Casini apre a Bersani
Dopo il voto, il governo rischia in Parlamento
Il leader Udc: «Opposizioni più vicine perché questa deriva non ci piace»
Chiuse le amministrative, la maggioranza dovrà affrontare in Aula la verifica chiesta dopo il rimpasto da Napolitano E sulla nuova legge elettorale la Lega gioca su due fronti
di Simone Collini
Fino all’ultimo Silvio Berlusconi ha detto che non ci sarà una crisi di governo, quale che sia il risultato del voto di oggi e domani. Ma la coalizione che perde pezzi alla vigilia dei ballottaggi e l’atteggiamento tutt’altro che rassicurante della Lega in questa campagna elettorale (in particolare tra il primo e il secondo turno) sono brutti segnali per il premier. Soprattutto ora che sul fronte dell’opposizione inizia a delinearsi l’alleanza tra progressisti e moderati proposta da Pier Luigi Bersani. Pierferdinando Casini non solo dopo aver chiuso la campagna elettorale a Macerata insieme a Massimo D’Alema ha mandato a dire (con parole praticamente identiche a quelle ripetute in questi giorni dal leader del Pd) che «se il governo verrà nuovamente bocciato dagli elettori, da lunedì si volti pagina». Ma ieri mattina il leader dell’Udc ha lanciato un ulteriore messaggio, a beneficio degli elettori del Terzo polo: «Se c’è un grande avvicinamento tra le forze dell’opposizione, succede perché abbiamo constatato una deriva che non ci piace». Basterà a far votare ai suoi i candidati del centrosinistra? Si vedrà domani sera, ma intanto un altro passo verso l’«alleanza costituente» auspicata dai vertici Pd è stato compiuto. Ci sarà tutto il tempo per compierne altri visto che la legislatura va a scadenza naturale nel 2013? Più nessuno, forse escluso Berlusconi, ormai scommette su tempi così lunghi. La Lega, per bocca di Umberto Bossi, ha già detto che «non si farà trascinare a fondo». E anche nel Pdl sono in molti ad ammettere dietro promessa di anonimato che così non si può andare avanti (si fanno meno scrupoli a criticare apertamente lo status quo Scajola, Formigoni, Alemanno, Pisanu...). Così, se è vero che il destino del governo non verrà deciso direttamente dalle urne di Milano e Napoli (e Cagliari e Trieste e Arcore...) ma dai voti in Parlamento, è anche vero che a Montecitorio il premier rischia forte.
Nell’immediato una botta d’arresto per il governo potrebbe passare per il voto chiesto a inizio mese da Giorgio Napolitano per palesare l’esistenza di una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne nel 2008. La verifica post-rimpasto non è però ancora stata calendarizzata dalle conferenze dei capigruppo di Camera e Senato, e non è detto che il voto non sia fissato dopo il referendum del 12 e 13 giugno: la maggioranza è percorsa da troppe fibrillazioni e vuole prendere tempo, mentre l’opposizione non ha interesse a vedere subito vanificato il successo alle amministrative da un voto parlamentare che grazie alla «compravendita» più volte denunciata rischia di essere scontato.
Ma se anche la maggioranza dovesse superare questa prova parlamentare, non è detto che gli ostacoli sul cammino di Berlusconi siano finiti. Il ricorso al voto anticipato è per l’opposizione la via privilegiata, ma non la sola. Le indiscrezioni sulla Lega interessata a cambiare la legge elettorale uscite da fonti interne al Carroccio e smentite soltanto 48 ore dopo da Bossi per evidenti ragioni sono tutt’altro che infondate. Abboccamenti tra dirigenti leghisti ed esponenti dell’opposizione ci sono stati (l’argomento è stato toccato a metà settimana anche in un breve colloquio a Montecitorio tra Bersani e Maroni). Se la pratica andrà avanti e se sulla legge elettorale verrà verificata l’esistenza in Parlamento di una maggioranza alternativa, difficilmente Berlusconi potrebbe opporsi allo scioglimento delle Camere. Dopodiché spetterebbe al Quirinale appurare attraverso le consultazioni se ci sia anche una maggioranza in grado di sostenere un nuovo governo o se non resti che andare al voto. Sono ipotesi, su cui l’opposizione già ragiona da un po’. In queste ore lo sta facendo con più ottimismo. Che potrebbe aumentare ancora a partire da domani sera.
l’Unità 29.5.11
Conversando con Roberto Roversi
«Contro le miserie d’Italia servono idee e volontà per una grande rigenerazione»
di Pietro Spataro
Sono profondamente deluso. Ma i miei trenta testi non sono un’invettiva ma una specie di canzoniere d’amore per l’Italia. Penso che dobbiamo fare tutto affinché il Paese si risvegli». Roberto Roversi, poeta e scrittore, ha ancora l’ostinazione del vecchio partigiano. Una piccola casa editrice, «Sigismundus», sta per mandare in libreria un suo libro di poesie che non a caso si intitola Trenta miserie d’Italia e che è un viaggio nel declino e un inno alla speranza.
