mercoledì 1 giugno 2011

l’Unità 1.6.11
Bersani: il presidente del Consiglio si deve dimettere dopo i risultati delle amministrative

Il secondo tempo Subito al via la campagna referendaria. Quel voto sarà decisivo
Il Pd: «Berlusconi se ne vada Dai referendum la botta finale»

Il Pd chiede in Parlamento le dimissioni di Berlusconi e mette in moto la macchina organizzativa per i referendum. Bersani: «Se ci sono i margini per fare una nuova legge elettorale bene, altrimenti al voto subito».
di Simone Collini


La richiesta formale di dimissioni in Parlamento e la battaglia nel Paese per dare la stoccata finale col referendum del 12 e 13. Il Pd dà il via alla seconda fase della strategia che dovrebbe portare alla chiusura della stagione berlusconiana. Pier Luigi Bersani riunisce la segreteria di buon’ora per fare il punto dopo la vittoria al voto amministrativo, per l’ennesimo brindisi delle ultime ventiquattr’ore, ma soprattutto per pianificare le prossime mosse. Il leader del Pd ha chiesto ai suoi di mettere subito in moto la macchina organizzativa per i referendum, e già oggi inizieranno a essere trasmessi su Youdem e sul web tre videomessaggi dedicati ai quesiti sull’acqua, il legittimo impedimento e il nucleare (in attesa che si pronunci la Cassazione), mentre nei prossimi giorni partirà una massiccia campagna radiofonica e oltre cinque milioni di lettere verranno spedite in tutte le città capoluogo di regione. «Li abbiamo smacchiati tutti se la ride Bersani facendo il verso a Crozza - e non è finita qua, ora ci sono i referendum coi quali togliamo anche l’ultima macchia». Se la partecipazione al voto sarà massiccia, è il ragionamento che si fa in queste ore al quartier generale del Pd, sarà ancora più complicato per Berlusconi rimanere «arroccato» a Palazzo Chigi, anche se la «compravendita» portata avanti in Parlamento continuerà a dare frutti.
LA VERIFICA E LE DIMISSIONI
Nella settimana tra il 20 e il 27 giugno si voterà alla Camera la verifica di maggioranza chiesta dal Quirinale dopo i mutamenti nella composizione del governo. Il capogruppo del Pd Dario Franceschini aveva chiesto di calendarizzare il voto la prossima settimana. Il centrodestra si è messo di traverso e l’ha spuntata. Ma ora l’importante, dice Bersani, è che «in Parlamento Berlusconi si presenti dimissionario perché è venuta meno la maggioranza nel paese». È lo stesso Franceschini a formalizzare la richiesta in Aula, tra le urla e le contestazioni che subito si alzano dai banchi del centrodestra: «Siete minoranza in tutto il paese, alla verifica il governo Berlusconi si presenti dimissionario, il Paese vuole essere governato, vuole voltare pagina».

l’Unità 1.6.11
Pd, il momento di farsi avanti
I ballottaggi hanno confermato che il vincolo tra Berlusconi e i suoi fedeli si è rotto per sempre È finita un’era durata vent’anni e il Pd deve ora assumere responsabilità di carattere nazionale
Nuove idee, nuovi legami. Il Pd deve mettere all’ordine del giorno un “nuovo partito” capace di costruire tra cittadini legami nuovi che non possono più essere quelli della tradizione dell’otto-novecento
di Michele Ciliberto


È difficile fare previsioni in politica; ma certamente è finita in Italia una nuova fase politica, quella che è stata chiamata berlusconismo. Individuarne le cause non è semplice, ma certamente si è rotto il vincolo carismatico che per quasi vent’anni ha legato Berlusconi ai suoi fedeli. Max Weber ci ha spiegato perché questo possa accadere: tra un leader e i suoi seguaci si stabilisce un rapporto basato sulla fides, sull’affidamento, da parte dei fedeli e sulla capacità del leader di soddisfare i loro interessi.
Quando questo nesso viene meno, il vincolo carismatico si spezza come è avvenuto nel caso di Berlusconi: il leader si è concentrato solo su di sé - e in modo speciale sui suoi problemi con la giustizia - trascurando gli interessi dei sui seguaci che prima si sono rifugiati nell’astensionismo poi l’hanno abbandonato, come appunto è accaduto con queste elezioni.
Proprio per questo suo carattere strutturale non credo che il vincolo carismatico tra Berlusconi e i suoi fedeli possa essere ricostituto; così come credo che nello schieramento di centrodestra non ci sia nessuno in grado di succedere a Berlusconi perché nessuno possiede il suo carisma.
Ma bisogna comprendere bene quello che è accaduto, secondo quel principio di “etica della responsabilità” che deve caratterizzare la dimensione politica. Negli ultimi venti anni Berlusconi è stato il perno del sistema politico italiano; né è immaginabile che la sua crisi non abbia conseguenze di carattere generale su tutte le componenti di questo sistema compreso, naturalmente,
anche il Partito Democratico. Paradossalmente in questo momento il Pd si configura come una forza di stabilizzazione di questo sistema proprio per la capacità che ha avuto di aprirsi anche a forze e personalità che si erano situate fuori da questo sistema e continuano a farlo, come appare chiaro nel caso di Luigi De Magistris; a differenza, bisogna dirlo, del Pdl che oggi ha difficoltà a stabilizzare, dalla sua parte, la Lega. Questo significa che l’intero sistema politico italiano è entrato in una fase di profonda fibrillazione e che è difficile prevedere quali possano essere gli sbocchi di una situazione così fortemente dinamica e fluida. Ciò significa però anche che il Pd e tutte le forze del centrosinistra sono chiamate ad assumersi oggi essenziali e vitali responsabilità di carattere nazionale. Credo che oggi debba essere all’ordine del giorno la costruzione di un “nuovo Pd” che sia capace di aprirsi a tutte le forze impegnate in un’azione di riforma a cominciare da quelle che sono alla sua sinistra, Sinistra e Libertà in primo luogo.
Questo partito deve porre all’ordine del giorno, immediatamente, alcuni obiettivi: 1) deve essere capace di costituire fra i cittadini della nostra nazione “nuovi legami”, che non possono più essere quelli della tradizione socialista otto-novecentesca. Che questa esigenza sia diffusa è dimostrato dal coinvolgimento di larga parte del Paese nelle celebrazioni per il centociquantenario dell’Unità d’Italia; 2) bisogna costituire, su queste basi, una nuova cultura politica che abbia alle sue basi i concetti di individuo e di solidarietà, sviluppando una nuova idea dell’Italia e della sua collocazione sul piano internazionale; 3) bisogna con audacia e con coraggio dare spazio a una nuova classe politica che sia in grado di interpretare in modo nuovo - e qui l’esperienza di Pisa- pia è veramente esemplare - i nuovi bisogni della società italiana e, i primo luogo, delle nuove generazioni che stanno contribuendo potentemente al mutamento in atto. Infine è necessario a mio giudizio - lavorare per una profonda riforma del sistema politico italiano, mantenendo ferma l’opzione bipolare, uscendo dalle risse e dalle feroci contrapposizioni che l’hanno caratterizzata in questi anni.
Ma per fare questo è necessario riuscire finalmente ad individuare, oltre la rissa, e oltre gli scontri personalistici, gli elementi di fondo di carattere etico-politico e civile - nel quale possano ritrovarsi i cittadini italiani. Senza questa assunzione di una comune responsabilità nessun sistema politico può essere adeguatamente applicato al nostro Paese, tantomeno il bipolarismo.

Corriere della Sera 1.6.11
Governo tecnico, no del segretario: adesso la gente non ci capirebbe
di Maria Teresa Meli


— Le prossime tappe sono fissate. Il referendum, innanzitutto: «Votiamo tutti i quesiti, votiamo qualsiasi cosa. L’importante è dare un’altra botta a Silvio Berlusconi» . L’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti ama i modi spicci e le spiegazioni sbrigative, ma la sostanza è quella. Il Pd spera di raggiungere il quorum. Senza però forzare la mano più di tanto, senza, cioè, pagare dazio nel caso che non si raggiunga il quorum. Poi la legge elettorale. Non perché Pier Luigi Bersani speri minimamente di mandarla in porto («Sono pessimista» ), ma perché è un altro passaggio che può far fibrillare il governo. L’idea leghista (e terzopolista) di un ritorno al proporzionale in realtà non piace al segretario. E non soltanto a lui. Spiega Gianclaudio Bressa: «Figuriamoci! Con un sistema proporzionale noi saremmo condannati per sempre all’opposizione» . Anche l’offensiva nei confronti del Carroccio, a cui il segretario a tratti apre (sul federalismo) e a tratti chiude, va vista in questa chiave. Bersani non si illude certo di allearsi con la Lega, ma pratica la guerra dei nervi con il maggior alleato di Berlusconi, che è già abbondantemente in imbarazzo per il risultato elettorale. Tutti tentativi di mettere in difficoltà la maggioranza. Con la speranza che l’anno prossimo si vada al voto. «Le urne sono l’unica strada» , ripete Rosy Bindi. Sì, niente pasticci, tipo governi tecnici appoggiati in qualche modo dal Partito democratico. «La gente — è il ragionamento che va facendo in queste ore Bersani — ci chiede il cambiamento. Perciò niente formule e formulette, disquisizioni sulle alleanze, governi Tremonti o Maroni... Noi dobbiamo fare la nostra proposta rivolgendoci al Paese. Una proposta indirizzata alle forze riformiste e di sinistra, ma che è aperta a tutti coloro che la condividono» . Quindi basta con i tira e molla sulle alleanze, basta con i soliti tormentoni. Il Pd non deve più perdere tempo a chiedersi (e dividersi) su quesiti come: è meglio coalizzarsi con Vendola o con Casini? La convinzione del segretario è che «alla gente non interessino questi giochetti» , che anzi «allontanano gli elettori dalla politica» . E in questo senso la posizione di Bersani si discosta da quella di Massimo D’Alema che ieri, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, apparivamolto più aperturista del segretario nei confronti della nascita di un eventuale governo tecnico. «Non possiamo fare cose che la gente non capirebbe» , è il mantra di Bersani. D’altra parte, se è vero che il Pd ha guadagnato dei voti al Nord è anche vero che al Sud ne ha persi parecchi e quindi, a giudizio del leader, c’è ancora tanto da fare. Bersani punta a organizzare una grande assemblea programmatica per dimostrare che il suo partito è in campo e che è e rimarrà «il baricentro di ogni alleanza di centrosinistra» . Perché non si possa più ironizzare sulla manifestazione del Pd dell’altro ieri al Pantheon, come ha fatto Fausto Bertinotti: «È piazza Duomo quella portatrice del segno dei tempi» . Mentre il segretario continua ad affrontare le cose della politica con l’approccio pragmatico dell’amministratore emiliano, i sogni e le ambizioni dei leader del centrosinistra si moltiplicano. Una ridda di voci e di speranze. Che i parlamentari del Partito democratico riportano ai cronisti. Stando a sentire loro il centrosinistra non ha ancora vinto le elezioni che già ci sono quattro possibili aspiranti alla successione a Giorgio Napolitano. Sì, proprio così, ben quattro: Massimo D’Alema, Romano Prodi, Giuliano Amato e Franco Marini. E, tanto per non farsi mancare niente, circola anche l’ipotesi di un tandem Rosy Bindi-Nichi Vendola per Palazzo Chigi. L’eco di queste voci giunge anche a largo del Nazareno, ma Bersani non ha intenzione di regalare ad altri il lavoro fatto fin qui, e tira dritto. C’è una sola cosa che angoscia il segretario: la situazione siciliana. Il Pd dovrebbe sfilarsi dalla giunta regionale, magari prima che vi sia la richiesta di rinvio a giudizio per Raffaele Lombardo. Ormai lo pensano in molti, da Enrico Letta ad Anna Finocchiaro, a Nicola Latorre.

il Fatto 1.6.11
L’opposizione
Il segretario Pd: “Tutti insieme contro Berlusconi”
di Alessio Grossi


Bersani non vuole “paratie alzate” contro il Terzo Polo e non disdegnerebbe un governo di transizione. Vendola e Di Pietro invocano le urne, ma “sull’allargamento al centro” parlano con sfumature diverse. Il giorno dopo la vittoria, nel centrosinistra si torna ai soliti nodi. Primo tra tutti, quello delle alleanze. “Prima il progetto, poi vedere chi ci sta e quindi le primarie, se si fanno”: la scaletta di Pier Luigi Bersani per il dopo voto è questa. Ai microfoni di Repubblica Tv, Bersani esordisce ripetendo la parola d’ordine del Pd: “Alla verifica in Parlamento Berlusconi deve presentarsi dimissionario, perché è venuta meno la maggioranza nel Paese”. L’imperativo però è costruire uno schieramento stabile di centrosinistra. Bersani ora può contare sui numeri (“il Pd è prossimo a essere il primo partito del nostro Paese”), ma non ha voglia di autosufficienza: “Non vogliamo fare da soli, lasciando per strada dei pezzi di centrosinistra di governo. Di certo non rifaremo l’Unione”. Bersani scaccia il perenne incubo del centrosinistra, ma a Idv e Sel lancia un chiaro messaggio: “Se dobbiamo rimettere mano a qualche pilastro della democrazia, non vedo per quale ragione il centrosinistra e il Pd debbano tirare su delle paratie. Se gli elettori del Terzo Polo hanno votato per i candidati del centrosinistra il motivo è che Pd e centrosinistra si sono presentati in modo aperto e costituzionale a fronte del populismo berlusconiano. Non mettiamo paletti alla nostra proposta”. Insomma, con Casini bisogna sedersi attorno a un tavolo, perché i suoi voti servono. Sul resto, Bersani ribadisce la sua linea: “Prima il progetto con dieci riforme, poi vedere chi ci sta e quindi chi ci sta decide se fare o meno le primarie. Quando si fanno, chi vince va bene. Ma non sono un automatismo. La premiership? Ci sono ma non mi metto davanti al progetto”. Sullo sfondo, rimane la voglia di cambiare la legge elettorale. Magari, anche con un breve governo di transizione. Ha fretta invece Vendola, che ieri su vari giornali ha dettato la sua agenda: elezioni anticipate “prima possibile”, e con la stessa alleanza che ha vinto le Amministrative. “Il centrodestra si blinda nel palazzo, nel suo bunker, ma non ce la farà a reggere” sottolinea, come a dire che il voto arriverà presto. Il leader di Sel rimane contrario all’allargamento al Terzo Polo, di cui rimarca il “modesto risultato” nelle urne, e ritiene le primarie la via indispensabile per scegliere il candidato premier. Primarie su cui resta invece tiepido Di Pietro: “Non le demonizzo, ma privilegio i programmi. Ne discuteremo al momento opportuno e ci rimetteremo alla volontà della coalizione”. Come Vendola, anche l’ex pm ha voglia di elezioni anticipate: “Ma è inutile chiedere le dimissioni di Berlusconi, non le darà”. E il Terzo Polo? Di Pietro è scettico su una possibile intesa, ma non sbarra la porta: “Se il Terzo Polo vuole allearsi con uno dei due esistenti, questo dipende solo da loro. Devono decidere con chi sposarsi: se lo vogliono fare con me, devono accettare i dieci comandamenti”.

Repubblica 1.6.11
D’Alema apre all´Udc: seguire il modello Macerata
Bersani: nuovo Ulivo e ora bis con i referendum
Il leader conferma il sì alle primarie, ma senza automatismi: si valuti caso per caso
di G. C.


