Corriere della Sera 30.4.11
Abitare Questa è la mia casa
Massimo
Fagioli. Nel centro di Roma la dimora piena di luce dello psichiatra
inventore dell’analisi collettivaVivo in cima alla città e ai sogni
Sfruttare l’attico
«Una veranda con il tetto apribile: così vado in vacanza senza muovermi»
di Giovanna Pezzuoli
Richiama
un po’ l’idea di una casa su un albero o di un nido d’aquila, lassù in
alto, sopra il cinquecentesco palazzo Vitelleschi: l’attico con terrazza
su due livelli dove vive il professor Massimo Fagioli potrebbe anche
essere un’astronave atterrata lì per caso o un eremo sospeso nel tempo
che sovrasta il cuore pulsante di Roma, in largo Torre Argentina dove
gli scavi nel 1926 hanno fatto affiorare quattro templi dedicati a
Giuturna, alla Fortuna e ad altre divinità protettrici di contadini e
naviganti. «La prima volta lo vidi nel 1998 e mi piacque subito —
racconta lo psichiatra «eretico» , adorato quanto discusso, inventore
dell’analisi collettiva che a maggio compie 80 anni — c’era soltanto il
pavimento di cotto e pioveva dentro ma è stato un colpo di fulmine. Per
me che ho sempre a che fare con i sogni, la casa di volta in volta è
identità o modo di essere, di vivere. E io vivo tra veglia e sogno,
lavoro bene nel passaggio dall’una all’altro» . Entriamo dunque nella
casa dei sogni e dei segni. Un architetto sapiente ha sfruttato bene gli
spazi «senza impicci» , con la luce che inonda la veranda dalle pareti
di vetro, mentre il tetto apribile si srotola e mette in comunicazione
diretta con il cielo. «Così vado in vacanza senza muovermi» , sorride il
professor Fagioli che è anche sceneggiatore e scultore. Lavora
circondato dai suoi oggetti, le librerie come le sedie sottili,
confortevoli, dallo schienale curvato all’indietro, ribattezzate
«hysteria» e sistemate attorno al tavolo rotondo con piccoli inserti di
vetro colorato incastonati nel legno. «Questo tavolo realizzato nel 1985
era un sogno di un mio paziente, un ramo di pesco imprigionato nel
vetro; ma i sogni che mi vengono raccontati sono ormai troppi, 70 ad
ogni seduta... Da 36 anni conduco l’analisi collettiva con un gruppo di
700, 800 persone» . Perché, secondo Fagioli, il non cosciente si può
conoscere benissimo (e guarire) con gli strumenti della psicoterapia.
Non c’è uno spazio vuoto nelle pareti del locale antistante la veranda
studio, in un intreccio di linee colorate a formare volti stilizzati,
profili abbozzati, movimenti sottili, alternati alle foto delle quattro
adorate nipotine. Ecco Ginevra, la più grande che ora ha 10 anni, Veva,
come ha deciso di chiamarsi lei, che sbuca accanto al ritratto fattole
dal nonno. Poi, tanti altri quadri, segni tracciati magari in trattoria o
a casa di un amico o su un autobus in Egitto. «Non sarebbe il mio
mestiere» dice Fagioli, sottolineando le figure ricorrenti, spesso
femminili («la realizzazione della donna è il cardine dell’analisi
collettiva» ). Tra i disegni c’è un calendario con la storia di Amore e
Psiche, che rappresenta la sua immagine base antagonista al mito di
Edipo. E «Amore e Psiche» è intitolata la libreria di via Santa
Caterina, da lui ideata e dichiarata «bottega storica per l’arte» , un
audace intreccio di linee, con un soppalco aereo, dalle forme leggere
come il suo curioso Palazzetto Bianco di via San Fabiano. Che nesso c’è
tra architettura, cinema, psichiatria? Un filo deve esserci ma Fagioli
si appella al caso: così si improvvisò regista sul set di Marco
Bellocchio a metà degli anni 80 per il «Diavolo in corpo» , così venne
chiamato dagli architetti a progettare restyling di piazze capitoline,
attorno a sculture astratte, come un gigante bronzeo di cui conserva una
miniatura nella terrazza dove giocano le nipotine tra l’acero
giapponese e il glicine in fiore. Tutta la sua vita di studioso scorre
in due stanze (la cucina minuscola è un fatto privato «liquidato in un
tempo brevissimo» , la stanza da letto è spartana): nella veranda tre
poltrone Frau, quella verde bottiglia è la preferita, sono sistemate di
fronte alla scrivania ricavata da un albero d’ulivo dove sono impilati
freschi di stampa «Todestrieb und Erkenntnis» , la traduzione per il
marchio Stroemfeld Verlag, del testo base di Massimo Fagioli, «Istinto
di morte e conoscenza» e «Il pensiero nuovo» che raccoglie le lezioni
svolte nel 2004 all’Università di Chieti-Pescara. La casa delle linee (e
dei sogni) ha un unico spazio che deve restare vuoto, una sorta di
rettangolo rosso cupo che colora un’intera parte. Cosa significa?
«Chiediamolo a Fontana che se ne intende» , dice Fagioli, un po’
sibillino.
La stilografica, che erotismo
«La
mia passione sono le penne stilografiche, ne possiedo cinque e mi
diverto ad alternarle: due Montblanc, una Parker, una Waterman e una
Montegrappa, la mia preferita. Scrivere con le penne stilografiche per
me è quasi una perversione erotica» .
l’Unità 5.5.11
Domani la protesta nazionale indetta dalla Cgil per un cambio di politica economica
Manifestazioni in tutta Italia. Camusso: «Chiamiamo in causa il governo e le imprese»
Sciopero generale, in piazza anche il Pd
Domani sciopero generale di 4 ore (ma saranno il doppio per molte categorie): la Cgil torna in piazza per un fisco più equo e perché il lavoro sia la via per la crescita. Il sostegno del Pd e di altre forze dell’ opposizione.
di Fe. M.
Non si contano più le volte che il governo ha annunciato la «svolta» sull’economia, sullo sviluppo. Agli annunci sono seguite solo «manovre» miliardarie di tutte le fogge, con annessi tagli e stangate. L’ultima verrà presentata a giugno mentre oggi Tremonti illustra un decreto che verosimilmente accompagnerà con i soliti toni enfatici, del resto siamo in campagna elettorale. Per la «svolta» che non c’è e che dovrebbe esserci domani la Cgil sciopera e torna in piazza. Sono dodici i punti posti a base della protesta, a cominciare dal fisco che dovrebbe essere più equo, uno «strumento di giustizia sociale» chiede la Cgil che indica il lavoro «come via per la crescita».
Lo sciopero è di quattro ore, otto per i metalmeccanici, per gli edili alle prese con una crisi che non dà tregua. Si fermano per l’intera giornata i bancari, i lavoratori delle poste e dell’intero comparto delle telecomunicazioni. Anche i lavoratori della Rai si fermeranno e quelli dello spettacolo e cultura. Sciopero per l’intera giornata anche per la scuola e il pubblico impiego che alle «buone ragioni» di Corso d’Italia, aggiungono le proprie, a cominciare dal rinnovo dei contratti del settore bloccati dalla manovra (appunto) dell’estate scorsa. Il commercio e turismo, con i suoi tre milioni di addetti un contratto ce l’ha: l’hanno firmato Cisl e Uil nei mesi scorsi, senza la categoria della Cgil che domani protesta per otto ore. Negli ospedali saranno garantite le prestazioni essenziali. Nei trasporti lo stop sarà di 4 ore: dalle 10 alle 14 in quello aereo; dalle 14 alle 18 in quello ferroviario. Bus e metropolitane si fermeranno con orari variabili per città e nel rispetto delle fasce di garanzia. Decine di manifestazioni si terranno in altrettante piazze d'Italia. Susanna Camusso parlerà a Napoli.
«Trentasei mesi di governo Berlusconi sottolinea il sindacato hanno seriamente impoverito il paese. L'economia è depressa, la disoccupazione aumenta così come la pressione fiscale. I lavoratori subiscono l'abbassamento delle tutele e la cancellazione dei diritti». Si tratta del quarto sciopero della Cgil dall'insediamento di Berlusconi e il primo guidato da Susanna Camusso.
IL GOVERNO E LE IMPRESE
«Lo abbiamo indetto per chiedere un cambiamento della politica economica, scelte sul fisco e sul lavoro. Quindi ovviamente il primo interlocutore è il governo», ha spiegato ieri Camusso. «Il nostro interlocutore è anche il sistema delle imprese che ha aggiuntoinvece di rivendicare politiche di crescita hanno scaricato sui lavoratori molti dei costi di questa crisi». Alla domanda se, a Torino, lo sciopero sia anche contro la Fiat, Camusso ha risposto: «Uno sciopero generale ha come obiettivo unificare le condizioni dei lavoratori. Il tema non è chi sta peggio, ma come dall' unità tra i lavoratori si parta per ricostruire una situazione positiva».
L’unità non è cosa di questi tempi. Che sia necessaria lo dicono tutti, il presidente Giorgio Napolitano l’ha messa al centro del suo messaggio ricevendo i leader sindacali per il Primo maggio. Ma al momento si procede separatamente: la Cgil sciopera, mentre Cisl e Uil hanno organizzato una mobilitazione per il 18 giugno per chiedere una riforma sul fisco e le misure per la crescita. Il Pd sarà all’una e all’altra iniziativa. Ieri il segretario Pier Luigi Bersani e il responsabile economico, Stefano Fassina hanno comunicato il sostegno del partito allo sciopero di domani. «Io sostengo tutte le iniziative che mettono al centro il lavoro», ha detto Bersani. «Dobbiamo tutti parlare del problema lavoro, un lavoro che non c'è, ce n'è poco, una disoccupazione giovanile troppo alta». Segue il suggerimento a non far polemiche e a non dividersi. Oltre a Fds e Idv, appoggia la Cgil Sinistra Ecologia Libertà: «La Cgil dice che lo sciopero generale è stato proclamato per responsabilità ed amore verso il nostro Paese spiega -. Noi siamo d'accordo».
il Fatto 5.5.11
Gli invisibili di Rosarno in piazza con il sindacato
Un anno dopo la rivolta delle arance, gli immigrati arrivano a Roma: “Vogliamo il permesso come i tunisini di Lampedusa
di Tommaso Rodano
Probabilmente non sanno chi è Sergio Marchionne e non hanno alle spalle alcun sindacato, ma allo sciopero generale di domani ci saranno anche i braccianti di Rosarno. Sfileranno a testa alta e a buon diritto, perché sono le loro mani che mandano avanti, fisicamente, l’agricoltura sommersa del Meridione.
Da ieri, circa quattrocento di questi campesinos del terzo millennio sono a Roma e occupano piazza dell’Esquilino, in vista della manifestazione di venerdì.
Prendono la parola alla spicciolata: “Papier, maison, travail”, grida Omar, senegalese di nascita e italiano per lavoro. Soggiorno, casa e lavoro: i problemi sono sempre gli stessi. “Ai tunisini di Lampedusa hanno concesso un permesso temporaneo dopo un mese. Io raccolgo le vostre arance da sei anni: perché non posso avere un documento?”.
Destiny invece viene dalla Nigeria, prima di parlare chiede l’autorizzazione al marito che le concede la parola con un cenno del capo: “This is not life”, ripete più volte. “Questa non è vita”: in autunno le arance di Rosarno, d’estate i pomodori vicino Foggia, vivendo nei campi e dormendo in case abbandonate dove acqua e luce sono un’utopia.
La rivolta del 7 gennaio 2010 aveva fatto conoscere per la prima volta la condizione delle comunità di immigrati impiegati nelle campagne calabresi.
É passato più di un anno, Rosarno è stata rimossa dalle scalette dei tg e dalle pagine dei giornali, ma nella piana non è cambiato praticamente nulla: la vita degli extracomunitari che lavorano alla giornata nei campi di agrumi rimane la stessa.
Come racconta il dossier dell’associazione ReteRadici, che dagli scontri dello scorso anno monitora la situazione dei braccianti, quelli che abitano le campagne italiane sono lavoratori stagionali, estremamente mobili: migrano tra Calabria, Basilicata e Puglia, nei vari nodi della raccolta di frutta e ortaggi. Vivono uno stato di sfruttamento estremo sul lavoro e in condizioni abitative, sociali e sanitarie indecenti.
Nella Piana di Rosarno sono diminuiti: poco più di mille, meno della metà rispetto all’anno scorso. Colpa della crisi del settore e delle politiche restrittive attuate dopo la protesta. Sono di meno, quindi, ma non se la passano meglio. Il 96 per cento dei braccianti intervistati da ReteRadici lavora in nero, solo l’1 per cento dichiara di aver sottoscritto un contratto regolare. Le paghe sono miserabili: la stragrande maggioranza dei ragazzi africani impiegata a Rosarno (età media 29 anni) percepisce tra i 20 e i 25 euro ogni dieci ore di lavoro. Meno di 3 euro all’ora.
La “tolleranza zero” scattata nei mesi successivi alla rivolta ha cambiato anche la natura dei loro insediamenti. Scomparsi i “ghetti” e le bidonville, la comunità africana si è dispersa in una molteplicità di abitazioni non meno precarie. Secondo ReteRadici, il 32 per cento dei braccianti ha trovato riparo in vecchi casolari nelle campagne, il 90 per cento dei quali è sprovvisto dei servizi essenziali. La novità di questa stagione è l’affitto delle case: il 53 per cento dei migranti paga in media 48 euro il suo posto letto, rigorosamente in nero. Uno sproposito per abitazioni spesso fatiscenti e sovraffollate. Il 77 per cento vive in gruppi tra le 5 e le 10 persone, il 16 per cento in comunità tra le 10 e le 20 unità, il 6 per cento in piccoli ghetti di oltre 60 abitanti. Alla base del ricatto che permette il loro sfruttamento, da parte dell’affittuario come del datore di lavoro, c’è l’irregolarità del loro status giuridico. I migranti di Rosarno provengono quasi tutti da teatri di guerra dell’Africa sub-sahariana, ma come registra l’Istat, in Italia sono meno del 10 per cento i richiedenti asilo ai quali viene concessa la tutela giuridica.
l’Unità 5.5.11
Nessun Dorma
di Margherita Hack
Ci sono tre date importanti, una vicina all’altra: il 25 aprile, festa della Liberazione; il primo maggio, festa del lavoro (e la nostra Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro); il 2 giugno, la festa che ricorda quando il popolo italiano scelse con un referendum di diventare una Repubblica. Tre date che hanno fatto rinascere la democrazia dopo vent’anni di dittatura fascista. È importante ricordarle, insieme ai tanti giovani, donne, uomini che lasciarono la loro vita per ridare libertà all’Italia. Ed è importante ricordarle soprattutto in questo momento storico in cui molti vorrebbero dimenticare. Oggi c’è chi vuole modificare la Costituzione. Chi parla di cambiare il primo articolo, quello che recita, appunto, «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Qualcuno ha proposto addirittura di eliminare il divieto di ricostituzione del partito fascista. Assistiamo a una violazione continua anche dell’articolo 3 della Carta, quello secondo cui la legge è uguale per tutti. Non è una violazione di quell’articolo il fatto che il premier si sottragga alla giustizia e impegni il Parlamento per mesi a fare leggi che lo aiutino in questo compito?
