lunedì 24 ottobre 2011

l’Unità 24.10.11
«Una scena impietosa Italia ridicolizzata per colpa del governo»
L’europarlamentare Pd: «ll nostro Paese avrebbe
le possibilità per farcela. Questo governo ci costringe a combattere con le mani legate, senza idee credibili»
di Andrea Carugati


Quella di Merkel e Sarkozy è una risata molto amara per il nostro Paese. L’Italia viene messa alla berlina dall’Europa,
ma non merita tutto questo. Nessuno può offendere l’Italia in questo modo», dice David Sassoli, capodelegazione Pd al parlamento europeo. I due leader hanno sorriso in risposta a una domanda sulle rassicurazioni offerte da Berlusconi sulla crisi...
«Quella risata è una fotografia impietosa, e la cosa che fa più rabbia è che il nostro Paese avrebbe tutte le possibilità per farcela, mentre questo governo ci costringe a combattere con le mani legate, senza un’idea, una proposta. Spero che gli italiani esprimano la giusta dose di rabbia per tutto questo...».
C’è un ultimatum all’Italia.
«La situazione è drammatica e la riunione del Consiglio europeo lo ha consacrato. Siamo in una guerra, davanti ad un’Europa, quella di Merkel e Sarkozy, che presenta anche un volto egoista. L’Italia avrebbe tante buone ragioni da spendere, anche di fronte a Francia e Germania e alle istituzioni europee. Una grande occasione per sostenere che da questa crisi non si esce con “meno Europa”, ma solo dando vita agli Stati Uniti d’Europa. Del resto la California non sta molto meglio della Grecia. Eppure nessuno stato americano si sognerebbe di abbandonarla».
Come giudica nel merito le ricette europee, a partire da un nuovo intervento sulle pensioni?
«Credo che il sistema italiano sia in grado di affrontare alcuni di questi
capitoli. Le pensioni? Mettiamo le parti sociali intorno a un tavolo. Si può ragionare. Ma si scordino di uscire da questa situazione spaccando il Paese: quel tipo di riforme non si fanno contro i sindacati. Il problema vero è la debolezza politica di questo governo, che è arrivato al capolinea. È il sistema paese che deve reagire nel suo complesso. È in grado questo governo di guidare questo percorso? Mi pare evidente di no».
La Spagna è stata considerata fuori pericolo. Mentre l’Italia finisce all’angolo, insieme la Grecia.
«In Spagna c’è stato un effetto tranquillizzante quando sono state indette le elezioni anticipate. Anche Tremonti, in un momento di sincerità, lo ha ammesso. Le opposizioni hanno il dovere di invitare il governo a farsi da parte».
Sono mesi che le opposizioni insistono su questo...
«E invece assistiamo a una maggioranza attaccata alla sedia e legata da vincoli spregiudicati. Che ignora del tutto le esigenze del Paese».
Come faranno a presentare delle proposte all’Europa entro mercoledì? «Colpisce che un uomo pacato come
Van Rompuy, presentite del Consiglio europeo, faccia l’elenco degli impegni che deve assumere l’Italia. E colpisce quanto siano elevate le aspettative. Possiamo aspettarci che il governo in tre giorni sia così lungimirante da affrontare le grandi questioni che sono state poste? Io voglio bene all’Italia, mi auguro che si inventino qualcosa per sostenere la crescita. Ma ricordo che fino ad oggi non c’è stato nulla. E la lettera della Bce è arrivata dopo tre manovre sbagliate».
Prima lei parlava di egoismo di Merkel e Sarkozy...
«Esprimono un’idea di Europa che non è all’altezza di questa crisi. L’idea cioè che i paesi un poco più forti possano cavarsela da soli. Anche le conclusioni del Consiglio europeo sono deludenti. Non c’è stato nessun riferimento ai Project bonds, che pure erano stati sollecitati dal Parlamento e dalla Commissione europea. E c’è stato solo un timido accenno alla proposta di tassazione delle transizioni finanziarie che il presidente Barroso aveva indicato come necessaria per destinare denaro alla crescita».

Repubblica Affari e finanza 24.10.11
Berlusconi, il  suicidio più lungo della storia
di Alberto Statera


Sono quattro i tipi di suicidio secondo la classificazione che ne fece lo scienziato francese dell’inizio del novecento Emile Durkkheim.
Oltre al suicidio "fatalistico" e a quello "altruistico", il sociologo e antropologo indagò un secolo fa il suicidio "egoistico" e quello "anomico", dovuto alla mancanza di norme sociali e morali.
Di quale suicidio muoiono Silvio Berlusconi e il suo governo, che da mesi vivono in coma farmacologico, attaccati a una macchina rappezzata con il fil di ferro della corruzione di pezzi di parlamento comprati a caro prezzo?
Su questo investiga non un saggio di neuropsichiatria, ma un libro politico di Edmondo Rho, in uscita per "Melampo", intitolato, per l'appunto, "Il suicidioIl declino del berlusconismo, cronache e retroscena".
Prefato, non a caso, da Giuliano Pisapia, che è stato eletto sindaco nella capitale berlusconiana anche in seguito all'ennesimo atto autolesionistico del premier, che nel maggio scorso aveva lanciato nella campagna elettorale a Milano un fallimentare referendum su sé stesso, il libro sembra decisamente escludere il fatalismo.
Quanto all'altruismo, visti i danni che subisce il paese per il ritardo nel compiere definitivamente "l'atto sconsiderato", si tratta di concetto ignoto alla psiche del premier.
Ecco allora che Rho documenta l'interminabile dipanarsi di un suicidio anomico egoistico, con l'autodistruzione sistematica di una leadership carismatica che per più di tre lustri ha incredibilmente stregato metà del paese, di un grande partito nato dal nulla e di un governo sulla carta così forte che avrebbe potuto riformare veramente l'Italia tenendola al riparo dalla crisi economica e dal dileggio internazionale.
Al netto dell'armata di lenoni, pregiudicati, puttane, spacciatori, affaristi e truffatori accolti amorevolmente nel "cerchio magico" del premier e dell'imperversare delle cricche sotto l'ala di palazzo Chigi con l'efficiente coordinamento di Gianni Letta, "Il suicidio" ripercorre tappa per tappa il crescendo di autolesionismo.
Un farsi del male cosciente, come dimostrò già il comizio del 7 maggio scorso quando il premier disse parlando di sé stesso in terza persona: "Se per caso questo presidente del consiglio viene fuori a Milano con meno di 53 mila preferenze tutta la sinistra sinistrata d'Italia mi fa il funerale". Ne prese poco più della metà.
Non andò meglio a Napoli con la candidatura fortemente voluta di Gianni Lettieri, amico di quel Nicola Cosentino accusato di camorra, che conscio dell'imminente sconfitta lo scongiurò di non scendere a far comizi. Poi vennero i siparietti davanti al palazzo di giustizia di Milano, con sparuti gruppetti di sostenitori da avanspettacolo all'insegna del "pericolo comunista" e del "complotto nediatico giudiziario".
Ciarpame, come direbbe l'ex moglie Veronica, cui non crede più neanche l'ultima delle comparse prezzolate. Infine l'ordalia mediatica del 20 maggio, sei interviste nell'arco di due ore alle sue cinque televisioni Mediaset e Rai, trascurando completamente il popolo del web, e l'autogol col tentativo di sabotaggio del referendum di giugno sul nucleare.
Il resto è cronaca di questi giorni, nei quali assistiamo all'epilogo del suicidio di massa più lungo della storia e del funerale più rimandato. Con lo sfondo dei "morituri di Montecitorio", dal titolo di un pamphlet di tanti anni fa.