Lei scrive che «l’Italia è al fioco bagliore di disperse candele». Un paese disunito? Vedo un’Italia tenuta insieme ancora dallo sputo di Garibaldi, ma basta poco perché si scolli tutto e si finisca a scatafascio. Da allora ne abbiamo passate tante, dalle guerre mondiali al fascismo, e oggi non vedo riferimenti concreti, né di uomini né di idee. E’ un periodo disastrato. E questo obbliga noi vecchi al senso di responsabilità e più giovani a tenere duro.
Dopo il ventennio berlusconiano che cosa resta di questo Paese? Guardi, io credo che sul ventennio berlusconiamo carichiamo tutte le responsabilità della situazione che invece sono anche nostre. Abbiamo perso occasioni per rinnovarci, siamo rimasti appollaiati sulla spalla di Berlusconi come piccioni viaggiatori. Il problema non è solo dell’«infame» cavaliere che il destino ci ha mandato. Lui è riuscito ad andare avanti perché non ha avuto la giusta contrapposizione. Abbiamo visto troppa piattezza di proposte, troppo parlare...
È anche un problema di messaggio?
Certo, la lingua dei politici ma anche dei giornalisti è generica, deprimente. Non dà alcuno stimolo. Ricordo ancora i comizi del dopoguerra, quando Di Vittorio veniva a Bologna, lui con quelle manone, e parlava. E dopo qualche minuto vedevi i militanti piangere. Ora, io non dico che la politica deve far piangere, ma commuovere sì, toccare il sentimento.
Un suo verso dice: «Hanno memorie leggere i mandarini di casa nostra». Può vivere una Patria senza la memoria della propria storia?
Assolutamente no. Il problema è che l’Italia non conosce se stessa. Diciamo che non è mai riuscita a invitare se stessa a una cena a lume di candela. Non è riuscita a fare i conti con il fascismo, mentre la Germania li ha fatti con il nazismo. Ci siamo passati sopra a piedi nudi e infatti ci ritroviamo i problemi di allora. Questo Paese non cura se stesso e poi pretende di essere grande. Allora, dobbiamo rovesciare tutto perché il mondo cambia e noi rimaniamo fermi. Guardiamoci indietro: c’è stata la Resistenza che dopo il fascismo ha risollevato tutto. Ricordo sempre la frase che mi disse un montanaro: questa è cosa che non finisce qui. Voleva dire che era l’inizio del cambiamento e del futuro. Oggi tutto è rimasto dimezzato. Ci ritroviamo con un pugno di polvere in mano. Ma la polvere, se soffiata bene, può finisce negli occhi degli avversari. Per questo dico che la speranza non muore.
La storia d’Italia è stata anche storia di stragi impunite o inspiegate. Lei li chiama «buchi neri»... Sì, abbiamo avuto tante disgrazie. Ma noi dobbiamo insistere insistere insistere. Aprire gli occhi sulla storia che è stata anche bella e commovente. In America chissà quanti film ci avrebbero fatto. La patria è terra dei padri, della famiglia: dobbiamo riconquistare questa idea e trasmetterla ai più giovani. Non bastano le trombe e le fanfare delle celebrazioni.
Lei parla di Palazzo ed è un richiamo a Pasolini. Scrive: simulacri di uomini tomba che ridono liberi a Roma. Chi sono? Sono i politici di oggi, quelli che definirei mezze calzette. Uomini improvvisati che appaiono in tv a parlare con le stesse parole e con le stesse scarpe lucide comprate negli stessi negozi. Li vedo incongrui. Piatti. Il simbolo di una separazione tra il cittadino e la classe politica?
Vedo una classe politica non partecipante. Parla parla e copre gli spazi senza dire nulla. Berlusconi in questo è maestro, riempie tutti gli spazi e copre tutto. Quando arrivò la tv in Italia regalammo un televisore alla nonna. Qualche mese dopo andai a trovarla e mi accorsi che sapeva tutto di boxe, lei che non se ne era mai interessata. Capii perché: il pomeriggio in tv davano questi grandi incontri di pugilato. Ecco, Berlusconi ha capito questo meglio di altri.