I valori della nostra Costituzione vengono subdolamente cancellati: siamo alla deriva della democrazia. Mi viene in mente Tina Anselmi che si occupò dell’indagine sulla P2 e penso che oggi la P2, subdolamente, si stia attuando.
Bisogna che ci svegliamo, dobbiamo trovare la capacità di indignarci per le oscenità cui assistiamo. Prima fra tutte, un Parlamento che mai nella storia è stato così affollato di personaggi di bassissima caratura spirituale, culturale e morale. Ci vuole una nuova Resistenza per impedire il degrado del nostro Paese. Quelle date ci devono far ricordare che libertà e democrazia vanno difese, non ci si può addormentare e sperare che durino per sempre.
Corriere della Sera 5.5.11
Crescono i lettori del «Corriere» (+2,9%) Oltre quota tre milioni
MILANO— Crescono ancora i lettori de Il Corriere della Sera che torna a superare (dopo 14 anni) quota 3 milioni nella media giornaliera: secondo le rilevazioni Audipress relative al primo trimestre di quest’anno, il quotidiano di Via Solferino ha registrato un incremento del 2,9%a 3,056 milioni di lettori. Fra i principali quotidiani nazionali, al primo posto si conferma la Gazzetta dello Sport con 4,126 milioni (-4,5%), mentre la Repubblica è a quota 3,250 milioni con una flessione pari all’ 1,2%. Al quarto posto stabile è La Stampa con 2,080 milioni (-0,6%), mentre fra gli altri «big» da registrare l’aumento di lettori del 3,5%de Il Messaggero che sale così a 1,460 milioni. Giù invece Il Sole 24 ore, che nei primi tre mesi del 2011 ha perso l’ 11,2%dei lettori, attestandosi a quota 1,015 milioni, dato relativo al periodo precedente il cambio di direzione, che ha avuto luogo il 23 marzo con l’arrivo di Roberto Napoletano dal Messaggero. Tra i quotidiani d’opinione Libero ha beneficiato dell’effetto-Vittorio Feltri ed è cresciuto del 6,2%a 392 mila lettori. Torna poi ad aumentare in totale la free press con Leggo al primo posto (1,894 milioni di lettori) e City al secondo (1,767 milioni). Tra i settimanali, i maschili d’attualità registrano complessivamente nuove flessioni. Panorama resta il primo, con 2,607 milioni di lettori, nonostante la diminuzione del 7,7%, scende meno invece l’Espresso (dell’ 1,1%) a 2,467 milioni. Tra i femminili d’attualità il primato resta stabile a Donna Moderna (2,583 milioni di lettori medi) ed è da registrare l’aumento del 5,8%di Vanity Fair a 1,382 milioni. Il supplemento del Corriere, Io Donna (-2,2%) è a quota 1,181 milioni mentre D, supplemento de la Repubblica (-8%), registra 895 mila lettori medi. Tra i femminili moda Amica è stabile e conferma il primato a 1,134 milioni di lettori. Infine, tra i settimanali «familiari» , se in testa è lo specializzato Sorrisi Canzoni tv con 4,319 milioni di lettori (-4,9%), prosegue il testa a testa fra Chi (-1,2%) a 3,403 milioni di lettori) e Oggi (-1,8%) a 3,398 milioni. S. Bo
Corriere della Sera 5.5.11
Il monito di Napolitano alla sinistra «Sia credibile o resta all’opposizione» «Va allontanato il sospetto di puntare al potere come alternativa senza alternativa»
di Andrea Garibaldi
ROMA — Ah, Antonio Giolitti... Il ricordo dell’intellettuale ed ex ministro, nipote di Giovanni Giolitti, scomparso un anno fa, diventa occasione di rimpianto per una politica che non c’è più. E il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prende spunto per definire l’opposizione così come dovrebbe essere. Proprio nel giorno in cui gli avversari del governo si dividono, sulla guerra in Libia, in tre mozioni diverse. A ricordare Giolitti è la Treccani, presieduta da Giuliano Amato. Invitati, per la conclusione dei lavori, Napolitano ed Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Il presidente viene accolto con un affettuoso applauso nella sala delle colonne, al piano terra dell’Istituto. Fa una lunga citazione da Giolitti. Tratta dell’alternativa di governo, sostiene che deve essere «credibile, affidabile e praticabile» . Credibile — scandisce Napolitano— «nella capacità di esercitare le funzioni di governo. Affidabile nel togliersi di dosso ogni sospetto di volersi insediare al potere come alternativa senza alternativa. Praticabile nella realistica valutazione degli obiettivi, degli ostacoli e della gradualità dell’azione» . Un testo, secondo Napolitano, che dovrebbe essere letto da chi fa politica oggi a sinistra e sta all’opposizione: «Sono passati 15 anni dalla stesura di questo testo, e l’alternativa o la si immagina così o si resta all’opposizione» . Parole rivolte al Pd? Bersani non le prende come una critica: «Sono d’accordo con la frase di Giolitti. L’alternativa deve essere credibile, deve essere un’alternativa di governo» . Il vicesegretario Enrico Letta: «Le parole di Giolitti ricordate da Napolitano sono importanti e pienamente condivisibili: andrebbero messe nello statuto del Pd» . Il capogruppo alla Camera, Franceschini, a Otto e Mezzo, puntualizza: «Giolitti aveva di fronte la Dc, avversario che rispettava le regole. La stessa cosa, invece, oggi non fa Berlusconi, che punta tutto su se stesso e ha reso anomalo il confronto democratico nel nostro Paese» . Il Pd era già stato evocato nel dibattito. Scalfari ha raccontato i dialoghi con Occhetto sul nome da dare al partito post-Pci. Il segretario era per «Partito democratico della sinistra» , il concetto «sinistra» serviva a rendere non troppo duro lo strappo. Il giornalista proponeva Partito democratico. «Sei stato preveggente » è intervenuto Napolitano. «Preveggente per un disastro...» ha ribattuto Scalfari. Giolitti uscì dal Pci nel 1956, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. Entrò nel Psi, fu più volte ministro del Bilancio e commissario europeo. Nel 1985 abbandonò anche il Psi, in opposizione a Craxi e venne poi eletto senatore da indipendente nel Pci. Nel 2006, cinquant’anni dopo la crisi ungherese, Napolitano andò a casa di Giolitti e riconob- be che aveva avuto ragione. Ieri il capo dello Stato ha ricordato la visione politica «non machiavelliana» di Giolitti, la sua mitezza, a fronte della politica che (scriveva Bobbio) «è arroganza, potenza, prepotenza» . Amato ha detto che Giolitti «cercava qualcosa di terzo tra comunismo e socialdemocrazia» . E Napolitano, senza troppa diplomazia, ricordando i travagli del Pci e della sinistra: «Si discuteva di socialdemocrazia europea, ma qui avevamo un partito che si chiamava socialista e democratico le cui prove politiche furono spesso deludenti. E inoltre qualcuno avrebbe detto: "Qui c’è Craxi alla guida del Psi, this is the drama...", questo era il problema» . Ma il ricordo di Giolitti, soprattutto, fa rammentare al presidente, con amarezza: «C’è stato negli ultimi vent’anni un divorzio tra politica e cultura» . Andrea Garibaldi
Repubblica 5.5.11
Napolitano: se non diventa affidabile la sinistra resterà all’opposizione
La scossa del Presidente. "Sottovalutata la socialdemocrazia"
In un convegno su Giolitti evocato il ruolo di Craxi: "Ci dicevano che tanto c´era lui..."
di Umberto Rosso
ROMA - Credibile. Affidabile. Praticabile. «O la sinistra immagina così l´alternativa oppure resterà all´opposizione». Firmato Giorgio Napolitano. Che cita il pensiero di Antonio Giolitti, ma intanto sottoscrive, attualizza. E strapazza un po´, sia pure attraverso la lente della ricostruzione storica, un centrosinistra che non sembra imparare la lezione. Quella via riformista al governo, condensata nei tre aggettivi, porta appunto la firma di Giolitti, padre nobile dei riformatori italiani, e ricordato ieri in un convegno nel primo anniversario della morte. Ne scriveva in un saggio parecchi anni fa. Il capo dello Stato l´ha ripescato, ne ha scelto accuratamente alcuni passaggi, legge testualmente, discutendone con Eugenio Scalfari, testimone e protagonista di quegli anni, grande amico dell´ex ministro del Bilancio. Gli onori di casa li fa Giuliano Amato, presidente della Treccani che organizza la giornata di riflessione storica, insieme alla Fondazione Lelio Basso. «Sono passati quindici anni - ricorda il capo dello Stato - ma in quel testo c´è un tema che è ancora di attualità, e che perciò dovrebbe rileggere molte volte chi fa politica a sinistra oggi ed è, a quanto pare, all´opposizione...».
Messaggio a Bersani e soci, insomma. Allora, ecco i tre ingredienti che ancora mancano all´appello per uscire dall´angolo dell´opposizione. Napolitano legge Giolitti. Primo, serve credibilità. «Bisogna essere capaci di esercitare l´azione di governo». Secondo: l´affidabilità. «Bisogna togliersi di dosso il sospetto di volersi insediare al potere come un´alternativa senza alternativa». Gioco di parole? Non tanto, anzi sembra l´affondo più pesante rivolto ad una sinistra che si lascia dietro una scia di dubbi sul tasso di democraticità, che immagina di combattere nemici più che competitor. Terzo e ultimo componente della miscela: occorre offrire soluzioni praticabili. «Bisogna rendere realistico e convincente il perseguimento degli obiettivi, gli ostacoli da superare e la gradualità da adottare». Erano i primi anni Novanta, la Dc stava per sparire, un secolo fa, ma certi vecchi vizi della sinistra descritti nella radiografia giolittiana sembrano traghettati nell´era berlusconiana.
E i ritardi del Pci sulla strada della socialdemocrazia? Napolitano, che fu il leader della corrente riformista del partito, ricostruisce: «La verità è che c´era il Psi di Craxi e potevamo fare tutti i discorsi che volevamo sulla socialdemocrazia, chiunque ci avrebbe risposto: c´è Craxi, "this is the drama", per dirla con Shakespeare... ». In Italia, aggiunge, c´è stata «una drastica sottovalutazione quando una non conoscenza della socialdemocrazia europea». Che, ricorda sferzante il presidente della Repubblica, non era certamente rappresentato dal Psdi, «certo c´era questo partito, Pietro Longo, ma le sue avventure politiche furono diciamo così deludenti, per usare un eufemismo». Ma, eccezioni a parte, nel corso degli anni c´è stato «un grave impoverimento culturale dei partiti e della loro funzione formativa» lamenta il capo dello Stato. Il vero problema è ciò che oggi i partiti «non riescono più ad essere» rispetto a quel che accadeva in passato. Colpa di «un divorzio tra politica e cultura, di un rapporto che si è rotto, da tutte e due le parti nel corso degli ultimi dieci o venti anni».
Repubblica 5.5.11
Un convegno a Roma con Napolitano e Scalfari
La lezione di Giolitti tra etica e politica
di Simonetta Fiori
C´è stato un tempo in cui i partiti esercitavano un ruolo di pedagogia civile. Ma oggi si registra un inesorabile impoverimento culturale
enso che Antonio Giolitti sia stato un delegato dell´Einaudi all´interno del Partito comunista più di quanto fosse rappresentante del Pci in via Biancamano», esordisce Eugenio Scalfari, valorizzando il profilo dell´intellettuale rispetto a quello del militante politico. Dall´altro lato del tavolo c´è il presidente della Repubblica, compagno di Giolitti nelle file comuniste e amico d´una vita. Napolitano appare perplesso: «Beh, il Pci allora era qualcosa di molto grande. E francamente non so se si possa ridurre la figura di Antonio a quella di delegato einaudiano...». È un dialogo tra due personalità di diverso percorso politico, ma intrecciate con Giolitti in una rete di affinità ideali, a chiudere il convegno promosso dalla Treccani. La figura di Giolitti - deputato comunista fin dalla Costituente, fuoriuscito dal Pci nel 1957, ministro socialista del Bilancio in due governi di centro-sinistra, senatore della Sinistra Indipendente - diviene l´occasione per riflettere su alcune incompiutezze della storia d´Italia più recente. Nella conversazione tra Napolitano e Scalfari - coordinata dall´anfitrione Giuliano Amato e altalenante tra il "tu" e il "lei" («Permetto solo a quelli molto più giovani di darmi del "lei"», dice il presidente. «Non mi sembra il vostro caso») - ritornano temi storici ma dal fortissimo aggancio con l´attualità. Il divorzio tra cultura e politica. Il fallimento di un progetto socialdemocratico. L´abbandono della mitezza come categoria della tolleranza. E talvolta si ha l´impressione che Napolitano ritrovi nell´amico scomparso una bussola preziosa per le acque tempestose di oggi.