Carmilla on line 24.10.11
Dollhouse Parliament
di Alessandra Daniele

qui

Repubblica 24.10.11
Commissariati da “Merkozy"
di Tito Boeri


Doveva essere il week-end del salvataggio dell´euro e dell´intera costruzione europea. Lo ricorderemo invece per i sorrisi sarcastici di Sarkozy alla conferenza stampa in chiusura del vertice europeo, quando gli è stato chiesto un giudizio sugli impegni presi dal nostro presidente del Consiglio. Lo ricorderemo per gli ammiccamenti fra il presidente francese e Angela Merkel.
Lo ricorderemo per il lungo silenzio di quest´ultima di fronte ai dubbi espressi in modo così evidente sulla credibilità di chi rappresenta il nostro Paese. Questo teatrino non solo è umiliante, ma anche ha dei costi per tutti noi: è difficile per chi guarda all´Italia dall´estero scindere le opinioni sul nostro presidente del Consiglio da quelle sulle nostre istituzioni.
Ieri il "duunvirato Merkozy" ha operato un netto distinguo tra, da una parte, Grecia e Italia e, dall´altra, gli altri paesi coinvolti nella crisi del debito. Si sono rivolti a Berlusconi e a Papandreou come se fossero loro il problema, come se avessero "la stessa faccia", e le nostre istituzioni fossero della "stessa razza" di quelle che in Grecia hanno per lungo tempo occultato le vere dimensioni del deficit pubblico. Spiace ritrovarsi accomunati a chi ha scatenato la crisi del debito, ed è per noi ingeneroso ogni parallelo fra le istituzioni che monitorano e certificano i conti pubblici nei due paesi. Ma è innegabile che portiamo grandi responsabilità se non nella genesi, quanto meno nell´escalation della crisi, per i pesanti ritardi con cui il nostro governo è intervenuto in questi mesi. Ed è del tutto comprensibile che i contribuenti tedeschi e francesi che dovranno impegnarsi di più per tenere l´Euro in piedi si vogliano oggi tutelare contro il rischio che chi beneficia degli aiuti ne approfitti per rinviare ulteriormente scelte difficili quanto inevitabili. A ben vedere il problema è tutto lì: non usciremo dalla crisi fin quando non solo i leader, ma anche l´opinione pubblica francese e dei paesi dell´ex area del marco si saranno convinte che gli strumenti di salvataggio che si vanno faticosamente approntando a livello europeo non sono un pozzo senza fondo. Hanno non poche ragioni per temere atteggiamenti opportunistici. Se la Banca Centrale Europea non fosse intervenuta massicciamente a sostegno dei nostri titoli di stato negli ultimi tre mesi, non avremmo un governo che continua a procrastinare le misure per la crescita, dopo aver per lungo tempo cercato di rinviare ai posteri anche l´aggiustamento fiscale. Eppure non usciremo dalla crisi senza un prestatore di ultima istanza di dimensioni sufficienti, come potrebbe esserlo la Bce. È questo in fin dei conti il problema affrontato in queste interminabili riunioni d´emergenza dei leader europei: come trovare consenso per interventi della dimensione richiesta dall´aggravarsi della crisi, rassicurando gli elettori del "cuore dell´Euro" sulla qualità del risanamento in atto nei paesi ad alto debito.
Vertice dopo vertice, gli interventi sulla carta messi a disposizione per sostenere i paesi in crisi del debito sono sempre più consistenti, per qualche giorno magari convincono anche i mercati, ma poi si rilevano ogni volta insufficienti per bloccare il contagio, la diffusione a macchia d´olio della crisi. Si potrebbe ironizzare sui tantissimi complicati schemi ideati in questi mesi per cercare di aumentare le risorse messe effettivamente in campo dai vari governi. Sono riuscite a riportare in auge gli strumenti di finanza creativa ritenuti responsabili della crisi del 2008! Come nel caso dei vituperati CDOs, si impacchettano i "titoli tossici" dei paesi periferici con quelli di paesi che godono ancora della tripla A. Ma i mercati hanno imparato la lezione: non è un caso che lo spread fra i bund tedeschi e i titoli emessi dal fondo di salvataggio europeo si siano pericolosamente allargati negli ultimi giorni.
Il fatto è che finché si interverrà reagendo alla diffusione della crisi, anziché cercando di anticiparne gli sviluppi futuri, si sarà sempre in ritardo. Bisognerebbe invece sorprendere i mercati mettendo in campo un credibile prestatore di ultima istanza, in grado di intervenire ben oltre i limiti oggi imposti al fondo salva stati, impedendo il fallimento di altri stati dopo la Grecia. La Banca centrale europea ha tutte le caratteristiche per ricoprire questa funzione, peraltro svolta dalla Fed sull´altra sponda dell´Atlantico. Ma giustamente la Bce non intende cimentarsi in questo compito fin quando non avrà ricevuto un chiaro mandato politico e legale dai governi della zona dell´Euro. Si è già spinta molto al di là dei compiti tradizionali di una banca centrale negli ultimi anni, diventando una specie di hedge fund, e non può diventare prestatore di ultima istanza dei governi, oltre che delle banche della zona euro, senza un preciso mandato. Altrimenti, oltre ad agire illegalmente, non sarebbe credibile perché i governi potrebbero un domani smettere di ricapitalizzarla, non dotandola di quelle risorse che le permettono effettivamente di fare prestiti ai paesi (e alle banche) in difficoltà.
La Bce non verrà mai messa in condizione di operare come la Fed, oppure di finanziare un fondo di salvataggio europeo, finché gli elettori ai due lati del Reno non si convinceranno del fatto che non c´è comportamento opportunistico nei paesi del Sud Europa. Per questo la Merkel e Sarkozy hanno ieri parlato come veri e propri commissari straordinari del nostro paese, sostenendo che d´ora in poi vigileranno passo dopo passo su ciò che farà Berlusconi, e si sono spinti fino a imporre un ultimatum di tre giorni e a dettare un´agenda di misure a un grande paese fondatore dell´Unione. Si rivolgevano soprattutto agli elettori tedeschi e francesi. Il nostro Presidente del Consiglio ha reagito annunciando una riunione d´emergenza del Consiglio dei Ministri e misure su pensioni e vendita di immobili pubblici. Avremmo evitato tutto questo se il nostro governo avesse agito per tempo senza dover subire alcun ultimatum dall´Europa. Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Abbiamo bisogno di riforme che affrontino i nodi strutturali, specifici del nostro paese. Bene, dunque, che le riforme per la crescita siano decise da noi, invece che essere imposte dall´esterno.


Repubblica Affari e Finanza 24.10.11
Gli "Arrabbiati" dopo la protesta ora preparano le prossime mosse
di Laura Kiss


Parola d'ordine: global change. E' quello che vogliono ottenere gli Indignados italiani, i Draghi ribelli, accampati dal 12 ottobre in molte piazze italiane e sfilati fragorosamente per le vie di Roma sabato scorso. Ora preparano le prossime mosse. Sono pensionati, disoccupati, liberi professionisti. I più sono giovani, preparati, spiritosi e hanno ritrovato lo spirito combattivo che scaturisce dalla consapevolezza che il futuro è nelle loro mani. "Non vogliamo guardare solo alla politica italiana", dice Sergio, laureato in ingegneria con 110 e lode e disoccupato. Non vuole lasciare l'Italia perché "io sono nato qui, l'Italia potrebbe essere il posto più bello del mondo dove vivere se le cose andassero in modo diverso. Io sono cresciuto sotto Berlusconi e praticamente non ho un termine di paragone con gli altri governi che lo hanno preceduto. Ma la cosa importante da capire è che noi siamo un movimento globale e vogliamo cambiare il modo in cui l'economia è stata gestita finora, non solo questo governo. Dai risultati che abbiamo davanti questo è un fallimento generale visto che tre quarti del mondo è affamato, il sistema di capitalismo occidentale è crollato e nessuno ha una soluzione. Basta con il predominio di banche e istituti finanziari, dobbiamo dialogare tra noi e rafforzare un movimento di economia etica ovunque nel mondo, costringendo i governi ad ascoltarci non solo in Italia. Il futuro è nostro: questo è l'unico dato certo". Gli fa eco Sara, terzo anno di biologia alla Sapienza: "E' tutto il modello culturale che va cambiato, globalmente. Bisogna trovare una forma di vera democrazia in cui vengano rispettati i diritti di tutti. Non è più sostenibile vivere su un pianeta in agonia dove vige l'egemonia di pochi. Il bello di questo movimento è proprio la grande differenza culturale che ci contraddistingue". All'interno del Comitato del 15 ottobre sono confluiti oltre 50 tra movimenti studenteschi, centri sociali, associazioni politiche e sindacali.

Repubblica 24.10.11
La sfiducia diffusa che inghiotte tutto
Il Paese sospeso tra indignazione e sfiducia
di Ilvo Diamanti


Per il sondaggio di Demos, nel Paese c´è una "indignazione" diffusa: tutti sono indignati contro le istituzioni pubbliche e contro la casta