Perché dice che l’«indifferenza è suprema signora del regno»? Perchè il nostro male. Non sappiamo guardarci allo specchio, vedere le nostre contraddizioni e i nostri desideri. Siamo ormai un paese degradato. Dobbiamo cercare strade nuove, portare con noi i giovani che vedono deluse le loro aspettative perché le segreterie di partito pensano ad altro. Ho scritto sulle «trenta miserie d’Italia» perché amo questo Paese. Le occasioni, però, sono urgenti e i tempi stretti, ormai siamo al limite. Sembra quasi che lei dica che siamo spacciati...
Assolutamente no. Vedo semmai un paese bloccato a un bivio, che non sa dove andare perché qualcuno ha tolto i cartelli stradali. Servono idee e volontà. Vengano fuori perchè l’Italia ha bisogno di una grande rigenerazione. Proprio per questo mi accanisco di più con la mia parte. Deve saper aprire una alternativa concreta verso il futuro.
Non crede che dai ballottaggi possa aprirsi uno spiraglio di cambiamento? La speranza è spinta a vivere. Fossi un cittadino di quelle città andrei a votare senza dubbi. Ma dico la verità: il dopo non so aspettarmelo ancora. Però mantengo la mia fiducia anche in momenti difficili: c’è un popolo che aspetta novità. La speranza ci vuole altrimenti sei costretto a scappare come una lepre. Quando questi momenti difficili saranno passati resteranno però le macerie. Lei dice «qualcuno raccoglierà tra i sassi le nuove canzoni». Chi sarà?
Vede, io abito a Bologna tra via Marconi e via Bassi. Finita la guerra dalla finestra vedevo solo macerie e morti. Poi le macerie sono state rimosse, i palazzi ricostruiti, nelle strade è tornata la vita. Oggi come allora, ci vuole la volontà di rimuovere le macerie e uscire dal buio. Per questo dico che solo una politica rinnovata può attirare i giovani che oggi non hanno né riferimenti né figure importanti davanti. Quando siamo tornati dalla guerra noi giovani avevamo invece i nostri punti di riferimento, le nostre idee, i nostri libri. E questo ci ha rivitalizzato. Bisogna fare la stessa cosa: rimettere in moto la voglia di vivere e riconquistarsi il futuro. La nostra generazione ha le responsabilità di questi guasti. Ora dobbiamo consegnare ai più giovani il bastone della storia. Per noi non c’è più tempo, purtroppo.
il Fatto 29.5.11
Di piazza in piazza
I giovani d’Europa si svegliano sul web e si mobilitano per chiedere lavoro e dignità
di Alessandro Oppes
Madrid. Due settimane. Quasi niente, ma anche un’eternità. Soprattutto se si pensa che lo straordinario spettacolo di un movimento nato dal nulla, capace di occupare in contemporanea decine di piazze schivando pesanti ostacoli legali, e di raccogliere in un baleno mezzo milione di simpatizzanti sui social network, è un fenomeno del tutto inedito nella storia d’Europa. Tanto da aver subito provocato – in quello che qualcuno vede già come l’inizio di un inarrestabile “effetto domino” – il primo significativo contagio nel Paese che è il vero “grande malato” del continente: le migliaia di “indigna-ti” greci che da giorni protestano sulla piazza Sintagma di Atene contro le durissime misure di austerità del governo Papandreou, hanno risposto a tempo di record all’appello che arrivava dalla Puerta del Sol. “Svegliatevi”, hanno detto loro gli amici spagnoli, ormai convinti che a Madrid “stiamo riscrivendo la storia”. Non ci hanno pensato due volte: una pagina su Face-book, una martellante campagna su Twitter, e anche la Grecia si è messa in moto, senza etichette partitiche, con la consegna irrinunciabile al pacifismo, e poche idee chiare capaci di convogliare nelle piazze la rabbia popolare.
Wiki-revoluciones, dal clic alla protesta
È L’EFFETTOmiracolosodelle wiki-revoluciones, come le ha battezzate il sociologo Manuel Castells. Rivolte digitali frutto di un lavoro collettivo, dove alla fine è impossibile attribuire il merito o la colpa di quello che sta accadendoaunsingoloindividuo,oa un gruppo ristretto di persone. Senza leader, a differenza della politicatradizionale,maconuna capacità di far circolare idee e proposte a un ritmo forsennato grazie a Internet. E poi basta un clic del mouse per far scattare il passaggio dal virtuale al reale. Dal computer alla piazza. Il problema, semmai, viene dopo. E in Spagna stanno cominciando a pensarci seriamente. Perché sta tutto qui il senso della sfida, tanto grande da provocare una sensazione di vertigine a chi ci si è trovato in mezzo. Come consolidare e rendere produttiva un’energia che nessuno immaginava potesse esplodere con la forza che si è vista in questi quindici giorni? In altre parole: cosa vogliono fare da grandi i protagonisti del movimento “15M”? Ne discutono senza sosta, giorno e notte, in decine di assemblee, non più solo nelle grandi piazze dei centri storici (proprio ieri a Madrid hanno convocato 250 riunioni in tutti i quartieri della capitale e nei comuni vicini).