Accade quando Scalfari lo sollecita a parlare del principio dell´etica pubblica, che il fondatore di Repubblica rintraccia in Giolitti nella sua derivazione azionista. «È anche per questo che, quando uscì dal Pci, Antonio non manifestò il complesso del prete spretato», dice Scalfari. «C´entrava sì l´etica pubblica», gli risponde Napolitano, «ma c´entrava anche una virtù che Norberto Bobbio rintraccia nella mitezza. Un´inclinazione che non deve essere confusa con la modestia o la remissività né con la bonarietà. In fondo la mitezza è la pratica della tolleranza e del rispetto verso l´altro, senza la pretesa di reciprocità». La mitezza, lascia intendere Napolitano, è oggi quanto mai necessaria. «Ma possiamo davvero definirla una virtù impolitica come faceva Bobbio?».
C´è stato un tempo in cui la politica si nutriva di cultura, e i partiti esercitavano un ruolo di pedagogia civile. «Oggi questo ruolo viene esercitato dai giornali», dice Scalfari, «ma è inutile prendersela con chi svolge una funzione che i partiti non sono più in grado di esercitare». Napolitano è d´accordo sull´impoverimento culturale. Il suo ricordo va lontano, sul finire degli anni Quaranta, quando frequentava insieme a Giolitti la redazione dei Bollettini dei consigli nazionali di gestione, direttore Claudio Napoleoni. La ricchezza intellettuale della sinistra di allora non è paragonabile alla penuria culturale di oggi. Ma quello che si svolge intorno al tavolo della Treccani non è certo l´elogio del Pci. Scalfari rievoca le battaglie condotte per la modernizzazione del partito. Napolitano, che intrecciò un dialogo con Willy Brandt, individua un´occasione mancata del Pci nel non aver avuto il coraggio di percorrere la via socialdemocratica. «Dall´illusione dell´utopia alle speranze del riformismo» è un autoritratto di Giolitti, in cui il presidente sembra riconoscersi.
il Riformista 5.5.11
Antonio e l’avventura della lotta partigiana
Giolitti. Per lui, che combatteva nella Brigata Garibaldi, antifascismo significò vincere la tentazione di scappare. I giovani esposti al richiamo delle armi sotto le insegne nazifasciste cercarono scampo non nella fuga ma nella Resistenza
di Mariuccia Salvati
http://www.scribd.com/doc/54675828
Repubblica 5.5.11
Bersani amareggiato, democratici sotto shock "Il mio Pd lavora già sodo per l´alternativa"
Ma Renzi e Zingaretti: siamo in ritardo. Veltroniani: analisi giusta
Al vertice dei democratici si fa buon viso a cattivo gioco. Letta: evitare le ali estreme
Franceschini: quelle del capo dello Stato sono opinioni condivisibili
di Goffredo De Marchis
ROMA - Uno shock per i vertici del Partito democratico. La reazione è il buon viso a cattivo gioco. Nessuno se l´aspettava. Perché, come dicono i bersaniani, «Napolitano se la prende con noi ma a non essere credibile oggi è solo Berlusconi». Lo stato maggiore democratico mastica amaro.
Matteo Renzi però smaschera subito il trucco: «Spero non ci sia il coro ipocrita di chi dice bravo Napolitano e poi fa come gli pare». Naturalmente, il sindaco di Firenze sottoscrive il pensiero di un centrosinistra in ritardo per candidarsi alla guida del Paese. «Quello che dice il presidente è come sempre giusto. Il Pd sarà credibile e affidabile quando la smetterà di parlare degli altri e metterà invece in campo le sue proposte». Pier Luigi Bersani viene raggiunto dalle dichiarazioni del capo dello Stato mentre è in campagna elettorale in Toscana. «Raccolgo due volte questo invito perchè è giusto per l´alternativa e perchè non abbiamo un governo credibile». Ecco la nota dolente. I bersaniani avvertono l´ingenerosità dell´esternazione. «Oggi di non credibile, di non affidabile c´è solo Berlusconi e il suo governo. Mentre noi stiamo lavorando proprio per avere le credenziali di cui parla Napolitano». Dunque quella condanna all´eterna opposizione dovrebbe essere girata al centrodestra.
Bersani insiste sul punto: «Non è una bacchettata a noi. Io mi preoccupo massimamente dell´alternativa in un momento in cui il governo non è credibile ed il Paese rischia di andare allo sbando». Semmai, dicono i suoi collaboratori, «non basta l´alternativa di governo, noi puntiamo a una proposta di ricostruzione del Paese».
Parole pronunciate a denti stretti, con un pizzico di amarezza. Colpa del voto sulla Libia, questa posizione del Quirinale? Colpa di alcune incomprensioni su come viene condotta l´opposizione in Parlamento e nelle piazze, ad esempio sulla riforma della giustizia? Dario Franceschini commenta con un laconico «opinioni condivisibili» il richiamo di Napolitano. Più articolata la posizione di Enrico Letta che qualche timore ce l´ha: «Metterei il testo di Giolitti nello Statuto del Pd. Perché corriamo ancora il rischio di essere risucchiati nel massimalismo. L´opposizione è fatta di tante anime. Per essere credibili, affidabili e praticabili noi democratici - dice il vicesegretario - dobbiamo evitare il peggiore dei pericoli: stare dalla parte delle frange più estreme».
I veltroniani tacciono. La richiesta di una verifica sul partito alla vigilia delle elezioni amministrative ha già creato troppi problemi. Ma gli ambienti vicini all´ex segretario non possono che gioire per le osservazioni generali del capo dello Stato: «Ci fanno piacere», dicono. Nicola Latorre, vicecapogruppo del Pd al Senato e dalemiano di sicura fede, non crede a un colpo basso del presidente: «Semmai è una sollecitazione a tutto il sistema politico affinchè compia un salto di qualità. A volte è rivolto al centrodestra, a volte al centrosinistra». Ma c´è un ritardo del Pd? «Secondo me siamo sulla buona strada - risponde Latorre - . Ma dobbiamo continuare questo sì».
Sono i giovani e quelli più lontani dalle stanze del partito a dire che sì bisogna ascoltare Napolitano e cogliere la palla al balzo. «Il Pd deve sfruttare il momento storico - dice Nicola Zingaretti -. Si apre una porta magica, Berlusconi ha fallito su due temi fondamentali e noi dobbiamo dimostrare la nostra credibilità proprio su quelli». Il presidente della Provincia di Roma spiega: «Il premier non sa come far crescere l´economia italiana. L´Italia non cresce e deve tornare a farlo. Il governo non sa come rendere il Paese più giusto e ha aumentato le disuguaglianze più di qualsiasi altra nazione europea. È tempo di rifondare il Partito democratico su questa doppia sfida. Per la prima volta Berlusconi ha paura delle elezioni, per la prima volta i sondaggi lo danno perdente. Questo è il momento per rendere viva l´alternativa di cui parla Napolitano».
Non sono buoni viatici per le amministrative i giudizi di Romano Prodi prima e di Napolitano poi. Mettono il dito nella piaga di una debolezza di cui «parlano in tanti - avverte Paolo Gentiloni -, basta girare un po´ per la campagna elettorale». Oggi, dice il dirigente di Movimento democratico, avremmo un´alternativa «più pronta se fossimo rimasti ai tempi di Ds e Margherita divisi e alleati. Con il Pd invece la certezza di una vittoria e di una credibilità di governo non la vedo».
il Riformista 5.5.11
Le elezioni e il sistema politico
di Emanmuele Macaluso
qui
http://www.scribd.com/doc/54675828
l’Unità 5.5.11
Speculare sui precari e massacrare la scuola
Il governo annuncia la stabilizzazione di 65mila prof: costo zero per lo Stato Ma nei prossimi tre anni all’istruzione verranno tolti altri 14miliardi di euro
di Fabio Luppino
Si vedrà oggi se il governo darà stabilizzazione a 65mila precari della scuola (in tre anni). La notizia andrebbe accolta con favore, naturalmente. Ma c’è del marcio in Danimarca anche quando sembra il contrario. Sul piano psicologico è senz’altro un sospiro di sollievo per quei professori che da anni vivono con un incarico che inizia a settembre e termina a giugno, persone per alcune migliaia tra i quaranta e i cinquanta, spesso con figli, ancora in attesa di darsi un futuro.
La buona notizia finisce qui. Perché il resto è demagogia e bieca propaganda che serve a coprire il peggio. Intanto, perché ora? Non si poteva prevedere in un altro momento, considerando che è ancora tutto aperto il caos delle nuove graduatorie a «pettine». E poi perché solo 65mila, quando i posti vacanti nelle scuole sono molti di più? La misura è smaccatamente elettorale. Arriva una prospettiva per 65mila e rispettive famiglie, la fine delle snervanti attese in pieno agosto per la cattedra annuale. Certo, tutto vero. Ma, intanto, sono soldi che lo Stato già paga e quindi avverrà a costo zero, salvo poi le ricostruzioni delle carriere di ognuno che porteranno ad adeguamenti di stipendio, anche se da qui a qualche anno, forse al termine della legislatura. Inoltre, non avviene per scelta: è la conseguenza dei ricorsi vinti al Tar da precari storici a cui è stata negata la stabilizzazione.
Ma il Def, il documento di economia e finanza del governo, dà alla scuola, in realtà, un’altra mazzata finanziaria. Dal 2012 al 2014 ci saranno riduzioni di spesa ogni anno per complessivi quattro miliardi e 561 milioni: tredici miliardi e 683 milioni il totale. Se si considera che dal 2009 al 2011 sono state già tolte risorse all’istruzione per 8 miliardi e 13 milioni, con 87mila cattedre in meno, 42 mila posti di personale amministrativo, tecnico e ausiliario in meno. Un piano diabolico, determinato dell’Economia accettato supinamente dal ministro dell’Istruzione che toglie alla scuola in questa legislatura circa 22miliardi, 43mila miliardi delle vecchie lire che fa più impressione, ai tempi una manovra.
Se non si pone rimedio sarà tragedia certa per le generazioni future. Le 65mila stabilizzazioni e basta sono giustificate dal poderoso taglio di cattedre che continuerà ad esserci da settembre nella scuola per l’ulteriore messa a regime della catastrofica riforma Gelmini delle superiori, e il relativo innalzamento di alunni per classe, i cui effetti sulla formazione andrebbero spiegati in un apposito dossier: deprimenti, comunque.
Anche il tanto declamato sblocco del concorso per dirigenti scolastici ha in sé il sapore della beffa. Ci sono 2.368 presidi da cercare in un concorso che camminerà da qui ai prossimi sei mesi. Per le scuole a settembre non cambierà proprio nulla. Quest’anno ci sono stati millecinquecento presidi reggenti, ossia un dirigente scolastico dislocato su due scuole, di cui una è quella di riferimento e l’altra è quella, chiamiamola, subordinata. Immaginate come possa aver agito attivamente, pur provandoci, il preside sulla scuola cosiddetta subordinata. Il concorso andava fatto prima, molto prima, ma prima si doveva desertificare la scuola e poi, solo dopo dare un piccolo aiuto. Con i presidi reggenti lo Stato ha risparmiato 50 milioni di euro (ma il danno prodotto è molto superiore) che magari saranno andati a finanziare l’impennata dei voli di Stato, le auto blu o altri arroganti sprechi della casta. Il ritardo nel concorso fa sì che circa duecento presidi che avevano maturato il diritto alla pensione saranno congelati per un anno, così come altrettanto personale amministrativo.
Al termine di questo magnifico disinvestimento sulla scuola la percentuale di pil per l’istruzione scenderà al di sotto del 4% per arrivare quasi al 3% con riduzioni costanti tra qualche decennio.
l’Unità 5.5.11
Il commissario Malmstrom minimizza l’allarme: «25mila tunisini non sono un flusso enorme»
Passa la linea francese L’accordo di Shengen si può sospendere per «circostanze eccezionali»
L’Europa sbugiarda il governo «In Italia nessuna emergenza»
Le proposte Ue sull’immigrazione, approvate all’unanimità dal collegio dei commissari, smontano il bluff italiano sullo «tsunami umano» e sui permessi concessi da Maroni. Serracchiani: «Smascherato il governo».
di Marco Mongiello
L’Italia non è di fronte a nessuna emergenza immigrazione così ingestibile da dover invocare regole speciali dell’Unione europea o la redistribuzione dei rifugiati. Dopo mesi di allarmismo leghista il commissario Ue agli Affari interni, Cecilia Malmstrom, lo ha detto chiaro e tondo ieri a Bruxelles. Una presa di posizione così netta che persino Berlusconi, che fino a poche settimane fa parlava di “tsunami umano”, nella trasmissione “Porta a Porta” si è smarcato dalle tesi leghiste e ha affermato che «siamo un Paese di 60 milioni di abitanti e non dobbiamo avere paura dell’arrivo di qualche migliaio di persone». Il Premier non ha comunque resistito alla tentazione di far intravedere la possibilità che gli immigrati possiamo «redistribuirli in tutta Europa», anche se ieri la Commissione ha ribadito che non esiste nessuna norma comunitaria presente o futura in tal senso, e nonostante nessun Paese europeo si sia dimostrato disponibile ad accogliere i tunisini sbarcati a Lampedusa e anche l’opzione di fargli attraversare alla chetichella le frontiere degli altri Paesi Ue si sia scontrata contro la resistenza della Francia e degli altri Stati membri.
Proprio per rispondere alle proteste francesi e degli altri Paesi l’esecutivo comunitario ha presentato delle nuove proposte sull’immigrazione, che prevedono tra le altre cose la possibilità di ristabilire le frontiere tra i Paesi europei in circostanze eccezionali, derogano all’accordo di Schengen in vigore dal 1995. Tra queste «circostanze eccezionali» però, ha precisato la Malmstrom, non rientrano eventi come l’arrivo di 25 mila tunisini a Lampedusa che sono «una sfida, certo, per Malta o per Lampedusa, ma non si tratta di un flusso enorme». In Europa, ha aggiunto, «si sono visti flussi ben più grandi». Secondo il commissario Ue «l’Europa ha bisogno di rafforzare le sue regole, e non di metterle a rischio con soluzioni semplicistiche e populistiche».
La Commissione «ha smascherato il governo italiano», ha commentato l’eurodeputata Pd Debora Serracchiani, sottolineando che «anche il ritornello dell’Europa che avrebbe abbandonato l’Italia si è rivelato per quel che era, e cioè uno scaricabarile del governo». Per il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, l’esecutivo «ha dimostrato di non avere la volontà di risolvere il problema immigrazione per far paura e propaganda».