Questa legislatura resiste. Malgrado che, da mesi, tutti ne evochino la fine. Invocata dall´opposizione, esorcizzata dalla maggioranza. Malgrado che gran parte degli elettori (oltre il 70%) ritenga la parabola di Berlusconi ormai conclusa. Non credono alla risalita del Cavaliere neppure gli elettori del Pdl (45%), tantomeno i leghisti (20%). Tuttavia, si prosegue. O meglio, si staziona. Mentre la sfiducia dei cittadini cresce, insieme all´incertezza nel futuro. I dati dell´Atlante Politico di Demos, raccolti attraverso un sondaggio condotto durante la scorsa settimana, descrivono, infatti, uno scenario statico e pressoché stagnante, sul piano elettorale.
I due principali partiti confermano il loro debole primato nella coalizione. Il Pd, in lieve calo, si attesta intorno al 28%. Il Pdl, in lieve crescita, raggiunge il 26%.
Insieme superano di poco il 54%. Alle politiche del 2008 erano oltre il 70%. Una conferma di più che la prospettiva bipartitica è ormai illusoria. Ma, soprattutto, un segno di crisi del bipolarismo così come l´abbiamo conosciuto. D´altronde, gli alleati dei due partiti maggiori IdV e SEL, a centrosinistra, la Lega, a centrodestra occupano uno spazio rilevante. Ma non possono svolgere un ruolo aggregante. Non ne hanno la vocazione e tanto meno il peso. La Lega, peraltro, appare in calo sensibile.
Gli scenari elettorali tracciati in base alle possibili coalizioni confermano le tendenze dell´ultimo anno. Il Centrosinistra – impostato sull´alleanza fra PD, IdV e SEL – sembra in grado di prevalere comunque. Da solo, in una competizione a tre, contro il Centrodestra e il Centro. A maggior ragione, se alleato con il Centro. Ma anche messo di fronte al Centrodestra allargato al Centro. Il quale conferma la sua difficoltà coalizionale. Perché i suoi elettori soffrono ogni spostamento; verso sinistra, ma anche verso destra. Mentre da solo il Terzo Polo allargherebbe i consensi molto al di là della somma del voto attribuito ai partiti che ne fanno parte – UdC, API, FLI. Le stime di voto si riflettono nelle previsioni degli elettori. Quasi il 50% di essi pensa che se si votasse oggi vincerebbe il Centrosinistra, il 37% il Centrodestra, per il quale significa 10 punti in più rispetto a un mese fa. La ripresa del Centrodestra, nella percezione degli elettori è favorita, forse, dal successo alle Regionali in Molise, per quanto stentato. Ma è, soprattutto, un segno che si respira aria di elezioni anticipate. Non a caso si è ridotta la quota di coloro che, al proposito, non esprimono un´opinione. D´altronde, è diminuita sensibilmente anche la "zona grigia" dell´incertezza e dell´astensione elettorale. Oggi non supera il 25%: circa 10 punti percentuali meno di un mese fa.
Eppure, l´orizzonte resta pervaso dall´incertezza. Di fronte alla crisi politica attuale, infatti, gli elettori si dividono in modo eguale fra le tre soluzioni proposte: un governo di emergenza, guidato da una figura autorevole (l´ipotesi preferita, anche se di poco: 34%); nuove elezioni nei prossimi mesi; oppure tirare avanti, con questo governo, fino al 2013. Insomma, come si è detto, questa legislatura sfinita non si decide a finire. Anche se la stanchezza del governo è evidente e riflette, anzitutto, la stanchezza della leadership.
La fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, infatti, è ai minimi (22%, quasi come il mese scorso). Più basso di lui, solo Bossi, il fedele alleato. I due appaiono saldamente legati, nella buona e nella cattiva sorte.
Tuttavia, questa palude di sfiducia rischia di inghiottire tutto e tutti. Non solo i partiti e gli uomini della maggioranza.
Basta guardare gli indici di fiducia nei confronti dei leader politici. Tutti in calo. In testa è tornato Tremonti, con il 37% di consensi. Ma solo perché, nell´ultimo mese, ha perso meno degli altri. Un anno fa, tuttavia, il credito verso il ministro dell´Economia era superiore di 10 punti percentuali. Il leader del PD, Bersani, ottiene la fiducia del 34% degli elettori: 7 punti meno di un anno fa. L´indice di fiducia verso Vendola, rispetto al novembre 2010, è sceso addirittura di 15 punti. Ora è al 33%. Perfino Beppe Grillo che, sulla sfiducia verso "tutti" i partiti, ha fondato la propria fortuna nell´ultimo anno un anno ha perso 8 punti di consenso. Di Pietro, restando fermo al 35% come un anno fa, è quasi in testa alle preferenze. Il fatto è che la fiducia si è rarefatta. Basti pensare che nella graduatoria costruita in base agli indici di fiducia personale, nel novembre del 2010, il leader posizionato al 5° posto, cioè a metà, otteneva il consenso del 39% degli intervistati. Oggi la fiducia verso il leader che occupa la medesima posizione è scesa al 30%.
La sindrome della sfiducia affligge tutti gli attori politici. I partiti per primi: "stimati" (si fa per dire) da meno del 5% dei cittadini. Ma anche le istituzioni. Lo Stato (il cui l´indice di fiducia si è ridotto al 20%), la stessa magistratura (42%: 7 punti meno di un mese fa). L´onda grigia lambisce perfino il presidente della Repubblica, che dispone di un consenso cosmico, rispetto a tutti gli altri. Il 70% dei cittadini esprimono "molta/moltissima" fiducia nei suoi confronti. Il che significa, però, 4 punti in meno di un mese fa.
D´altronde, la sfiducia nel futuro (62%) non è mai stata così alta, negli ultimi dieci anni.
Anche per questo motivo non sorprende che la maggioranza degli italiani esprima sostegno gli "indignati" che hanno manifestato il 15 ottobre a Roma. Nonostante le violenze che ne hanno funestato lo svolgimento – le cui responsabilità, tuttavia, sono attribuite prevalentemente ad altri soggetti. Non è solo perché è difficile disconoscere le buone ragioni degli "indignati". La frustrazione dei giovani, privati del futuro, costretti a un eterno presente, naturalmente precario. Il fatto è che l´indignazione è, ormai, un esercizio collettivo. Tutti si sentono e sono indignati. Contro le istituzioni pubbliche, contro lo Stato, gli statali, i partiti, i politici. Contro la Casta. Perfino i politici e la Casta si sentono indignati. Reciprocamente e contro chi si indigna con loro.
Da ciò il rischio. Che l´indignazione smetta presto di essere una virtù rivoluzionaria. E diventi un riflesso condizionato. Una parola alla moda. L´ultima beffa verso coloro che hanno tutti i motivi per dirsi "Indignati". Non gli hanno rubato solo il Futuro e il presente. Ma perfino l´Indignazione.

Repubblica 24.10.11
Atlante politico
Il governo perde 10 punti in un anno ma il centrosinistra non amplia il vantaggio
Pdl stabile, Lega in caduta. Terzo polo al 19% se corre da solo
Berlusconi e Bossi ultimi tra i leader Lieve arretramento per Pd (28,1%) e Idv (8,2%), compensato però dalla risalita di Vendola (6,8%)
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


Un calo di dieci punti in un solo anno: l´Atlante Politico di Demos conferma la forte caduta di consenso verso il governo e verso il premier. Nelle intenzioni di voto, il vantaggio a favore del centrosinistra rimane consistente, anche se leggermente ridimensionato rispetto a settembre (da +9 a +8 nei confronti del centrodestra).
Il clima di opinione appare sempre più dominato dalle preoccupazioni per la crisi economica e per i sacrifici richiesti ai cittadini per affrontarla. Maggioranza e opposizione esitano ad impegnarsi sulle misure proposte dalla Bce, che risultano largamente impopolari: pochi intervistati approvano gli interventi sulle pensioni (6%) e la riduzione della spesa pubblica per i servizi sociali (5%). Le ipotesi di condono incontrano il favore di una componente molto ridotta (8%), mentre appaiono preferibili, in tutti gli schieramenti, le proposte di aumento delle tasse sui patrimoni e le rendite (32%), in proporzione al reddito (25%), oppure la vendita di parte del patrimonio pubblico (17%). E´ aumentata, in questo contesto, la disaffezione e la sfiducia verso la classe politica, che colpisce oggi anche l´opposizione e tutti i principali leader.
Sembra avere esaurito i propri effetti la spinta, favorevole al centro-sinistra, prodotta dai travagli estivi del governo e, ancor prima, dalla primavera elettorale. Pd (28.1%) e IdV (8.2%) registrano un relativo arretramento rispetto a settembre, compensato però dalla risalita di Sel (6.8%). Nel campo del centrodestra, il PdL, superato l´ennesimo voto di fiducia, sembra avere stabilizzato anche le intenzioni di voto (26.1%). Per la Lega, attraversata da molteplici tensioni, prosegue invece il trend negativo registrato un mese fa (8.8%).
D´altra parte, il gradimento dei cittadini per l´esecutivo fa segnare, ad ottobre, il nuovo minimo storico: 21%. Mentre Berlusconi (23%), assieme a Bossi (22%) e Alfano (25%), figura in coda alla graduatoria dei leader. Una classifica sempre più "corta" e schiacciata verso il basso: Tremonti torna ad occupare il gradino più alto, ma con appena il 37%. Lo seguono da vicino i leader delle tre formazioni di centrosinistra: Di Pietro (35%), Bersani (34%) e Vendola (33%). I due leader centristi Fini e Casini precedono, intorno al 30%, Grillo (28%).
Le attese per una vittoria del centrosinistra (49%) superano di dieci punti quelle per il centrodestra, le cui quotazioni, nelle previsioni degli elettori, sono in parte risalite nell´ultimo mese (dal 27 al 37%).
Gli equilibri elettorali cambiano, in parte, se consideriamo le intenzioni di voto per coalizione: l´indagine ha testato tre diverse configurazioni, per quanto riguarda la geometria delle alleanze. In una ipotetica corsa a tre, il "nuovo Ulivo" otterrebbe oggi il 44%, con uno scarto di oltre sette punti rispetto al centrodestra. Il Terzo polo, in questo scenario, sale fino al 19%: sei punti in più rispetto alla somma dei partiti che lo compongono (Udc, Fli e Api). Il centrosinistra risulta vincente anche nel caso di una competizione fra due grandi schieramenti: più agevolmente se alleato con le formazioni di centro (55%); con maggiore difficoltà (52%) qualora l´Udc tornasse al patto con il centrodestra. E´ interessante notare come, in entrambe le ipotesi di tipo bipolare, gli elettori dei partiti del Terzo polo tenderebbero a dividersi in misura significativa.