Dal nucleo iniziale che ha dato vita alla protesta del 15 maggio – Democracia Real Ya – diventato ormai solo una piccola parte di un meccanismo molto più vasto e complesso, era partita una proposta di programma in otto punti,nellaconvinzionechedaquella bozza si potesse arrivare a un consenso generale. Si andava dall’eliminazione dei privilegi della classe politica, con la pubblicazione obbligatoria dei patrimoni e l’ineleggibilità per gli imputati di corruzione, a una serie di misure contro la disoccupazione, tra cui il pensionamento a 65 anni, agevolazioni per le aziendeconminorepercentuale di contratti part time e proibizione dei licenziamenti collettivi nelle imprese in attivo.
Da una serie di misure per favorire il diritto alla casa, alla soppressione di posti inutili nella pubblica amministrazione. Dai provvedimenti fiscali (aumento delle imposte sulle grandi fortune, tassa sulle transazioni internazionali) a un controllo più rigido sul sistema bancario, con la nazionalizzazionedegliistitutiin difficoltà e la proibizione dei piani di salvataggio pubblici. E poi ancora: riforma della legge elettorale in senso proporzionale e referendum vincolanti su questioni di grande interesse.
Tra happening e rivoluzione
PROGRAMMA vastissimo, forse troppo, tanto che alla fine hanno deciso di limitarlo, almeno in partenza, a quattro punti essenziali:riformaelettorale,lotta contro la corruzione, separazione effettiva dei poteri, creazione di meccanismi di controllo della cittadinanza sulle decisionidellapolitica.Ilguaioèche, con le regole snervanti della democrazia strettamente assembleare che gli indignados si sono imposti, qualcuno comincia a dubitare che si possa arrivare a decisioni concrete. Ancora è presto per capire se ci troviamo di fronte a una versione riveduta e aggiornata del Maggio francese 1968 o, al contrario, a un grande e inconcludente happening. “Meno circo e più rivoluzione”, ammonisce un grande striscione affisso alla Puerta del Sol. Ma lì, nel cuore della protesta, tra tende da campeggio e grandi stand, banchetti per la raccolta di firme e biblioteca, ufficio informazioni e capannelli dove chiunque prende in mano un megafono ed espone le proprie ragioni – al vecchio stile dello Speaker’s Corner londinese – si vede ormai un po’ di tutto. Compreso l’angolo “dell’amore e della spiritualità”, con sessioni di yoga e tai chi, massaggi orientali e momenti di riflessione. Con le telecamere dei grandi network puntate addosso – dalla Cnn alla Bbc ad Al Jazeera – i giovani della Spanish Revolution sentono il peso di una responsabilità forse troppo grande. Dimostrare che “costruire una democrazia migliore” è possibile. I migliori sociologi osservano, in parte smarriti, e cercano di capire.
Book bloc e nuovi poveri
C’È CHI, come Javier Elzo, specialista nel comportamento e nei valori della gioventù all’Università di Deusto, si chiede: “Cos’è rimasto dell’indignazione degli studenti francesi che lo scorso anno si ribellarono contro la riforma del sistema pensionistico?”. O, per citare un caso più recente, cosa resterà della mobilitazione dei book bloc britannici, in rivolta contro l’aumento delle tasse universitarie? In Portogallo, un movimento nato appena due mesi fa, “Geraçao a rasca” (generazione nei guai) sembra aver già esaurito la sua carica innovativa. Ma lo scontento per un modello economico che crea emarginati, precari e nuovi poveri, si è ormai esteso su scala continentale. E non è più limitato ai Paesi “fanalino di coda”. Persino la solida Germania scuote alle fondamenta la classe politica. Per il momento penalizzando alle urne i cristiano-democratici della cancelliera Angela Merkel, e premiandoiVerdicomenoneramai accaduto in passato. Il futuro dirà se il vento di Madrid, con le sue raffiche per ora irregolari ma ancora poderose, sarà capace di raggiungere l’intera Europa.