La possibilità di tornare ai controlli frontalieri, anche se regolata da Bruxelles e non dagli Stati membri, ha però suscitato diverse critiche. Le deroghe proposte, ha messo in guardia l’eurodeputato Pd e vicepresidente dell’Europarlamento, Gianni Pittella, sono «contraddittorie e confuse» e si rischia «di limitare di fatto la libera circolazione dei cittadini, contravvenendo ad uno dei principi fondativi dell’Unione».
Malmstrom ha assicurato che difenderà l’accordo di Schengen «con i denti e con le unghie» e che le sue proposte servono solo a migliorarlo. «Cerchiamo di europeizzare sempre di più la governance di Schengen in modo da evitare contrasti tra Paesi», ha chiosato Antonio Tajani, commissario all’Industria e vicepresidente dell’esecutivo Ue, riferendo che la proposta è stata approvata all’unanimità dall’intero collegio dei 27 commissari. Ora la parola passa di governi: il dossier sarà discusso dai ministri degli Interni europei il 12 maggio e poi dai leader dei 27 nel summit Ue del 24 giugno.
Corriere della Sera 5.5.11
Il «compagno di banco» e la testimonianza contro Wojtyla beato
di Virginia Piccolillo
ROMA— «Lasciare Wojtyla nella sua complessità, e affidarlo alla storia, oltre che alla memoria della Chiesa, sarebbe la scelta migliore per onorarlo nella sua sfaccettata verità. L’insistenza e l’ansia con cui molti ambienti lavorano per la beatificazione a me pare un atteggiamento che poco sa di evangelico e molto di voglia di esaltare il pontificato romano come istituzione» . Si concludeva così la testimonianza al processo di beatificazione del teologo Giovanni Franzoni, che di Karol Wojtyla fu «compagno di banco» al concilio Vaticano II. E’ uno dei molti documenti inediti rivelati dal libro «Wojtyla segreto» , di Ferruccio Pinotti e Giacomo Galeazzi (edito da Chiarelettere). E quello che più ne rispecchia gli intenti. Lo dice Pinotti: «Wojtyla è stato un grande condottiero, non un santo. Ossessionato dal comunismo, tanto da combatterlo in modo un po’ machiavellico. Così determinato a proteggere il potere della Chiesa da contrastare la teologia della liberazione, lasciare solo il cardinal Romero e negare la pedofilia dei preti» . Il ritratto segreto di Wojtyla viene tratteggiato sin da quando, diciottenne, viene avviato a una fulminante carriera ecclesiastica dall’influente arcivescovo di Cracovia, Adam Sapieha. «A Roma— spiega Pinotti— Wojtyla frequenta ambienti contigui a Escrivà de Balaguer, dell’Opus Dei, e negli Usa crea un asse segreto con Zbigniew Brzezinski, il consigliere della Casa Bianca teorico dell’uso della religione per distruggere l’Urss. Un network che lo sosterrà anche quando, da Papa, pomperà in Polonia il denaro dello Ior e dell’Ambrosiano, usando in modo spregiudicato Marcinkus e Calvi: pentiti dicono che denaro mafioso veniva dirottato a Solidarnosc. Ma ciò lo renderà poi ostaggio di forze restauratrici e di potere. Ciò spiega la copertura a Marcinkus e a padre Maciel dei Legionari di Cristo accusato di sevizie su 8 minori, data con il consenso di Ratzinger» .
l’Unità 5.5.11
Al Cairo firmano l’intesa Abu Mazen e Meshal, leader in esilio del gruppo che controlla Gaza
Manifestazioni di sostegno nei Territori. Il patto mediato dalla nuova dirigenza egiziana
Riconciliazione Anp-Hamas
Netanyahu: un colpo alla pace
Per i palestinesi è stato il «Giorno della riconciliazione», il giorno della firma al Cairo dell’accordo tra Fatah e Hamas. Nei Territori è festa, ma Israele avverte: così si rafforza il terrorismo...
di Umberto De Giovannangeli
Per i palestinesi sarà ricordato come il «Giorno della riconciliazione». L’inizio di una speranza. Dopo quattro anni fra le fazioni rivali palestinesi di Hamas e Fatah è pace. Con una mediazione serrata da parte dell'Egitto, il movimento integralista che controlla la Striscia di Gaza e la fazione moderata che esprime il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) hanno suggellato in una cerimonia al Cairo la riconciliazione che pone fine a un periodo di divisioni e di contrasti, cominciati quando Hamas ha preso il controllo della Striscia nel 2007. L'intesa, che include tutte le tredici organizzazioni palestinesi,
è stata nuovamente attaccata dal premier israeliano Benyamin Netanyahu che da Londra l'ha definita «un duro colpo per la pace e una grande vittoria per il terrorismo». Mentre al Cairo si davano gli ultimi tocchi alla cerimonia, cominciata con oltre un' ora di ritardo anche per risolvere il problema diplomatico di dove fare sedere il leader di Hamas, in Cisgiordania e a Gaza migliaia di persone sono scese in strada senza distinzione di partito o di affiliazione politica per celebrare la riconciliazione, considerata fondamentale per presentarsi con un fronte unito alle Nazioni Unite con la richiesta di uno Stato palestinese.
PAROLE DI SPERANZA
«Voltiamo per sempre la pagina nera della divisione», afferma Abu Mazen, nel suo intervento, sottolineando che ora sta a Israele scegliere fra la pace e la colonizzazione dei Territori. Israele prima sosteneva che la divisione fra i palestinesi impediva la pace, ora usa l'unità palestinese «come scusa» per evitare di discute-
re, osserva «Mahmud il moderato». Subito dopo prende la parola il leader di Hamas in esilio Khaled Meshal per annunciare che Hamas, tuttora considerata un'organizzazione terrorista da Usa e Ue, pagherà tutti i prezzi possibili per raggiungere la riconciliazione palestinese. «Il tempo delle divisioni è alle nostre spalle», scandisce Meshal. «La nostra lotta è solo contro Israele», rimarca l'esponente di Hamas, spiegando che l'obiettivo è uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. «Non vogliamo nessun colono israeliano nel futuro Stato palestinese, non rinunceremo ad un solo centrimetro delle nostre terre e continueremo a difendere il dritto al ritorno dei profughi palestinesi», aggiunge Meshal alla cerimonia, alla quale hanno preso parte anche gli sponsor egiziani dell'accordo, il capo dell'intelligence Mourad Mouafi e il ministro degli Esteri Nabil el Arabi. L'obiettivo, come ha rilevato Mazen, è arrivare ad uno Stato palestinese entro l'anno, possibilmente a settembre, quando si riunisce l'Assemblea generale dell'Onu. Ma dopo la pace firmata occorre attuarla sul terreno e questa, come ha riconosciuto anche Mouafi nel suo discorso, è ora la parte più difficile.
L’INIZIO DI UNA NUOVA FASE
Per questo Abu Mazen e Meshal si sono visti due volte ieri in incontri separati prima e dopo la cerimonia per cominciare a discutere di due nodi fondamentali: la formazione del governo ad interim di tecnocrati indipendenti, in vista delle elezioni entro un anno e il mantenimento della sicurezza nei Territori, Gaza compresa. I leader di Hamas incontreranno il presidente palestinese la prossima settimana, possibilmente al Cairo per cominciare a dare una forma concreta all'accordo di riconciliazione, hanno fatto sapere fonti palestinesi.
l’Unità 5.5.11
Intervista a Nabil Shaath
«Spero che Israele colga l’occasione»
Per il dirigente dell’Anp sbaglia Netanyahu nel chiedere a Hamas il riconoscimento preventivo dello Stato ebraico
di Nabil Shaat ex ministro degli Esteri palestinese
Porre come pregiudiziale all’accordo di riconciliazione nazionale, il riconoscimento d’Israele da parte di Hamas è qualcosa di ingiusto, non ha senso. Quanti hanno davvero a cuore il rilancio del processo di pace e lo stop alla violenza, dovrebbero invece valutare positivamente il fatto che Hamas sia coinvolto in questo processo, ne sia parte in causa». A parlare, nel «Giorno della riconciliazione» palestinese, è uno degli artefici dell’intesa raggiunta tra Al Fatah e Hamas: l’ex ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) ed attuale consigliere diplomatico di Mahmud Abbas (Abu Mazen): Nabil Shaath. Il patto di unità palestinese tra Hamas e Fatah è «un duro colpo per la pace e una grande vittoria per il terrorismo»: è il commento del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu... «È propaganda, cattiva propaganda. Netanyahu dovrebbe spiegare al mondo perché ha rigettato tutte le offerte di compromesso avanzate in questi anni dalla dirigenza dell’Anp, scontrandosi anche con l’Amministrazione Usa. Israele dovrebbe invece cogliere l’opportunità che questo accordo di riconciliazione nazionale può aprire per la ripresa di un serio negoziato di pace».
Ma, ribatterebbe Netanyahu, come è possibile pensare ad un negoziato con una controparte che ha al suo interno una fazione, Hamas, che si rifiuta di riconoscere lo Stato d’Israele... «Porre questa pregiudiziale è il modo migliore, già usato in passato, per perpetuare lo status quo. Quanti hanno davvero a cuore il rilancio del processo di pace e lo stop alla violenza dovrebbero invece vedere con favore l’inserimento di Hamas in questo processo, perché questo significa una assunzione di responsabilità da parte della dirigenza di Hamas, interna ed esterna. Ma la domanda che tutti noi che abbiamo avuto una parte, piccola o grande non importa, nel raggiungimento di questa intesa, è un’altra...». Quale è questa domanda?
«L’intesa raggiunta da tutti i movimenti realmente rappresentativi, rafforza o no la causa palestinese?...».
Questa è la domanda. E qual è la sua risposta? «Sì, la rafforza. Inanzitutto perché risponde a quelle aspettative di unità che in questi mesi è venuta avanti nella società palestinese, in particolare tra i giovani, quelli più in sintonia con il vento del cambiamento che è spirato e sta spirando in tutto il mondo arabo. Mantenere le vecchie divisioni significava andare contro a queste istanze di cambiamento. Sarebbe stato un suicidio politico. Per tutti. Questo accordo ridà una speranza collettiva, rimotiva un popolo. E questo è oggi quello che conta di più. All’annuncio della firma dell’accordo, in migliaia sono scesi in strada a Gaza e in Cisgiordania, sventolando bandiere con i colori nazionali palestinesi. È il segnale di una aspettativa a cui abbiamo corrisposto, ma sappiamo che siamo solo all’inizio del cammino».
La Comunità internazionale sembra aver assunto un atteggiamento di attesa preoccupata... «Sta a noi trasformare questa attesa in atteggiamento positivo, di sostegno. L’importante è non assumere posizioni pregiudiziali, come è avvenuto in passato».
Il leader di Hamas Khaled Meshal ha detto che il suo gruppo è pronto a fare qualunque cosa per «trasferire il testo dell'accordo in fatti sul campo. La nostra battaglia è per vincere il nemico israeliano, non le fazioni palestinesi».
«È una presa di posizione importante, che ora dovrà trasformarsi in atti conseguenti. L’unità è un bene prezioso che va però finalizzato ad una politica che porti alla realizzazione di un “sogno” collettivo: la creazione di uno Stato indipendente di Palestina sui territori occupati nel 1967 e con Gerusalemme est come sua capitale. Il nuovo governo che nascerà sulla base dell’accordo raggiunto dovrà lavorare per questo fine. E Hamas sarà parte di questo disegno».
Non crede di peccare di ottimismo?
«Non sono il tipo. Da oggi chi ha puntato sulle divisioni interne al campo palestinese non potrà più vivere di rendita. E questo non riguarda solo Israele. L’unità rafforza l’autonomia palestinese».
il Fatto 5.5.11
Accordo Fatah-Hamas
Palestina unita, ma senza pace con Israele
di Roberta Zunini
La primavera araba ha impresso un’accelerazione al ricongiungimento tra Hamas e Fatah, avvenuto formalmente ieri al Cairo davanti al presidente della Lega araba Amr Moussa. Le rivolte nel Maghreb hanno mostrato l’esistenza di un abbozzo di opinione pubblica laica, interessata alla libertà di espressione. Negata, a Gaza da Hamas e in Cisgiordania da Fatah. Sotto questo profilo sono sono due i fattori principali che hanno costretto il presidente Abu Mazen e il leader politico di Hamas, Khaled Meshal, a velocizzare i tempi dell’accordo: il timore di rivolte da parte dei giovani palestinesi, la maggior parte dei quali non si sente rappresentata né dall’Anp né dal movimento islamico, e la questione siriana.
HAMAS, da sempre sostenuta dall’Iran e dalla Siria, dal 15 marzo scorso – giorno delle prime manifestazioni a Daraa contro il regime di Assad – si è trovata di fronte a una contraddizione. Fin dall’inizio della rivoluzione tunisina, aveva speso entusiastiche parole di incoraggiamento alla ribellione contro la tirannia, compresa in seguito quella di Mubarak. Ora come potrebbe continuare a stare zitta di fronte alla ribellione del popolo siriano contro Bashar Assad? Il problema è che proprio quest’ultimo, è il suo maggior sostenitore. Assad infatti ha sempre aiutato Hamas a crescere, anche finanziariamente: se Hamas chiedesse la caduta del presidente siriano, perderebbe il suo più fedele alleato nell’area. Rimanendo isolata rispetto all’Anp. Ma la settimana scorsa, i religiosi sunniti hanno chiesto di scegliere: o Assad o la nomenclatura religiosa sunnita. Una scelta obbligata per il movimento islamico anch’esso di confessione sunnita. Abbandonando Assad, e non essendo sufficiente la sola copertura religiosa sunnita, Hamas non ha potuto che ricongiugersi con Fatah, rientrando nei giochi per il governo di un eventuale futuro Stato palestinese. Che potrebbe essere proclamato unilateralmente a settembre, qualora non si dovesse invertire la posizione israeliana a favore dell’ampliamento delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. “Israele scelga, o la pace o le colonie”, ha detto ieri, dopo la firma del ricongiungimento, il presidente Abu Mazen. Che, per portare avanti il suo progetto di Stato palestinese unilaterale domani vedrà Nicolas Sarkozy all’Eliseo.