«Il premier si presenti dimissionario in Parlamento, se è uno statista come dice di essere». Pier Luigi Bersani insiste su questo tasto. Ritiene che Berlusconi non possa più sfuggire alle responsabilità quando ci sarà la verifica in aula. E nel futuro politico del centrosinistra il segretario del Pd vede il "nuovo Ulivo". Perché è tempo di «riscossa civica, di canzone popolare, di politica che ha bisogno di questo carburante, di una nuova moralità». Appunto di Ulivo, una parola che a Bersani piace per tutto ciò che evoca. «Ma si può chiamare in mille modi», spiega, l´importante è che l´ispirazione sia questa.
Non ne fa una questione nominalistica, il leader democratico che, autoironico, anche ieri torna a fare il verso a se stesso in stile Crozza: «Dobbiamo togliere l´ultima macchia al giaguaro». Sprona così ai referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento. Ribadisce anche la necessità di «un patto di maturazione per darci credibilità nell´azione di governo, un patto di garanzia». Ulivo quindi, ma quando saranno maturate le condizioni, per evitare derive che possano riprodurre l´Unione. È un´offerta rivolta a Di Pietro e a Vendola che, subito dopo il voto amministrativo, hanno chiesto di accelerare sull´accordo di centrosinistra (senza feeling con il Terzo Polo) e di scegliere con le primarie il candidato premier.
Però tutti ragionamenti di Bersani muovono oggi da una posizione di forza: «Siamo prossimi a essere il primo partito - è ottimista - . Non lasciamo per strada pezzi di centrosinistra di governo, ma il centrosinistra non deve alzare paratie e, tenendo aperti i canali, dove non arrivano i partiti, possono arrivare i cittadini, come dimostra il fatto che gli elettori del Terzo Polo hanno votato spesso i candidati di centrosinistra». Parla su tutto il segretario Pd intervistato a Repubblica-tv. Sui grillini ad esempio, e l´exploit che hanno avuto: «I grillini, al di là del franchising di Grillo, mostrano delle esigenze che si rivolgono alla politica e bisogna assolutamente interloquire con loro. Le parole di Grillo spesso hanno questo tono qualunquista. Ma ciò non toglie che la domanda che loro pongono debba essere considerata».
E sulla questione delle alleanze, decisiva per chiudere con il berlusconismo, anche Massimo D´Alema individua nella "formula Macerata" (da Sel all´Udc) una buona strada e aggiunge: «Puntiamo a un´alleanza che vada oltre il centrosinistra». Si appella al senso della disciplina (quello che l´Unione non ha avuto), e a chi fa osservare che Di Pietro tanto disciplinato non è, risponde: «È stato un ministro estremamente disciplinato da lui nessun intralcio al governo Prodi». Il modo più limpido per uscire dalla crisi sarebbe andare alle urne - osserva il presidente del Copasir - e «se fosse possibile cambiare una legge elettorale... ma non siamo al pozzo dei desideri». Non si fa illusioni neppure Bersani: «Siamo pronti a discutere con tutti ma sono pessimista...». Sul tavolo c´è anche il tema delle primarie e della premiership. Scuoteranno le opposizioni? Il segretario democratico derubrica le polemiche: «Sì alle primarie, ma non come automatismo: la politica deve valutare caso per caso». E a proposito della sua candidatura ammette: «Io ci sono, oggi mi sento più forte, ma non mi metto davanti al progetto. Se vogliono uscire dal berlusconismo non dobbiamo scimmiottarlo».
(g.c.)

Repubblica 1.6.11
Il segretario scommette sui referendum "Non temo il quorum, possiamo dargli il ko"
Campagna a tappeto per il Sì, ma i big consigliano prudenza
Nel partito si è compresa la forza del web, che supera l´ostracismo delle televisioni
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Buttiamoci nella battaglia sui referendum. Io lo farò. Può arrivare un nuovo crollo di Berlusconi». Pier Luigi Bersani ha deciso di uscire dai calcoli "politicisti", dalla paura che sempre prende i partiti quando si corre contro un quorum difficilissimo da raggiungere: il 50 per cento più uno degli italiani deve andare alle urne perché il voto sia valido. Vale la pena rischiare la faccia su questo nuovo passaggio dopo aver incassato la vittoria alle amministrative? «È un suicidio spendersi per i referendum - dicono alcune voci veltroniane - . Il quorum è impossibile». Beppe Fioroni mette in guardia il segretario e il partito: «Nessuno parli di spallata finale a Berlusconi con il voto del 12 e 13 giugno. Può arrivare invece una sberla per noi e si disperde il vento del successo».
Spallata no, non è il termine che Bersani userà nelle prossime due settimane. Ma si butterà davvero a corpo morto per dire Sì ai 4 referendum abrogativi su acqua, nucleare e legittimo impedimento. «Anche se la Cassazione nelle prossime ore dovesse cancellare il quesito sull´atomo, proseguiremo nella campagna elettorale - ha spiegato il leader nella riunione della segreteria del Pd - . So bene che quello è il traino principale. Ma non è detto che la morte del referendum sul nucleare non crei l´effetto opposto a quello sperato da Berlusconi. Un´indignazione popolare contro il trucco del governo, una reazione che porti la gente a votare». Il Pd farà spot radiofonici, messaggi video e manifestazioni in tutta Italia. Bersani metterà la sua firma in calce a una lettera che verrà spedita a 5 milioni di famiglie nei principali capoluoghi italiani. La campagna sul web sarà asfissiante.
Bersani chiama la rete, con una certa diffidenza, «l´ambaradam». La conosce poco. Ma ha capito che dietro la cavalcata di de Magistris (ieri il segretario ha chiamato il neosindaco di Napoli) e Pisapia c´è la novità del web, del passaparola sui social network, di uno strumento in grado di superare l´ostracismo delle tv, il silenzio dei partiti che puntano all´astensione, di arrivare al consenso dei giovani. Nuovo è il mezzo, nuova dev´essere la politica. «Non faccio calcoli», ripete il segretario. «È una battaglia che va combattuta comunque».
Se i big del partito, quelli che siedono nel "caminetto", da D´Alema a Veltroni, da Marini a Fioroni, consigliano prudenza secondo lo schema del non intestarsi un probabile fallimento, Bersani gioca la sua partita in proprio. Da tempo ha incassato il sostegno dell´intero Pd sul Sì ai 4 quesiti. «Vado a votare, certo. Dico solo che è un bene che la prossima settimana ci siano i lavori parlamentari, così la campagna referendaria del Pd sarà un po´ più blanda», insiste Fioroni. Il costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti considera «impossibile» la missione quorum. Ma a queste sirene Bersani ha deciso di non dare ascolto. Non dice spallata ma sente che può arrivare il colpo del Ko. Bossi non farà iniziative ma ha il polso del suo popolo e ha spiegato che sull´acqua voterebbe Sì. La Chiesa ha invitato i cittadini a votare i referendum e si è schierato a favore di quello sull´acqua pubblica. Il Pd vuole entrare in sintonia con due mondi che oggi sono ancora lontani.
Una nuova caduta di Berlusconi accelererebbe la crisi. E favorirebbe la soluzione che Bersani preferisce a tutte le altre: il voto anticipato. Il segretario è favorevole a un governo per la riforma elettorale «di poche settimane». In realtà pensa alle urne. A differenza di Massimo D´Alema. Il presidente del Copasir parla di «un esecutivo di transizione per la legge elettorale, che faccia alcune cose fondamentali e porti alle elezioni in pochi mesi». Sono diversi i tempi ed è diverso il programma. Bersani è categorico sullo scopo dell´eventuale governo-ponte: «Riforma elettorale, ma niente di più». Lui ha già inquadrato il voto e la sua corsa per Palazzo Chigi. Il 12 e 13 giugno possono dargli la spinta decisiva.

il Fatto 1.6.11
L’analisi. La sconfitta in casa di Berlusconi
Seppelliti da una risata
di Nando Dalla Chiesa


Li ha seppelliti una risata. Sferzante, giovanile, contagiosa. Esplosiva e incontenibile davanti al troppo, al troppo di tutto. Che ha allagato l’altra sera piazza Duomo trasformandola in un grandioso teatro di satira popolare. Il gruppo di giovani che dirige l’occhio verso l’alto inscenando la progettazione della “più grande moschea d’Europa”. L’ingegnere che spiega alle maestranze: “Ecco, intanto le guglie devono sparire, via anche quella statuina d’oro lì in alto, e tutt’intorno spazi per i kebab”. A cinquanta metri da loro campeggia su un terrazzo pubblico un grande striscione con su scritto “Moratti, una donna fuori dal Comune”. E poi quel “Zingaropoli”, mugghiato da Bossi e rimbalzato sui cartelloni di tutta Milano, ritmato ogni dieci minuti con la giocosa cantilena degli ultrà vittoriosi. O il “Gigi D’Alessio, vogliamo Gigi D’Alessio” diventato rapidamente il tormentone della notte, una canzonatura impietosa del giovedì prima, la più discussa musica dei quartieri napoletani chiamata a benedire il futuro della capitale padana, la rivolta della Lega, l’accusa alla sinistra violenta e comunista di avere minacciato il cantante, La Russa che fa promesse a telefono e microfono unificati, fino alla reazione rabbiosa dei fan fatti salire a vuoto dalla Campania: “Pisapia, Pisapia”.
AFFONDA sotto una risata liberatoria la più grande farsa politica della storia europea del dopoguerra. Ogni tabù annunciato, ogni incubo agitato, si sono trasformati grazie alla rete in un potente sberleffo. La sinistra triste? Forse quella che Berlusconi incontrò al suo apparire sulla pubblica scena. Questa ha ironia da vendere (ci risiamo: perché la satira è di sinistra?). Mentre dall’altra parte, soprattutto a corte, sembrano capaci di ridere solo di gnocca e dintorni.
È una risata che viene da lontano quella che rimbalza tra gli annunci di vittoria che arrivano da Napoli e da Arcore, da Rho e da Trieste, da Cagliari e Gallarate. Nasce, dopo aver fatto a braccio di ferro con l’indignazione, dal repertorio di gag ineguagliabili che ci è stato rappresentato per anni. Il parlamento pronto a votare che Ruby era la nipote di Mubarak, esattamente come avrebbe potuto votare che Napoleone andò in ritiro a Lampedusa o Garibaldi a Formentera. Il palco attrezzato davanti al Palazzo di Giustizia di Milano perché l’imputato possa insultare i suoi giudici in mezzo a una folla di figuranti in estasi. I bunga bunga narrati come cene eleganti a base di coca cola light e di discussioni politiche con giovani apprendiste Cavour. Le prostitute riaccompagnate a casa con le auto della polizia. Satiri ottantenni e lenoni falliti che spuntano come spot nei luoghi più improbabili. Falsi attentati con incredibili sparatorie per le scale. Le rincorse a Obama per spiegargli come discoli pentiti che non è colpa mia, in Italia c’è una dittatura dei giudici. E quei capelli, santo cielo quei capelli. E gli strafalcioni a getto continuo, dal lontano Romolo e Remolo fino all’ultimo Goteborg al posto di Bad Godesberg.
UN GIORNO sembrerà di avere sognato, e i ragazzi ci diranno “ma non ridevate?” come dicevamo noi ai nostri genitori rivedendo il duce con le mani sui fianchi a piazza Venezia. Davvero la prima volta è tragedia e la seconda è farsa. Ora bisogna uscirne e dare il segno fulminante della differenza. Mai dimenticare che il secondo governo Prodi dilapidò il patrimonio accumulato in cinque anni di opposizione in poche settimane: i giochi miserabili (non del governo) per l’elezione del presidente del Senato; i cento ministri e sottosegretari, quasi tutti sconosciuti, lottizzati tra partiti e correnti, salvo accorgersi, dopo il giuramento, che mancava un sottosegretario in grado di reggere la Finanziaria in aula; l’indulto come prima e più assoluta urgenza. Si lavori alto per il Paese. E godiamoci questa riserva di ironia, pronti a usarla verso di noi. Come quella del giovane tifoso di Pisapia che l’altra sera ha chiesto agli amici di aspettarlo un attimo: “Vado a rubare un’auto e torno”.

Repubblica 1.6.11
L’ottimismo dell’intelligenza
di Barbara Spinelli


Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Di Pietro
Quel che ha vinto a Milano e Napoli è la fiducia nella ragione: lo sguardo chiaro sui tanti segnali degli ultimi anni

Se non ci fossero state persone come Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris, nelle due città malate d´Italia che sono Milano e Napoli, probabilmente non avremmo assistito in diretta alle fine politica di Berlusconi e della sua inaudita magia.
Molti elementi hanno contato, e tra questi sicuramente la coalizione divenuta un garbuglio, la cocciuta scommessa di Gianfranco Fini su una nuova destra legalitaria, la smisurata insipienza di un premier che s´aggrappa follemente a Barack Obama come Michele Sindona s´aggrappò negli anni ´70 agli amici americani.
Ma il vento più impetuoso viene da altrove, viene da dentro gli animi, è una forza che ha travolto tutti i copioni consueti. Eravamo abituati a dire, con Gramsci, che quel che urge è il pessimismo della ragione e l´ottimismo della volontà. Non è vero. Quel che ha vinto, a Milano e Napoli, è l´ottimismo della ragione: lo sguardo chiaro, veggente, sui tanti segnali degli ultimi anni. Il non possumus di Fini, le onde viola, la manifestazione delle donne il 13 febbraio, irradiatasi da Internet come virus ("Bastava non votarlo", diceva un cartello: è stato preso sul serio). Qualche giorno dopo, al festival di San Remo, il televoto scelse Roberto Vecchioni e anche quello fu un segno.
Alle nostre spalle, ci sono tanti sassolini bianchi che hanno finito col mostrare la via, come nella fiaba di Grimm. Li abbiamo messi noi, cittadini-elettori. Il castello che sembrava granitico, è il popolo sovrano che l´abbatte; lo stesso popolo che il premier usa per affermare un potere illimitato. Un´immensa e tranquilla fiducia di potercela fare, un´intelligenza-conoscenza dell´Italia reale, una voglia di provare alleanze interamente centrate sull´etica pubblica e la legalità, un´estraneità profonda ai partiti dell´opposizione, alle loro élite: questi gli ingredienti che hanno fatto lievitare il pane che abbiamo mangiato lunedì. E il senso che sì, più di Gramsci valeva Pessoa: «Tutto vale la pena, se l´anima non è piccola». Chi ha ottimismo della volontà, lasciando che la ragione si deprima e inebetisca, altro non gli resta che la volontà di potenza.
L´ottimismo dell´intelligenza apre lo sguardo ai segni – rendendo visibile l´invisibile – entra in sintonia con le mutazioni di una società, resuscita parole diradatesi per malinconia. È possibile ricostruire una Milano accogliente, capitale morale. È possibile strappare il Sud a mafia, ‘ndrangheta, camorra, corona unita, cominciando dalla città-Babilonia che è Napoli. Non ci fa paura la paura. Luigi Bersani ha avuto la saggezza (dopo due sconfitte dei candidati Pd: alle primarie milanesi e nel primo turno a Napoli) di presentire che questa primavera italiana lui doveva assecondarla, aiutarla. Come scrive nel suo blog Pietro Ancona, già segretario della Cgil, Bersani s´è mostrato capace di buon senso: «Ha preferito vincere senza essere il protagonista principale, piuttosto che perdere essendolo». Anche questo è ottimismo dell´intelligenza.
Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Antonio Di Pietro o della sinistra radicale. Che per anni ha avuto come scopo essenziale quello di esser battezzato «riformista» dal finto sacerdote Berlusconi. Pisapia, Vendola, De Magistris guardano al potere senza più complessi: aspirano a prenderlo, con fiducia in sé, nel proprio ragionare, negli elettori. Gli stessi vizi della sinistra radicale (la riluttanza a governare, a pagare il prezzo che questo comporta) si fanno obsoleti e inutili.
Crederci, non crederci: questo era il dilemma, se parafrasiamo Amleto. «Se sia più nobile sopportare gli oltraggi, i sassi, i dardi dell´iniqua fortuna, o prender l´armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Sulla bilancia è stata la forza trasformatrice della verità a pesare: forza malinconica forse – disvelatrice di fatti e misfatti – ma non pessimista. I veri giustizialisti sono stati in questi anni coloro che più esecravano i magistrati. Fino a quando non si è condannati in terzo grado, tutto è permesso: gli insulti, le più immorali condotte pubbliche. Gli elettori delle amministrative restituiscono alla politica la sua vera ambizione: quella di agire e correggersi prima che intervenga il magistrato. Quella di non contar frottole, quando la crisi infuria.
C´è infine la crisi, che cambia il vento: un po´ come in America quando vinse Obama. I candidati dell´opposizione non si sono accontentati più di dire: «Noi italiani siamo fatti così, c´è poco da fare». C´è invece, a cominciare da sé. Basta legger con cura i dati Istat sull´economia che barcolla, e la chimera dell´Italia immunizzata evapora. Basta scoprire come l´economia di intere regioni stagni, perché pervasa dall´illegalità, dallo sprezzo dello Stato. È molto significativo che a Napoli sia un uomo di legge («malato di protagonismo», dicevano le sinistre fino a poco tempo fa) ad aver conquistato uno straordinario 65,4 per cento. Tutto quello che sappiamo dei disastri economici causati dalle mafie, o del peso ricattatorio esercitato a Napoli e Roma da persone come Cosentino, gli ottimisti dell´intelligenza l´hanno appreso da indagini giudiziarie preziose. I magistrati sono per Berlusconi brigatisti, cancri, uomini antropologicamente diversi. Ora è antropologicamente diversa gran parte d´Italia. Sarà interessante vedere se anch´essa sarà insultata: come la Consulta, la Costituzione, il Quirinale, la magistratura, l´informazione indipendente.
Nel berlusconiano impero dei segni, tanti s´erano installati: vassalli riottosi, ma pur sempre vassalli. Anche il Pd, quando faceva mancare i propri voti alla Camera; anche Casini, quando approvava la legge liberticida sul fine vita. Scoraggiamento e pessimismo li inchiodavano dov´erano. Un´altra Italia ha fatto scoppiare la bolla dei segni, con la spilla dei buoni argomenti, la mitezza dei candidati, anche con lo scherno: c´è stato un momento, fra i due turni, in cui ha fatto irruzione l´ironia e il banco di Berlusconi è saltato. È stato quando un utente twitter ha lanciato un appello alla Moratti: «Il quartiere Sucate dice no alla moschea abusiva in via Giandomenico Puppa! Sindaco rispondi!". Al che il sindaco: «Nessuna tolleranza per le moschee abusive!». Era una bufala, né Sucate né Puppa esistono. Così come non esistono l´Italia berlusconiana, gli annunci miracolosi del premier. Un´esilarante fandonia ha scacciato la fandonia sempre meno allegra, sempre più cupa, del leader.
Prima o poi la ribellione doveva venire, connettersi al mondo reale. Un mondo dove i giovani, stando all´Istat, sono derubati di futuro: con tassi di disoccupazione superiori di 3,7 punti rispetto alla media europea; con un´emigrazione all´estero in aumento, perché il merito da noi non conta più. Quasi la metà dei giovani occupati è precaria. Quasi un quarto è Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training).
Ora si tratta di vedere cosa l´opposizione farà: come costruirà, dopo aver distrutto. Come si mobiliterà per il referendum su acqua, legittimo impedimento (legalità), nucleare. È un´impresa colossale, dopo anni di crisi negata. Il 24 maggio, la Corte dei Conti ha ammonito: per raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil pari al 60% (per evitare la bancarotta greca, come chiesto dall´Europa), l´Italia dovrà ridurre il debito del 3% all´anno, pari oggi a circa 46 miliardi.
Per Berlusconi, è missione impossibile: a causa del governo infermo, e del populismo. Ma sinistra e altri oppositori ne sono capaci, dopo aver sostenuto in questi anni che Prodi cadde per colpa del rigore? Sono capaci di dire che le tasse non vanno diminuite, che nell´economia-mondo la crescita sarà debole, i sacrifici non comprimibili, l´equità tanto più indispensabile? La strada è impervia. Ma l´Italia forse ascolta oggi parole di verità, se chi le dice avrà l´ottimismo dell´intelligenza, oltre a quello della volontà.

