fai-da-te si è aggiunta la qualità. Ecco come è scoppiata la pace tra la Rete e le redazioni

La guerra fra giornalisti e blogger è finita. Non è stato firmato nessun trattato di pace, non è stato necessario. È successo questo piuttosto. Intanto, i giornalisti sono scesi dal piedistallo (anche perché Internet il piedistallo lo aveva demolito): a volte bloggano, sempre più spesso stanno sui social media non solo per dare notizie ma per dialogare con i lettori da pari a pari. Sull´altra sponda i diari privati hanno lasciato i blog per traslocare su Facebook, mentre alcuni blogger hanno creato veri giornali online e molti cittadini prendono volontariamente parte al processo delle notizie postando foto, video e testi. Questa cosa nuova si chiama pro-am journalism e questo è forse il modo migliore di produrre informazione di qualità al tempo di Internet.
Lo si è visto durante la primavera araba, quando la più efficace fonte di informazione è stato un dipendente del network radiofonico americano Npr. Si chiama Andy Carvin, ha quarant´anni e il suo account Twitter è considerato «il migliore del mondo» dalla Scuola di giornalismo della Columbia University. Carvin non si limita a mandare messaggi (anche se il giorno della liberazione di Tripoli, lo scorso 21 agosto, ne ha inviati più di ottocento): usa Twitter come piattaforma per cercare notizie in tempo reale dai vari fronti ingaggiando un furioso controllo della verità via tweet in un dialogo continuo con il resto del mondo. Un professionista e migliaia di volontari. Il modello è lui.
Jay Rosen, che ha coniato l´espressione pro-am journalism, tutto questo lo aveva previsto sei anni fa. Docente di giornalismo alla New York University, a una conferenza a Cambridge lesse una relazione che si intitolava proprio "It´s over, la guerra è finita". Dirlo allora era difficile. Erano i tempi in cui Ben Bradlee, il leggendario direttore del Washington Post dello scandalo Watergate, poteva liquidare con una feroce battuta il fenomeno del citizen journalism, ovvero l´informazione fornita ogni giorno da migliaia di volontari in Rete: «Se hai un attacco di cuore chiami un chirurgo, non vai da un citizen-chirurgo». Ma a sgretolare questa contrapposizione, secondo Rosen, era bastata una frase nel reportage dell´inviato del New York Times John Schwartz dalla scena del terribile tsunami che aveva colpito l´Asia meridionale nel Natale 2004: «Per una cronaca migliore dalla zona del disastro è difficile fare meglio dei blog». Big Bang. Fu il primo, grande successo del citizen journalism, la scoperta che a volte un lettore di un giornale può fare meglio di un giornalista professionista se testimone oculare di un fatto. Già nel 1999 Dan Gillmor aveva sintetizzato il fenomeno con una massima affidata al San José Mercury News e diventata poi un mantra per la blogosfera: «My readers know more than I do, i miei lettori ne sanno più di me». Mai un giornalista aveva avuto il coraggio di dirlo.
Ma la convinzione che l´informazione di qualità potesse fare a meno dei giornalisti crollò, secondo Rosen, in seguito a un altro tipo di tsunami, la crisi finanziaria del 2008. «Tra i lettori dei quotidiani ce n´erano abbastanza che per esperienza diretta sapevano del problema dei mutui immobiliari, quella storia poteva essere scritta prima che lo scandalo esplodesse. Ma non è stato fatto». Perché? Perché giornalisti e cittadini non hanno collaborato. Dice sempre Rosen: «I giornalisti non sono abituati ad ascoltare, i blogger non sono preparati a dare un´informazione di qualità. Per questo abbiamo bisogno che lavorino assieme».
È quello che sta accadendo. Il caso più eclatante è forse quello dell´Huffington Post. Per seguire le elezioni è stata realizzata una piattaforma per ospitare i reportage dei cittadini: si chiama Offthebus, giù dall´autobus e fa il verso a un libro del 1973 che raccontava il dorato mondo dei giornalisti che seguivano i candidati dal bus ufficiale. Analogamente la Cnn ha creato iReport, una piattaforma dove chiunque può aggiungere contenuti: quelli migliori e vagliati dalla redazione finiscono sul sito ufficiale. La collaborazione però prevede uno scarto ulteriore come quello che fece il Guardian nel 2009 quando chiese ai suoi lettori di esaminare le migliaia di note spese dello scandalo dei parlamentari inglesi. Fu un successo e alcuni lo chiamarono "giornalismo diffuso".
Questo modello adesso arriva in Italia dove il citizen journalism vive una stagione florida. Secondo Liquida, che ne fa un monitoraggio continuo, i blog che fanno informazione sono circa 15mila. A questi vanno aggiunte oltre 500 micro web tv che fanno controinformazione locale e che trasmettono "a web unificato" in occasione di grandi eventi. Il caso di maggior successo è Agoravox: nato in Francia nel 2005 da un´idea dell´italiano Carlo Revelli, ha oltre centomila citizen reporter e vanta alcuni scoop come la prima intervista a Julian Assange. Da Parigi, dove hanno il quartiere generale, il direttore Francesco Piccinini dice: «Ci sono giornalisti che meritano tutta la nostra stima. Collaboriamo affinché i fatti tornino ad essere la notizia».
E la collaborazione è partita. Luca De Biase è un solido cronista dell´innovazione. Ora guida la Fondazione Ahref e ha da poco lanciato una piattaforma per il giornalismo di qualità. «Abbiamo parlato per anni di contrapposizione fra giornalisti e Rete, ma non ha più senso. Mettiamoci d´accordo sul metodo: accuratezza, imparzialità, indipendenza e legalità. E collaboriamo». Non a caso la piattaforma si chiama Timu, che in swahili vuol dire «facciamo squadra». È partita con un´inchiesta collettiva sulla dispersione scolastica promossa dalla Fondazione per il Sud. E ora ha in corso una gara per indicare quali devono essere i prossimi muri da abbattere. Ma gli obiettivi sono molto più ambiziosi: «Produrre collettivamente le migliori inchieste civiche». Un giornalista guida e gli altri lo aiutano. Sì la guerra è proprio finita. Bloggate in pace.