Repubblica 24.10.11
Bersani, appello a progressisti e moderati "Patto vincolante per la governabilità"
Casini: alleanze sui contenuti. Fini: si voterà nel 2012
Intervista del segretario pd al Pais: lavoriamo per un meccanismo che assicuri stabilità


ROMA Futuro e libertà annuncia che metterà il nome di Fini nel simbolo. E Pier Luigi Bersani fa sapere qual è la prossima mossa del Partito democratico: stringere un «patto» di ferro con il Terzo polo. Sembra che nel campo delle opposizioni sia già pronta la campagna elettorale.
Il segretario del Partito democratico rilascia un´intervista al Pais e chiarisce qual è la vera alleanza cui punta il suo partito. «Visto che la parola d´ordine è ricostruzione, la proposta politica deve essere ampia. Ossia un incontro tra forze progressiste e moderate sottolinea Bersani . Ma queste forze devono dare garanzia di governabilità. Stiamo lavorando per arrivare a un patto vincolante nei punti critici e per un meccanismo che stabilisca e garantisca la stabilità. In sintesi va detto che la battaglia sarà dura e lunga. Che tutti dovranno fare uno sforzo, ma chi ha di più dovrà dare di più».
Il leader democratico quindi indica anche alcuni punti sui quali l´intesa con i centristi è possibile. Dalle sue parole sembra di capire che la trattativa è in corso, magari già in uno stadio avanzato. «Bisogna mettere mano al mercato del lavoro affinchè il lavoro stabile costi un pò meno e il lavoro precario un pò di più spiega . Fare liberalizzazioni in alcuni settori. Riequilibrare lo stato di benessere per indirizzare risorse ai giovani. E´ necessario per recuperare il nostro ruolo e prestigio in Europa».
Proprio sui temi Pier Ferdinando Casini "sfida" il Partito democratico. Frenando rispetto all´ipotesi di una coalizione tra progressisti e moderati. «Stimo Pier Luigi Bersani, ma nel suo ruolo non lo invidio dice il leader dell´Udc . Dovrebbe proporre delle alleanze sui contenuti, sulle cose concrete, non sui nominalismi». C´è da lavorare insomma. «E´ evidente osserva che se non si fanno accordi politici sui programmi concreti, poi non si riesce a governare». Gianfranco Fini è convinto che le elezioni siano vicine, a un passo: nel 2012. Ma l´immobilismo del governo può essere una lunga agonia. «Il governo è fermo e quindi non rischia di inciampare», dice il presidente della Camera a Che tempo che fa. Ma, aggiunge, «sono sicuro che si voterà nella primavera del 2012». Perché è il premier a volerlo. «Ho detto agli amici del Pdl che è ormai suonato il campanello dell´ultimo giro. Berlusconi tira a campare ancora per qualche settimana per poi andare al voto in primavera. E anche se lui ha detto di essere sicuro di arrivare al 2013 proprio perchè l´ha detto significa che si voterà nel 2012». Il problema è che «si andrà a votare con questa legge elettorale». A meno che nelle prossime settimane prenda corpo un nuovo governo. «E´ chiaro che chi ha la maggioranza debba governare e io non penso a un ribaltone e quindi il Pdl ha tutto il diritto di governare ma con un nuovo presidente del Consiglio che si presenti poi in Parlamento per fare tre cose utili per rilanciare il paese e la prima di queste è proprio la riforma della legge elettorale». Allungamento dell´età pensionabile e patrimoniale sono le misure che un nuovo esecutivo dovrebbe prendere. «Ma la patrimoniale non piace a Berlusconi perché colpisce soprattutto lui», attacca Fini. Che subisce il contrattacco dell´intero Pdl per la sua scelta di mettere il nome nel simbolo: la richiesta corale è sempre quella delle dimissioni.
(g.dm.)

Repubblica 24.10.11
L'iniziativa di Civati e Serracchiani. Franceschini: "Una boccata d´ossigeno"
Pd, la sfida dei "ricostruttori" "Al potere la nuova generazione"
di Marco Marozzi


BOLOGNA Prodi e Bersani non si sono visti. Ma loro, i "ricostruttori" del Pd, non si sono offesi e li hanno trattati come nipotini affettuosi e un poco monelli. «Bersani manda un saluto», ha annunciato Debora Serracchiani. Poi, mentre la platea rideva, «un saluto vero, è malato, ha la febbre, altrimenti sarebbe venuto». E Prodi? «Dicono che girava qui attorno e che è appena diventato nonno per la sesta volta» raccontano i ragazzi in platea, poco presi dai carismi storici e piuttosto molto addolorati per un altro annuncio, la morte del loro coetaneo Marco Simoncelli.
«Grazie a questa città, forse ci faremo la festa annuale del partito futuro» annuncia Pippo Civati nel tendone dipiazza maggiore. Sono diversi dai "rottamatori" del fiorentino Matteo Renzi, non rompono con i vertici del partito, ma fanno dimostrazione garbata di considerarli ormai superati. «Siamo pronti, quando sarà il momento, chiude Civati la due giorni bolognese a portare alla guida del Pd quello che stiamo facendo e proponendo da anni. Sia che Bersani faccia il candidato premier sia che lo faccia un altro. Ma se qualcuno crede che il ruolo di segretario e di premier sono separati lo si dica subito e si affronti la questione dentro il partito: in quel caso noi abbiamo le nostre idee. Il candidato premier non potrà certo essere in contrasto con il segretario».
In platea un migliaio di ragazzi di poco più di vent´anni, ai margini del Pd bolognese ma comunque contenti di due giorni di pienone. In prima fila Dario Franceschini capisce il clima: «Sono venuto solo per ascoltare. C´è chi ne aveva parlato come di un´iniziativa chiusa, invece ho sentito molte idee, molte spinte al cambiamento: questo è ossigeno per il Pd». «Non siamo qui per fondare la diciassettesima corrente – promette Debora Serracchiani –. Non pensiamo che non serva un capo, ma una partecipazione collettiva di liberi e forti». E Civati: «L´obiettivo non è fondare una corrente, ma portare questa generazione al governo del paese». I due si alternano ai microfoni.
Applaude ed è applaudito anche Enrico Rossi, il governatore della Toscana. E da lontano il gran consigliere di Prodi, Arturo Parisi, annunciato il 28 ottobre alla riunione convocata da Renzi a Firenze, lancia un segnale di attenzione: «Grazie a Civati e Serracchiani oggi sappiamo sicuramente di più sulla loro personale posizione. Confidiamo che anche le iniziative come quella di Renzi ci aiutino ad andare avanti nell´approfondimento e nel confronto con eguale chiarezza».

«La fotografia trasmessa dal Corriere purtroppo è vera — afferma Giorgio Merlo —: 16 correnti, di cui 4 o 5 di natura generazionale...»
Corriere della Sera 24.10.11
Bersani ha la febbre, non va da Civati Lui: troppe correnti...
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Lavorano di buona lena, i «ricostruttori» Pippo Civati e Debora Serracchiani: sfornano proposte, ci mettono passione, fanno capire di voler essere della partita quando il gioco si farà duro (dalle primarie a tutto il resto) e per due giorni riescono a tenere incollate alle poltrone quasi 5 mila persone sotto il tendone bianco in piazza Maggiore. Eppure alla fine qualcosa manca nel cantiere in costruzione di quello che qualcuno ambiziosamente chiama «l'altro Pd», come se l'attuale fosse già in scadenza. Dov'è il capomastro Pier Luigi Bersani? Perché, «atteso messianicamente per due giorni», come dice, non senza ironia, Pippo Civati, non si è fatto vedere? «Il segretario? Per lui, minestrina e copertina calda, altro che kermesse bolognese: ha la febbre a 38...», rivela a fine mattina Ivan Scalfarotto, che da vicepresidente del Pd ha tenuto i contatti con il leader, sperando di portarlo sotto le Due Torri. Febbre diplomatica per non rischiare di essere messo dietro alla lavagna dai «ricostruttori»? Scalfarotto sgrana gli occhi: «Ma no, ma no, è davvero indisposto, sentisse che voce aveva stamattina...». Niente Bersani. Pippo e Debora, che pure sul leader dicono di voler continuare a scommettere, incassano il colpo con ostentata noncuranza. Lei annuncia: «Il segretario ci saluta, ma ha il raffreddore, altrimenti sarebbe venuto». Lui chiosa: «E che non vi passi per la testa di dar la colpa alle correnti... Vorrà dire che le nostre proposte gliele porteremo a domicilio». In platea nessuno si straccia le vesti, ma qualche mugugno affiora. D'altra parte, da uno dei tanti sondaggi effettuati durante la due giorni con il metodo dell'instant poll (tramite cellulari), emerge che per il 65% della platea Bersani avrebbe fatto bene a venire «per ascoltare», mentre solo il 33% lo avrebbe voluto lì «per sentirlo parlare». Ma oltre all'assenza del leader, a turbare il lavoro dei «ricostruttori» ha contribuito anche la fastidiosa sensazione di essere etichettati come l'ennesima corrente in formazione (la sedicesima, o giù di lì). Si è ribellato, volando alto, Civati: «Niente del genere, il nostro obiettivo è portare questa generazione al governo». L'ha ripetuto, più aspra, la Serracchiani: «Le correnti si fanno nel sottobosco, non con un'iniziativa in piazza: vogliamo un Pd coraggioso che punti sul merito, non sui mediocri». Non tutti la pensano così: «La fotografia trasmessa dal Corriere purtroppo è vera — afferma Giorgio Merlo —: 16 correnti, di cui 4 o 5 di natura generazionale, denotano che la scommessa politica deve essere ancora vinta». I «ricostruttori» intanto mettono mattoni. Civati ha rilanciato le primarie anche per i parlamentari, ha bocciato «una politica intesa come mestiere a vita», andando poi a toccare uno dei nervi sensibili del Pd: «Se sarà Bersani candidato alle primarie, a noi va bene. Ma se qualcuno è contrario, siamo pronti a discutere della divisione tra il ruolo di leader e quello di aspirante premier». Finisce tra i sorrisi, con l'incoraggiamento del capogruppo Dario Franceschini («Questo è ossigeno per il partito») e pure di Arturo Parisi («Un contributo alla chiarezza e al confronto»).

l’Unità 24.10.11
I cattolici e la politica
risponde Luigi Cancrini


Nella trasmissione Ballarò del 18 ottobre Maurizio Sacconi a Vito Mancuso, che dice di vergognarsi dei comportamenti del presidente del Consiglio, replica, anche se c’entra come i cavoli a merenda: «Mi aspettavo che un teologo si vergognasse di come è morta Eluana Englaro». Il ministro Sacconi, per chi non lo ricordasse, è quello che raccontò la barzelletta sulle suore violentate.