Repubblica 1.6.11
Il Nord "tradisce" il centrodestra il mito della Padania è al capolinea
di Ilvo Diamanti


I vecchi metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non funzionano più. E la figura dell´uomo che si è fatto da sé non è sufficiente per dare risposte all´Italia settentrionale
Quasi tutte le "capitali" regionali ormai sono governate dal centrosinistra, anche se spesso afflitto da complessi d´inferiorità Ma Lega e Pdl arretrano pure nelle città medie e nei capoluoghi di provincia

Le consultazioni amministrative appena svolte hanno evocato un cambiamento profondo del clima d´opinione. Eppure, nel corso della Seconda Repubblica, il Centrosinistra aveva vinto e governato a lungo a livello locale.
Non solo nelle tradizionali zone di forza - l´Emilia Romagna e le regioni del Centro. Ma anche altrove. In molte aree del Sud e del Nord. Solo che ce n´eravamo scordati. Perché dopo il 2006 - e ancor più dopo il 2008 - il centrosinistra è arretrato dovunque. Ma soprattutto nel Nord. "Espugnato" dalla Lega. Che alle Regionali del 2010 è penetrata anche nelle "zone rosse". Così si è imposto il mito del "Nord padano". Un concetto entrato nel linguaggio comune. E insieme si è affermata la convinzione che il centrosinistra sia troppo "romano" per essere accettato e creduto nel Nord. Un´idea, peraltro, non infondata. Che, però, indica una deriva. Non un destino. Così, fra gli attori politici e gli elettori di centrosinistra, si è diffuso un inferiority complex nei confronti della Lega. Considerata come unica e ultima erede dei partiti di massa. In grado di "presidiare" il territorio. Il voto ha ridimensionato, in modo brusco, questi sentimenti. Soprattutto nel Nord. Dove i partiti di governo hanno subito le sconfitte più brucianti. Non che altrove le cose, per loro, siano andate meglio. A Napoli, in particolare. Dove però da quasi vent´anni governava il centrosinistra. Ma è nel Nord padano che sono avvenuti i mutamenti più rilevanti. A partire da Milano, la capitale della Seconda Repubblica. Senza dimenticare Trieste, che solo Riccardo Illy, in passato, era riuscito a "sottrarre" alla destra. Oppure Novara, la capitale leghista, il feudo di Cota, governatore del Piemonte.
Ma il cambiamento del Nord sconfina ben oltre i luoghi simbolici del centrodestra e della Lega. Basti esaminare il bilancio dei comuni maggiori (con più di 15mila abitanti) dove si è votato: 133 a livello nazionale. In precedenza, 73 erano amministrati dal centrosinistra e 55 dal centrodestra. Gli altri da giunte di segno diverso. Ebbene, in queste elezioni il centrosinistra ne ha conquistate altre 10. Il centrodestra ne ha perse 17. Di cui 14 appartengono al Nord "padano" (con l´esclusione, cioè, dell´Emilia Romagna). Dove, tra le città al voto, il centrodestra ha fatto eleggere solo 8 sindaci, mentre prima ne aveva 22. Mentre il centrosinistra, parallelamente, è passato da 17 a 29.
Se analizziamo il risultato ottenuto dai partiti (al primo turno) questa impressione si rafforza ulteriormente. Nei comuni del Nord padano dove si è votato, infatti, il Pd ottiene il 27%. Come alle precedenti Comunali, ma con un incremento di 2 punti rispetto alle Regionali di un anno fa. Mentre i partiti di governo sono slittati vistosamente, rispetto al voto del 2010. La Lega di quasi 5 punti (si ferma al 10,9%). Il Pdl addirittura di 8. Oggi si è attestato sul 22,5%. Così, nelle città del Nord al voto, il Pd è divenuto il primo partito. Rispetto al passato recente, si tratta di una novità evidente.
Altro aspetto rilevante, il successo delle liste di sinistra - su tutte Sel. Non solo perché in grado di imporre il proprio candidato a Milano, ma perché, in generale, ha conseguito un risultato più che doppio rispetto alle Regionali (4,6%). Anche in termini assoluti. Inoltre, va segnalata la crescita elettorale del Movimento 5 Stelle, promosso da Beppe Grillo, che supera anch´esso il 4% dei voti validi. Questi dati certificano la pesante sconfitta del centrodestra e il parallelo successo del centrosinistra nel Nord. Ma, in assenza di analisi più approfondite, è difficile ricavarne significati chiari. Semmai, alcune ipotesi, che provo a tratteggiare di seguito.
1. Anzitutto, emerge il limite del "Nord padano". Definizione imposta dalla Lega per "unificare il Nord". Contro Roma e contro l´Italia. Torna, invece, a essere evidente come vi siano "diversi" Nord. Per retroterra sociale ed economico, ma anche per rappresentanza politica.
2. In particolare, si delinea l´orientamento specifico delle città maggiori. Hanno abbandonato il centrodestra. Tutte le capitali di regione (senza considerare Trentino Alto Adige e Valle d´Aosta) oggi sono governate dal centrosinistra. Tutte. Compresa la capitale per eccellenza. Milano. E il centrodestra, in questa tornata elettorale, è arretrata anche nelle città medie e nei capoluoghi di provincia. Ma si può rappresentare e governare "un territorio" restando esclusi dalle capitali?
3. Il centrodestra soffre di una crisi di consenso per molti versi nuova. In passato, infatti, Lega e Pdl disponevano di un bacino elettorale comune. Edmondo Berselli lo aveva definito, con un neologismo efficace, "forzaleghismo". Così, le crisi della Lega corrispondevano alla ripresa di Forza Italia. E viceversa. Oggi non è più così. Quel bacino è esondato. E i due partiti hanno perduto entrambi.
4. Anche perché Forza Italia non c´è più. Al suo posto, il Pdl, che aggrega anche An. Ha una base elettorale in prevalenza centro-meridionale. La Lega, a sua volta, ha assunto un´identità governativa. Infatti, esprime i sindaci di centinaia di Comuni, i presidenti di 14 Province e 2 Regioni. E sta nel governo, a Roma. Insieme a Berlusconi. Usa un linguaggio da opposizione dura e comportamenti pragmatici e tradizionali. Anche a livello locale, dove, con i propri uomini, ha occupato enti amministrativi e finanziari. Ma la distanza fra comportamenti e parole è troppo stridente per non saltare agli occhi degli elettori.
5. Nel Nord è in atto una profonda trasformazione economica e sociale. Ha scosso alle fondamenta il sistema finanziario, la grande e la piccola impresa. Ha modificato le basi demografiche e gli stili di vita della società. Molte zone, che fino a poco tempo fa si consideravano al sicuro dalla crisi, oggi si sentono vulnerabili. I metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non rassicurano più. E i miti della Padania e dell´Uomo-che-si-è-fatto-da-sé non bastano più a dare risposte e identità al Nord.
6. Anche per questo, dopo alcuni anni, il centrosinistra è tornato. Per limiti altrui, ma anche per meriti propri. Perché dispone ancora di leader locali credibili ed esperti. Perché ha legami con la società civile ed è stato in grado di mobilitare la realtà locale. Perché le sue parole in questa fase appaiono meno aliene di quelle del centrodestra. Altruismo, bene comune, solidarietà incontrano più attenzione, nel senso comune, rispetto a individualismo, paure, interessi. L´estremismo "moderato" e aggressivo di questi tempi, infine, ha stancato.
7. Circa l´eterogeneità delle coalizioni e il peso della cosiddetta sinistra radicale, conviene rammentare che raramente, in passato, queste differenze hanno provocato crisi locali. Perché sindaci e governatori sono eletti direttamente dai cittadini e dispongono di una legittimazione forte. E perché è più semplice trovare l´accordo sui temi concreti della società e del territorio che sui principi non negoziabili. La vita e la morte. La pace e la guerra.
8. Da questo passaggio elettorale, il centrosinistra esce rafforzato. Ma deve trarne le giuste indicazioni. In primo luogo: il Pd non può pretendere di essere partito dominante, né tanto meno unico. Ma è, indubbiamente, il riferimento obbligato di ogni coalizione. Non bisogna, poi, scambiare le consultazioni locali con quelle nazionali. Anche se l´Italia è un Paese di città e regioni. E tutti i cambiamenti politici, sociali e culturali sono avviati e annunciati a livello territoriale. Infine: guai a rassegnarsi, al "complesso del reduce". Allo "sconfittismo".
Se è possibile vincere a Milano e nel Nord, allora nulla è impossibile. Neppure a livello nazionale.

l’Unità 1.6.11
Cacciari, sogni o sei desto?
di Rinaldo Gianola


«Pisapia non ce la farà mai». «Non c’è dubbio che settori del Pd convergerebbero su Albertini». «Pisapia se vuole vincere deve chiedere subito l’apparentamento con il Terzo Polo». Chi ha pronunciato, una dietro l’altra, queste formidabili profezie? Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia, filosofo, politico, teorico del Terzo Polo. Non ce lo siamo dimenticati, non è possibile. Cacciari non passa mai inosservato. I suoi articoli e le sue interviste sono il sale delle pagine politiche dei giornali. Le cerchiamo con la stessa passione con cui tanti anni fa lo seguivamo mentre distribuiva i volantini assai estremi al Petrolchimico di Marghera, forse la sua migliore stagione politica con quella industrialista dentro il Pci insieme a Luciano Barca.
Le analisi del filosofo, passato dalla complessità di Heidegger alla serenità spirituale e contabile di Don Verzè, offrono sempre un punto di vista originale, tendono a sparigliare le carte banali della politica, ma se possiamo permetterci una rispettosa osservazione ormai Cacciari non ci becca più, zero. Pisapia ha vinto alla grande, non ha chiesto l’apparentamento a nessuno, e Albertini, come un vecchio boiardo, ha preferito la presidenza di Edipower a una possibile candidatura a sindaco di Milano per il Terzo Polo. Cacciari, forse, è troppo avanti, anche per i suoi amici. Montezemolo, Rutelli e il solito Albertini disertarono l’assemblea-evento al Teatro Parenti, il novembre scorso, che avrebbe dovuto benedire il nuovo Polo. Cacciari però non si arrende. Dopo il trionfo di Pisapia ha avvertito:«La sinistra non si illuda...». Giusto. Ma vuoi vedere che se torniamo a votare magari mandiamo a casa Berlusconi?

l’Unità 1.6.11
Trieste
«La mia vittoria unisce Chiusi i conti con la storia»
di Maria Zegarelli


Lasciarsi alle spalle la storia, con i suoi dolori insanabili, la Risiera, le Foibe, per poter guardare al futuro. Ci vede anche questo Roberto Cosolini, 57,5% di voti al ballottaggio, 53 anni e un passato nell’ex Pci, appena eletto sindaco di Trieste.
Una vittoria densa di significati.
«Una grande vittoria, dal risultato chiaro, che unisce un clima nazionale con un qualcosa si specificatamente triestino. Una città considerata tradizionalmente di destra si è sentita libera di scegliere, capace di scegliere un sindaco di sinistra di una coalizione di centrosinistra». Trieste ha chiuso i conti con la sua storia?
«Direi proprio di sì, a Trieste la contrapposizione politica è stata molto spesso caratterizzata dalla divisioni del passato e questo ha fatto sì che diventasse per certi versi bloccata e fortemente condizionata dal centrodestra. Evidentemente siamo entrati in una fase nuova, iniziata con Riccardo Illy e mai interrotta, neanche durante il periodo in cui ha governato Roberto Dipiazza. Trieste è tornata ad essere una città laica, che sceglie liberamente e ha scelto Cosolini e il centrosinistra perché li ha considerati più affidabili per il governo della città». Perché, secondo lei, i toni allarmistici usati dal centrodestra stavolta non hanno convinto?
«Stavolta la campagna del centrodestra, che tendeva a riecheggiare le paure del passato, non ha fatto assolutamente presa. Che sia successo in Italia va bene, che sia successo a Trieste è straordinario, perché qui il significato della parola “comunista” poteva essere un argomento condizionante. I triestini sono intelligenti, hanno capito che c’è un centrosinistra serio, affidabile, capace di rispettare le tragedie, tutte, che hanno attraversato questo territorio nel Novecento». Lei ha lanciato l’allarme rischio occupazione. Cosa intende fare da subito? «Un sindaco deve intanto ottenere da subito più attenzione da Stato e Regione per una città che è stata e può essere una capitale d’area ma che colpevoli interessi e distrazioni hanno trasformato in una città provinciale. C’è una grave sofferenza di mancanza di collegamenti che per una città che vive di relazioni è un problema pesante, quindi va affrontato. Poi, si deve decidere di scommettere sulle proprie materie prime mare, patrimonio culturale ed economia della conoscenza - e intervenire con un piano strategico. Il centrosinistra può dimostrare di essere in grado di rappresentare le esigenze del Nord.

Corriere della Sera 1.6.11
«Vendola ascolti la città prima di parlare»

Pisapia: sobrietà nel linguaggio. Vorrei che i cittadini mi chiamassero Giuliano
di  Maurizio Giannattasio


MILANO— Per tutti i suoi sostenitori lei è Giuliano. Come la dovranno chiamare ora che è stato eletto: signor sindaco come Letizia Moratti? «Mi piace molto che mi chiamino Giuliano. Vorrei che continuassero a chiamarmi così. Poi nelle situazioni ufficiali va bene sindaco: sicuramente non signor sindaco» . Non la spaventa tutta l’aspettativa che grava sulle sue spalle? «Da un lato sono emozionato ed entusiasta. Dall’altro sono consapevole che non sarà possibile dare risposte in tempi brevi a tutti. L’importante è riuscire a dare dei segnali di cambiamento forti nei primi fatidici cento giorni. Ci sto ragionando» . Quali? «Il primo atto sarà la formazione della giunta. Se sarà una squadra con il 50 per cento di donne sarà già una svolta. Se si baserà sulle competenze e non sull’appartenenza politica sarà un segnale fortissimo. È la premessa necessaria per mantenere tutti gli altri impegni» . In molti le hanno rimproverato di non aver presentato la giunta prima del ballottaggio. Perché non c’è ancora la squadra? «Perché sono serio e voglio valutare le competenze in base alle divisioni delle deleghe. Vogliamo trovare le persone giuste al posto giusto: ci vogliono merito, competenza, coerenza e generosità nei confronti della città. Questo non vuole dire essere indietro, vuole dire essere avanti» . Conferma che il suo braccio destro sarà una donna? «Ci sto pensando seriamente perché anche questo sarebbe un segnale importante» . Niente manuale Cencelli? «Lo escludo, perché gran parte dei miei sostenitori non lo accetterebbe. E neanche i milanesi» . Come frenerà l’assalto dei partiti? Terrà in tasca una lettera di dimissioni come Gabriele Albertini? «Devo dire che oggi non penso proprio alle dimissioni...» . Vendola da piazza del Duomo ha usato toni forti, da guerra civile: «Abbiamo espugnato Milano» . La borghesia milanese si spaventerà? «Io parlo per me. Ieri ho dato dei segnali forti e chiari: bisogna avere sobrietà anche nel linguaggio, che non significa cedere sui principi. Io voglio continuare a essere me stesso. A Vendola voglio bene. Ma quando va in una città che non conosce dovrebbe ascoltare più che parlare» . Beppe Grillo dice: ha vinto il sistema. Lei si trasforma in Pisapippa. «Grillo parla senza conoscere la realtà. Credo che molti ragazzi del Movimento 5 Stelle abbiano votato per me» . Lei ha annunciato i primi tre provvedimenti: più piste ciclabili, agevolazioni sui mezzi pubblici per gli over 65 e la commissione antimafia. Dove trova i soldi? «Sui primi due provvedimenti i soldi ci sono sicuramente. Basta solo risparmiare dando dei segnali importanti. Come diminuire le consulenze del sindaco e altri sprechi che sono sotto gli occhi di tutti. Per il resto dobbiamo vedere quello che c’è in cassa. Dall’analisi che abbiamo fatto del Bilancio così come è pubblicato su Internet ci sono parecchie cose che è necessario approfondire. Alcune voci sono virtuali come il maxidividendo Sea, altre sono generiche. Sicuramente c’è un problema di trasparenza che noi garantiremo a tutti i costi» . Consiglieri, assessori e sindaco godono di alcuni privilegi. Lei ha già annunciato che taglierà i biglietti gratis per lo stadio. Altri tagli in vista? «Farò un discorso molto se- rio ad assessori e consiglieri perché ci sia una riflessione comune. Per quanto mi riguarda sarà così: non godrò dei privilegi della carica. L’ho già fatto in passato quando ero presidente della commissione per la riforma del Codice penale: avevo a disposizione un’auto e non l'ho mai usata» . Oltre alla squadra, ci sono tutte le partecipate del Comune. Non farete prigionieri? «Una cosa è certa: non ci saranno più i doppi incarichi di cui si è abusato. Chi ha lavorato bene e nell’interesse della città non si deve preoccupare. Non ho nessuna intenzione di porre fine al lavoro di chi si è impegnato e di chi ha competenza. Se invece, come purtroppo succede nelle partecipate, ci sono presidenti o consiglieri di amministrazione nominati solo per appartenenza politica, allora ci saranno dei cambiamenti» .