IL PRESIDENTE francese sarebbe favorevole a questa soluzione, al contrario della Germania e degli Stati Uniti. Gli Usa continuano a cercare una soluzione condivisa con Israele che però non transige soprattutto sugli insediamenti a Gerusalemme Est che considera “capitale unica e indivisa dello Stato ebraico” al contrario dell’Onu, che non ha accettato l’annessione da parte israeliana della zona orientale della città santa, avvenuta nel 1980. L’amministrazione americana sta cercando di smuovere l’intransigenza israeliana, attraverso i rappresentanti egiziani del dopo Mubarak. Non è un caso che l’accordo si sia firmato al Cairo da dove il ministro degli esteri, Nabil Al Arabi, la settimana scorsa aveva proclamato la riapertura del valico di Rafah con la Striscia di Gaza. E da dove è stata diffusa, anche per bocca di Mohammed ElBaradei, candidato alle presidenziali di settembre, una presa di posizione dura nei confronti di Israele qualora dovesse colpire la Striscia. Impossibile che gli Usa – tuttora finanziatori dell’esercito egiziano – non siano d’accordo. Mentre i palestinesi si ricongiungono, Israele si divide sulle conseguenze: Netanyahu ha commentato che è un duro colpo al processo di pace. Lieberman, il ministro degli Esteri, invece ha fatto preparare uno studio da cui emerge che la ritrovata unità palestinese potrebbe al contrario giovare alla ripresa dei negoziati. Il punto è che molti cominciano a temere che l’ipotesi di uno Stato palestinese autoproclamato potrebbe diventare realtà. Lasciando insoluto il problema dei coloni.
il Fatto 5.5.11
La difesa della banca centrale di Pechino
Il muro di dollari che protegge la Cina dalla crisi
di Superbonus
Hong Kong. La Cina non ha i problemi dell’Occidente. Il governo di Pechino controlla rigidamente la base monetaria e l’erogazione dei prestiti tramite la Banca centrale cinese che “suggerisce” alle banche pubbliche e private quanti prestiti fare, a che tassi e quanti titoli del Tesoro americano comprare. Gli operatori finanziari occidentali mostrano nelle loro parole un misto di rispetto e ammirazione per questo sistema dirigista che ha consentito lo sviluppo di una finanza in grado di supportare la crescita economica. Da questa parte del mondo non arriveranno crolli improvvisi di aziende di credito, scandali finanziari incredibili, ci potrà essere qualche turbolenza ma niente che le grandi riserve monetarie della banca centrale non possano risolvere in pochissimo tempo.
La muraglia finanziaria che la Cina ha eretto a difesa della sua economia tiene lontane le operazioni spericolate sui derivati e sui prestiti subprime che hanno messo in ginocchio gli Usa. Qui la finanza è legata all’economia reale più che altrove, l’eccessiva esposizione al settore immobiliare di alcuni istituti di credito è stata corretta con provvedimenti su misura, alzando i coefficienti di riserva obbligatoria solo a quattro banche che si erano spinte troppo oltre nel finanziare nuove costruzioni. Il denaro per l’impresa invece circola abbondante, dei finanziamenti alle esportazioni beneficiano centinaia di migliaia di fabbrichette cinesi, terzisti di marchi europei o americani che producono di tutto, dal tessile all’elettronica, dalle calzature ai pannelli solari. Di occidentale su questi prodotti è rimasto solo il marchio.
Un fiume di merci in uscita che affolla i porti di Shangai ed Hong Kong dove è impossibile contare i container ammassati sulle banchine e i camion in fila all’entrata delle banchine. Un fiume di dollari in entrata che si ammassa nei conti correnti delle banche cinesi che ricevono i pagamenti per conto dei propri clienti e li convertono in yuan presso la banca centrale che, per mantenere il cambio stabile e non fare apprezzare la propria valuta, compra altri dollari ed euro sotto forma di titoli di Stato. Così le riserve monetarie della Banca popolare cinese sono arrivate a 3000 miliardi di dollari, che si aggiungono alle 1500 tonnellate di oro custodite negli stessi forzieri. Livello che lo stesso governatore Zhou Xiaochuan considera “eccessivo” rispetto ai rischi che potrebbe dover fronteggiare. La domanda che gli operatori finanziari si fanno in questi giorni è come la Cina utilizzerà questo eccesso di moneta straniera. La quantità di titoli di Stato di Paesi terzi acquistati supera i 2000 miliardi di dollari e non è ragionevole pensare a un incremento di questo valore nel breve periodo. Compreranno ancora oro? Può darsi, ma non in una misura così ampia da spingere il prezzo del metallo su livelli ancora più alti di quelli raggiunti in questi anni. E molto più probabile che il regime cinese usi questa montagna di denaro per difendersi dalle tensioni sociali che prima o poi si manifesteranno in Asia e nelle sue grandi città. Il 50 per cento del budget familiare dei cinesi è rappresentato dalle spese per l’alimentazione e i prezzi del cibo stanno continuamente toccando nuovi massimi. La politica monetaria americana ha spinto al rialzo il prezzo del cibo e la pervicace volontà di mantenere la moneta cinese legata al dollaro ha fatto sì che per la prima volta nella sua storia il governo di Pechino stia importando inflazione. Ma i salari dei lavoratori non crescono allo stesso ritmo dei prezzi delle derrate alimentari. La nuova classe media cinese ha conosciuto il primo benessere e non ci sta a rimanere schiacciata fra le rate del mutuo e il prezzo della soia o della carne. Il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha comunicato che la politica del dollaro debole continuerà, il segretario del Tesoro Tim Geithner continua a chiedere a Pechino di rivalutare lo yuan di ben più del 6 per cento previsto per il 2011. Entrambi sperano che i cinesi cedano e le merci asiatiche diventino più care, convincendo i consumatori americani a comprare beni prodotti in patria. Ma i calcoli di Washington potrebbero essere sbagliati. Il governo cinese potrebbe decidere di salvare il proprio modello economico e sociale (oltre che il proprio potere) usando parte dell’ “eccesso” di riserve per sussidiare i consumi alimentari. Questo sosterrebbe artificialmente la domanda provocando un aumento ulteriore delle materie prime a livello mondiale e un’esplosione dell’inflazione nei paesi occidentali difficilmente gestibile con le politiche economiche tradizionali. La partita cinese è speculare a quella che si sta giocando in America: il benessere economico del mondo è in bilico fra due sistemi opposti che interagiscono troppo per essere separati e sono troppo diversi per trovare un nuovo equilibrio.
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il Fatto 5.5.11
Facebook visto da Assange
“Una macchina di spionaggio”
di Federico Mello
Il fondatore di Wikileaks Julian Assange torna a far parlare di sé in modo plateale: accusa Facebook di essere “la macchina di spionaggio più spaventosa che sia mai stata inventata”. L’hacker ha affidato il suo j’accuse a Russia Today, così come riferisce il Daily News. Il sito di Zuckerberg, secondo Assange, è “il database più completo al mondo di persone, con i loro rapporti, i loro nomi, i loro indirizzi, i luoghi in cui si trovano, le loro comunicazioni”. Tutto ciò, aggiunge, sarebbe “accessibile ai servizi segreti Usa”, al punto che “Face-book, Google, Yahoo e tutte le grandi organizzazioni Usa, sono dotate di un’interfaccia per l’intelligence”.
Assange, che si è contraddistinto ultimamente per accuse molto mediatiche e non sempre circostanziate, non aggiunge “cable” a supporto della sua denuncia. “Non è mai accaduto di aver subito pressioni affinché rivelassimo determinate informazioni, bensì rispondiamo alle leggi che sono obbligatorie” è stata la replica piccata di Facebok. Sicuramente, le autorità Usa – come quelle italiane – possono chiedere di accedere alle bacheche Facebook di persone indagate. Diverso però il caso di un vera e propria “interfaccia” a disposizione e da consultare a piacimento. Il tema delle ingerenze sulla privacy da parte di governi e servizi, comunque, rimane all’ordine del giorno. In Russia, il maggior motore di ricerca, Yandex, ha “tradito” Aleksiei Navalni, il più influente e temuto blogger anticorruzione russo. I nomi dei suoi finanziatori, finora anonimi, sono stati svelati da alcuni “Nashi”, militanti del movimento di Putin: sono gli stessi dati che il motore di ricerca aveva rivelato ai servizi segreti su esplicita richiesta. Immediata la domanda: come sono finiti dai servizi ai militanti putiniani? La stampa locale fa notare come il motore stia per sbarcare in Borsa e, la fuga di notizie, potrebbe rappresentare uno stop“governativo”all’operazione che potrebbe portare il motore di ricerca in mani straniere.
il Fatto 5.5.11
Bobbio, straniero in Patria
È in libreria “L’Italia delle idee” di Angelo d’Orsi (Bruno Mondadori, 23 euro - 360 pagg). Di seguito un estratto dell’ultimo capitolo
di Angelo d’Orsi
La cifra essenziale dell’Italia degli anni Novanta e poi dei primi due decenni del Duemila è il manicheismo. O con me, o contro di me. Anche se può esser vero che il nostro è stato sempre un paese diviso, o comunque portatore di concezioni politiche e visioni ideali fortemente oppositive, per la prima volta dopo il 1948, in un crescendo impressionante, e in modo unilaterale, si giungeva a una situazione che si avvicinava a quelle che preludono o addirittura accompagnano una guerra civile. Era una «Italia contesa», in cui i due campi erano diventati due eserciti, uno dei quali all’attacco, da posizioni di vantaggio, l’altro sulla difensiva, con forte inferiorità di armi, e soprattutto con assenza di figure carismatiche capaci di contrastare l’irruento, irrefrenabile, ora scherzoso, ora aggressivo Berlusconi. [...]
VI SONO stati contravveleni in questa Italia videocratica, iperconsumistica, postdemocratica e troppo prona ai dettami vaticani? Vi sono stati, e vi sono: certamente un nucleo importante, forse il principale, fu, ancora una volta, collocato sotto la Mole, terreno fecondato dal liberalismo, dal cattolicesimo sociale, dall’azionismo, dal gramscismo. Norberto Bobbio, innanzi tutto, pur negli ultimi suoi anni. Grande sistematizzatore, eccellente analista, seppe, con tutti i suoi limiti – teoretici e legati ai comportamenti politici – cogliere quasi sempre il punto decisivo delle questioni filosofico-politiche, mentre il versante giuridico andò lungo i decenni riducendosi, pur senza venir meno. Il che se da un lato lo aiutò nel fare chiarezza, dall’altro poté talora indurre ad errori di giudizio che ebbe, quasi sempre, l’onestà di ammettere, ex post. Così, i suoi giudizi sulle guerre del mondo post-bipolare, a cominciare dalla prima, quella del Golfo, dell’inizio del 1991, definita improvvida-mente “giusta”, o quella della Nato (del ’99), contro la Repubblica Jugoslava, etichettata addirittura come “etica”. Bobbio, d’altronde, non fu un esponente del pacifismo, ideologia che in Italia non ha avuto grande fortuna, ma aveva dimostrato apertura e sensibilità alla tematica, sia grazie a rapporti umani e politici, per esempio con Aldo Capitini (a cui ho fatto riferimento), sia per incontri intellettuali, come quello con Günther Anders, che gli fece scoprire, nei primi anni Sessanta, la “coscienza atomica”, e per cui scrisse la Prefazione all’edizione italiana di quel bellissimo diario di viaggio nelle città giapponesi martiri della “bomba”. Altrettanto intenso, e più convincente, il dialogo di Bobbio con la politica interna, e totale la sua ripulsa delle nuove (o presentate come tali) ideologie, espresse in individui e movimenti, presto trasformatisi in partiti.
CON SOBRIETÀ , che a qualcuno poteva sembrare esitazione, Bobbio monitorò criticamente l’Italia degli anni Novanta, ultimo suo decennio di vita, mentre portava avanti una dolente riflessione sulla vecchiezza. E in parallelo all’inesorabile avanzare dell’età, alla perdita di amici e familiari, si definiva il sentimento di crescente estraneità a quella Repubblica, che, accanto a tanti altri, intellettuali e politici, militanti e combattenti, egli aveva contribuito a costruire. Quell’Italia accesa dalle grandi speranze resistenziali, e poi l’Italia della ricostruzione , quella che scopriva il significato della gramsciana “ri-succedersi di illusioni e disillusioni”, agli occhi del vecchio filosofo appariva trasformata nel suo contrario: l’Italia del malaffare giunta, trionfalmente, al potere, dopo che, per un momento, era parsa sconfitta e messa alla gogna davanti a una pubblica opinione infine ridestata da un lungo sonno… Questa Italia angosciò l’estrema vecchiezza di Norberto Bobbio, contribuendo a togliergli la voglia stessa di far udire ancora la sua voce, resa più flebile e stanca dal carico degli anni. Soprattutto quella sensazione che egli aveva riassunto nell’espressione “straniero in Patria”, di certo alleviò Bobbio nell’abbandono della scena: l’Italia impersonata dal cavalier Berlusconi, non era l’Italia del professor Bobbio; un’Italia, lontana incommensurabilmente dalla sua rimpianta e forse sognata “Italia civile”, che era ormai un paese a cui egli si sentiva profondamente estraneo e dal quale non dovette dispiacergli troppo uscire per l’estremo viaggio.