Cattolici sono (lo scrive Michele Serra nella sua Amaca) Giovanardi e Don Gallo, estrema destra ed estrema sinistra degli schieramenti politici. I cattolici sono anche al centro, del resto, e fra i credenti del centrosinistra e del centrodestra. Il che vuol dire che essere o dichiararsi “cattolici” non è sufficiente a definire una identità o una appartenenza politica. Anche a livello della Chiesa, del resto, le sensibilità sono assai diverse, da Luigi Bettazzi a Bagnasco, da Martini a Bertone. Oggi come ieri perché assai poco piacevano a Roma i discorsi di fra’ Girolamo Savonarola o del poverello di Assisi. Prenderne atto sarebbe utile, forse, per uscire da questa inutile sfida su chi è più cattolico, il ministro che vorrebbe mettere le mani sulla vita di Eluana o il sacerdote che rimprovera a Berlusconi le sue “perversioni”. Io, per mio conto, non mi sento mai cattolico (Cattolica è la Chiesa del Concilio di Trento, quella che condannò Lutero riabilitato oggi dal Papa) ma ho l’abitudine (e il piacere) di frequentare il Vangelo e di riflettere sulle parole di Gesù. L’uomo che ha dato inizio alla più grande rivoluzione di tutti i tempi.

Repubblica 24.10.11
Psicofarmaci
Dal 1998 al 2008 il consumo è cresciuto del 400% negli Usa e del 76% in Italia
Uno studio rivela che l´11% degli americani fa uso di psicofarmaci. Addirittura il 25% delle donne fra i 40 e i 60 anni Eppure l´Oms ha avvertito: "Il 60% di chi li assume potrebbe farne a meno". Un convegno per spiegarne i rischi
Nell’America malata, pubblicità tam tam e sconti, è il momento dell’antidepressione
di Elena Dusi


Guardandosi intorno per strada negli Usa si incontrerà più di una persona su dieci (l´11%) sottoposta a cura con antidepressivi. La proporzione sale a quasi una su 4 fra le donne tra 40 e 60 anni. E se di fronte abbiamo un adulto tra i 18 e i 44 anni, sapremo che le pillole più presenti nel suo armadietto sono proprio gli psicofarmaci per il tono dell´umore. Eppure raccontano gli ultimi dati del National Center for Health Statistics i due terzi degli individui veramente colpiti dal male di vivere se ne restano rintanati nella caverna, rifuggendo da ogni cura.
Medicine ingoiate in quantità da chi non ne ha bisogno e veri malati che restano orfani: gli antidepressivi negli Stati Uniti sembrano più utili a curare la depressione economica delle case farmaceutiche che non quella mentale. Dal 1998 al 2008 il consumo di questi medicinali è cresciuto del 400% in America e del 76% in Italia, dove la media di circa tre pillole al giorno ogni cento abitanti resta ancora ben lontana dal record Usa.
Che la moda degli psicofarmaci poco appropriati raggiunga anche il nostro Paese è però la preoccupazione dell´Istituto farmacologico Mario Negri, che oggi organizza un convegno per i suoi 50 anni il cui sottotitolo non lascia adito a dubbi di interpretazione: "Le prescrizioni di psicofarmaci rappresentano uno dei più grandi successi di marketing industriale degli ultimi anni, nonostante la consapevolezza dell´efficacia solo parziale degli stessi".
Due anni fa l´Organizzazione mondiale della sanità scrisse che solo 6 pazienti su 10 fra quelli che assumono regolarmente antidepressivi ne traggono beneficio. E che in un caso su due il miglioramento era dovuto all´effetto placebo. «Sono praticamente trent´anni che usiamo più o meno gli stessi principi attivi» spiega Gianluigi Forloni, direttore del dipartimento di neuroscienze del Mario Negri. «L´efficacia non è migliorata di molto, ma in compenso si sono ridotti gli effetti collaterali. Ecco perché molto spesso le prescrizioni arrivano dai medici di famiglia».
Negli Usa una pasticca su tre è ingoiata da un sedicente depresso che negli ultimi 12 mesi non si è rivolto a uno specialista. Mandar giù una "pillola della felicità" ha iniziato a diventare pratica comune dopo l´arrivo, nel 1987 negli Usa, di una nuova classe di farmaci, detti "Ssri" o "inibitori della ricaptazione della serotonina", considerati più benigni dal punto di vista degli effetti collaterali. Per quanto riguarda la durata della cura, 14 consumatori su 100 hanno iniziato a usare antidepressivi oltre 10 fa anni, contrariamente a ogni regola della psichiatria. «In caso di recidiva, arriviamo a 18 mesi» spiega Barbara D´Avanzo, ricercatrice del Mario Negri. «Sospendere questi farmaci è un´operazione delicata. Bisogna scalarne le dosi restando sotto agli occhi del medico».
Il marketing cui fa riferimento il convegno milanese agisce sui pazienti attraverso pubblicità (negli Usa, non in Italia), sconti e tam tam. E sui camici bianchi attraverso gli informatori sanitari. «Per un medico non specialista conferma Forloni ci sono stati d´animo che possono essere confusi con la depressione. E non a caso sono proprio i pazienti non gravi ad alimentare il boom del mercato». Secondo i dati Usa solo una persona su tre, fra chi assume antidepressivi, ha una diagnosi di malattia severa, e l´uso di questi farmaci è quasi esclusivamente riservato ai bianchi non ispanici (i neri non arrivano al 4% e gli ispanici al 3). Eppure la malattia ha sempre dimostrato di non fare preferenze fra le etnie. E a volte le medicine vengono usate anche per disturbi che con la depressione hanno poco a che fare (8 casi su 100), come dolore cronico, anoressia o bulimia, insonnia, disturbi d´ansia e nei tentativi di smettere di fumare (in questi ultimi due casi non si sono dimostrati nemmeno del tutto inefficaci). Di quel 40% di persone che secondo l´Oms non traggono benefici dalle pillole, la maggior parte sono proprio i malati più lievi. «È come se depressione lieve e depressione grave fossero due malattie diverse. Nel primo caso abbiamo un´efficacia limitata e un grosso effetto placebo. Nel secondo invece non si può assolutamente negare l´importanza di questi medicinali».



Corriere della Sera 24.10.11
Le radici dell’anima secondo Pauli e Jung
di Edoardo Boncinelli


«Dal momento che la concezione determinista è stata abbandonata in fisica, non ci sono neanche ragioni per mantenere ancora una concezione vitalista, secondo cui l'anima potrebbe e dovrebbe "violare" le leggi fisiche. Mi sembra piuttosto che una parte essenziale dell'"armonia universale" consista nel far sì che le leggi fisiche lascino proprio un margine per un altro modo di osservare e di considerare le cose (la biologia e la psicologia) in modo che l'anima possa raggiungere tutti i suoi "obiettivi" senza violare le leggi fisiche».
Questa dichiarazione di Wolfgang Pauli è posta come una sorta di conclusione delle conclusioni alla fine del libro Pauli e Jung di Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico (Raffaello Cortina Editore, pagine 320, 27). Il fisico teorico Pauli e il fondatore della Psicologia Analitica, Carl Gustav Jung, discussero a lungo su come si potesse giungere a questo «altro modo» di pensare al mondo, nell'ipotesi, ovviamente, che un altro modo esista, che esista in definitiva un «mondo intermedio» fra materia e psiche che possa fondere le due istanze, cercando inoltre di evitare tanto le secche del determinismo e della causalità quanto quelle della casualità.
Fin dall'inizio la scienza occidentale ha proceduto espellendo il soggetto dall'universo delle cose da studiare e da comprendere. Qualcuno si accontenta, ma molti soffrono di tale esclusione e perseguono il disegno di una conciliazione fra lo studio rigoroso della realtà materiale e la comprensione del mondo della psiche individuale e di ciò che si definisce comunemente spiritualità.
Fra quelli che non si sono accontentati figurano certamente Pauli, fortemente critico nei confronti dell'orientamento che aveva preso la fisica atomica dei suoi tempi, e lo psicologo zurighese Jung, infaticabile esploratore della psiche profonda e del suo rapporto con la nostra percezione della realtà. Questi due personaggi molto diversi ne discussero a lungo, fino a produrre insieme anche un libro sull'argomento. Il confronto fra i loro percorsi intellettuali rappresenta un capitolo affascinante della tormentata problematica del Novecento e adesso i nostri autori hanno dedicato un libro non piccolo e molto informato alla disamina degli aspetti più riposti di tale confronto. Tagliagambe da parte sua va avanti con questo suo libro sul progetto di esplorare una originalissima «epistemologia del confine».
Che cosa nacque dal fortunato incontro di queste due fertili menti?
Jung si confermò nella sua visione dell'inconscio come «luogo psichico che custodisce in forma primaria e autonoma i contenuti e le immagini individuali e universali, potremmo dire le verità sul singolo individuo, sui gruppi sociali di appartenenza, sull'intera umanità che contiene l'individuo stesso». Fondamentale nella sua concezione è il ruolo degli archetipi, quali «forme senza contenuto, atte a rappresentare solo la possibilità di un certo tipo di percezione e azione. Quando si presenta una situazione che corrisponde a un dato archetipo, allora l'archetipo viene attivato».
Pauli, per parte sua, andava riflettendo su una possibile conciliazione fra cause e significati. Dalla loro relazione scaturì, a quello che ne sappiamo, soprattutto l'idea di sincronicità come nuova forma di significatività e di senso degli eventi della vita. «Il principio di sincronicità afferma che un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno, non psichico e che tra i due non esiste alcun nesso causale. È un parallelismo di significato».
Abbiamo aperto con Pauli; chiudiamo con Jung: «Passerà ancora molto tempo prima che la fisiologia e la patologia del cervello da un lato e la psicologia dell'inconscio dall'altro possano darsi la mano. Anche se alla nostra conoscenza attuale non è concesso di trovare quei ponti che uniscono le due sponde ... esiste tuttavia la sicura certezza della loro presenza. Questa certezza dovrà trattenere i ricercatori dal trascurare precipitosamente e impazientemente l'una in favore dell'altra o, peggio ancora, dal voler sostituire l'una con l'altra. La natura non esisterebbe senza sostanza, ma non esisterebbe neppure se non fosse riflessa nella psiche».
La discussione continua.