il Fatto 1.6.11
Vendola, meglio darsi una calmata
Prima pensare, poi parlare
di Marco Travaglio


GENTILI SIGNORI del centrosinistra, per ora avete vinto solo i ballottaggi comunali e provinciali, non le elezioni politiche. Quindi, per favore, evitate eccessivi trionfalismi. Per esempio, gentile Vendola, forse è un po’ esagerato rivendicare – come Lei fa sull’Unità – “io ho vinto tutte le scommesse, mi aspettavo un risultato così, davvero”. A noi pare di ricordare che, a Napoli, appoggiava il prefetto Carneade-Morcone contro De Magistris al primo turno. Fortunatamente i Suoi elettori sono stati più lungimiranti di Lei. Anche noi, poi, siamo felici che la campagna xenofoba contro Zingaropoli e gl’immigrati islamici sia stata sconfitta a Milano, ma c’era proprio bisogno di mettersi a strillare nel primo comizio dopo la vittoria che ora “dobbiamo abbracciare i nostri fratelli rom e musulmani”? È proprio sfuggendo alla caricatura dell’alfiere delle minoranze e nient’altro che voleva farne la destra con i suoi house organ, che Pisapia ha stravinto a Milano: guadagnandosi la fama di uomo mite, tollerante, concreto, serio e sereno, cioè di sindaco di tutta la città e di tutti i cittadini. Anche, ma non soltanto dei rom e degli islamici. E anche di chi, vivendo nei quartieri più popolari e disagiati, vive quelle presenze non ancora integrate come un problema ancora irrisolto. Cioè da risolvere. Non da negare con sparate demagogiche, utili soltanto a regalare titoli a Libero e al Giornale.

La Stampa 1.6.11
Milano, dopo il trionfo la paura del fuoco amico
Pisapia avverte il governatore pugliese: caro Nichi, in piazza meglio se tacevi
L’uscita del leader di Sel sui rom da abbracciare è parsa a molti un assist alla Lega
di Michele Brambilla


Il discorso contestato al comizio della vittoria Nichi Vendola lunedì sera sul palco di piazza del Duomo ha invitato ad andare ad «abbracciare i fratelli rom e musulmani» e gridato: «Abbiamo espugnato Milano»
L’avvocato Umberto Ambrosoli ribadisce che Pisapia ha fatto una campagna che si staccava dalla vecchia sinistra, e «senza l’ossessione di Berlusconi»
Il giornalista Per Gad Lerner Vendola ha usato «espressioni infelici»: «I milanesi non hanno avuto bisogno di truppe che venissero da fuori»

Il mite Giuliano Pisapia ha dimostrato subito che la sua mitezza non va scambiata per sottomissione. A meno di ventiquattr’ore dalla festa per la vittoria in piazza Duomo, ha fatto sapere a Nichi Vendola di non aver gradito il suo non programmato comizio. «A Nichi voglio bene - ha detto il nuovo sindaco di Milano in un’intervista a Telenova - ma quando va in una città che non conosce dovrebbe ascoltare più che parlare». Insomma Pisapia ha detto al leader del suo partito, Sinistra e Libertà, che sarebbe stato meglio se fosse stato zitto.
In effetti l’improvvisata di Vendola è parsa a tutti un po’ sopra le righe. Intanto perché le parole del governatore pugliese erano musica per le orecchie di leghisti e berlusconiani. Quando l’hanno sentito urlare dal palco che bisogna abbracciare i fratelli rom e i musulmani, infatti, quelli di destra hanno pensato che Vendola stava servendo loro un formidabile assist. Visto che avevamo ragione noi, in campagna elettorale, a dire che con Pisapia Milano sarebbe diventata una zingaropoli islamica? Ci avete accusato di fare del terrorismo psicologico, invece era tutto vero.
E poi, per molti sostenitori di Pisapia quelle parole sono state una stecca nel coro festoso. Devono venire dalle Puglie a mettere il cappello sulla nostra vittoria? «Vendola ha il merito di aver promosso la candidatura di Pisapia alle primarie e per me va benissimo che sia venuto alla festa di piazza Duomo», dice Gad Lerner, uno dei grandi sponsor di Pisapia. «Ma ho trovato del tutto infelice la sua espressione “Abbiamo espugnato Milano”. I milanesi si sono liberati da sé, non hanno avuto bisogno di truppe che venissero da fuori. Pisapia è un fenomeno del tutto milanese». Secondo Gad Lerner la gaffe di Vendola non è casuale: «È una vecchia sindrome della sinistra quella di pensare che Milano sia un fortino della destra, che vada accerchiata per essere espugnata. La vittoria di Pisapia invece ci ha dimostrato che l’antidoto al berlusconismo non poteva che essere generato nello stesso ambiente in cui il berlusconismo era nato».
Anche lo scrittore Corrado Stajano, uomo di sinistra ma senza tessere, ritiene che l’«abbiamo espugnato Milano» di Nichi Vendola sia «una stupidaggine, qui non c’era niente da espugnare». Ieri sera, poi, è arrivata l’intervista a Telenova e abbiamo saputo che neanche Pisapia ha gradito.
Non è una questione di poco conto. In gioco c’è la credibilità di una svolta. Una svolta così spiegata dall’avvocato Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso da un sicario di Michele Sindona. «La campagna elettorale di Pisapia non ha avuto nulla a che fare con una certa vecchia faziosità della sinistra. Questa volta non c’è stata l’ossessione di Berlusconi, s’è parlato per fortuna d’altro, s’è parlato di programmi per la città... Pisapia, poi, ha saputo sommare ai partiti che lo sostenevano una grande partecipazione della società civile. Ha raccolto attorno a sé anche persone che non si identificano nell’area di centro sinistra... Sarebbe pericoloso che questi soggetti ora si sentissero meno rappresentati nel governo della città a favore dei partiti».
Ma è un errore che, secondo Ambrosoli, Pisapia non commetterà, così come non commetterà l’errore di finire nella trappola dell’antiberlusconismo militante e fazioso. «Non c’è un rischio da evitare, c’è una dimensione da continuare: quella che ha caratterizzato fino ad ora tutta l’attività di Pisapia e dei suoi collaboratori».
Il timore di molti sostenitori di Pisapia, più che le intenzioni del nuovo sindaco sulle quali nessuno ha dubbi, è quello di una sorta di fuoco amico che finirebbe con il danneggiare l’immagine di un quadro fresco, diverso. Più che l’offensiva dei media di destra, a danneggiare il nuovo corso di Milano potrebbe essere il ritorno in campo di tutto un milieu che, per citare un libro scritto qualche anno fa da Luca Ricolfi, ha reso antipatica la sinistra. Un milieu che non è solo di politici di professione e di leader di partito, ma soprattutto di quegli intellettuali («radical chic», si diceva una volta) che hanno fornito l’immagine di una sinistra spocchiosa. Talmente spocchiosa da sentirsi antropologicamente superiore, e che quindi è malata, per usare ancora le parole di Ricolfi, di un «complesso dei migliori».
Si vuole ad esempio evitare, nella cerchia di Pisapia, il ricorso a immagini esagerate ed esasperate, come il paragonare - qualcuno l’ha fatto - il 30 maggio 2011 al 25 aprile 1945. Se il nuovo sindaco resta quello che è stato finora, allora il «vento», com’era scritto sui suoi manifesti elettorali, non «cambia davvero» solo perché è cambiata la maggioranza di Milano, ma anche perché è cambiata la sinistra.

La Stampa 1.6.11
Le primarie dividono Bersani e Vendola
Ipotesi diverse sulla consultazione. Il Pd: siamo il primo partito
di Carlo Bertini


C’è un dato che da qualche giorno, già prima dei ballottaggi, allieta i sonni dei leader del centrosinistra: in gergo tecnico i sondaggisti lo chiamano «Aspettativa dei vincitori» e in pratica è una domandina semplice che alla fine di ogni interlocuzione viene posta a tutti gli elettori, di destra, sinistra e centro, ai berlusconiani di ferro, così come ai grillini più inferociti. «Se si votasse oggi, secondo lei chi vincerebbe?»: ebbene, per la prima volta da cinque anni, cioè dalla vittoria risicata del 2006 dell’Unione di Prodi, la gente risponde che a vincere sarebbe sicuramente il centrosinistra e non l’asse Berlusconi-Bossi. Ecco, malgrado ciò, i tre sicuri contraenti di un’alleanza data in vantaggio pure da tutti i sondaggisti con una forbice che si va allargando ogni giorno, cioè Pd, Idv e Sel, hanno idee ben diverse su come gestire il domani, a partire dal nodo delle primarie per la leadership.
«Siamo quasi il primo partito in Italia», sentenzia il segretario del Pd senza citare i sondaggi riservati che, oltre alla svolta sui «winnings», già da venerdì danno il suo partito testa a testa col Pdl a quota 28-29%. E se è vero, come bisbigliano i più maligni, che Bersani spera di aprire la direzione del 6 giugno con la notizia del «sorpasso storico» del Pd sul Pdl, allora si capisce come la tentazione di andare alle primarie per misurarsi con Vendola potrebbe stuzzicarlo più di qualche mese fa. Bersani invece, dovendo rendere conto anche a chi, come D’Alema, non vuole mollare Casini al suo destino, tira il freno. Ma lo fa a modo suo, avvertendo il leader Udc che «se non verrà con noi» i suoi voti potrebbero essere inghiottiti dal centrosinistra. Perché l’ultima interpretazione dei ballottaggi è che gli elettori moderati non si spaventano di Sel e Idv, mentre se molli queste forze sconti di sicuro una perdita di voti esiziale. A Vendola quindi il segretario Pd risponde che «pure se oggi mi sento più forte, prima viene il progetto, poi l’alleanza e solo poi le primarie». Non che sia allergico allo strumento che lo ha incoronato leader, «ma le primarie bisogna farle senza sbagliare i tempi», è l’argomento usato da Bersani, che ama ricordare sempre le presidenziali americane, dove quattro mesi prima del voto non si sapeva chi sarebbe stato lo sfidante di Bush.
Invece, in un Transatlantico già deserto alle tre del pomeriggio, dopo l’ennesimo «tutti a casa» decretato dai capigruppo con la scusa del 2 giugno da celebrare, il vendoliano Franco Giordano si infervora quando spiega perché bisognerebbe convocare i gazebo subito dopo l’estate: «Abbiamo il dovere di cavalcare l’onda del cambiamento e sarebbe perfetto farlo in autunno quando quegli altri a destra saranno dilaniati. Dopo quel che è successo, il Pd non può mettersi di traverso ad un processo di partecipazione come le primarie e sento che anche i cattolici di Fioroni spingono in questa direzione. Insomma chi non le vuole rischia di pagare poi un prezzo molto alto».
Una diagnosi molto diversa dunque da quella dei maggiori dirigenti Democrats, uniti da un’analisi che Paolo Gentiloni riassume così: «Noi che siamo titolari del marchio primarie, se non altro per averle difese quando erano sotto attacco, siamo ovviamente favorevoli a farle. Ed è bene che siano uscite rafforzate al punto da esser prese in considerazione anche dal centrodestra. Ma sul come e quando convocarle decide la politica, non Vendola». E la politica in queste ore, più che di elezioni imminenti, discute anche se sia possibile dar vita ad un governo per cambiare la legge elettorale, oppure a quella fantomatica grande alleanza rilanciata ancora ieri a Otto e Mezzo da D’Alema. Convinto che «tra le forze di opposizioni è possibile definire un programma di grande scelte per l’Italia su cui lavorare con responsabilità». E comunque sia, per poter stare tranquilli a Palazzo Chigi insieme alle forze più radicali come Idv e Sel, «qualsiasi patto di governo deve comportare una disciplina, perché indietro non si torna». Ma dietro la bandiera del «voto subito», gli sherpa del Pd già si muovono per offrire a Bossi modelli di leggi elettorali senza premio di maggioranza come cavallo di Troia per disarcionare il Cavaliere e mettere in sella magari Tremonti. Ma troveranno la strada sbarrata dal terzo contraente, Di Pietro: «Ci sto io qui a fare il guardiano contro gli inciuci», sibila sul portone della Camera. «E sia chiaro che prima bisogna vincere i referendum, poi costruire la casa con Pd e Sel. E solo dopo magari tirar su una dépendance per Casini... Ma le primarie sono un falso problema, decidano loro».
Il leader di Sel vorrebbe consultare la base già in autunno Il segretario frena Per la prima volta dal 2006 gli italiani convinti che in caso di voto Berlusconi perderebbe

il Fatto 1.6.11
Gad Lerner: “Ora candidiamo la Bindi”
“E al suo fianco Vendola. Non basta l’abbraccio di Prodi per Bersani”
di Fabrizio d’Esposito


Infedele (dal titolo della sua trasmissione su La7) e bastardo (dal sottotitolo del suo blog), Gad Lerner è anche un “iscritto di base” dei democrat. Nel maggio di quattro anni fa, il giornalista fu tra i 45 del comitato promotore del Pd. Nel gioco delle etichette, la sua è quella di prodiano mai pentito.
Prima immagine della festa: Prodi sul palco con Bersani, lunedì pomeriggio al Pantheon.
Prodi si sente il padre di questo partito nato in ritardo. Ma il suo ritorno non può essere strumentalizzato da nessuno.
Eppure si parla addirittura di un’investitura al segretario del Pd come candidato-premier.
Io rispetto molto Bersani, ha fatto un lavoro umile e oscuro in questi mesi. Ma non può bastare l’abbraccio di un autorevole padre nobile sul palco. Grazie al cielo non è più così.
Però colpisce e ha un effetto moltiplicatore sugli scenari.
Prodi stesso detesterebbe un partito in cui sarebbe sufficiente un buffetto per investire qualcuno.
E le voci su Prodi al Colle?
Guarda, io so quanto oggi Prodi sia davvero felice. Lui non sta recitando una commedia. È molto soddisfatto della sua vita di professore tra la Cina e gli Stati Uniti.
Ma la gente lo applaude, lo incita, lo invoca.
Lui è un uomo dal carattere tutt’altro che dolce ma quando accadono queste scene se ne compiace. Da qui a scrivere, però, che sta pianificando tutto come un avvoltoio ce ne vuole. Altrimenti avrebbe accettato qualche incarico da notabile di partito. Se poi tu mi chiedi: “ti piacerebbe Prodi al Quirinale?”, io ti rispondo: sì, eccome.
Torniamo all’euforia da festa: i rischi sono molti.
Assisto con angoscia alle schermaglie dei soliti noti che trapelano dal giornalismo romano (il tono è tra il sarcastico e lo sprezzante).
D’Alema vuole un governo di transizione con l’Udc, Veltroni è sempre fermo alla decantazione post-B.
I soliti noti parlano senza avere titoli né mandato da partito e da elettori. Un po’ come me che parlo da iscritto di base. Ma non mi è piaciuto nemmeno Vendo-la a Milano.
Seconda immagine della festa: il palco di piazza Duomo.
In realtà è la prima immagine, la più importante. Vendola ha fatto benissimo a venire, così come avrebbero fatto bene a venire anche Bersani e Rosy Bindi rimasti a Roma.
Ma?
Vendola ha usato un linguaggio antiquato quando ha detto che “abbiamo espugnato” Milano.
Perché antiquato?
Premesso che i milanesi si sono liberati da sé, prevale il vecchio stereotipo della sinistra per cui il Lombardo-Veneto è una società di destra.
Invece?
Si è generato un esperimento pilota nel cuore stesso del berlusconismo. I milanesi hanno fatto prima degli altri. Perciò Bersani avrebbe fatto bene a venire in piazza Duomo.
Un esperimento pilota da estendere.
Primarie vere e poi collaborazione leale e forte come successo tra Pisapia e Boeri (il candidato del Pd alle primarie) a Milano. Tutto questo ha prodotto una nuova militanza.
Il Pd sulle primarie nazionali farfuglia ancora.
Si sbaglia perché Berlusconi non arriverà al 2013. Magari voteremo nella primavera del prossimo anno.
Primarie in autunno, allora.
Sì. E questo vento di cambia-mente che soffia sull’Italia pretende primarie senza tatticismi e infingimenti. Se qualcuno si vuol fare avanti lo faccia. Ambizione e modestia non sono antitetiche. Pisapia ne è la dimostrazione.
Due contendenti in campo, per il momento: Bersani e Vendola.
Bersani potrebbe fare una scelta di generosità e lungimiranza riconoscendo un’altra figura.
Chi?
Rosy Bindi, che è pur sempre la presidente del Pd.
La donna più detestata e sbeffeggiata da B.
Appunto. Nei suoi confronti il Cavaliere ha un complesso d’inferiorità. Ma faccio il suo nome per una ragione storica.
Mai una donna premier.
Questo paese ha compiuto 150 anni e se lo può permettere. E poi le donne hanno subìto parecchie umiliazioni dalla classe dirigente che stiamo accompagnando alla porta.
Però la Bindi non è una faccia nuova del tutto.
Ti sbagli, sarebbe la vera novità. Le facce nuove non devono essere figure mediatiche come Matteo Renzi, per esempio. Rosy Bindi è una faccia nuova e allo stesso tempo ha solidità ed esperienza. Da ministro della Sanità è stata bravissima a governare interessi forti. Ancora la rimpiangono.
Donna e cattolica.
Ha una biografia cristallina. Viene dalla Dc ma non ha mai avuto atteggiamenti compromissori con il berlusconismo. È una severa e dura, perciò mi piace. Il suo antiberlusconismo non si discute.
E Vendola?
Se battuto, dovrà essere protagonista al fianco della Bindi. Ma non parliamo di ticket, è una parola orrenda.