il Fatto 29.5.11
L’autunno della nostra precarietà
risponde Furio Colombo
“Caro Colombo, sono un giovane studente di 21 anni e oggi è stato il mio primo e ultimo giorno di lavoro. Quante labbra coetanee hanno già pronunciato queste parole? Oggi ho visto una lotta di classe ridotta alla beffa di un precario addetto al servizio che deve contattare e persuadere i titolari di una azienda. Ho sentito il potere imprecare dall’altra parte del telefono contro i miei coetanei per la loro molestia di Testimoni di Geova da call center, mentre il datore di lavoro incitava il personale a essere ‘smart’. Non vi è altro aggettivo o spia più puramente linguistica che possa dare l’idea del baratro di incomunicabilità di una generazione dissociata. Mi scusi, ma rabbrividisco all’idea che il nostro tempo, il tempo della immensa, giovane primavera dei popoli arabi, ci abbia inchiodato a sfiorire nell’eterno autunno della nostra precarietà”. Danilo Chillemi mi scrive questa lettera al ‘Fatto’ lo stesso giorno (19 maggio) in cui leggo su un altro giornale: “Perdere il lavoro o non trovarlo nemmeno è una esperienza che coinvolge ormai milioni di persone. Nell’Italia tornata alla disoccupazione in doppia cifra, il fenomeno dei senza lavoro sta diventando devastante”. ( Emiliano Fittipaldi, L’Espresso). Subito dopo (23 maggio) vedo le immagini dei lavoratori di Castellammare di Stabia e di Sestri Ponente e di tutti i cantieri navali italiani, rinomati nel mondo, una sorta di aristocrazia e di privilegio operaio, li vedo buttarsi in strada contro la polizia, contro i simboli del potere, contro i muri, contro l’ostacolo materializzato dal nulla, come in un tremendo effetto speciale. C’era il lavoro e non c’è più, scomparso, finito, come se tutti avessero vissuto anni o decenni di illusione, una storia di fantasia che finalmente viene riportata a una solida realtà adulta. Credo che questo faccia impazzire gli operai (vedi le iImmagini della rivolta nei più famosi cantieri navali italiani il giorno dell’annuncio ).
DIRE LORO che questa, dei senza lavoro, è la vita, che il resto adesso non c’è, basta, finito, e smettiamo di parlare di cose inutili, credo che questo porti alla esasperazione i giovani che oscillano fra distruggere e scomparire. Se insistono nel presentare come normale la loro richiesta viene la domanda buttata lì con realistico buonsenso: “Ma tu cosa vuoi?”. È' già abbastanza brutto ammalarsi, ma ciò che è intollerabile è l'irrisione del medico. Quelli che si occupano a tutti i livelli della buona salute del lavoro non fanno che ripetere che la tua uscita dal posto che occupavi consente finalmente l’equilibrio, permette il “risanamento” ( si dice proprio così) e porta a un futuro migliore di cui non si hanno particolari, ma che richiede assolutamente che tu stia fuori dalla fabbrica o dall’ufficio. Coloro che stanno o restano fuori non possono essere d’accordo. Il loro numero non tende a diminuire. La cura sembra fare altri effetti, che influiscono positivamente sui bilanci privati e, quanto pare, anche su quelli pubblici, ma in un modo che non ti riguarda. Qui sono cifre chiuse dentro il tabernacolo dei “conti pubblici”. Chiedono fede, ma chi perde tutto e non riceve nulla, da Atene a Madrid a Castellammare di Stabia, non può avere fede. Spreco, adesso, è tenere un posto letto in più in un ospedale, per quanto affollato , decidendo che non ci sarà mai più necessità di quel posto letto. Se c’è, basterà il corridoio, la barella o la sedia per l’ingombro del cittadino “codice rosso”, come accade ogni notte in molti ospedali. Buona gestione è concentrare e allargare l’area di intervento dei governi solo dove la ricchezza produce ricchezza, e, fatalmente, sempre e solo nelle mani di chi è addetto a manovrare ricchezza. In questa vasta riorganizzazione del mondo, non si è stabilito se e dove devono essere i punti democratici di controllo. Fatti essenziali, come la distribuzione della ricchezza non sono più di competenza della democrazia.
CHE QUESTO scenario sia vero lo testimonia il premio Nobel per l’economia Paul Krugman sul New York Times del 21 agosto 2010: “Coloro che dettano al mondo la politica economica si comportano come i sacerdoti di oscuri culti antichi, e chiedono a ogni svolta – che chiamano “cambiamento” – dei sacrifici umani, come per placare la rabbia di un Dio invisibile”. Ecco il problema, per il giovane Danilo che scrive a questo giornale, nel suo primo e ultimo giorno di lavoro, per gli uomini e le donne di Fincantieri, che fino a un momento prima lavoravano a fabbricare le navi più richieste nel mondo, e un momento dopo sono facinorosi che ingombrano le strade e mettono a rischio la polizia. Ecco il problema per i politici vecchi e nuovi, che cantano e ballano nei talk show ma non hanno mai deciso di chiudere da un’ora all’altra la Fin-cantieri, o metà degli ospedali, hanno solo eseguito ordini, così come hanno rinunciato, senza dirlo, a ogni progetto di case popolari, di sostegno ai disabili, di carceri vivibili, perché queste decisioni non spettano più a loro. Prima di essere travolti da un mondo industriale che crolla e rischia di lasciare solo tracce grandiose e finite come il Partenone, qualcuno non vorrà sapere chi sta decidendo che il prossimo mondo sarà di governi inutili, di politica sterile, di torri private altissime, tutta la ricchezza in alto e al sicuro, tutta la povertà in basso perchè, si dirà, “I poveri sono rimasti indietro?”.