Carmilla on line 23.10.11
Saluti junghiani da David Cronenberg
di Mauro Baldrati

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Carmilla on line 23.10.11
A Dangerous Method. Una delusione cocente
di Letizia Mirabile

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Corriere della Sera 24.10.11
Il pozzo nero della Repubblica
Trame, bombe, depistaggi all'ombra del «Noto servizio»
di Corrado Stajano


Un vero romanzone, un pozzo nero della Repubblica. Si potrebbe definire così il libro di Aldo Giannuli, Il Noto servizio. Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea editore, pagine 445, 18). Una catena di nequizie conosciute e ignote, dalla guerra mondiale al sequestro Moro, fa da guida alla ricerca costata al suo autore quindici anni di lavoro. Giannuli sostiene di aver voluto scrivere solo un libro di storia, non una spy story. Solo che le vicende narrate, i nomi dei personaggi, l'equivoco mondo dei servizi segreti, i misteriosi burattinai fanno del libro, bulimico, sovrabbondante, un'opera che prende il lettore come un giallo. Ecco qui gli scheletri nascosti negli armadi, si potrebbe dire.
Aldo Giannuli insegna Storia del mondo contemporaneo all'Università Statale di Milano, conosce nel profondo gli intrighi sanguinosi delle trame eversive e delle stragi — è stato consulente di quella commissione parlamentare — ed è noto per lo scoop dell'«archivio della via Appia», del 1996; quando scoprì un gran numero di documenti abbandonati dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno.
Ora ha dato dignità scientifica a un'altra scoperta, quella di un'organizzazione spionistica fuorilegge che ha operato in Italia dalla Seconda guerra mondiale agli anni Ottanta: il Noto servizio, conosciuto anche come Anello.
Il libro parte da lontano. Addirittura dal generale Mario Roatta, a capo del Sim, il Servizio segreto militare, dal 1934 al 1939, a capo dei legionari fascisti in Spagna, indiziato per l'assassinio dei fratelli Rosselli, comandante, in Croazia, nel 1942, della Seconda Armata, che si macchiò di ignobili e delittuose repressioni. Restò sempre a galla, Roatta, e fu lui, nel dopoguerra, a dar vita all'organizzazione clandestina del Noto servizio. La sede principale era nel centro di Milano, in un palazzone liberty, tra via Statuto e via Lovanio. Fu un ufficiale polacco, Solomom Hotimsky, dell'armata del generale Anders, a guidare in un primo tempo il servizio. Agganciato ai carabinieri della divisione di via Moscova, gli stessi che decenni dopo saranno tra i protagonisti di azioni poco commendevoli della P2, il Noto servizio era legato ai servizi militari italiani e americani e alla Confindustria. Il suo compito era di spionaggio e provocazione nei confronti del Pci, delle organizzazioni di sinistra e del sindacato; il golpe militar-fascista era il miraggio non raggiunto, anche se messo in cantiere. Gli strumenti adoperati con spregiudicatezza andarono dai sequestri di persona ai traffici di droga e di armi ai delitti mascherati da falsi incidenti. I rapporti con i poteri criminali, la mafia, soprattutto, furono costanti. Fecero parte del Noto servizio non pochi naufraghi della repubblica di Salò.
Aldo Giannuli ha consultato tutti i possibili archivi, ha studiato migliaia di documenti, ha scovato note riservate, appunti confidenziali, verbali, rapporti, memoriali, ha scritto una cinquantina di relazioni per la magistratura. Il libro — manca un indispensabile indice dei nomi — è prezioso per capire quel che accadde nella politica e nella società italiana nel secondo Novecento. Un ritratto della mala Italia. Una miniera, anche se la carne al fuoco è sinceramente troppa.
Perché Andreotti è protagonista persino nel titolo del libro? «Il Noto servizio — scrive Giannuli — fu uno degli strumenti della sua azione politica». Grande tattico, poco sensibile ai disegni strategici, Andreotti suggerisce al professore l'immagine centrale del cavallo nel gioco degli scacchi. (La sentenza che lo condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, di cui è stato ritenuto responsabile fino al 1980, anche se prescritta, convalidata dalla Cassazione, dovrebbe essere più che sufficiente, in un paese normale, per bollare un uomo politico che è stato sette volte presidente del Consiglio).
Il Noto sevizio ebbe rapporti con Pace e libertà di Edgardo Sogno, con Luigi Cavallo, «il provocatore» al servizio della Fiat, con Ordine Nuovo, il Mar di Carlo Fumagalli, persino con Liggio. Tra i suoi adepti, ben pagati, ebbe giornalisti, avventurieri, doppiogiochisti, estremisti, Giorgio Pisanò, esponente del neofascismo più esagitato, padre Zucca, il francescano fascista che nel 1946 nascose nel suo convento la salma di Mussolini trafugata a Musocco.
Furono caldi gli anni dopo la strage di piazza Fontana del 1969. Nel dicembre del 1970 il principe Borghese tentò un golpe, bloccato all'ultimo momento. Di Gladio si saprà soltanto nel 1990, quando Andreotti ne rivelerà l'esistenza. L'assassinio del commissario Calabresi fu un'altra tragedia, come l'attentato sanguinoso alla Questura di Milano, destinato a uccidere Rumor, e qui Giannuli è debole nel rappresentare la figura dell'attentatore, il finto anarchico Bertoli. E poi la Lockheed e la catena di stragi.
Dopo le elezioni del 1976 nasce, tra Dc e Pci, il governo di solidarietà nazionale. Il Noto servizio è più che mai sul chi vive. Le Br sono all'offensiva. I servizi segreti ufficiali lasciano fare, scrive Giannuli. Moretti, scrive anche, era un personaggio discutibile, Senzani il più impresentabile.
Sul sequestro Moro, minuziosamente ricostruito, Giannuli dà grande importanza al ruolo di Steve Pieczenik, l'esperto del Dipartimento di Stato americano inviato in Italia per collaborare con l'unità di crisi del Viminale. Vent'anni dopo, Pieczenik dichiara in un libro-intervista che la sua missione era stata coronata dal pieno successo: la morte di Moro, secondo lui (e chissà chi), aveva infatti scongiurato il crollo del sistema politico italiano.
A Giannuli, che accenna appena al ruolo di Cossiga e trascura la singolarità che appartenessero alla P2 tutti o quasi i consulenti del comitato di crisi, sono rimasti sul gozzo soprattutto due interrogativi: «Perché furono distrutti dalle Br i manoscritti originali di Moro?». E poi: perché nulla di quanto disse Moro fu «reso noto al popolo», come avevano più volte promesso i comunicati delle Br?

Corriere Economia 24.10.11
Cina Può sgonfiarsi? La paura di Ue e Usa
Il rallentamento è in corso. Potrebbe essere soft e guidato. Ma potrebbe anche diventare un crash La mina sono gli immobili: a Hong Kong 250 mila case sfitte. L'incognita del credito non controllato
di Danilo Taino