Corriere della Sera 5.5.11
L’autunno della democrazia senza ideali I nuovi mali: emarginazione dei poveri, discredito dei partiti, strapotere dei tecnocrati
di Luciano Canfora
È norma, nei dialoghi socratici, che il filosofo appaia critico-problematico, mentre il suo interlocutore è soprattutto portatore di certezze. Qualcosa del genere accade nel dialogo filosofico-politico sulla democrazia tra Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro in uscita da Laterza (La felicità della democrazia, i Robinson/Letture, pp. 256, e 15). Sin dalle prime battute del dialogo si delinea tale divisione di ruoli: «Mi pare di capire — dice in apertura Zagrebelsky — che tra noi due spetterà a me il ruolo dello scettico, per non dire della Cassandra» , mentre Mauro sin dalla prima sua frase dichiara di voler «rassicurare» . Zagrebelsky riprende e approfondisce l’allarme lanciato da Bobbio vari decenni fa intorno alle «promesse non mantenute» dei cosiddetti sistemi democratici, Mauro ne difende, nonostante sia consapevole dei gravi e crescenti inconvenienti, la positività. Il tema è smisurato, ma qualche bilancio da questo serrato dialogo va pur tratto. Se non ci si rende conto che il fenomeno dominante del nostro tempo, tempo definibile come «autunno della democrazia» , è lo svuotamento di essa, si rischia di parlare di qualcosa che non è più nell’illusione che ci sia ancora. C’è democrazia, o meglio la sua premessa, quando nel corpo civico vi è diffusa e attiva consapevolezza, che è quanto dire assidua opera educativa: educazione in generale ed educazione alla democrazia. E invece la tendenza dei Paesi che storicamente si propongono come modello di tale sistema di governo è da tempo orientata all’opposto: i tratti dominanti sono la elementarità sloganistica, il crescente assenteismo, e, per converso, la dedizione per così dire istintuale e mimetica verso personalità galvanizzanti. Al concetto di svuotamento Zagrebelsky dà un notevole contributo là dove osserva che la parola «democrazia» è diventata «l’orpello dei potenti» («assoluzione preventiva dell’arbitrio sui deboli» ). Così dicendo Zagrebelsky tocca un tema essenziale, quello dell’insufficienza della mera identificazione tra «democrazia» e «maggior numero» , a prescindere da qualunque contenuto. Con intenzionale lessico evangelico, Zagrebelsky parla dei «tapini» e della crescente loro emarginazione nelle nostre società. Si mostra cioè ben consapevole del rimescolamento dei ceti e della loro cangiante consistenza numerica nei Paesi industriali più avanzati e più forti. In società dove il disagio è confinato in una minoranza, invero numericamente cospicua, la mera identificazione democrazia =maggior numero diventa una contraddizione in termini (per Aristotele la democrazia è il governo dei «poveri» ). Molti fattori hanno contribuito a questo processo di «svuotamento» . Per esempio vi ha contribuito il dissennato discredito riversato, da almeno venti anni a questa parte, sulle cosiddette «ideologie» , le quali invero altro non sono che le idee, i convincimenti profondi, gli «ideali» (per dirla con le parole della premessa di questo «dialogo» ). Averle screditate ha ingenerato in larghi strati di popolazione il convincimento che l’unica politica che valga la pena di praticare sia quella del singolo problema, e quindi del proprio particolare: uno stato d’animo che presto si converte nell’ammirazione per chi «ci ha saputo fare» . In Usa il processo di discredito nei confronti delle «ideologie» era incominciato molto prima che da noi, nonostante momenti carichi di ideali, dal «New Deal» rooseveltiano alla «Nuova frontiera» kennediana. Da quando gli europei continentali si sono messi anche loro a irridere alle «ideologie» nella convinzione di attingere così il paradiso terrestre del pragmatismo anglosassone, hanno dato mano anch’essi ad una mediocre e talora senz’altro cattiva politica (il rifiuto delle ideologie è esso stesso una ideologia). Ma torniamo al punto. Una democrazia «svuotata» di ideali capaci di albergare nella mente delle persone (il che necessariamente accade attraverso i partiti) è già altro dalla democrazia. E perciò Zagrebelsky osserva: «Persino i dittatori, quando prendono il potere, sciolgono i Parlamenti, sospendono i diritti, dicono di farlo per restaurare la vera democrazia» . Ben detto. Viene in mente il programma, e la retorica, dei generali golpisti cileni che liquidarono Allende ed il suo legittimo governo. Quella vicenda — la più adatta ad illustrare le parole di Zagrebelsky — comporta la domanda: perché i promotori esterni del golpe cileno furono i servizi della «grande democrazia americana» (stucchevole definizione)? La migliore descrizione del processo di «svuotamento» la dà Zagrebelsky (p. 9): «La democrazia è un sistema di governo molto compiacente. Può ospitare tante cose, senza abbandonare il suo nome» . La disintegrazione dei partiti (eppure furono i grandi educatori di massa), il discredito delle idee, la pratica pervasiva del mercato del voto (denunciato con forza da Bobbio), l’abrogazione del principio proporzionale che trasforma le elezioni in una specie di lotteria, la straripante concentrazione monocratica del potere mediatico (fenomeno tutto nostro) sono alcuni dei fattori che hanno accelerato il processo di svuotamento della democrazia. Un fenomeno meno palpabile ma più gravido di conseguenze è la dislocazione altrove del potere effettivo. Nei Paesi europei continentali, protesi nel secondo dopoguerra a prevenire la dominanza dei poteri forti sui Parlamenti, questa sottrazione di potere effettivo all’organo legislativo non sarebbe potuta avvenire in modo indolore. Ci ha pensato la cosiddetta Costituzione europea, i cui organi tecnici, veri regolatori della vita economica dei singoli Paesi membri, hanno via via acquisito un potere decisionale di tipo assoluto, completamente al riparo dal «fastidio» e dalle «pastoie» delle forze politiche, cioè dei cittadini. Ciò dicendo non intendiamo affermare che il tentativo europeistico fosse in sé negativo, bensì che il modo in cui si è attuato e la doppiezza di fondo che lo sorregge (potere vero e indisturbato da un lato, sedi retoriche dall’altro) ha inferto un’ulteriore accelerazione allo «svuotamento» della democrazia. Il modo, infatti, in cui ci si pone di fronte al fenomeno storico della «Europa unita» è connotato da una disarmante astrattezza. L’Unione esiste dal 25 marzo 1957, cioè da oltre mezzo secolo: un periodo di tempo nel quale avvengono, di norma, trasformazioni profondissime. Invece l’ «Europa unita» non ha prodotto che una moneta quasi unica (la sterlina non ha mai ammainato bandiera): non un vero governo europeo, non una politica estera, non un esercito, ed ora addirittura si prova a smantellare l’accordo di Schengen. Ma persino il quasi-risultato della moneta quasi-unica è in via di ripensamento, in ragione della diversa forza delle economie dei diversi Paesi aderenti. Nei discorsi sulla democrazia si trascura, forse, questo aspetto della questione. Eppure la prospettiva di un’Europa a due, o forse tre velocità (Mucchetti, sul «Corriere» del 28 novembre, parlò di un possibile ritorno ad un «super marco» ) tenta fortemente gli industriali tedeschi, i quali non sono certo un soggetto trascurabile. Due mesi prima si era svolta a Berlino una conferenza intitolata «L’euro prima della catastrofe, strade per evitare il pericolo» , cioè, secondo i convenuti, la «follia euro» . La stampa tedesca passò pudicamente sotto silenzio l'evento. Se ci saranno decisioni del genere pioveranno «dal cielo» come, a suo tempo, la decisione di dar vita alla moneta quasi-unica, che in breve dimezzò il valore reale dei salarî. Che l’Unione sia diventata mera creazione retorica lo dimostra il «calvario» della cosiddetta Costituzione europea: nascono intanto nei singoli Paesi Costituzioni, come quella, novissima, dell’Ungheria, su cui è istruttiva la corrispondenza di Bruno Ventavoli su «La Stampa» del 23 aprile. Il raffinato dialogo Zagrebelsky-Mauro che Laterza manda in libreria, come ogni vero dialogo, mette a confronto due sistemi di pensiero, non pretende di approdare alla vittoria dell’uno sull’altro. Ha invece un grande merito: aiuta a pensare al riparo, una volta tanto, dalla retorica.
Repubblica 5.5.11
Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertà
di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky
Spinti dall´urgenza oggi ormai s´invoca il disordine come fondamento del vivere comune
L´obbligo reciproco non è soltanto un meccanismo di tutela ma anche un legame positivo
Regole, lavoro, immigrazione, populismo: un dialogo su un modello politico, sulle sue forzature e sulle sue virtù nel saggio di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky
Anticipiamo un estratto da La felicità della democrazia (Laterza)
ezio MAURO. (…) Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità?
GUSTAVO ZAGREBELSKY. Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch´io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, «se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare». Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità.
MAURO. Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l´idea che la felicità e la soddisfazione dell´individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell´abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il «regolamentarismo» e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il «sonno della legge». C´è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D´Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare «verso la vita», mentre dall´altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall´eccesso, contro l´ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell´urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l´esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, «si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente»?
ZAGREBELSKY. Tu cosa rispondi?
MAURO. Molto semplicemente che c´è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, «esseri che si somigliano» nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C´è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini.
ZAGREBELSKY. Nell´essenziale, sono d´accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità, o come possibilità di felicità, secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l´hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l´umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell´unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l´appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già citati. Io mi accontenterei di dire che, nell´appropriazione dei propri compiti di «individuo morale», nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l´assenza di regole.
MAURO. Contrapponi l´éthos al páthos, in qualche modo. Sei però d´accordo con me nel collegare democrazia e felicità?
ZAGREBELSKY. Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l´abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L´affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L´archetipo è Faust che vende l´anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l´immagine della virtù. Ammetto d´essere un pesce fuor d´acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso.
MAURO. Cioè?
ZAGREBELSKY. (….) Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà dove si mette in rapporto di tensione felicità e istituzioni (…) e che chiude così «L´uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po´ di sicurezza». (…)
MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d´obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la «vita buona», come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel «sacrilegio sociale», come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati.
ZAGREBELSKY. (…) Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l´infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l´infelicità dell´humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (…)
MAURO. Ma qui siamo (…) in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel "confortarsi insieme", "tenersi compagnia", incoraggiarsi", "darsi una mano e soccorso", nella stessa parola "scambievolmente" c´è il concetto politico e umano di solidarietà, c´è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là della mutua assistenza nella necessità, per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.
ZAGREBELSKY. (…) Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s´è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l´esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla «felicità». Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.
Corriere della Sera 5.5.11
L’esodo al Nord dei neri americani Isabel Wilkerson: «Gli ex schiavi trattati dai razzisti come gli ebrei»
di Alessandra Farkas
NEW YORK — Per la prima volta, un’opera letteraria azzarda un parallelo tra l’esodo verso il Nord degli Stati Uniti degli ex schiavi neri in fuga dai linciaggi del Kkk nel profondo Sud razzista e la diaspora degli ebrei scampati ai pogrom dell’Europa orientale. A tracciarlo è Isabel Wilkerson in «The Warmth of Other Suns: The Epic Story of America’s Great Migration» (Random House), il libro a metà tra saggio storico e memoir, osannato dai critici (il «Wall Street Journal» lo definisce «un’epopea brillante e commovente» ), nonché vincitore di numerosi premi. In ben 622 pagine l’autrice nata a Washington racconta una delle vicende meno esplorate della storia americana: l’epico esodo di oltre 6 milioni di afroamericani dagli Stati razzisti del Sud verso il Nord e la California verificatosi dal 1915 alla fine degli anni 70. La «Great Migration» , l’hanno ribattezzata gli storici, che oltre a ridisegnare il profilo socio-economico del Paese, dette vita a forme musicali e culturali che altrimenti non sarebbero mai esistite. Prima afroamericana ad aver vinto il premio Pulitzer nel 1994, quando lavorava al «New York Times» (oggi insegna non fiction writing alla Boston University), l’autrice ha impiegato 15 anni per intervistare circa 1.200 «emigranti» , incontrati in scuole, chiese, centri per anziani, show radiofonici per soli neri e cori gospel. «Il titolo del mio libro è tratto da un’espressione usata dal grande Richard Wright, che nel 1920 fuggì dal Mississippi per cercare "il calore di altri soli"» , racconta la Wilkerson. «Quasi tutti gli autori afroamericani del XX secolo, da Ralph Ellison a Toni Morrison, hanno scritto su un fenomeno che ha influenzato enormemente le loro e le nostre vite» . Oltre ai suoi genitori, emigrati a Washington dalla Virginia del Sud (il padre) e dalla Georgia (la madre), la sua ispirazione sono stati Furore di John Steinbeck e i film di Robert Altman e Steven Soderbergh. Il libro ruota intorno a tre personaggi, ciascuno dei quali rappresenta una differente decade dell’esodo. Ida Mae Gladney, moglie di un mezzadro del Mississippi, partì per Chicago nel 1937, dopo che un parente fu picchiato a sangue dai proprietari terrieri — bianchi — per un furto che non aveva commesso. George Starling, raccoglitore di agrumi in Florida, fuggì a New York nel 1945 dopo aver scoperto che i suoi «padroni» volevano linciarlo per aver organizzato uno sciopero tra gli agricoltori neri. Il dottor Robert Foster, infine, che nel 1953 scappò a Los Angeles perché nonostante la laurea nel college nero più prestigioso d’America, Morehouse, nel Sud segregato non gli permettevano neppure di togliere un callo ad un bianco. Una volta a Los Angeles Foster finì per diventare uno dei chirurghi più famosi della città, medico personale di Ray Charles che scrisse la famosa canzone «Hide nor Hair» su un dottore che gli aveva rubato la donna. Per rivivere il dramma dei suoi protagonisti la Wilkerson ha ripercorso le loro orme, replicando ad esempio il viaggio senza sosta di Foster dalla Louisiana alla California «perché a quei tempi non esisteva luogo nel Sud dove un nero potesse fermarsi a dormire senza rischiare la vita» . Il libro non menziona le fontanelle d’acqua o i ristoranti «per soli bianchi» : «Non ce n’era bisogno» spiega l’autrice cui premeva di più illustrare le restrizioni più assurde delle "Leggi Jim Crow", l’iniquo sistema di norme locali emanate tra il 1876 e il 1965 che servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di «separati ma uguali» per i neri americani. Il libro parla della legge di Birmingham che proibiva a bianchi e neri di giocare a scacchi insieme e del Tribunale del Nord Carolina dove i due gruppi erano costretti a giurare su Bibbie diverse. E se vari Stati del Sud, dal Mississippi alla Georgia e dall’Oklahoma all’Alabama, fecero a gara per umiliare e degradare i cittadini afroamericani, negando loro i diritti umani più fondamentali, il primato spetta alla Florida. Nel 1934 il Sunshine State fu teatro del più agghiacciante linciaggio della storia americana, quando il 23enne Clark Neal, accusato dello stupro e dell’omicidio della vicina di casa bianca, la 20enne Lola Kennedy, fu torturato per ore, castrato e costretto a mangiare il proprio pene, prima che il suo cadavere mutilato venisse legato ad un auto in corsa e poi impiccato tra la gioia dei partecipanti accorsi al «lynching party» . Per giorni e giorni dopo l’orribile orgia, tra gli abitanti della zona andarono a ruba le dita mutilate del giovane e nonostante l’indagine ordinata dall’allora presidente Franklin D. Roosevelt nessuno venne mai incriminato per l’efferato crimine anche se più tardi emersero le prove che la Kennedy era stata uccisa dai propri famigliari quando scoprirono la sua love story segreta con Clark.