Repubblica 29.5.11
Le pensioni dei precari e il futuro dei ragazzi
di Miriam Mafai
«Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati, rischieremmo un sommovimento sociale».
Così qualche mese fa dichiarava, a margine di un convegno, Antonio Mastrapasqua, presidente dell´Inps. E dunque, per evitare il deprecato sommovimento sociale, in alto è stato deciso che i precari non potranno, come gli altri lavoratori, avere accesso dal sito dell´Inps ai dati che simulano le loro future prestazioni pensionistiche. Meglio non sapere… O, per essere più precisi, meglio non far sapere alle centinaia di migliaia di precari che, quando andranno in pensione riceveranno 100, 200, o, nel migliore dei casi, 300 euro al mese.
Insomma i pensionati di oggi, la metà dei quali riceve 500 euro mensili, come risulta dall´ultimo rapporto Inps, appariranno, ai precari che domani andranno in pensione addirittura dei privilegiati.
Martin Amis, lo scrittore inglese autore di successi come "Cane giallo" e "Il treno della notte" ha immaginato e descritto recentemente lo spettacolo mostruoso che potrebbe sconvolgere in un futuro non molto lontano la nostra società, affollata da vecchi poveri e malati privi di pensioni decenti e decenti mezzi di sussistenza ai quali verrebbe proposto, come unica soluzione possibile, un tranquillo suicidio: «Ad ogni angolo di strada dovrebbe esserci una cabina dove, se hai l´età giusta, puoi prendere un Martini o la pastiglia della buona morte…».
La questione precarietà, mi ricorda Marianna Madia, la deputata del Pd che da tempo si occupa del problema, è ormai centrale nella crisi italiana. Si tratta di centinaia di migliaia di ragazze e di ragazzi (delle volte nemmeno più veramente "ragazzi") generalmente dotati di buoni titoli di studio e di grande volontà di fare, assunti e licenziati nelle aziende private come nella scuola, nelle Università, persino negli istituti di ricerca, con stipendi miserabili, destinati a pensioni da fame.
Per questo, tutto sommato, forse fa bene l´Inps a negare loro l´accesso ai dati che simulano le future pensioni. Ed è, diciamo la verità, da irresponsabili dichiarare, come ha fatto ieri il presidente Antonio Mastrapasqua che «i conti sono a posto e i giovani avranno la loro giusta pensione». A meno che il presidente Mastrapasqua non consideri «giusta» una pensione di otto euro al giorno...
Il problema non è nuovo.
Forse qualcuno ricorda una parola d´ordine: «Meno ai padri e più ai figli» che ebbe qualche fortuna una ventina d´anni fa. Una parola d´ordine che, per trasformarsi in realtà, avrebbe avuto bisogno di una profonda riforma del nostro welfare e di una riorganizzazione del mercato del lavoro.
Niente di tutto questo è avvenuto, non solo per la sordità dei governi di destra che si sono succeduti nel Paese, ma anche per i ritardi e le incertezze della opposizione, incapace di avanzare proposte condivise e su queste di organizzare le necessarie battaglie.
Molte piazze d´Europa, in queste settimane, hanno visto manifestazioni e occupazioni di coloro che si autodefiniscono "indignati". Sono prevalentemente giovani che si vedono sbarrata la strada del lavoro e dell´affermazione personale. In Spagna, in Inghilterra, in Grecia i giovani "indignati" occupano la piazza e protestano. Ma chi li ascolta?
Chi riuscirà a trasformare la loro indignazione in protesta, proposta e battaglia politica?
Se non ci sarà questa capacità, anche il movimento degli "indignati" rischia di rifluire, e centinaia di migliaia di giovani (anche nel nostro Paese) dovranno rassegnarsi a un destino di lavoratori precari e, più tardi, in pensionati da 100, 200, 300 euro al mese.