La Stampa 1.6.11
L’arancione, bandiera solare che cancella i partiti tinta unita
Dalle rivolte dei Paesi ex sovietici alle piazze italiane, è il colore del cambiamento
Il primo a teorizzare l’uso dell’arancio in politica è stato il filosofo Usa Sharp
Non associato a nessuna corrente, permette di unire gruppi diversi
di Massimiliano Panarari


Il precedente La rivoluzione di Kiev È il novembre 2004 è l’arancione fa il suo esordio nella politica internazionale nella piazza ucraina che appoggia il candidato filo-occidentale Yushenko e lo porta alla presidenza

Arancione è il colore della libertà, declinata come promessa di una «giunta di liberazione dai partiti» offerta ai napoletani da Luigi De Magistris, o come il «maggio milanese» della rivoluzione pacifica contro il ventennio berlusconiano officiato da Giuliano Pisapia. Arancione è il colore del buonumore e della felicità delle strabordanti piazza Duomo e piazza Plebiscito, imbandierate a festa e fitte di palloncini, con De Magistris che, in omaggio al vitalismo partenopeo, converte un drappo arancio in una superscenografica bandana.
E così l’arancionismo fa il suo ingresso, dalla porta principale delle elezioni cittadine di questi giorni, anche nelle cronache politiche nazionali, diventando, come già nelle altri parti del mondo, la traduzione politico-cromatica della voglia di cambiamento e di aria nuova. Fatto proprio da folle progressiste e piazze di centrosinistra che hanno voluto, giustappunto, urlare compostamente la loro voglia di voltare pagina rispetto a governi nazionali e locali che, seppur idealmente affini, avevano frustrato le loro aspettative di rinnovamento, per inabissarsi in quella palude immota e resistentissima ad ogni sollecitazione che sa essere, non di rado, la nostra politica.
E difatti, in origine, era stato proprio il colore delle rivoluzioni non violente che hanno messo in ginocchio i grigi e tetragoni regimi postsovietici dell’Ucraina e delle altre repubbliche dell’Est, cui i rivoltosi hanno contrapposto un colore caldo e allegro (e gli insegnamenti dell’ultraottantenne filosofo statunitense Gene Sharp, di cui è appena uscito in italiano, per i tipi di Add, il manuale anti-dittature Liberatevi!). Un colore eminentemente trasversale, quindi, adattissimo alla nostra età postdemocratica dove le ideologie sono definitivamente tramontate, e in grado di accomunare (in termini ipotetici e ideali) la «rivoluzione gentile» di Viktor Yushenko e la festa meneghina per l’elezione a sindaco del mite gentiluomo Pisapia.
I colori, come insegna colui che viene universalmente riconosciuto quale massimo esperto vivente della loro storia, il medievista francese Michel Pastoureau, rappresentano delle autentiche cartine al tornasole della nostra mentalità, e per questo la politica ha scelto di avvalersene sposandone o reinventandone le sensazioni e gli stati d’animo da essi prodotti. Ecco, allora, che assume un senso chiarissimo e inequivocabile disegnare una macchia di colore così pronunciato sullo sfondo dei cieli grigi degli ex Paesi satelliti dell’Unione Sovietica o della Milano che, non più da bere da decenni, ha perso da tempo la propria vitalità per convertirsi alle spinozione passioni tristi dell’impotenza e della disgregazione e anomia sociale. A cui voleva contrapporsi, come scopriamo facendo un po’ di archeologia politica, il primo «arancionista» italiano, Riccardo Sarfatti, con la sua sfortunata (ma, letta con gli occhi di oggi, molto anticipatrice) corsa per la presidenza della Regione Lombardia dell’aprile del 2005. Un progetto, il suo, che evocava la necessità di stare «dentro la politica, fuori dalle correnti», nel quale possiamo leggere il mood dell’arancionismo dei tanti elettori progressisti che hanno premiato personalità, idee e tecnologie comunicative (decisive in tutte le rivoluzioni colorate), estranee alle liturgie, alle lentezze e alle tristezze partitocratiche.
Abbandonato il rosso, il colore del popolo parigino ottocentesco sollevatosi nella Comune, la società civile che vuole nuovi governi e decision makers per i propri comuni, opta per l’arancione, altrettanto vitale, ma meno conflittuale e identitario (e, come ci direbbero le dottrine della New age, estremamente olistico e capace di ricomporre l’unità del corpo, in questo caso sociale). Esito, per molti versi, di una scelta dal basso, proveniente dalla mobilitazione orizzontale di quelli che i politologi chiamano i «cittadini-elettori», l’arancionismo può rappresentare per la sinistra di questi nostri tempi postmoderni una modalità cromatica molto sexy per unire ciò che alcuni apparati di professionisti della politica, innamorati di tatticismi e verticismo, tendono troppo spesso a dividere.
Finiti (o assai malandati) il comunismo e il socialismo, l’arancionismo provvede a fornire la tonalità forte delle coalizioni arcobaleno che gli italiani hanno mandato al potere nelle città in queste due ultime due settimane. Colore «cangiante» e solare, che non mette di certo in soggezione, disponibile a usi e impieghi differenti, in grado di accogliere significati e segni politici variabili, l’arancione interpreta al meglio il desiderio di cambiamento ed emancipazione sempre presente negli elettorati delle società democratiche, naturalmente predisposti a mutare direzione di marcia (e classi dirigenti) in politica. Se il Change di Obama avesse un colore, allora, non potrebbe che essere l’arancione (cercando, beninteso, di non fare la brutta fine della ex premier ucraina Yulia Timoshenko, altra «ex arancio» celebre…).

Repubblica 1.6.11
Così l´onda arancione e il web hanno sconfitto il centrodestra
"La tv non basta, meglio un colore e un po´ di ironia"
Diffusione contagiosa di palloncini, rossetti cravatte e parrucche "Segno di una identità cromatica e collettiva"
di Mauro Favale


ROMA - Capire chi lo ha scelto per primo non è facile. «Noi lo abbiamo usato da subito: dal 5 marzo, dall´apertura della campagna, l´arancione è stato il nostro colore», racconta Marzia Bonacci, 30 anni, portavoce di Luigi De Magistris. «A dire il vero - replica Roberto Basso, stratega della campagna di Giuliano Pisapia - noi lo usavamo fin dalle primarie di novembre». Un colore per due, il colore del cambiamento. «Una coincidenza», assicurano gli spin doctor. L´unica cosa certa è che l´onda arancione ha vinto, sia a Napoli sia a Milano. Con i palloncini, le magliette, le cravatte, i braccialetti, le bandiere ma anche le unghie laccate, le parrucche, il rossetto, e gli ombretti. La diffusione è stata contagiosa. «Abbiamo chiesto di "far vivere" l´arancione - racconta Basso - perché eravamo consapevoli che non avremmo mai potuto produrre tutti i gadget che sono nati dalla fantasia di migliaia di persone». Il colore come elemento di identità collettiva. Lo stesso della rivoluzione ucraina del 2004. In Italia, però, l´arancione era comparso anche durante i primi girotondi, nel 2002, tra le bandiere del Palavobis a Milano. «L´abbiamo scelto perché ne erano rimasti liberi pochi», sorride Bosso. «Tutti gli altri erano troppo connotati», conferma la Bonacci.
E così, anche con un colore, è possibile vincere. Certo, non solo. Perché questa volta sono tanti gli elementi che hanno contribuito al trionfo di De Magistris e Pisapia. Da Facebook a Twitter, dal marketing virale ai flash mob, dal rovesciamento delle accuse degli avversari all´uso costante dell´ironia, sono state queste le caratteristiche di un salto culturale e tecnologico che ha permesso di surclassare Letizia Moratti e Gianni Lettieri che sono arrivati a spendere fino a 10-15 volte in più rispetto agli avversari. «Milano - osserva lo spin doctor di Pisapia - è stata ricoperta dai manifesti della Moratti. Ma per noi ha contato di più la possibilità di interagire sulla rete». E la rete è diventata il luogo di una mobilitazione di una comunità, uno sciame che ha contagiato il web giocando su un registro ludico e parodistico. Il tormentone sulle "colpe" di Pisapia è diventato un mantra, sfruttando lo scivolone della Moratti durante il faccia a faccia in tv. «La creatività si è mossa spontaneamente», racconta Basso. Sono circolati video virali che giocavano sulle paure paventate dalla destra in caso di vittoria del centrosinistra. Diverso il caso di Napoli dove ha prevalso il carattere di De Magistris, tradotto in quel liberatorio: «Abbiamo scassato». «È stata una campagna gestita su un doppio binario - spiega la portavoce del nuovo sindaco di Napoli - messaggi su Twitter, due o tre al giorno, post su Facebook, ma soprattutto i comizi, 25 in totale, e le visite nei quartieri, nei mercati, nelle piazze». Ma del "doppio binario" è convinto anche Basso: «La rete è un motore incredibile per favorire la mobilitazione e le piazze reali si sono riempite insieme a quelle virtuali». Non basta avere migliaia di followers su Twitter o di "amici" su Facebook. Però aiuta e il peso delle intelligenze che si mettono in moto sul web rendono quasi obsoleta la tv. O per lo meno, non più sufficiente a vincere le elezioni.

il Fatto 1.6.11
La maggioranza ritenta: i combattenti di Salò equiparati ai Partigiani


Il Pdl ci riprova: i combattenti di Salò equiparati ai partigiani. La proposta di legge ha fatto capolino ieri nella commissione Difesa della Camera, primo firmatario il deputato Gregorio Fontana. L’obiettivo è quello di garantire un riconoscimento giuridico all’associazione che riunisce gli ex combattenti della Repubblica sociale, in modo da permettergli di partecipare alla distribuzione dei contributi pubblici destinati alle fondazioni degli “ex belligeranti”, come fa l’Anpi. Non è la prima proposta di questo tipo lanciata dal Pdl. Due anni fa, proprio il 25 aprile, Berlusconi in persona fermo l’iniziativa del suo deputato Lucio Barani, molto simile a quella presentata ieri. Lo scorso mese, invece, al Senato è comparsa la proposta (sempre del Pdl) di abrogazione del divieto di ricostituire il partito fascista. L’iniziativa “nostalgica” di Fontana, oltre a scatenare la reazione delle opposizioni, ha alimentato qualche malumore all’interno dello stesso partito. Così ha commentato l’azzurro Franco De Luca: “In una giornata così ci mancava solo la proposta di dare soldi ai reduci di Salò. Qui dentro c’è chi lavora per il re di Prussia”.

l’Unità 1.6.11
Il ministero della Difesa dovrebbe valutare i gruppi di ex combattenti
Le associazioni degli ex partigiani come l’Anpi contrarie al controllo sulle attività
Salò, la destra torna alla carica «Equiparare tutti i combattenti»
Nuovo tentativo di revisionismo storico da parte del Pdl, un progetto di legge apre agli ex repubblichini la possibilità di accedere a finanziamenti pubblici. Le opposizioni: «È vergognoso».
di Marzio Cecioni


Le Associazioni degli ex combattenti della Repubblica sociale di Salò potrebbero avere lo stesso riconoscimento dell’Anpi e delle altre associazioni ex combattentistiche, ricevendo anche contributi statali: la disposizione è prevista da una proposta di legge del Pdl al voto della commissione Difesa della Camera.
La proposta di legge, che ha in Gregorio Fontana il primo firmatario, nasce dalla necessità di dotare le associazioni ex combattentistiche di una personalità giuridica, visto che tra l’altro ricevono dei fondi dal ministero della Difesa (tra il 2009 e il 2011 hanno ricevuto 1,5 milioni annui complessivamente). Il provvedimento stabilisce i requisiti perché queste associazioni ricevano il riconoscimento di “Associazioni di interesse delle Forze Armate”: tra i requisiti ci deve essere la loro apoliticità e che i loro statuti rispettino i principi di democrazia interna. I problemi cominciano perché la proposta assegna al ministero un compito di vigilanza non solo sulla legittimità dei loro statuti, ma sulle attività stesse delle associazioni. E qui il centrosinistra vede la volontà di sottoporre a controllo l’Anpi, cioè l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani. Ma l’elemento deflagrante è l’apertura al riconoscimento delle associazioni dei combattenti di Salò. Il testo infatti prevede possano essere riconosciute dal ministero tutte le associazioni di ex «belligeranti», senza limitazioni di sorta. Il braccio di ferro si è protratto nelle scorse sedute della Commissione Difesa, allorché gli emendamenti delle opposizioni che correggevano questi elementi sono stati tutti bocciati. Per bloccare l’iter il Pd ha presentato ieri una propria proposta, a prima firma Antonello Giacomelli, che è stato abbinato al testo Fontana. Questa proposta di legge prevede il riconoscimento solo per le associazioni di quanti sono stati «legittimamente belligeranti», il che escluderebbe i reduci della Repubblica sociale; in secondo luogo la vigilanza del ministero non è sulle attività ma unicamente sullo statuto delle Associazioni; infine le Associazioni sono sotto l’Alto patronato della Presidenza della Repubblica, per «sottrarle alla maggioranza di turno». «Capisco che qualcuno possa dire - commenta Giacomelli - che l’omissione della dicitura “legittimamente belligeranti” sia solo una dimenticanza, ma ultimamente queste coincidenze si moltiplicano: solo poche settimane fa era stata presentata proprio dal Pdl una proposta che abrogava il divieto di ricostituire il Partito fascista, e oggi si strizza l’occhiolino ai reduci di Salò. Alla vigilia del 2 giugno è meglio mettere dei punti fermi».
Anche nel Pdl la proposta ha creato un qualche sconcerto: «In una giornata come questa mancava la proposta di dare soldi ai reduci di Salò. Veramente qui dentro c’è chi lavora per il re di Prussia» è stata la reazione del parlamentare del Pdl Franco De Luca.
PARTITO FASCISTA
Il primo firmatario del Pdl, Gregorio Fontana, nega che la sua intenzione sia il riconoscimento dei repubblichini ma le opposizioni non hanno alcuna fiducia: «Poco più di un mese fa - ha ricordato la vicepresidente dei deputati del Pd Rosa Calipari - il Pdl ha presentato al Senato una proposta che abrogava il divieto di ricostruire il partito fascista, oggi ci riprovano alla Camera con il riconoscimento delle associazione dei combattenti di Salò? O forse a spingere l’onorevole Fontana c’è la necessità di rivangare il passato per dimenticare l’inglorioso presente? Due anni fa Berlusconi, eravamo al 25 aprile, bloccò la proposta dicendo di non saperne nulla. Oggi, di certo impegnato in altre discussioni, sarà ancora distratto. Ma noi non siamo distratti, ci siamo opposti allora e lo faremo anche ora. Mai i partigiani potranno essere messi sullo stesso piano dei repubblichini».
E Massimo Donadi, presidente Idv alla Camera: «Siamo al peggior revisionismo storico-politico, quasi alla riabilitazione nazifascista». «Anche quando sembra che il fondo sia stato toccato, il Pdl non si arrende, scava e riesce sempre a stupirci in negativo - ha proseguito - mettere sullo stesso piano chi ha combattuto per la libertà dell’Italia e chi si è schierato dalla parte degli oppressori e delle dittature è uno schiaffo alla nostra storia, alla nostra Costituzione ed alla memoria di un popolo». «Questa scellerata e vergognosa proposta di legge non passerà mai».
E Pancho Pardi, capogruppo dell’Italia dei Valori in Commissione Affari Costituzionali al Senato: «È davvero squallido e volgare reagire allo tsunami di liberazione del Paese da parte delle forze riformiste presentando, in prossimità della festa della Repubblica, una proposta per equiparare degli pseudo-squadristi ai partigiani, per di più con l’aggravante di prevedere contributi pubblici e di sottoporre l’Anpi al controllo del Ministero della Difesa».