Oggi l’incontro a Milano
Isabel Wilkerson, corrispondente e caporedattore del «New York Times» , e autrice di The Warmth of Other Suns, è stata la prima donna nera a vincere il Premio Pulitzer nel 1994. Oggi, in Sala Buzzati (via Balzan 3, Milano) alle ore 18, la Fondazione Corriere della Sera (ingresso con prenotazione al numero 02-87387707) organizza un incontro con la giornalista scrittrice intitolato: «Sulla strada. Migrazioni e cambiamenti sociali» . Dopo il saluto introduttivo del console generale degli Stati Uniti, Carol Perez, discuteranno con l’autrice i giornalisti Oliviero Bergamini (Rai) e Venanzio Postiglione («Corriere della Sera» ). Coordina Barbara Stefanelli (vicedirettore del «Corriere della Sera» ).
Repubblica 5.5.11
Quando l'avversario è il simbolo del male
di Carlo Galli
La fine di Bin Laden e il rapporto delle democrazie con chi diventa un´incarnazione del conflitto globale superando l´immagine dell´avversario e dell´antagonista
L´esperienza dell´umanità è tutta percorsa dalla dimensione dell´ostilità e della lotta contro l´altro
Il terrorismo non è un´opposizione di civiltà, come era il nazismo, o di sistema come il comunismo È difficile da decifrare e da combattere
Nelle lingue indoeuropee innumerevoli sono le parole dell´ostilità, i nomi del nemico. Si lasciano raggruppare in grandi famiglie, a seconda che si riferiscano al combattere, all´odiare, all´essere estranei; contengono infinite sfumature di significati, descrivono le più varie contrapposizioni; in complesso, significano la dimensione di conflitto che pertiene alla vicenda umana, quella colpa originaria che sembra far sì che per convivere tra noi, gli amici, si debba al tempo stesso lottare per sopravvivere, contro gli altri, contro i nemici. Quelle parole ci dicono che la storia dell´umanità è intessuta di conflitti, e che l´umanità non vive senza nemico, anche se l´età moderna (con la significativa eccezione dei totalitarismi) ha cercato di spostarlo tutto all´esterno, nella guerra fra Stati, e, all´interno, di derubricarlo a concorrente, avversario, antagonista, oppure di trasformarlo in criminale, in violatore del diritto positivo. Ci dicono che l´immagine del Sé comprende quella dell´Altro, del Nemico, e che la nostra età globale non fa eccezione, anche se introduce importanti variazioni sul tema.
Ora che l´America ha simbolicamente sconfitto il proprio ultimo arci-nemico – cioè il terrorismo, nel suo capo – si può infatti valutare appieno quanto si siano trasformate la guerra e l´immagine del nemico, proprio se si paragona la fine di Osama Bin Laden con le fini degli altri nemici novecenteschi degli Usa, cioè del fascismo e del comunismo, e dei loro capi. Il primo è stato sepolto sotto la valanga apocalittica di ferro e del fuoco della guerra totale che ha scatenato; e i suoi capi, criminalizzati e giustiziati, sono stati inceneriti (con l´eccezione di Mussolini) e nascosti nel segreto della terra (dal quale solo Mussolini è stato strappato, dopo parecchi anni). Il secondo, sconfitto dalla superiorità economica, tecnologica e istituzionale dell´intero Occidente, vincitore della guerra fredda, è evaporato dopo anni di agonia, e i suoi ex-capi conducono oggi vite anonime, dimenticati da tutti.
Il terrorismo è (e ancora sarà, benché si trovi in difficoltà strategica) non un nemico di civiltà, come il fascismo, né un nemico di sistema, come il comunismo – e meno che mai un nemico convenzionale, come erano gli Stati l´uno per l´altro, prima dell´età delle ideologie – ; è un nemico biopolitico, ovvero una sorta di parassita cresciuto dentro alla globalizzazione, pervasivo come questa e – versatile, mutante e imprevedibile come un virus mortale – capace di attaccare le potenze territoriali, per colpirne la sostanza vitale: le popolazioni.
Il terrorismo è un nemico nuovo e complesso, nel quale precipitano e si trasfigurano molteplici immagini tradizionali del nemico. È un nemico asimmetrico, che da non-Stato si oppone agli Stati; ed è difficile da combattere, e da decifrare, in quanto non collocabile nella dicotomia moderna fra esterno e interno. In Bin Laden, e nel terrorismo, si fondevano e si confondevano interno e esterno, pubblico e privato, guerra e crimine.
Inoltre, in lui realtà e rappresentazione sfumavano l´una nell´altra: nemico reale – che tale si considerava e voleva essere considerato – dei "crociati", che voleva cacciare dalla terra dell´Islam, era al tempo stesso anche nemico assoluto, teologico, delle potenze occidentali, che non voleva solo respingere, ma annientare, uccidendone i cittadini e demolendone i simboli. E quindi dai suoi nemici le sue fattezze erano iper-rappresentate, come quelle di un mostro di iperbolica ferocia; la sua immagine trapassava così in una sorta di spettro ubiquo, dall´infinito potenziale minaccioso. Bin Laden era quindi un nemico esistenziale e mortale, e al contempo un nemico fantasma. La sua dimensione mediatica – che riassumeva in sé le paure della nostra società percorsa da mille insicurezze, che oggi balla felice perché sente meno minacciata la propria vita – era tanto offensiva quanto quella materiale: per questo la sua uccisione ha dovuto implicare l´eliminazione della sua immagine attraverso la sparizione del suo corpo, disperso nel mare, in uno spazio mobile e globale che lo inghiotte e lo cancella.
In Bin Laden si sono sommate, ma anche confuse e modificate, tutte le qualifiche del nemico: anche la sua meritata connotazione di "nemico dell´umanità" non lo rende simile al pirata, al quale tradizionalmente è attribuita: del pirata – che andava eliminato ma senza che il vincitore potesse celebrare il trionfo, poiché erano nemici "illegittimi" – non aveva infatti lo spirito di furto e di rapina. Allo stesso modo, del partigiano – altra figura di nemico irregolare – non aveva l´intrinseca politicità, la misura: Bin Laden era uno smisurato fanatico, sprofondato nell´abisso di una paranoica identificazione con Dio, il cui Giudizio egli voleva anticipare, uccidendo tutti i peccatori. E dunque, benché post-moderno e globale, era anche arcaico e totalitario come un cacciatore di eretici – finito a sua volta cacciato.
Nostra Ombra, il nemico è forse una dimensione insuperabile della politica; e certo, se l´umanità globale esige un nemico globale dell´umanità, in cui si assommino tutte le sue paure, con Bin Laden lo ha avuto. Benché non sia probabile, c´è da augurarsi che la sua morte restituisca alla politica, e quindi anche al nemico, fattezze più chiare e concrete, se non più umane.
Repubblica 5.5.11
Non dovremmo mai trasgredire le nostre regole fondamentali. Come nel caso della tortura, se per combattere un nemico malvagio, diventiamo malvagi come lui, allora questo ha già vinto"
Tutti i rischi per l’Occidente
Intervista a Tzvetan Todorov
PARIGI. «La morte di Bin Laden è un´azione di guerra che assomiglia a una forma di vendetta, forse legittima, ma che non ha nulla a che fare con la giustizia». Tzvetan Todorov, lo studioso francese autore di molti saggi, tra cui La paura dei barbari (Garzanti), commenta così la fine del capo di Al Qaeda. «Uccidendo Bin Laden, gli americani hanno eliminato un simbolo, ma non certo il terrorismo, per combattere il quale è molto più utile sostenere le rivolte nei paesi arabi. Lì i giovani sono mossi dal desiderio di partecipare pienamente alla vita del mondo contemporaneo, rifiutando quella logica dello scontro con l´Occidente che è alla base del terrorismo islamico. Naturalmente, oltre ad aiutare pacificamente tali rivolte, dovremmo rinunciare all´arroganza del vecchio colonialismo che pretendeva d´imporre agli altri i propri valori e le proprie scelte. Per questo, dovremmo ritirarci dall´Iraq, dall´Afghanistan e dalla Libia. E contemporaneamente dovremmo chiudere i centri di detenzione e di tortura illegali che indeboliscono l´immagine delle democrazie occidentali. Non possiamo difendere i diritti dell´uomo e contemporaneamente non rispettarli».
La battaglia contro i nemici della democrazia deve quindi fissarsi dei limiti?
«Occorre semplicemente rispettare le regole democratiche. Se per combattere un nemico malvagio, diventiamo malvagi come lui, allora questo ha già vinto».
Le democrazie hanno bisogno di un nemico pubblico contro cui mobilitarsi?
«Le società democratiche non dovrebbero mai aver bisogno di nemici o capri espiatori presentati come simboli del male assoluto. Tali nemici esterni servono spesso a mascherare i veri nemici della democrazia, che di solito sono nemici interni. Penso a certe derive degli stessi procedimenti democratici che possono diventare una vera e propria minaccia per la democrazia. Ad esempio, lo spirito messianico, vale a dire la volontà di portare a tutti la salvezza anche con la forza. In passato, lo spirito messianico si è manifestato con le guerre napoleoniche, il colonialismo e poi il comunismo. Oggi, il nuovo messianesimo occidentale ci spinge ad intervenire in altri paesi in nome della democrazia, ma col rischio d´infrangerne i principi».
Il populismo può essere considerato uno dei nemici interni della democrazia?
«L´appello al popolo è un valore democratico, ma quando si prendono le reazioni immediate della folla come unico metro della vita politica, evidentemente ci si allontana dalla democrazia. Purtroppo, alcuni tratti della democrazia, nel momento in cui vengono enfatizzati, possono ritorcersi contro di essa. Oltre al populismo occorre ricordare la tirannide dell´individualismo che, sulla scorta dell´ultraliberalismo, ha prodotto una società in cui l´idea del bene comune sta progressivamente arretrando. Oppure i rischi legati alla concentrazione del potere in poche mani e alla collusione tra interessi politico-economici e i mezzi d´informazione. Infine, la scomparsa di un nemico esterno ideologico – il comunismo – ha favorito l´emergere di un altro nemico esterno, lo straniero trasformato in una minaccia permanente. La xenofobia è un vero pericolo per le democrazie».
Una democrazia forte è meno ossessionata dai nemici?
«In teoria sì, ma la storia c´insegna che la democrazia si reinventa sempre, si rimette sempre in discussione, partendo dalle proprie debolezze e difficoltà. La democrazia non è mai una condizione definitiva, ma sempre un processo in atto».
Repubblica 5.5.11
Troppi calcoli e poca filosofia. La matematica ha perso l’anima
di Paolo Zellini
Il saggio di René Guénon è un´accusa alla scienza moderna: da Leibniz in poi è stata dimenticata la metafisica riducendo tutto a un gioco di simboli
Oggi le tesi dello studioso sembrano meno sostenibili anche per l´insondabile nesso tra algoritmi e "sapienza"
L´infinito sarebbe stato confuso con l´indefinito producendo "una discesa negli inferi della materia e della quantità"
È curioso, notava Alexandre Koyré, uno dei grandi storici della scienza del Novecento, che Pitagora abbia proclamato che il numero è l´essenza di tutte le cose, e che la Bibbia abbia insegnato che Dio ha fondato il mondo «sopra il numero, il peso e la misura». Tutti l´avrebbero ripetuto, ma nessuno l´avrebbe creduto o preso sul serio prima della scienza sperimentale diGalileo, dell´astronomia di Keplero e Copernico e del calcolo di Newton e di Leibniz: prima cioè che si provasse realmente a contare, a pesare e a misurare. In un celeberrimo passo, Galileo avrebbe sostenuto che l´immenso libro aperto davanti ai nostri occhi, e cioè l´intero universo, è scritto in lingua matematica e che ignorare quella lingua significa aggirarsi in un oscuro labirinto. Oggi la nostra comprensione di quel libro si fonda soprattutto sulle equazioni della fisica matematica e sulla scienza degli algoritmi. Ma è poi certo che la scienza moderna sia una fedele realizzazione delle idee che avevano ispirato Pitagora e l´autore del Libro della Sapienza?
Lo contesta un singolare libro di René Guénon, Les Principes du Calcul infinitésimal, apparso nel 1946 (e ora riproposto da Adelphi: I principi del calcolo infinitesimale, pagg. 223, euro 14). Rigoroso difensore di un´unica grande Tradizione, depositaria della conoscenza metafisica pura e dei metodi di un´autentica realizzazione spirituale, Guénon propone una tesi estrema e scandalosa. Con uno sconcertante e grandioso rovesciamento di prospettiva egli sostiene che la scienza moderna non è la semplice prosecuzione della parola biblica o del credo pitagorico, bensì la sua caricatura, la sua contraffazione profana, una immane quanto inavvertita superstizione, nel senso letterale di ciò che resta di un´antica sapienza tradizionale. In forza di questa premessa Guénon conclude che la regina delle scienze, la matematica, avendo perso ogni contatto con la sapienza tradizionale, si è ridotta a diventarne un mero residuo degenerato e senza valore.