Repubblica 29.5.11
L’autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra
di Curzio Maltese
Crozza dà il via sulla bat-casa, poi un diluvio di gag via Internet
Un cortometraggio irride agli incubi di un elettore che immagina Milano in mano ai "rossi"
Sul blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti, tanti messaggi sarcastici
Esplode un arcobaleno in piazza del Duomo, dopo la tempesta. Scoppia la voglia di ridere di Milano, in fondo a una campagna mai così brutta, sporca e cattiva. Ma poi è stato davvero così? Gli insulti fanno sempre notizia.
Ma la vera novità della campagna per il sindaco di Milano, almeno nelle ultime settimane verso il ballottaggio, è stato il ritorno di un´arma fra le meno frequentate dalla politica italiana: l´ironia. Sulle magliette arancioni dei ragazzi in piazza del Duomo. «Sono senza cervello». «Milano libera tutti». Nelle radio, nei capannelli, nei bar, soprattutto sulla rete, a fiumi, come antidoto ai veleni della televisione. È accaduto di colpo, come una liberazione. Il film horror della destra si è rovesciato in uno «Scary movie» da sbellicarsi. Le accuse sempre più gravi e incredibili mosse al mite Giuliano Pisapia si sono ribaltate, attraverso la parodia, nella principale fonte di propaganda a suo favore.
Il più riuscito esempio di questa parodia della paura è il video oggi più cliccato su Internet. «Il favoloso mondo di Pisapie», un cortometraggio gioiello. Pochi minuti in cui si raccontano i tormenti e gli incubi di un elettore indeciso che prova a immaginarsi la Milano in mano ai «rossi». Pisapia che ringrazia dai manifesti gli amici di Al Qaida, consegna le chiavi della Torre Velasca ai centri sociali, accoglie sulle rive dei navigli le barche dei clandestini. In una Milano dove i multisala proiettano soltanto film di Nanni Moretti, i parchi pullulano di omosessuali tossicomani, gli impiegati del Comune distribuiscono eroina zona per zona, si paga l´Ecopass anche per andare a Sesto San Giovanni. Fino all´inevitabile chiusura con furto d´auto.
Il clima alla Tarantino, anzi da vecchio film con Luc Merenda («Milano trema…») era un´occasione troppo ghiotta per le schiere di comici impegnati col candidato di sinistra. Dal principio alla fine la satira, da Dario Fo all´ultimo blogger, è stata un elemento fondamentale della campagna milanese, per quanto ignorato dai media a caccia di titoloni. Fino ai molti sorrisi della serata di chiusura, sul palco del Duomo, con la parodia papale di Lella Costa («Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e dite loro che la manda Pisapia»), le imitazioni di Marcorè, la verve di Bisio, l´elenco esilarante in finto stile Saviano di Massimo Cirri sui motivi per non votare Pisapia: «Primo, ha inventato le zanzare…».
Il vero comico sceso in campo nel voto di Milano non è stato Beppe Grillo, sempre meno divertente. Piuttosto Maurizio Crozza, dal quale infatti Pierluigi Bersani ha deciso di chiudere la campagna, con un duetto memorabile in cui il segretario del Pd, con tempi comici perfetti, ha accettato di ripetere le celebri frasi fatte luogocomuniste. E dunque «ragazzi, non siamo mica qui a tagliare i bordi ai toast», «non siamo qui a spalmare l´Autan sulle zanzare», «a smacchiare i giaguari», «a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole» e via delirando.
A Crozza va del resto il merito d´aver colto per primo, a Ballarò, le potenzialità comiche della strategia della paura. Quando per esempio, dopo aver illustrato le cattive abitudini dell´avvocato mariuolo («Era lì che svitava un´autoradio…»), ha lanciato l´appello: «Ma è possibile che con un simile delinquente in giro per Milano, Batman se ne stia a casa e non intervenga?».
Perché la vera svolta umoristica della campagna di Milano è venuta, come spesso capita, da un fatto vero. La scoperta della bat-casa del bat-figlio della bat-sindaco Letizia Moratti. Una vicenda che ha rovesciato il clima cittadino. Non solo e non tanto per la portata dell´abuso edilizio, quanto per il fragoroso abuso di cattivo gusto. Davanti a quelle immagini del loft da Gotham City, al dark tinello e alla piscina d´acqua di mare, si poteva scegliere se scandalizzarsi o scoppiare a ridere e i milanese hanno optato per la seconda ipotesi.