il Fatto 1.6.11
Niente tregua, siamo Rom
risponde Furio Colombo


Ho visto nel Tg Regione Lazio del 30 maggio alcune scene esemplari dello sgombero di un campo Rom, precisamente via del Baiardo a Tor di Quinto in Roma. Si vedevano le ruspe sollevare e distruggere alcune biciclette nuove (forse rubate?). C’era uno schieramento di uomini e mezzi tipo Afghanistan. Poi la voce del giornalista informa che si trattava di “rimuovere” 170 persone, naturalmente per metà donne e bambini. Ai giorni nostri, a Roma!
Filippo

CIÒ CHE impressiona è il silenzio, religioso e laico, politico e giornalistico, intorno allo scandalo della persecuzione dei Rom che continua senza sosta in Italia come se si trattasse di sradicare una paurosa rete di terrorismo o malavita. Userò come esempio la Moratti ex sindaco di Milano (sono passati due giorni e la festa per il suo ritorno a casa continua). Durante una delle ultime interviste le è stato chiesto dei campi nomadi e, per una volta, la domanda era precisa. Le hanno chiesto: “Ma dopo dove vanno?” Sguardo smarrito della ex sindaco e poi la risposta esemplare: “Ah, non lo so. Lo so che devono andar via”. Il secondo esempio, quello del sindaco Alemanno di Roma è più triste. Credo che sappia anche lui che nessuna forza al mondo, neppure una rinascita della destra, lo riporterà a fare il sindaco di Roma, città ormai abbandonata a strade disselciate, buche celebri in Europa, erbacce sui monumenti. Ma per ora il sindaco è lui, la città è in cattive condizioni e, soprattutto, triste. Ma la caccia ai Rom è bene organizzata e, costi quel che costi, si ripete ogni giorno. Per capire l’immensa disumanità, ma anche la stupidità di quello che accade in tante città italiane, è bene ricordare la frase della Moratti, degna di Alemanno: dove vanno? “Ah, non lo so. Lo so che devono andare via”. Ecco dunque la sequenza, al netto dei sentimenti di civiltà e umanità. Primo, chi non ha casa si costruisce una baracca, magari vicino a una fontana. Da un passato, che in Italia è stato migliore della squallida vita sotto Berlusconi e i suoi, emergono volontari e persino assistenti sociali che si preoccupano di stabilire un legame fra i bambini e le scuole della zona. Le baracche si sistemano un po’ meglio, i bambini vanno a scuola, i nomadi si ambientano. Secondo. È naturale pensare che si può fare di meglio, per esempio case vere in quartieri veri, ma la mossa viene saltata. Solo i comunisti facevano case popolari. Terzo. Arriva un sindaco di destra che non può fare quasi niente perché i suoi sono tutti impegnati a depredare la sanità. Una soluzione però c’è: va e distruggi un campo nomadi. Fai contenti tutti. Il conto degli “sgomberi” a quanto pare fa curriculum. Quanto ai nomadi, non resta loro che fabbricare un altro campo e aspettare le ruspe. Che lavorino o non lavorino gli adulti, che vadano o non vadano a scuola i bambini, non fa differenza. E la chiamano civiltà.

La Stampa
L’icona dei sessantottini
Cohn-Bendit “rottamato” dalla nuova generazione Verde
Umiliato al voto precongressuale del partito: 26% contro il 50,3% della rivale
di Alberto Mattioli


1. «Dany il rosso» (per le idee politiche e il colore dei capelli) nel 1968 a una manifestazione del maggio francese. 2. Negli Anni 80 con Joshka Fischer (a destra): fondatori dei Verdi tedeschi. 3. I candidati dei Verdi per il 2012: Nicolas Hulot ed Eva Joly. 4. Terzo mandato all’europarlamento con Europe Écologie: 16,8% dei voti, record storico per una lista ecologista.

Non c’è più rispetto per i reduci del Sessantotto. Almeno in Francia. «Schtroumpf grognon», puffo brontolone: così Daniel Cohn-Bendit, 66 anni, è stato liquidato da Cécile Duflot, la segretaria dei Verdi francesi, che l’ha appena umiliato nelle votazioni precongressuali del partito: 50,3% per la mozione della segretaria uscente (e subito rientrante), 26,6 per quella del leader del Maggio. L’ex «Dany il rosso» non l’ha presa bene, facendo subito sapere al mondo, con il tipico egocentrismo dei sessantottini, che non sarebbe andato al congresso del partito, in programma nel fine settimana a La Rochelle: «Ho altre cose da fare. Non capisco perché dovrei sacrificare il mio week-end». Insomma, non mi votate? E io non gioco più.
Come tutte le sinistre, anche i Verdi francesi passano molto più tempo a litigare fra loro che con gli avversari. Le faide interne sono sanguinose e complicate da rivalità personali. Il partito si chiama in realtà Europe Ecologie-Les Verts, riassunto in EE-LV (i francesi adorano le sigle) e ha due candidati alla segreteria e due - per ora - alle presidenziali: non gli stessi, però. I due presidenziabili, che si giocheranno la candidatura alle primarie, sono Eva Joly e Nicolas Hulot, rispettivamente una ex magistrata d’assalto e un ex conduttore di una popolare trasmissione sulla natura: come dire che all’assalto dell’Eliseo andranno Licia Colò o Luigi De Magistris.
Intanto il partito è lacerato fra due anime, in disaccordo praticamente su tutto. Cohn-Bendit, che invecchiando si è moderato, ha scoperto le virtù del mercato e appoggiato perfino qualche intervento militare griffato Nato, perfino l’ultimo di Sarkozy in Libia, vuole un EE-LV sburocratizzato e senza tessere, dove la struttura degli iscritti sia doppiata da una «cooperativa» aperta alla società civile. Duflot è invece l’espressione dei Verdi-verdi, i militanti di lunga data, che peraltro sono 12 mila contro duemila cooperatori. Divisi sull’organizzazione, CohnBendit e Duflot lo sono anche sulla strategia per le presidenziali del prossimo anno. Duflot vuole un candidato di bandiera, Dany invece pensava di rinunciare e appoggiare fin dal primo turno Dominique Strauss-Kahn, in cambio di un buon accordo per le legislative. Poi, con quel che è successo al Sofitel di New York, ha dovuto ammettere che «il treno Dsk ha deragliato» e si è trovato senza una strategia di ricambio, ennesima vittima dei danni collaterali dell’«affaire».
Anche la battaglia precongressuale non è stata il trionfo dell’eleganza. La segretaria ha scoperto che CohnBendit era in ritardo con il pagamento della tessera e l’ha fatto sapere alla stampa. Lui ha ribattuto di aspettare ancora il rimborso spese per le europee, più o meno equivalente, quindi che una mano lavava l’altra. «E allora ci faccia vedere le ricevute!», ha controribattuto un collaboratore di Duflot. Nuova rissa per la votazione sulle mozioni. Il partito ha deciso che non ci si poteva esprimere né per posta né su Internet e ha aperto i seggi solo in una ventina di grandi città. Risultato: appena il 46% degli iscritti è andato a votare, e quei pochi si sono lamentati: «Ho dovuto fare tre ore di viaggio all’andata e tre al ritorno. Non sfruttiamo la modernità», ha sbottato José Bové, il contadino antimondialista che sostiene Cohn-Bendit.
Così, quanto a voti, i verdi hanno lasciato Dany al verde. Lui assicura «di non essere di cattivo umore», ma di essersi stufato, sì: «Vogliono il Dany che gode di una certa aura nell’opinione pubblica ma, dentro il movimento, vorrebbero che segua il loro tran-tran andando sempre nella loro direzione». Probabilmente dietro il tramonto dell’ex carismatico trascinatore di studentic’è il fatto che, dopo quasi mezzo secolo, le epiche gesta alla Sorbona sono ormai sbiadite, una nota a piè di pagina nel manuale di Storia del Novecento.
Duflot è nata nel ‘75 e non ha nostalgie per il Maggio radioso e remoto. Lui, il vecchio giovane, è consapevole di avere un grande futuro dietro le spalle. Una volta gli scappò pure detto: «Il vertice della mia carriera è il suo inizio. Non ho quindi bisogno di fare progetti, non andrà mai più così bene». Un programma perfetto: ma per un pensionato, non per un politico.

il Fatto 1.6.11
Angelopoulos: “Una rete dell’indignazione”
di Anna Maria Pasetti


Continuate a indignarvi, o miei prodi greci”. È un appello di passione tragica quello che il grande cineasta Theo Angelopoulos eleva da Roma, dove è arrivato per presentare il suo ultimo film, La polvere del tempo, oggi in uscita italiana. L’accenno a Piazza Syntagma di Atene, che quotidianamente accoglie decine di migliaia di manifestanti contro l’austerity governativo e le imminenti privatizzazioni selvagge sana-debito, era atteso nelle parole del maestro del cinema greco che mai trascura la sciagurata attualità del proprio Paese, benché il suo sguardo d’artista superi le misure dei tempi, come dimostra quest’opera che vede protagonisti Willem Dafoe, Michel Piccoli, Bruno Ganz e Irène Jacob in un viaggio d’amore e dolore attraverso la Storia. “La Grecia necessita di un cambiamento radicale, qualcosa che la stravolga in profondità perché così non possiamo più andare avanti. E lo stesso vale per le nazioni mediterranee affini: Spagna, Portogallo e la vostra Italia, mi par di capire”. Negli anni ’70 Angelopoulos aderì alle cine-nouvelle vagues atte a sovvertire i paradigmi artistici e politici, “ma oggi – spiega il regista – il cinema non rivoluziona più niente. Allora io cerco di attuare una mia rivoluzione privata: nel prossimo film riunirò in co-produzione Paesi tradizionalmente conflittuali: Grecia, Cipro, Turchia e Israele. E anche l’Italia, grazie all’amico Amedeo Pagani da decenni mio co-produttore. Il progetto indaga la crisi greca attuale attraverso un gruppo di giovani attori – di cui alcuni scioperanti -desiderosi di metter in scena Brecht”.

il Fatto 1.6.11
Flottiglia per Gaza un anno dopo. Israele tra fuoco e acqua
Nuova sfida al governo Netanyahu: nel 2010 la strage in mare
di Roberta Zunini


Con l’apertura permanente del valico di Rafah la striscia di Gaza non è più completamente isolata. Fatto irrilevante per i sostenitori della Flottila - di cui il pacifista Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza il 15 aprile, era uno degli animatori più attivi - il convoglio di navi che il 31 maggio dello scorso anno fu assalito dalle forze militari israeliane, mentre cercava di rompere l’assedio marittimo della Striscia. “Per noi non cambia nulla, rifaremo ciò che abbiamo fatto lo scorso anno, solo che questa volta ci sarà anche una nave italiana nel convoglio internazionale - spiega Francesco Giordano del coordinamento Flottilla italiana - che partirà dopo il 20 giugno da un porto italiano. Il fatto che gli egiziani abbiano aperto il confine terrestre di Rafah, non cancella l’ingiustizia perpetrata dallo Stato israeliano che costringe un milione e mezzo di persone a vivere in una prigione a cielo aperto”. Il blitz notturno dello scorso anno, condotto da agenti scelti israeliani, che dopo aver abbordato la nave turca Mavi Marnara, spararono, uccidendo 9 attivisti turchi, provocò reazioni negative anche da parte dei partner storici di Israele e la strategica alleanza tra Turchia e Israele ne uscì a pezzi.
A DISTANZA di un anno, il riavvicinamento è ancora in corso ma l’intransigenza israeliana non aiuta. La Turchia, attraverso il suo ministro degli eEsteri, Ahmet Davutoglu, ha fatto sapere che non potrà fermare le imbarcazioni. Israele ha colto l’occasione di questo tragico anniversario, annunciando che nulla cambia: non verrà tollerato alcun tentativo di varcare il confine marittimo di Gaza, anche se per raggiungerlo, la flottila non entrerà nelle acque nazionali israeliane. Il problema infatti è raggiungere la Striscia, indipendentemente dalla territorialità marittima. Israele sta tentando di bloccare a monte la partenza delle navi, per evitare un nuovo ricorso alla forza. Fiancheggiato su questo terreno dall’amministrazione Usa, il governo di Benyamin Netanyahu sta puntando in prima battuta sulla dissuasione diplomatica: lanciando appelli in ogni direzione affinchè la spedizione non trovi porti da cui prendere il largo. Se tuttavia questa strada non dovesse funzionare (l'iniziativa è gestita da organizzazioni private e gli Stati non sembrano nelle condizioni legali di poterla fermare), la carta della forza non viene esclusa neppure stavolta, anche se con correzioni di tiro rispetto al 2010.
LE AUTORITÀ israeliane temono in particolare l’Ihh: il sodalizio islamico-militante turco. I vertici politici e militari dello Stato ebraico ripetono in ogni modo d’essere decisi a presidiare. Le esercitazioni delle forze speciali della marina, riferiscono i media, sono già in corso.

il Fatto 1.6.11
Cina
Indennizzi a vittime di Tien an men


Per la prima volta dal 1989, le autorità di Pechino hanno offerto indennizzi economici ad alcuni parenti delle vittime della repressione a Piazza Tien an men. A rivelarlo le Madri di Tien an men in un appello alla vigilia dell’anniversario del massacro del 4 giugno 1989.