I politici europei hanno pasticciato non poco, durante tutta la crisi del debito. E continuano a farlo. Quelli americani non sono stati da meno, a cominciare dalla disputa estiva sull'innalzamento del deficit che ha opposto il Congresso al presidente Barack Obama. Almeno, però, i leader dell'Occidente sono trasparenti, se fanno sciocchezze le fanno in pubblico.
Verso l'atterraggio
Ma in Cina? Cosa stia succedendo davvero nell'economia e nella politica dell'Impero di mezzo è sempre meno chiaro. Tanto che l'ansia degli investitori si sta trasferendo a passi da gigante verso Pechino. Per molti versi, anzi, c'è un'ansia cinese da un po' di tempo: l'indice elaborato dalla Deutsche Bank riferito alle aziende internazionali molto esposte alla Cina nell'ultimo anno è sceso di oltre il 40%. È iniziato un crollo di certezze rispetto alla storia straordinaria della crescita cinese. Fatto che apre scenari in teoria preoccupanti.
Che l'economia del gigante asiatico debba rallentare è un dato di fatto. Nel 2008, le autorità hanno lanciato un piano di stimolo per contrastare la contrazione delle esportazioni durante la recessione in America e in Europa: non poteva essere mantenuto indefinitamente e quindi la banca centrale Pbc ha più volte alzato i tassi d'interesse (l'inflazione resta sopra al 6%). Come risultato, nel terzo trimestre la crescita del Pil è scesa al 9,1% (era stata del 9,5% il trimestre precedente). Potrebbe essere un dato perfettamente in linea con l'intenzione del partito e del primo ministro Wen Jiabao di condurre un soft landing, un rallentamento controllato ma sempre con una crescita annua non inferiore all'8%. Ma potrebbe essere anche il segno di qualcosa di più serio, di un rallentamento massiccio.
Tutti sanno che la seconda economia del mondo negli ultimi anni si è sviluppata creando distorsioni non da poco. Lo stesso partito comunista ammette che la crescita, spinta da un'enorme massa di investimenti (pari alla metà del Pil), ha sicuramente creato bolle e allocato risorse in settori che non avranno mai un senso economico (non solo i campi da golf). Prima o poi questo nodo verrà al pettine, come ogni bolla anche questa si sgonfierà: si tratterebbe di avere un'idea, grazie a qualche statistica più attendibile di quelle ufficiali e manipolate, di quanta aria calda ci sia nelle bolle per prevedere tempi e portata della correzione.
Il governo centrale sta cercando, per esempio, di tenere sotto controllo il prezzo delle case. A livello locale, però, alcune amministrazioni, ad esempio quella della città meridionale di Foshan nelle settimane scorse, avrebbero iniziato a sfidare le direttive centrali per evitare proprio che la bolla edilizia scoppi. Quali siano la portata del problema e il rischio è difficile da stimare.
Uno studio recente di MarketWatch può però dare un'idea: dice che a Hong Kong «il mercato immobiliare sembra essere guidato da investitori che sono ricchi al punto di non curarsi nemmeno di affittare i loro appartamenti». Una situazione del genere non potrà andare avanti per sempre, soprattutto se si tiene conto che nella città, sette milioni di abitanti, ci sarebbero — dati ufficiali — 250 mila appartamenti sfitti. Le ansie, però, non si fermano qui.
Il credito parallelo
Il sistema del credito cinese è un animale molto strano. Fondamentalmente, è governato dalle grandi banche di Stato che prestano sulla base delle indicazioni dei mandarini di partito. Ma in parallelo si è sviluppato un sistema bancario sotterraneo nel quale individui ricchi di cash prestano denaro a tassi elevati ad aziende private che non hanno accesso ai fondi indirizzati dallo Stato. In un sistema controllato, il credito rischia così di essere fuori controllo. Il problema è così serio che il Quotidiano del Popolo l'ha definito «una crisi subprime in stile cinese».
Non è dunque strano che gli investitori si domandino se quello cinese sarà un soft landing o un hard landing nel quale il mondo intero si farà parecchio male. E ancora meno strano è che arrivino alle conclusioni più diverse.
Un grande conoscitore della Cina, l'economista di Morgan Stanley Stephen Roach, prevede un rallentamento dell'economia del Paese, ma nessuna catastrofe. L'economista star Nouriel Roubini la settimana scorsa ha invece sostenuto che, come ogni iper investimento, anche questo finirà in modo doloroso. Non prima del 2013 o del 2014 — ha però aggiunto — perché Wen e il presidente Hu Jintao «faranno tutto il possibile» per tenere la crescita sopra l'8% mentre la nuova generazione di leader salirà al potere, come previsto, nel 2012. Jim Chanos, fondatore dell'hedge fund americano Kynkos, è infine convinto che il grande crash dell'economia cinese sia non solo inevitabile vista la situazione del mercato immobiliare, ma sia addirittura già iniziato.
Insomma, è arrivato il momento di guardare il fenomenale boom cinese in una prospettiva meno eccitata. Pechino promette di aiutare l'Europa, ma non è probabilmente il caso di trattenere il fiato: dovrà aiutare prima se stessa.

Corriere della Sera 24.10.11
Addio al «Romeo di Auschwitz»: si finse SS per liberare la fidanzata
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — «Sì, l'ho amata molto», diceva: «Moltissimo. Per tutti questi anni, non è mai stata con me. Ma un po' lo è stata. L'ho sognata migliaia di notti. Mi svegliavo piangendo. Lavoravo piangendo. Camminavo piangendo. Io e lei avevamo deciso il nostro destino. E il destino alla fine ha deciso per noi...». Dopo più di 66 anni, l'amore prima impossibile e poi impossibilitato del deportato numero 243 per la deportata 29558 s'è spento a Nowy Targ, una piccola città della Piccola Polonia dov'era sempre sopravvissuto, un'ottantina di chilometri dal peggiore dei lager. Jerzy Belecki, professione meccanico, se n'è andato novantenne. «In pace con se stesso e con la famiglia», ha spiegato una delle due figlie, Alicija, eppure col rimpianto mai nascosto di non avere potuto sposare Cyla, la ragazza che aveva salvato e perduto. Jerzy è stato ricordato ieri con una candela a Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto di Gerusalemme, di cui era uno dei Giusti. Sarà per sempre il Romeo di Auschwitz, come lo ribattezzò un cronista sbrigativo: «The Most Excellent and Lamentable Tragedy» di Jerzy e Cyla.
Le foto d'allora ci raccontano l'happy end che comunque fu. Le pagine dell'autobiografia, scritta nel 1990, la storia «così aspra e tiranna».
Lui, lo spavaldo Jerzy detto Juracku, il cappello sulle ventitré, soldato polacco catturato al confine ungherese e finito diritto in un campo di concentramento: uno dei primi a conoscere l'orrore di Auschwitz, scampato al camino solo per il suo fluente tedesco e l'utilità d'averlo al servizio trasporto cadaveri.
Lei, la giovanissima Cyla Cybulska, i capelli neri e lunghi, ebrea deportata dal ghetto di Lomza, unica sopravvissuta ai genitori, a due fratelli e a una sorella. Si vedono, «amore corre contro amore». Là dentro. «Ero un anziano del lager — ha raccontato mille volte Jerzy — e, stando all'officina, avevo un po' di libertà di movimento. Preparai il piano con cura. Un giorno l'avvicinai e le dissi: "Della tua famiglia, sei rimasta solo tu. Forse riesco a salvarti. Verrà a prenderti un ufficiale tedesco...". All'inizio non voleva, poi la convinsi». Qualche giorno dopo, l'ufficiale tedesco arriva sul serio: è Jerzy, con una divisa rubata dalla lavanderia e il pass d'un Rottenführer scovato in una tasca, tale Helmut Stehler, corretto a matita in Steiner «perché avevo paura d'imbattermi in qualche guardia che conoscesse Stehler». L'uomo è sicuro di sé, l'ordine ai piantoni perentorio: «Devo portare questa donna al comando per un interrogatorio urgente!». I nazisti ci cascano, la fuga riesce: «Mentre ci allontanavamo, aspettavo i colpi alle spalle. Mi facevano male le ossa dal terrore». Dieci notti a marciare nei campi, stremati, fino a un rifugio sicuro. E l'addio: lei che si nasconde in una fattoria, lui che raggiunge la Resistenza; lei che dopo un po' lo crede morto e scappa in Svezia e poi a New York, lui che non la ritrova più e, finita la guerra, torna alla sua Nowy Targ.
«Chi non ha mai avuto una ferita — dice il Poeta — ride di chi ne porta i segni». Jerzy e Cyla vivono paralleli e lontani. Due famiglie ignare, due mondi, una cortina di ferro in mezzo. È il destino che decide di nuovo, una mattina di primavera del 1983, quando l'anziana Cyla, ormai vedova, chiacchiera con una colf polacca e le narra di come si salvò. «Ma una sera ho visto alla tv un uomo che raccontava la stessa storia!», è la folgorante rivelazione della domestica. Una telefonata: «Ho sentito — raccontava Jerzy — una donna che rideva, o forse piangeva: Juracku, sono io, la tua piccola Cyla...». L'appuntamento all'aeroporto di Cracovia. Lui che si presenta con 39 rose rosse, «quanti gli anni della nostra lontananza». Gli occhi che non sono stanchi di cercarsi. Quelli di lei, almeno. Si vedranno quella volta, e mai più. «Cyla mi chiese di lasciare tutto e d'andare a New York. Da giovani avevamo fatto progetti di sposarci, di vivere insieme. Ma scoppiò a piangere, quando le dissi: guardami, sono vecchio, ho una moglie, dei figli, dei nipoti, come faccio?». I numeri tatuati sul braccio erano ormai sbiaditi. Jerzy ieri è stato sepolto con una messa: era polacco, era cattolico.

La Stampa 24.10.11
Finora solo parole, parole, parole. In attesa dei prossimi crolli
Italia commissariata dopo i crolli L’Unesco pronta a salvare Pompei
Troppi ritardi, l’Organizzazione si occuperà del sito: caso unico al mondo
di Giuseppe Salvaggiulo