Ma perché culminerebbe proprio nella matematica, in particolare nel calcolo infinitesimale di Leibniz, la perdita di significato delle scienze moderne? La risposta è semplice: soprattutto la matematica si è servita di termini chiave della metafisica tradizionale. Fin dal XVII secolo i matematici avevano riadattato, ad esempio, il senso di parole come "infinito", "misura" e "continuo" alle proprie necessità e alle proprie formule. Ne avevano quindi usurpato e deformato il significato, svuotando i corrispondenti concetti metafisici fino a ridurli a idee insensate o inservibili. L´infinito aveva una speciale importanza in questo processo di degenerazione. Leibniz aveva rivoluzionato il calcolo con simboli che denotavano infinitesimi e differenziali, ma così facendo aveva introdotto l´infinito attuale nel dominio della pura quantità, là dove le teorie aristoteliche e tomiste avevano ammesso solo un infinito potenziale. Leibniz aveva così confuso l´infinito con l´indefinito, che è una mera ripetizione del finito, un processo senza attuazione o compimento. Ancora nella tarda antichità Boezio aveva chiamato "mostro di malizia" l´indefinito: una imperfezione che la natura, orientata alla finalità e alla completezza, vuole sempre evitare; opposto caricaturale del vero Infinito della metafisica, che era assurdo trasferire nel regno della quantità. Non a caso la matematica greca, per evitare simili confusioni, si era ben guardata dal parlare di infinito, anche nei procedimenti che sembravano implicarlo.
La scienza moderna, invece, ignora le dottrine tradizionali, dal Platonismo alla Kabbala, dal Taoismo al Vedanta, per le quali il reale è altro da ciò che appare, e va cercato fuori dai sensi e dal dominio della quantità, perfino fuori dal pensiero discorsivo. Pochi hanno denunciato con il rigore e la lucidità di Guénon il carattere potenzialmente satanico di questo moderno rovesciamento di prospettiva, di questa discesa negli inferi della materia e della quantità dove si creano confusioni di ogni genere, dove Satana scimmiotta Dio a suo piacere, più o meno come i numeri manipolati da una macchina imitano, ignorandone il simbolismo, i numeri divini della scienza pitagorica.
Per quanto assurda o eversiva, la critica di Guénon fa comunque pensare alla radicalità di interventi paralleli, nel primo Novecento, sui fondamenti della matematica e della fisica, da Brouwer a Weyl, da Hilbert a Schrödinger. Occorre poi tener conto che gli infinitesimi erano trattati come pure finzioni, pedine di un gioco convenzionale utili al calcolo ma di cui non si sapeva spiegare con chiarezza il fundamentum in re, la ragione dell´efficacia per una scienza della natura. E allora, per trattare l´infinito con i simboli del calcolo, ci si era ingegnati a ridurre la matematica a un gioco formale di regole e di simboli convenzionali, di segni senza significato. I motivi di questa deriva convenzionalista, che raggiunse un punto di esasperazione tra il XIX e il XX secolo, sono esposti in un importante trattato di Louis Couturat, De l´infini mathématique, ben noto a Guénon, il quale poteva anzi scorgervi il segno inconfondibile di una fase di dissoluzione tipica degli ultimi periodi di un ciclo.
Oggi è certo più difficile sostenere che la matematica sia solo un gioco convenzionale di simboli. Senza dubbio il calcolo scientifico e l´informatica teorica hanno spostato il significato delle formule su un terreno più reale, con una sempre più schiacciante ancorché misteriosa evidenza della loro utilità applicativa, grazie all´effettività di algoritmi materializzabili in appropriati meccanismi e processi di calcolo. Guénon vi avrebbe visto un estremo rafforzamento del punto di vista profano, ma questa effettività degli algoritmi dipende spesso, a sua volta, da antichi espedienti di calcolo che sembrano avere, con la metafisica tradizionale, un nesso ancora da decifrare. Dopo tutto, lo stesso Guénon riconosceva che gli eventi hanno sempre un valore simbolico e il punto di vista profano è solo una prospettiva moderna, in cui l´oblio della Tradizione non esclude che ogni cosa rimanga legata ai suoi princìpi.
Corriere della Sera 5.5.11
Manet
La luce del nero
Al Museo d’Orsay. Dalla religione all’erotismo, dal realismo al romanticismo L’artista che fuggiva (con polemiche) da ogni schema
diStefano Montefiori
La prima opera della grande esposizione «Manet, inventeur du Moderne» non appartiene al protagonista. Appena entrati nella mostra del museo d’Orsay, si viene accolti dall’ «Omaggio a Delacroix» che Henri Fantin-Latour presentò al Salone di pittura e scultura del 1864: due gruppi di pittori, tra i quali Édouard Manet, posano attorno all’autoritratto di Delacroix. Manet, il pittore realista della vita moderna parigina, accostato al maestro del romanticismo letterario. Una sfida, una sorta di dichiarazione di intenti che si dipana nel percorso successivo: mostrare l’artista nella sua complessità, nella sua capacità di coniugare realismo e romanticismo, attraverso nove sezioni che strappano Manet al riduttivo cliché di padre dell’impressionismo. «Manet è stato il più grande di noi, era in grado di fare la luce del nero» , disse Camille Pissarro a proposito del singolare interesse di Manet per il nero, che ancora una volta lo distanziò dall’ostracismo della tradizione verso il non colore. Il suo amico Claude Monet, per esempio, lo odiava tanto che il giorno del suoi funerali, agli inservienti che stavano per poggiare un panno nero sulla bara, il ministro Clemenceau gridò «No! No, niente nero per Monet» . Manet, invece, non aveva paura di estrarre la luminosità anche dalle tenebre. Nato a Parigi nel 1832 dal giudice Auguste Manet, Édouard venne indirizzato dal padre alla carriera di alto funzionario: invece di frequentare l’École des Beaux Arts, il giovane Manet fu costretto a imbarcarsi per un anno e a tentare poi l’ingresso all’École Navale. Per sua fortuna venne respinto e gli venne finalmente concessa la possibilità di seguire la sua indole entrando nello studio di Thomas Couture, uno dei grandi pittori dell’epoca. I suoi primi biografi, come Zola, hanno a lungo preferito sorvolare sugli esordi «conformisti» di Manet, suggerendo che nulla gli sarebbe rimasto dei sei anni trascorsi con Couture, accusato di essere uno dei troppi pompiers (pittori ufficiali) dell’epoca. Invece Manet ricavò da Couture un certo gusto per ritratti e studi meno accademici, rivelando subito la capacità di non lasciarsi ingabbiare in uno schema e di moltiplicare le fonti della sua ispirazione. Ecco poi la parte della mostra dedicata alla grande amicizia tra Édouard Manet e Charles Baudelaire, che però coniò la formula di «pittore della vita moderna» — che tanto sarebbe piaciuta a Manet — per l’illustratore Constantin Guys. Entra in scena Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, a cominciare dalla «Chanteuse de rue» fino alle due opere più celebri di Manet, «Le déjeuner sur l’herbe» e «Olympia» , dove il pittore crea scandalo accostando echi e tecniche della pittura classica a un realismo quasi fotografico e soprattutto a soggetti giudicati osceni. Nella colazione sull’erba, concepita dopo avere ammirato il «Concerto campestre» di Tiziano al Louvre, Victorine è nuda accanto a due giovani vestiti con abiti contemporanei ed eleganti, Gustave Manet (fratello del pittore) e l’amico scultore olandese Ferdinand Leenhoff; sullo sfondo, un’altra donna nuda (a posare fu sempre Victorine) si bagna nel fiume. «Un soggetto scabroso dipinto con riferimenti a Raffaello e Tiziano — spiega il curatore della mostra Stéphane Guégan —. Manet voleva portare il mondo moderno all’interno della grande tradizione. Per i critici, un tentativo insopportabile» . Rifiutato dal Salone ufficiale, «Le déjeuner sur l’herbe» venne esposto al «Salon des réfusés» , voluto nel 1863 da Napoleone III per dare spazio ad almeno alcune tra le 3000 opere respinte dall’Accademia delle belle arti. Ma anche qui il dipinto, poi giudicato uno dei maggiori capolavori dell’Ottocento, venne accusato di perversione per la presenza delle due figure femminili nude accanto agli uomini vestiti e di pessima fattura tecnica: non venne perdonato a Manet un uso, appunto, moderno, spregiudicato, della prospettiva. Due anni dopo, si replica con «Olympia» : dopo la Venere di Urbino di Tiziano o la Maya Desnuda di Goya, ecco Victorine Meurent ritratta nuda, il volto tra l’inespressivo e lo sfacciato e ai piedi del letto un allegorico gatto nero con la coda rialzata. Olympia era a quei tempi un classico nome da prostituta, e l’ambientazione ricorda le cartoline licenziose che circolavano sottobanco nei salotti parigini. Anche nella pittura religiosa, alla quale il museo d’Orsay dedica una sezione corposa, Manet sfida le convenzioni, dipingendo il Cristo più per eclettismo e volontà di variare i temi che per reale sentimento metafisico. Ultimo dei classici o primo dei moder- ni? Ambiguo, sempre. Protagonista assieme a Sisley e Pissarro del Salone dei rifiutati, nel maggio del 1874 Manet rifiutò però di partecipare alla prima esposizione degli «impressionisti» , dei quali pure era considerato il capofila. Critiche anche da questa parte, quindi, con Edgar Degas che arrivò a trattarlo da «disertore» . Ma anche in questa voglia di libertà, di indipendenza da correnti e movimenti collettivi, sta la modernità di Édouard Manet.
Corriere della Sera 5.5.11
L’eterno ritorno della creatività Nascono così i «rimasticatori»
di Francesca Bonazzoli
«Q uale gioia avreste provato nel vedere Velázquez. Da solo, vale il viaggio. I pittori di tutte le altre scuole, che sono intorno a lui al museo di Madrid, e molto ben rappresentati, sembrano tutti, in confronto a lui, dei rimasticatori. È il pittore dei pittori» . Così scriveva Manet in una lettera inviata nel 1865 da Madrid all’amico Henri Fantin-Latour. Manet diceva due cose: ci sono i rimasticatori, quelli che rifanno i maestri e ci sono i capofila, i pittori che fanno da modello per tutti gli altri pittori. Tertium non datur. Eppure Manet stesso imitò Velázquez, Murillo, Zurbaran e Goya del quale riprese la Maya nell’Olimpya. E che dire di quando, nel celebre «Déjeuner sur l’herbe» ricollocò la donna nuda che Giorgione aveva dipinto nella «Tempesta» nel suo picnic francese? Ma allora la domanda è: può «l’inventore del moderno» (come titola la mostra parigina, con una frase abusata e senza senso perché ogni pittore è moderno essendo tutta l’arte contemporanea) fregiarsi di tale merito se in realtà guarda e cita il passato con tanta precisione? Dove va collocato? Fra i «rimasticatori» o i pittori caposcuola dei pittori? Come conciliare, per esempio, il titolo della mostra parigina con queste righe di Emilio Radius: «Oggi, dopo mezzo secolo di fiera rivendicazione, rispunta una certa insofferenza per Manet. Adesso sono gli artisti di avanguardia, e non più i conservatori, a prenderlo di mira. Si tende a rimproverargli, per dirne una, la frequentazione di musei e, per dirne un’altra, gli si fa torto di non essersi messo decisamente alla testa dei primi impressionisti» . Sono parole che risalgono al 1945, quando nessuno si sognava già più di chiamare Manet «inventore del moderno» . La verità è che tutta l’arte nasce dall’arte e i pittori lo sanno bene a differenza dei critici pronti — oggi per questioni di promozione delle mostre, ieri per illudersi di avere fatto delle «scoperte» — a decantare supposte «modernità» e mirabolanti «anticipazioni» di questo o quel movimento (l’ultima che abbiamo sentita è stata la definizione di Arcimboldo come anticipatore del Surrealismo). Velázquez fu a sua volta prima un imitatore di Caravaggio, quando ancora viveva a Siviglia e poi, trasferitosi a Madrid, di Tiziano. Eppure Velázquez è stato un grande «inventore del moderno» , tanto è vero che Manet e non solo, due secoli dopo, lo imitava ancora trovandolo più «moderno» di se stesso e dei suoi contemporanei per esempio quando dipingeva i nani, i matti e i buffoni di corte. E un altro «inventore del moderno» , Picasso, è stato il più grande dei «rimasticatori» fino a produrre decine di studi su Las Meninas di Velázquez. E non solo, perché Picasso ha rubato persino ai suoi contemporanei Braque e Matisse. Insomma dove sta il confine fra «pittore del moderno» e «rimasticatore del passato» ? Oggi, poi, il gioco si è fatto se possibile ancora più intricato e persino pericoloso. Dopo i ready made di Duchamp— ossia gli oggetti trovati dall’artista già pronti, ricollocati nel contesto del museo e firmati come una propria opera d’arte— la citazione è infatti diventata appropriazione fino a sconfinare nel territorio scivoloso del plagio. È quello che è successo a John Baldessari, che lo scorso ottobre ha realizzato gigantesche copie di una scultura di Giacometti facendone manichini di lusso per borse e vestiti nella mostra allestita alla Fondazione Prada di Milano. Plagio, è stata l’accusa della Fondazione Giacometti. E la mostra è stata smontata. Dove sta il «moderno» ? Nella fotografia del presente o nella rivisitazione magistrale dell’antico? Se tutta l’arte nasce dall’arte, chi potrà mai creare nuove immagini? La risposta appartiene al potere magico dell’arte, a quell’ineffabile, inspiegabile e irragionevole slittamento di prospettiva che ha portato una sola del milione di immagini di papa Giovanni Paolo II a diventare un’icona attraverso lo sguardo di Cattelan che ne ha fatto «La nona ora» . O che ha portato una delle immagini più antiche del mondo, il teschio, a trasformarsi in «For the love of God» di Damien Hirst. Gli «inventori del moderno» non sono dunque che alchimisti rimasticatori, capaci di trasformare in oro il già visto.
«Il movimento per la pace e la testimonianza pontificale di Giovanni Paolo II hanno lavorato nel mondo» (sic...!)
il Riformista 5.5.11
«Chi è di sinistra non vuole la guerra»
Fausto Bertinotti.«Il Pd deve prendere atto del- la volontà del suo popolo, altrimenti non può rinascere. La soluzione in Libia va trovata a livello istituzionale affron- tando il problema della natura delle Nazioni Unite».
di Francesco Persili
http://www.scribd.com/doc/54675828