il Fatto 1.6.11
Il Dio impassibile di Malick
di Evelina Santangelo


Basterebbe leggere le recensioni uscite sulle testate più varie, italiane ed estere, per avere una qualche misura di quanto siano variegati, spesso inconciliabili, i giudizi sull’ultimo film di Terrence Malick, The Tree of Life, Palma d’oro al Festival di Cannes. “Un capolavoro contenuto e quasi imprigionato in una crisi mistica di arduo fascino” (Curzio Maltese, Repubblica). “Affascinante, ambiziosissimo, irrisolto” (Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano). “Un film che rischia d’entrare di slancio nella disagiata categoria dei capolavori mancati” (Valerio Caprara, Il Mattino). “Film folle e magnifico... grandissimo cinema” (Peter Bradshaw, The Guardian). “Una parodia di Malick fatta da uno che lo detesta” (Sukhdev Sandhu, The Telegraph).
Giusto per citarne solo una piccolissima parte.
Giudizi così divisi esigono, se non altro, un atteggiamento aperto, affatto liquidatorio.
Con quest’animo dunque sono andata a vedere The Tree of Life.
MERAVIGLIA, stupore, e anche un senso sconcertante di inadeguatezza dinanzi all’immensità e alla potenza delle immagini, sono i sentimenti immediati che si provano sin dalle prime sequenze.
Il nocciolo umano del film – la vicenda di una famiglia texana degli anni ’50 colpita da un lutto inaccettabile e insensato come la morte di un figlio – è infatti calato (e reso più vero, direi) in una visione cosmica e panica dove tutto ha un che di abissale: abissi microbiologici, abissi marini, abissi galattici, abissi temporali, dalla notte dei tempi a una modernità vertiginosa e arrogante che compete con la vertigine della natura o è forse – come suggerisce il protagonista, Jack (Sean Penn) – la più proterva manifestazione di un inappagato desiderio di dominio , di quella hybris insomma (superbia, prevaricazione) che è la peggiore delle colpe dell’uomo al cospetto di qualsiasi dio.
Ammirazione è poi il sentimento che meglio esprime quel che si prova dinanzi ai movimenti imprevedibili della macchia da presa, che riesce a fissare i sentimenti più intimi nelle velature di un viso o a suggerire lo slancio del desiderio d’assoluto in scalate verso il cielo tra chiostri di tronchi.
Un cinema veggente, l’ha definito qualche critico.
Un cinema visionario, sicuramente, e onirico, che non narra, ma preferisce suggerire piuttosto, attraverso analogie, assonanze, richiami emotivi, complice una musica “portentosa”, ora solenne come un requiem ora impalpabile come un richiamo fatto di puro spirito.
Ed è proprio su quel che questo film suggerisce che vorrei soffermarmi, partendo da quel nocciolo umano, appunto, in cui è messo in scena un microcosmo familiare in un tempo preciso: l’America della middle class degli anni ’50 – con le sue grettezze, il suo pragmatismo omocentrico, il suo culto del focolare domestico. In questo microcosmo cresce Jack, diviso dolorosamente tra gli insegnamenti di un padre duro (Brad Pitt), o meglio indurito e frustrato, che pronuncia frasi come questa: “Ci vuole una volontà di ferro per farsi avanti in questo mondo”, e una madre che: “Se non ami, – dice, – la tua vita passerà in un lampo”. E, quando questa stessa madre (Jessica Chastain) suggerisce come affrontare l’esistenza, non contempla che due precise possibilità: “Ci sono due vie per affrontare la vita. La via della natura e la via della grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire”.
SAREBBE un errore pensare che la “via della natura” coincida in tutto e per tutto con la via proposta dal padre, che è semmai la via più modesta di un piccolo uomo inchiodato al suo mediocre destino. La via della natura è piuttosto quella dell’infanzia che Jack vive insieme ai fratelli in un intreccio di conflitti interiori, frustrazioni, rancori inespressi, desideri indicibili, piccole vendette cui fa da contraltare la mitezza angelica del fratello destinato al sacrificio inesplicabile della sua morte precoce. Un personaggio, quest’ultimo, che nei tratti fisici così come nei tratti umani è la quintessenza della grazia. La grazia di una creatura bambina, resa ancora più innocente dal sacrificio che l’attende. Quella stessa grazia di cui la madre è la manifestazione più sensuale ma non meno pura, di quella purezza e bellezza disadorna, spirituale, che ricorda la Venere del Botticelli.
NÉ SEMBRA ci possano essere dubbi che queste due figure così fortemente idealizzate, così estranee alle dinamiche dell’esistenza quotidiana (a ogni forma di miseria o mediocrità), perché non corrotte dalla vita, siano le creature che più si avvicinano a quell’integrità ideale cui non può che volgersi il desiderio dell’uomo nella ricerca di senso. “Un giorno cadremo e verseremo lacrime... E capiremo tutto. Ogni cosa”. “Guidaci sino alla fine del tempo”. Questo dice la voce fuori campo, mentre Jack (ormai adulto) affronta il labirinto che lo porterà alla spiaggia dei giusti. E infatti il Dio cui si rivolge l’uomo di Malick è proprio il Dio del Libro di Giobbe, il Dio abissale, dalla volontà insondabile, del Vecchio Testamento, che esige sacrifici umani e non conosce pietà, né ha mai sperimentato d’altro canto la miseria dell’essere uomo. È proprio questo il punto, per chi abbia voglia di chiedersi quale orizzonte umano, spirituale, quale orizzonte culturale si profili nel “capolavoro” di Malick. Non è semplicemente una questione di fede. E meno che mai di ateismo. Quel che lascia davvero ammutoliti è proprio l’idea che il “senso” dell’umano si possa manifestare in creature angeliche o angelicate, in bambini efebici e donne “non con uman volto”; che il “senso” della vita si debba tornare a cercarlo in quell’Entità lì impenetrabile e distante, o ancora nell’espiazione di un sacrificio di cui non è dato chiedere conto... e non piuttosto nel cuore stesso dell’esistenza dove, proprio in quegli stessi anni ’50, una donna, un’afro-americana (Rosa Parks), si rifiutava di cedere il posto a un bianco in un autobus e un reverendo di nome Martin Luther King predicava la giustizia terrena pronunciando parole come queste: “Se avremo aiutato una sola persona a sperare, non saremo vissuti invano”, “la legge e l'ordine saranno rispettati solo quando si concederà la giustizia a tutti indistintamente”. È davvero quella proposta da Malick l’“avventura impervia e radicale” di questo nostro tempo? È davvero quell’Entità il Dio cui rivolgere le nostre domande di uomini che, credenti e non credenti o diversamente credenti, hanno conosciuto anche un altro Dio capace di farsi uomo tra gli uomini... O non è forse, quell’avventura spirituale mirabile, un modo altrettanto mirabile per mettere a posto le nostre coscienze?

La Stampa TuttoScienze 1.6.11
L’ultima tana dei Neanderthal si nasconde al Circolo Polare?
Scoperta in Russia una “cassetta degli attrezzi” di 28 mila anni fa
di Gabriele Beccaria


Cambia la mappa degli insediamenti «Ecco la prova che la loro sfera di influenza nell’Eurasia era più vasta di quanto si credesse»
Gli oggetti Asce, punte e raschietti: sono numerosissimi i pezzi recuperati nel sito russo di Byzovaya

L’ ultimo rifugio di una specie che scivola nell’estinzione o l’avamposto di una specie concorrente in ascesa? Nel primo caso i resti ritrovati non lontano dal Circolo Polare sono il commovente micromondo degli ultimi Neanderthal, nel secondo rappresentano l’attrezzatura standard di un gruppetto di Sapiens, bene organizzati come colonizzatori ma ancora primitivi.
Il mistero è intrigante anche per una questione di date: gli oltre 300 utensili in pietra ritrovati nel sito di Byzovaya, nel Nord della Russia, risalgono a 28 mila 500 anni fa, all’incirca 8 mila anni dopo la presunta scomparsa dei nostri cugini del Paleolitico. Eppure quel set di asce, raschietti e punte appare come un classico esempio di tecnologia «made in Neanderthal». Arcaica, certo, ma brutalmente efficace. Tanto da aver consentito a una tribù di spingersi fino a una zona estrema, ancora più gelida, all’epoca, di quanto non sia oggi e che la maggior parte dei paleoantropologi ha sempre considerato «off limits» per i nostri sfortunati parenti.
Un team multidisciplinare del Cnrs francese, con l’appoggio di un gruppo misto di russi e norvegesi, ha pubblicato un articolo sulla rivista «Science» per raccontare il ritrovamento: dalle colline degli Urali sono emersi oggetti realizzati con la tecnica della scheggiatura, tipica di una cultura intermedia come la Musteriana. Purtroppo non ci sono - almeno al momento - ossa fossili che facciano luce sull’enigma, ma sono stati raccolti abbondanti resti di animali. Soprattutto orsi, volpi, lupi e mammuth. Sono stati datati con esattezza grazie al carbonio 14 e alla luminescenza e sui reperti le analisi al microscopio elettronico hanno rivelato segni caratteristici di macellazione. Proprio quella in stile Neanderthal.
Non è abbastanza per escludere del tutto una presenza dei Sapiens, ma l’intreccio degli elementi sarebbe un altro indizio a favore dell’unica specie che ha davvero conteso alla nostra il dominio del Pianeta. Avrebbe resistito più a lungo di quanto si pensava e non è un caso che tra le scoperte più recenti molte ne stiano modificando in meglio il controverso identikit: un popolo di abili cacciatori, inclini a brandelli di pensiero simbolico, probabilmente dotati di una forma basica di linguaggio. «Questa zona può essere stata davvero uno degli ultimi rifugi e, se così fosse, sarebbe una realtà emozionante», ha dichiarato Ludovic Slimak, professore alla Université de Toulouse le Mirail. Di sicuro è ora di cominciare a ridisegnare - per l’ennesima volta - la mappa degli insediamenti neanderthaliani, allargando la loro sfera di influenza nell’Eurasia. In questo caso si tratta di un migliaio di chilometri più a Nord di quanto finora si fosse ritenuto possibile.
A stupire i ricercatori sono proprio le caratteristiche della «location»: «Si trattava di individui - ha aggiunto Slimak che vivevano in zone artiche in un periodo in cui l’Europa era avvolta in una cappa di condizioni climatiche molto fredde». Come ci siano riusciti con mezzi ridotti, che i ricercatori considerano rozzi e lontani da quelli del Paleolitico superiore (terminato appena 10 mila anni fa), è un giallo nel giallo. Molte certezze della paleoantropologia devono essere riviste.
Una tra tante: se i protagonisti del sito di Byzovaya fossero stati in realtà dei Sapiens, allora sarebbe altrettanto sorprendente - ha notato il professore francese - che abbiano utilizzato il knowhow dei predecessorisconfitti, quando questi erano già svaniti (almeno da quelle zone). Sarebbe la dimostrazione dell’omaggio postumo alle loro qualità di artigiani e combattenti e della permeabilità di abitudini e comportamenti tra le due specie. A Slimak non resta che ammettere che i punti d’oscurità prevalgono su quelli di luce: «Vastissime aree dell’Eurasia restano per la maggior parte ignote. Non ci sarebbe da stupirsi se nuove sorprese arrivassero già nel prossimo futuro».
E non resta che aspettare, se negli stessi giorni della notizia di «Science» un altro articolo - su «Proceedings of the National Academy of Sciences» - ha di nuovo buttato tutto all’aria: le datazioni provenienti dalla caverna di Mezmaiskaya, nella Russia occidentale, suggeriscono che i Neanderthal si siano arresi alle leggi darwiniane non oltre 39 mila 700 anni fa: secondo Thomas Higham, prof della University of Oxford, l’intrigante incontro tra «loro» e «noi» potrebbe non essere mai avvenuto o essersi verificato solo per un breve periodo e in zone ristrette. Di sicuro, i Neanderthal non smettono di provocarci.

La Stampa TuttoScienze 1.6.11
Gli archetipi che ci sono amici
Psicologia. A mezzo secolo dalla scomparsa le neuroscienze dissezionano il pensiero di Jung “Promossa la ricerca biologica-evoluzionistica della psiche, bocciata la deriva spiritualistica”
di Maurilio Orbecchi


In un autore che ha scritto oltre 20 mila pagine nell'arco di 60 anni è difficile non trovare incoerenze e cambiamenti di opinioni. Carl Gustav Jung non sfugge a questa regola e quindi appare come una figura complessa che si contraddice numerose volte. In particolare, da una parte ha costruito una psicologia su basi biologico-evoluzionistiche piuttosto avanzata per il periodo in cui fu elaborata; dall'altra ha trascurato questa elaborazione per introdurre nella sua psicologia posizioni filosofiche e religiose paranormali che hanno allontanato lui e buona parte della sua scuola non solo dal rapporto con la scienza, ma a volte anche dal principio di realtà. I suoi contributi scientifici sono tuttavia importanti e, quindi, la sua figura è destinata a rimanere un punto fermo nella storia della psicologia.
Chi non si fa distrarre dalle opinioni parapsicologiche e spiritualiste espresse in diverse occasioni da Jung nel corso della sua vita trova in molti suoi lavori, in particolare tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, l'elaborazione di una psicologia evoluzionistica sorprendentemente moderna che conserva un notevole valore alla luce delle conoscenze attuali.
Fin dall'inizio del suo percorso intellettuale Jung si era proposto di agganciare le teorie psicoanalitiche ai risultati della biologia, un obiettivo che dichiarava esplicitamente: «Sarà uno dei grandi compiti futuri trasferire la metapsicologia freudiana all'interno della biologia».
Jung era ancora un giovane psichiatra, quando incontrò un Freud già famoso. Era di quasi 20 anni più giovane del fondatore della psicoanalisi, il quale tuttavia fu profondamente colpito dal suo valore, tanto che lo nominò presidente della società psicoanalitica internazionale. Freud ebbe, però, un'influenza molto meno marcata sulla psicologia junghiana di quanto comunemente si pensi. In diverse occasioni avvenne semmai il contrario, come quando Freud si spinse a cercare i fondamenti della sua ipotesi sul parricidio nei periodi ancestrali, allargando così il proprio concetto di inconscio per includervi una struttura evoluzionistica.
Jung s'ispirava alla teoria dell'evoluzione, così com'era filtrata dalla psicologia degli istinti di William James, nei confronti del quale riconosceva apertamente il suo debito: «È stato il suo spirito così vasto e aperto ad ampliare a dismisura per me l'orizzonte della psicologia umana».
Nel costruire una propria psicologia Jung sviluppò le conseguenze della scoperta di Darwin, secondo il quale la mente e la coscienza si sono formate come evento naturale nel corso dei tempi evoluzionistici. Se l'uomo non è un'eccezione rispetto alle altre specie viventi, sosteneva, possiede anch'egli modelli di comportamento ereditati che lo portano a esprimere i modi di vita propri della specie. Ciò significa che la mente non è una tabula rasa, pronta per essere scritta interamente nel corso della storia personale, ma è il prodotto dell'evoluzione di una lunghissima serie di antenati. Il sistema biologico-mentale, che chiamò inconscio collettivo, è pertanto destinato a generare risultati simili a quelli che si sono già prodotti, infinite volte, nella storia degli individui e delle culture. In altre parole, gli esseri umani, anche quando credono di compiere libere scelte individuali, in realtà stanno eseguendo solo variazioni personali o socioculturali di alcuni modelli biologici che derivano dalle strutture del sistema mente-cervello. Queste caratteristiche universali, da Jung chiamate arche-tipiche, si sono sviluppate nel corso dell'evoluzione. Le differenze manifestate nelle varie culture e nelle varie epoche sono solo superficiali, derivando da meccanismi cerebrali condivisi da tutti gli esseri umani. In altre parole, oggi, potremmo dire che l'evoluzione non fornisce i documenti scritti, ma i programmi atti a scriverli. Per comprendere il concetto basti pensare per esempio alla credenza nel soprannaturale, al matrimonio, alla danza, alla morale, al divieto di alcune forme di violenza. Questi elementi sono archetipici (tipici degli esseri umani) ed esistono dappertutto, al di là dei vari modi in cui vengono espressi.
Jung rappresentava l'inconscio collettivo con un'immagine efficace: un essere umano al di là della giovinezza e della vecchiaia, dell'età di due milioni di anni, tempo che corrisponde al periodo evoluzionistico in cui si sono sviluppate le caratteristiche umane. Quest'individuo avrebbe un forte senso della storia, del divenire, della nascita e della morte.
E’ paradossale che questa parte della psicologia junghiana, quanto mai attuale, sia stata tacciata per anni di misticismo per poi (quando cambiarono i tempi) essere sprezzantemente definita biologista.

Maurilio Orbecchi è uno Psicoterapeuta junghiano [1 - Continua]

Corriere della Sera 1.6.11
Medea nel paese delle streghe
Così la scoperta dell’amore diventa una condanna
di Pietro Citati