Promesse Un anno dopo l’allarme, non sono arrivati né soldi né tecnici Negli scavi c’è un solo archeologo I mecenati francesi Pronti a mettere 200 milioni, ma con garanzie che finora il ministero non è riuscito a dare
Patrimonio dell’umanità Turisti in visita a Pompei. In alto il commissario Ue Johannes Hahn, atteso per mercoledì in visita
Asalvare Pompei ci penserà l’Unesco. Tra un mese sarà siglato un inedito accordo con il ministero dei Beni Culturali con cui il massimo organismo internazionale in materia scende in campo per salvare il sito archeologico. Le formule ufficiali sono «collaborazione istituzionale e assistenza tecnica», ma la sostanza è che caso unico al mondo l’Unesco si occuperà in prima persona di un «patrimonio dell’umanità», svolgendo un ruolo che generalmente gli Stati sono in grado di esercitare da soli. «Niente scandalo né gelosie, in tanti campi l’Italia ricorre al “podestà straniero” spiega il sottosegretario Riccardo Villari -. Non ci sarà ingerenza nelle nostre prerogative, solo un rapporto più stretto».
Se non si tratta di «commissariamento» (come anche nel ministero si temeva), poco manca. Anche perché non è stata l’Italia a chiedere aiuto. L’idea è emersa nel corso dei colloqui che Unesco e ministero hanno avviato dopo i crolli di un anno fa. Il prestigioso organismo con sede a Parigi si è mosso subito dopo il cedimento della Scuola dei gladiatori, manifestando «profonda preoccupazione» e inviando una «missione di esperti» per valutare «lo stato di conservazione» di Pompei. Gli archeologi hanno redatto un duro rapporto, esprimendo «profondo rammarico» per la gestione del ministero e inviando a Roma una lista di raccomandazioni stringenti per evitare il declassamento dalla lista dei World Heritage Sites, in cui è stato inserito nel 1997. Infine, l’Unesco è intervenuta su richiesta degli imprenditori francesi disposti a donare fino a 200 milioni di euro per salvare Pompei, mettendoli in contatto con lo Stato italiano.
Il nuovo accordo, che secondo Villari «impedisce che il cartellino giallo dell’Unesco diventi rosso», va incontro alle richieste degli industriali francesi di precise garanzie su destinazione e procedure di utilizzo dei fondi che sono intenzionati a mettere a disposizione. Sin dai primi abboccamenti, la cordata transalpina ha chiarito: niente soldi a fondo perduto, niente cambiali in bianco, vogliamo un piano di intervento dettagliato altrimenti non mettiamo un euro. Ma il piano non c’era e i tempi si sono allungati. La presenza dell’Unesco garantisce che il ministero si adegui alle prescrizioni di tutela del dossier dell’organizzazione, con inevitabile sollievo francese.
L’intervento del «podestà straniero» (mutuando la definizione di Mario Monti) anche nel campo dei Beni culturali giunge dopo il nuovo e annunciato crollo di venerdì. Evento in sé di relativa gravità (i muri di Pompei si sgretolano come in ogni altra città), ma scoraggiante se contestualizzato. Tutti Unesco, soprintendenza, archeologi, ministero sapevano che alle prime piogge autunnali sarebbe accaduto. Il dramma, come sottolinea l’Associazione nazionale archeologi, è essere arrivati a fine ottobre senza aver combinato nulla.
Un anno dopo il crollo della Schola Armaturarum definito dal capo dello Stato Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia», nessun piano straordinario di tutela è stato avviato. Al di là degli annunci e dell’attesa messianica su 100 milioni di fondi europei ancora da sbloccare, non un solo euro è stato stanziato e in compenso a Pompei sono stati sottratti 5 milioni (20% del bilancio) per ripianare i debiti del Museo di Capodimonte di Napoli. Nemmeno un tecnico dei 26 necessari (e 170 sbandierati) è stato assunto per lavorare su 65 ettari di scavi in cui opera un solo archeologo e l’ultimo mosaicista, mai sostituito, è andato in pensione dieci anni fa.

Repubblica 24.10.11
L’amico argentino
Saramago: “Vi svelo come ho scoperto Ernesto Sabato”
di José Saramago


"Se c´è uno scrittore al mondo la cui opera serva a turbare, allora eccolo: ci mette di fronte alla realtà con i romanzi"
"Ero in un caffè di Lisbona negli anni ´50 e un tipo strano parlava di lui e della sua letteratura Iniziò così l´avventura"
L´anticipazione/ Un inedito del Nobel portoghese accompagna l´autobiografia dell´autore sudamericano

Conosco l´opera di Sabato dagli anni Cinquanta; del XX secolo, chiaro. A quel tempo io avevo forse trentadue, trentatré anni, una cosa del genere. Durante una conversazione letteraria a Lisbona, in un caffè molto frequentato, un giorno in cui si parlava soprattutto di Parigi, degli artisti di Parigi, c´era un uomo, un tipo strano che parlava solo dell´Argentina e di Ernesto Sabato. Lì iniziò per me un´avventura intellettuale e al tempo stesso umana, la grande avventura che è stata entrare a poco a poco nell´universo, non solo letterario, ma psicologico, assiologico, di Sabato. Poi l´avventura è proseguita.
A quell´epoca io dedicavo parecchio tempo alla lettura di Montaigne e mi resi conto che fra Sabato e Montaigne, al di là della distanza temporale, culturale e geografica, c´era una somiglianza. Malgrado tutte le differenze, c´era qualcosa che avvicinava Sabato e Montaigne. Forse in quel momento non lo capii chiaramente: Montaigne era Montaigne e Sabato un autore che stavo appena scoprendo. Pertanto Montaigne aveva dalla sua il prestigio del genio e del tempo trascorso. Ma la differenza che scoprii fra i due, confermata poi nel corso del tempo, è che mentre Montaigne pratica un genere di scetticismo sereno – Montaigne infatti è uno scettico – Sabato, pur essendo scettico e pessimista, non è affatto sereno.
Sabato ha vissuto un parto, una tempesta di speranze che concerne la sua personale relazione con il mondo ma, soprattutto, con quello che significa per lui tale relazione; vale a dire, il mondo come qualcosa che lui si è dovuto sforzare di capire, di comprendere. Come tutti, anche lui si è trovato di fronte un mondo opaco. Ma al contrario di quasi tutti, Sabato si è rifiutato di accettare questa opacità. E ciò si manifesta nella sua opera.
È un aspetto a cui non si è prestata forse sufficiente attenzione; seppur costante, non è stata però sufficiente. È un lavoro per quelli che verranno.
Da Il tunnel a L´angelo dell´abisso, passando per quel capolavoro sotto ogni aspetto che è Sopra eroi e tombe, Sabato ha capito che il romanzo poteva essere quella sorta di luogo dove tutto confluisce, dove tutto deve confluire perché il mondo possa essere compreso. Dato che il romanzo è il luogo per eccellenza dei conflitti umani, tutto deve confluirvi perché il mondo possa essere capito. Allo stesso tempo però voglio segnalare l´impegno di Sabato nella saggistica, con opere fondamentali come Lo scrittore e i suoi fantasmi, Hombres y engranajes, Apologías y rechazos. I saggi di Sabato sono di una lucidità, di una chiarezza e di una giustezza veramente impeccabili. Per esempio, io raccomanderei la lettura dei due saggi sull´istruzione a chi ha la responsabilità di educare i giovani.
Con Sabato è accaduto il contrario di ciò che sfortunatamente succede di solito. Lui non è uno di quegli scrittori convinti di essere qualcuno che deve essere ascoltato. Sì, ha scritto per essere ascoltato, per essere compreso, ma non per questo il suo modello di lavoro ha smesso di essere silenzioso, tormentato, fedele a ciò che pensa; è come se avvenisse all´interno di un´arnia nella quale, da tutta l´amarezza del mondo, si estrae il miele della comprensione, dell´avvicinamento: il senso di umanità e l´umanesimo.
Il suo atteggiamento nei confronti dell´esistenza non è quello dei curiosi o degli intellettuali; nella sua vita Sabato ha vissuto tutto quello che si può vivere: attraverso l´amore, la politica, l´arte e la scienza, perché non dobbiamo dimenticare che iniziò la sua carriera nel campo della fisica. Ma a quanto pare tutto quello che visse non fece altro che spingerlo verso la creazione letteraria, poiché alla fine giunse il momento in cui capì che aveva bisogno di esprimersi, di tentare di offrire agli altri quello che aveva vissuto. La scienza, evidentemente, è del tutto estranea a queste cose. La scienza è una sorta di spazio la cui atmosfera deve essere purificata e dove tutto si riduce a formule, tutto consiste nello scoprire, riconoscere o inventare le interazioni fra una cosa e l´altra, lasciando fuori tutta l´umanità, l´umanità sofferente. L´uomo che non sa dove sta andando, Sabato stesso, l´uomo che non sa nemmeno da dove è venuto; che ignora persino quello che stanno facendo di lui, anche se in quel momento lui stesso e la sua vita sono per questo universali.
L´opera di Sabato però non è stata scritta per tranquillizzare nessuno. Che nessuno vi si accosti dunque per soddisfare il proprio bisogno di tranquillità. No, se c´è qualcuno, se c´è uno scrittore al mondo, oggi, la cui opera serva a turbare, a dire «non fidarti di quello che stai pensando, perché forse non è altro che un miraggio che tu alimenti da solo, per te stesso, per rinchiuderti all´interno di una morale che ti protegge», quello è Sabato. Lui butta giù il muro e ci mette di fronte la realtà, quella terribile realtà che da un lato è l´uomo e dall´altro la società umana. È questo, a mio modo di vedere, il significato difficile, il significato profondo dell´opera di Sabato. E questo è bene. Perché abbiamo bisogno che ci venga tolta quella copertura. Circondati come siamo da complicazioni, se qualcosa non ci coinvolge personalmente diciamo che non ha niente a che vedere con noi, che non ci appartiene. Ma in tutto quello che succede abbiamo una parte di responsabilità. E questo è un aspetto di profonda provocazione presente nell´opera di Sabato, che in fondo consiste nel dire al lettore: tu sei responsabile. E se si domandasse a Sabato: «Ma perché mai sarei responsabile? Cos´è che ho fatto?», la sua stessa opera potrebbe risponderci: «Niente, non hai fatto niente, ma anche se non hai fatto niente hai una parte di responsabilità. Tu non hai colpa; non bisogna confondere il senso di colpa che hai dentro, che puoi avere o non avere, con la responsabilità».
Perché la responsabilità ce l´abbiamo tutti, non possiamo dimenticarla; e non possiamo dire che è di un altro, che è lui ad avercela.
© Eredi , 2011 / José Saramago, 2004 © SUR, 2011 Tutti i diritti riservati (Traduzione di Raul Schenardi)

Prima della fine. Racconto di un secolo di Ernesto Sabato Gli struzzi Einaudi pp. 163  € 9,81