O sono come fantasmi, ombre, anch’esse inconsistenti. O come sogni, o come fumo. Non hanno più energia, né coscienza vitale, né intelligenza, né sangue, né memoria, né speranza. Quale oscuro desiderio di vita le inquieta, quale nostalgia di essere nuovamente come noi, di parlare con noi, di camminare con noi, di stringerci al petto. Sognano soltanto il latte, il miele, il vino, l’acqua, il sangue, che darà loro, per qualche ora, l’apparenza di esseri umani. L’estremo Oriente, verso il quale muovono gli Argonauti, è il regno di Elios, il Sole: «il multiveggente padre degli occhi» , l’infaticabile auriga, l’instancabile testimone, che vede e ascolta tutte le cose. Ogni mattina Elios si leva nel Paese dell’aurora: la Colchide— la Georgia di oggi. Tutto vi sovrabbonda e trabocca d’oro, che è il segno trionfale del Sole. Il palazzo è pieno d’oro; così le stalle, dove la notte vengono rinchiusi i cavalli, che una volta hanno rischiato di ardere il mondo: il simbolo della regalità è l’oro; i fiumi e i corsi d’acqua sono pieni d’oro, che i Colchi raccolgono con pelli di montone. Anche gli esseri umani, o semidivini, sanno d’oro, il quale è vita e linfa. Il re Eeta, figlio di Elios e protetto da Ares: Circe, sorella di Eeta, che non sappiamo quando e per quale ragione è fuggita verso Occidente, nell’isola boscosa di Eea, dove tesse cantando «un ordito sottile, pieno di grazia e di luce» ; Medea e Apsirto, figli di Eeta, hanno un dono in comune: il lampo degli occhi, che brillano e irradiano davanti a loro «fuochi simili a quelli dell’oro» . ***Sebbene riempia di luce e d’oro i palazzi, i fiumi e gli occhi, il Sole ha un rapporto segreto con tutto ciò che, nell’universo, è tenebroso, infernale, stregonesco. Quando hanno superato il Capo Acherusio, gli Argonauti incontrano nel Mar Nero la grotta dell’Ade, avvolta da rocce e foreste: senza tregua essa esala dal profondo un soffio gelido, che «tutt’intorno crea la candida brina» . Lì vicino, il fiume Acheronte si getta nel mare. Non sappiamo (o almeno non so) se questo Ade e questo Acheronte siano gli stessi che Ulisse ha incontrato nel suo viaggio notturno: o se invece esista un secondo Ade, un secondo Acheronte, di cui non abbiamo nessuna notizia precisa. In ogni caso, se gli Argonauti vogliono raggiungere il Paese del Sole, devono oltrepassare il mondo della morte. La Colchide è un paese di draghi e di streghe. Il più possente tra questi draghi occupa il bosco di querce sacro ad Ares. Esso è figlio della terra fecondata dal sangue del mostro Tifone: un fuoco feroce gli brucia negli occhi glauchi; tre lingue gli vibrano in bocca; il corpo, coperto di scaglie, è tortuosissimo, tutto volute, spirali ed anelli, che si muovono e si agitano di continuo; soffia terribilmente; e questo soffio risuona lungo il fiume Fasi e nella foresta, tenendo nel terrore i Colchi. Appeso ad una quercia, sta il vello d’oro di un ariete. Grande come la pelle di una giovenca, emana una luce simile a quella della luna piena, che si confonde con il rosseggiare degli occhi del drago. Esso incarna la sovranità regale di Eeta e della sua famiglia. Con le sue fila di denti acutissimi, il drago tiene stretto il vello d’oro nelle mascelle: lo sorveglia giorno e notte, senza addormentarsi mai, perché mai il talismano della regalità deve abbandonare la Colchide. Come la Tessaglia, la Colchide è il Paese della stregoneria. La sua regina è Ecate, signora lunare dei morti e della magia, che si aggira nella notte coperta da un abito nero. Il suo capo è cinto da serpenti, intrecciati con rami di querce, le sue fiaccole lampeggiano: intorno ululano i cani infernali; e le erbe tremano al suo passaggio, mentre le Ninfe delle paludi gettano un grido. Se Ecate si nasconde, la sostituisce Medea, che secondo una tradizione è sua figlia. La luna è il suo astro. Quando rifulge pienissima guardando la terra, nel cielo c’è una quiete profonda, che scioglie in un solo brusio le voci di uomini, uccelli e fiere: le fronde silenziose sono immobili; l’aria umida tace; e solo le stelle hanno un palpito. Medea esce dal palazzo di Eeta a piedi nudi, con la veste slacciata, le spalle coperte dai capelli sciolti e avanza sola, nel silenzio di mezzanotte. Tende le braccia verso le stelle, gira tre volte su se stessa, tre volte si bagna la chioma, tre volte schiude le labbra. Piega il ginocchio a terra, innalzando alla notte l’inno più dolce, molle e affascinato che il mondo classico abbia mai inteso. «Notte, fedelissima ai sortilegi, astri splendenti, raggi della luna, Ecate dalle tre forme, che vieni in aiuto alle formule e alle arti dei maghi, e tu, o Terra, che ci insegni erbe potenti, e voi brezze e venti e monti e fiumi e laghi, e voi, dei delle foreste e della notte, assistetemi» . L’immenso vocativo alla Notte e alla Terra culmina con l’enumerazione delle arti di Medea. «Col vostro aiuto, quando voglio, i fiumi ritornano alla fonte, fermo il mare mosso, muovo il mare fermo, scaccio le nuvole, ammasso le nuvole, scateno i venti, richiamo i venti, apro le fauci delle vipere, vivifico i sassi e li muovo, induco i monti a tremare, tiro la luna giù dal cielo, irrigidisco il corso delle stelle, faccio impallidire il carro del sole, fiorire la terra in piena estate, riempire di luce le foreste più ombrose, colmare di messi la terra in pieno inverno. Ringiovanisco i corpi stremati dei vecchi, diffondo filtri e farmaci e un sopore che addormenta e blocca ogni cosa» . Quando canta il suo canto di strega, Medea sembra una ragazza, una tenera Nausicaa: eppure la sua mente non inorridisce davanti a nessuna visione, il suo animo non teme di compiere nessun delitto. Su in alto, in fondo alla Colchide, sta il Caucaso, «elevato sino al gelo dell’Orsa» , al quale è ancora incatenato Prometeo. Mentre percorrono il Mar Nero, gli Argonauti vedono l’aquila, «il cane alato di Zeus» , volare alta sopra la nave, sconvolgendo le vele col battito delle ali e gettando uno stridore acuto. Poco dopo, dietro le rocce, odono il lamento di Prometeo: l’aquila morde il suo fegato, lo strazia e lo divora; l’aria risuona di gemiti; finché l’aquila si scaglia di nuovo sulla sua vittima indifesa. Il sangue di Prometeo cola a terra sulla montagna; e da quel sangue nasce un fiore alto, che ha il colore dello zafferano, un doppio stelo, e la radice come carne viva. Medea taglia la radice: Prometeo è legato al fiore, che è ancora una parte del suo corpo, e geme, angosciato dalla sofferenza. Dalla pianta Medea trae un filtro nero, che ricorda il succo delle querce, e lo chiude in una conchiglia del Caspio. Così anche Prometeo, la vittima colpevole di Zeus, collabora alle arti della magia. ***Nei tempi antichissimi, Zeus sventò, in Beozia, un crimine orrendo. Nel Paese, per colpa di Ino, la seconda moglie del re Atamante, si era diffusa la carestia: Atamante fece consultare l’oracolo di Delfi; e un falso messaggio decretò che la sterilità della terra sarebbe cessata, se si sacrificava a Zeus Frisso, figlio di Atamante. Mentre stava per uccidere il figlio, intervenne Eracle, che gli strappò dalle mani il coltello sacrificale. «Il padre mio, Zeus— disse— odia i sacrifici umani» . In quel momento, Ermes inviò dall’Olimpo, per ordine di Zeus e di Era, un ariete alato e dorato. Frisso salì sull’ariete, che attraversò i cieli sopra la Grecia, l’Ellesponto, il Mar Nero, fino a giungere nella Colchide. Il re Eeta accolse Frisso, offrendogli la figlia in sposa. In segno di gratitudine e venerazione, Frisso sacrificò a Zeus l’ariete, che salì vertiginosamente in cielo, diventando una costellazione: la costellazione che porta il suo nome. Quanto al vello d’oro, lo offrì a Eeta: come se soltanto un re solare potesse conservare e difendere il talismano dorato della regalità. Zeus voleva che il vello d’oro ritornasse in Grecia, assieme all’ombra di Frisso: solo allora il sacrilegio di Atamante sarebbe stato cancellato e la Beozia avrebbe conosciuto una nuova prosperità. Giasone, figlio di Esone, re della Tessaglia, accolse il suggerimento di Zeus, invitando i più famosi eroi della Grecia, tra i quali Eracle ed Orfeo. Atena costruì, o fece costruire, Argo, la prima nave della storia. Era una nave magica, di cui una trave, appartenuta alla quercia di Dodona, aveva il dono della parola e della profezia. Tutto avveniva sotto la protezione degli dei: eppure la costruzione di Argo ferì a morte l’età dell’oro, quando gli uomini non solcavano i mari sconvolgendo la quiete originaria del mondo. La nave partì verso le rive orientali del Mar Nero. Il viaggio fu lungo e faticoso, pieno di avventure, rischi e pericoli: ma Argo avanzava rapida, con le vele che si gonfiavano al vento, come «lo sparviero avanza veloce nell’alto, con le ali aperte e ferme nel cielo puro» . Giasone raggiunse la Colchide e la foce del fiume Fasi, che si avventava furiosamente nel mare. Quando si addentrò nel fiume, vide un filare di pioppi e la tomba di Frisso. «Per il sangue — gridò — per i dolori che ci congiungono, Frisso, fammi da guida in questa impresa, ti supplico: su questi lidi, proteggimi...» . Infine, Giasone incontrò Medea. Non sapeva nulla di lei. Non sapeva che, in leggende antichissime, era stata una dea madre, una dea ctonia, forse l’ipostasi di Demetra. Non sapeva nemmeno che Era e Afrodite volevano che Medea si innamorasse di lui. Mentre i due si incontravano, Eros tese il suo arco, scagliando una «freccia intatta, apportatrice di pene» , e si insinuò in segreto nel cuore della ragazza. Afrodite tentò un incantesimo per mezzo del torcicollo, l’uccello del delirio amoroso: legò le ali e le zampe dell’uccello ai raggi di una ruota mobilissima, rivolta verso il cuore di Medea, mentre pronunciava formule magiche. Giasone non vedeva in Medea nulla di divino e di stregonesco: scorgeva soltanto una ragazza con gli occhi luminosissimi, che irradiavano «fuochi simili a quello dell’oro» . Quanto a Medea, che conosceva quasi tutte le cose, ignorava la passione d’amore. Quando vide per la prima volta Giasone, fissò su di lui uno sguardo obliquo, scostando il velo che le copriva il volto: il viso, gli abiti, le parole e i gesti di Giasone la affascinarono per sempre. Il volto di Medea arrossiva e splendeva di gioia. Il cuore le batteva in petto, acceso da una fiamma incancellabile. Temeva che lui morisse; e lo piangeva come se fosse già morto. Ma non si abbandonava alla passione, perché la sua coscienza acutissima non smetteva mai di sorvegliarla. Era divisa, separata. Il desiderio, la vergogna, il pudore, il fortissimo senso di colpa, si combattevano nel suo animo. I sentimenti si alternavano e oscillavano. Non conosceva requie. Ora temeva che Giasone fuggisse, tornando in Grecia. Ora voleva fuggire con lui, come sua sposa. Ora non voleva abbandonare il padre, la sorella, il fratello, Ecate, il Sole. Il matrimonio le sembrava un delitto: l’amore una terribile colpa. La notte, quando il silenzio possedeva la terra, Medea si rifugiava nella sua stanza. Non dormiva. Non poteva dormire. Il cuore le batteva fitto, quando pensava ai pericoli o alla fuga di Giasone. Il petto si agitava: versava dagli occhi lacrime di desiderio e di compassione, la pena la rodeva senza riposo, insinuandosi sotto la pelle, fino ai nervi sottili, fino all’estremità della nuca, dove penetra il dolore più acuto. Le sembrava che la luna — la sua luna — le dicesse: «il dio del dolore ti ha dato Giasone come pena e angoscia. Va’ e preparati a sopportare infiniti dolori» . Poi le passavano nella mente tutte le dolcezze dell’esistenza, i piaceri che toccano ai vivi, le compagnie gioiose della giovinezza, e il Sole appariva più dolce ai suoi occhi. Vedeva la soglia brillare di un esile filo d’aurora. La prima luce la confortava, «come un’esile pioggia rialza le spighe inclinate» . Quando Eeta fissò il giorno della prova, Medea unse con l’ «unguento di Prometeo» la lancia, lo scudo e il corpo di Giasone, che diventò invulnerabile. I tori coi piedi di bronzo furono sottomessi senza fatica: i guerrieri nati dai denti dei serpenti si uccisero a vicenda, mentre Medea recitava l’ultima formula. Infine, giunse il giorno della fuga. Medea fissava la strada, ascoltando i rumori della notte. Quando Giasone apparve, le sembrò Sirio — l’astro bellissimo e sinistro —, alto sopra l’Oceano. I due stavano l’uno vicino all’altra, muti e senza parole, «come le querce e i grandi pini, che hanno ferme radici nelle montagne e stanno, senza vento, vicini ed immobili» . Tenevano gli occhi fissi per terra. Poi si guardavano sorridendo e non sapevano quali parole pronunciare, perché volevano dire tutto in una parola sola. Lì vicino stava il bosco sacro di Ares. Il drago tendeva verso loro il collo lunghissimo e le sue enormi volute, soffiando ferocemente. Medea parlò «con voce soave» : la sua voce di strega virginale. Invocò in aiuto «il sonno onnipotente» , perché affascinasse la fiera; e Ecate, la regina notturna, la madre. Intinse un ramo di ginepro nel filtro, e lo sparse sopra gli occhi del drago, mentre diceva le sue formule magiche. Il drago si addormentò. La bocca cadde a terra. Gli anelli si stesero nella foresta. Intanto Giasone staccava dalla quercia il vello d’oro, che faceva luce come un raggio di luna piena, arrossandogli le guance e la fronte. Quando Medea e Giasone arrivarono tra gli Argonauti, l’aurora cominciava appena a bagnare la terra. Medea sedette sulla poppa di Argo; e mentre la nave correva verso la Grecia, si slanciò indietro, tendendo, disperata, le mani verso la patria abbandonata. Alla foce del Danubio, la nave di Colchi guidata da Apsirto, il fratello di Medea, raggiunse quella degli Argonauti. Medea trasse il fratello in un agguato. La vergine dagli occhi d’oro si trasformò: il profondissimo senso di colpa, che nutriva verso il padre, chiese altre colpe, altri delitti. «Rifletti — disse a Giasone —: è necessario, dopo le cose orribili che abbiamo compiuto, pensarne un’altra, ancora più orribile» . Giasone colpì Apsirto con la spada nuda. Medea distolse gli occhi: Apsirto cadde in ginocchio; e mentre esalava l’ultimo respiro, raccolse con le mani il sangue della sua ferita, e arrossò il bianchissimo velo e il bianchissimo peplo della sorella. In quel momento, si risvegliò l’Erinni spietata, signora del mondo, regina del delitto, della punizione e della vendetta; e indusse Medea a moltiplicare i delitti e le colpe. Medea diventò l’Errante, la Straniera, la Leonessa, la Barbara. Quando giunse a Corinto fece uccidere dai propri figli la seconda moglie di Giasone; e li maledisse e li uccise. Poi salì sul suo carro trainato dai draghi alati: vi caricò i cadaveri dei figli e ritornò tra i draghi, le streghe, l’oro, il Sole della Colchide, il vento gelido del Caucaso.

Le versioni di Esiodo ed Euripide
La storia di Medea e degli Argonauti, di cui ho raccontato una parte, è un mito antichissimo, che risale probabilmente all’età micenea. Ispirò una vasta letteratura: una parte della Teogonia di Esiodo (Bur), la quarta ode pitica di Pindaro (Fondazione Valla -Mondadori), la Medea di Euripide (Bur), la Medea di Seneca (E. S. T.), le Argonautiche di Apollonio Rodio (Bur), le Argonautiche di Valerio Flacco (Bur), versi, prose, ricordi dei mitografi, come Igino (Adelphi) e lo pseudo-Apollodoro (Fondazione Valla -Mondadori). In questi giorni è uscito il quarto volume delle Metamorfosi di Ovidio (Fondazione Valla -Mondadori, a cura di Gioachino Chiarini e Edward Kenney, pagine LXXII-484, e 30): dove la storia di Medea viene mirabilmente intrecciata con quelle di Cefalo e Procri, Scilla, Dedalo, Icaro, Meleagro, Bauci e Filemone, Eracle, Io, Minosse.

Corriere della Sera 1.6.11
Stalin, lo zar rosso che dichiarò fuorilegge anche i pensieri dei nemici
di Dario Fertilio


Anche Stalin, ogni tanto, si lasciava andare alla sincerità. E in un brindisi pronunciato davanti ai rappresentanti dei partiti fratelli, probabilmente tradito dalla sbornia alcolica e dall’impeto ideologico del momento, lasciò cadere la maschera. Maledicendo chiunque attentasse all’unità dell’Unione Sovietica, il «piccolo padre» dichiarò testualmente: «Noi distruggeremo ogni nemico del genere, anche se è un vecchio bolscevico. Noi distruggeremo l’intera sua genia, la sua famiglia, senza pietà distruggeremo chiunque con le sue azioni e i suoi pensieri, sì, anche i pensieri, attenti all’unità dello Stato socialista!» . E levando il calice brindò «per l’annientamento di tutti i nemici, di loro, e di tutta la loro genia!» . Seguirono grida di evviva al «grande Stalin» da parte degli astanti. Questa scena, testimoniata a suo tempo dal leader bulgaro Grigor Dimitrov, è ripresa ora da Vittorio Strada e può fungere da chiave interpretativa del suo ultimo saggio: Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo. Perché, a giudizio dell’autore, la rivoluzione bolscevica rappresentò una nuova versione di quell’ «età dei torbidi» che in secoli lontani aveva già sconvolto la Russia. Le sue caratteristiche furono l’autarchia imperiale e l’arcaismo industriale, ma potremmo aggiungere che il tutto venne frantumato nel mortaio sovietico dalla mano potente di uno zar rosso, crudele e vendicativo quanto lo era stato Ivan il Terribile. In apparenza capriccioso, Stalin in realtà volle essere l’incarnazione del caos: per disorientare e terrorizzare i suoi sudditi, gettandoli in uno stato di «anomia» allo scopo di annientarli più facilmente. Solo in un secondo tempo, una volta ridotti a «materiale passivo» , quegli essere umani si sarebbero potuti utilizzare in vista della rinnovata costruzione socialista. Non bisogna credere, tuttavia, che questo Stalin crudele e «asiatico» , tentato da un razzismo ideologico che colpiva i nemici anche nei loro discendenti, abbia rappresentato una rottura rispetto al progetto ideologico originario. Al contrario, secondo Strada egli fu erede legittimo di Lenin, e del marxismo incarnò soltanto una delle possibili varianti. Anzi: qualsiasi distinzione fra il comunismo orientale e quello dei paesi occidentali è a suo giudizio arbitraria, essendo stati entrambi accomunati da un «progetto di totale e universale egemonia» in nome di un avveniristico mondo nuovo. Il paradiso del «radioso futuro» , perciò, conteneva già in germe la sua fine, tanto che la «destalinizzazione» voluta da Kruscev, che avrebbe dovuto segnare un ritorno al progetto bolscevico originario, finì per vibrare invece «la prima picconata» , e preparò il crollo finale di Gorbaciov. Con Lenin, Stalin, Putin, Vittorio Strada mette un punto fermo alla cremlinologia: riconduce lo «stalinismo» alla sua vera denominazione di «comunismo» , come sua componente «intrinseca e centrale» ; e denuncia le affinità col totalitarismo fascista, del resto riconosciute già da Nikolaj Bucharin nel congresso del 1923, quando ancora la «lingua di legno» dell’Urss non aveva soffocato le capacità critiche ed espressive dei suoi cittadini.

Terra 1.6.11
La strage silenziosa del tabacco
sei milioni di morti ogni anno
di Federico Tulli

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