Da allora è scattata la rivoluzione dell´ironia, la mossa da judoka che ha usato l´aggressività dell´avversario per restituirla come boomerang comico. Il blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti e diffusore di terrificanti leggende metropolitane sull´avversario «comunista», è stato invaso di messaggi grotteschi. Una piccola antologia del buonumore, con in cima l´anonimo rapper di «Non trovo più Red Ronnie, l´ha preso Pisapia». La parodia è diventata l´unica forma efficace di reazione ai colpi troppi bassi di una politica troppo volgare e menzognera per esser più presa sul serio. Per le strade di Milano tutti, perfino qualche elettore di destra, s´è messo a canticchiare le parodie musicali di Elio e Le Storie Tese o della ormai mitica Sora Cesira di «Incarcerabile», variazione di Laura Pausini dedicata naturalmente a lui e ai suoi incubi: «Perché se vince Pisapia/ temo tu debba andare via».
È presto per dire se da Milano partirà la risata capace di seppellire la politica della paura e del rancore. Negli ultimi anni l´ironia, tanto più contro Berlusconi, non ha portato fortuna. A cominciare dal Mino Martinazzoli del ‘94, che al Cavaliere sventolante fantasmagorici sondaggi («Il 65 per cento degli italiani mi vuole premier»), aggiungeva: «Risulta anche che il 99 per cento dei cinesi lo voglia imperatore». Ma i tempi cambiano, il vento politico fa il suo giro, i linguaggi invecchiano e soprattutto la rete, Facebook, Twitter, i blog fanno sembrare decrepita le risse televisive. E questa sì è una novità seria.
«la madre del bambino morto a
Passignano è una brava psicologa dell’infanzia, il padre è sempre stato
un uomo tutto d’un pezzo, gli amici lo chiamano «l’orologio svizzero»
per quanto è preciso, pignolo, scrupoloso»
La Stampa 29.5.11
L’attenzione e i sentimenti
di Lorenzo Mondo
Rimuovendo lo sgomento per i bambini morti nell’auto dove erano stati dimenticati dai rispettivi padri, torno a interrogarmi sulla singolarità dei due eventi verificatisi in successione. Sembra di primo acchito una tragica beffa il fatto che il genitore di Passignano sul Trasimeno ignorasse ciò che era avvenuto in precedenza a Teramo e che - sappiamo col senno di poi - avrebbe prefigurato il suo destino. In realtà, siamo soliti attribuire a giornali e televisione una invasività che riguarda una parte cospicua ma non totalitaria della popolazione. Un uomo così «distratto» sul figlio poteva esserlo anche nei riguardi dell’informazione.
Procedo, annaspando, con qualche altra osservazione. Sarà capitato al padre di Teramo, che è un veterinario, di commuoversi per un cagnolino abbandonato al sole nell’abitacolo di un’auto, ma questo non lo ha aiutato a stabilire una connessione con la sorte del figlio. Ancora, entrambi i genitori erano soliti accompagnare i bambini all’asilo, e resta inspiegabile che non sia scattato in loro l’automatismo salvifico che si registra in casi meno importanti. Sono questioni di dettaglio, mentre suscitano perplessità i commenti rilasciati da alcuni analisti della psiche. Dicono che non c’è da scandalizzarsi per simili dimenticanze, che il nostro cervello attraversa fasi di amnesia e che, insomma, potrebbe toccare a tutti di soggiacere a situazioni così abnormi. Mi sembra, con tutto il rispetto, che stiano esagerando, che siano condizionati da un sottaciuto e assolutorio sentimento di pietà: quello espresso d’altronde da una delle madri sventurate. Lungi dall’incrudelire, mi sforzo di dare il giusto peso alle piccole vite cancellate, tentando di capire. Mi appiglio semplicemente alle parole riequilibratrici di un luminare: tutto diventa possibile «quando siamo assorbiti da pensieri, emozioni e preoccupazioni assillanti che distolgono la nostra attenzione e scalzano altri eventi». Possiamo cioè ipotizzare, con beneficio d’inventario, che i due genitori siano vittima di una frenesia che insidia le nostre esistenze: la preoccupazione per il lavoro, il mutuo da pagare, le vacanze da programmare, il confronto con una aggressività che si esprime perfino nelle convulsioni del traffico. Tutto ciò che porta a obliterare i sentimenti e gli affetti, a non concedergli il primo posto nella nostra vita. Se colpa c’è, è in una disattenzione che si produce per gradi e viene da lontano, prima di manifestarsi nelle vampate omicide del solleone.
Repubblica Lettere 29.5.11
Quel torpore dei genitori pericoloso per i figli
di Tina Lepri
Ancora una vittima della «distrazione». Nel giro di pochi giorni la piccola Elena e Jacopo di 11 mesi morti nelle auto infuocate, dimenticati dai padri. Per gli psichiatri «a una mamma non può succedere: i papà sono sempre più fragili a causa di stress e black out mentali». Penso invece che fatti simili possano accadere, quando non abbiano altre drammatiche motivazioni, a padri e madri. Nell'arroventato caos del traffico si vedono fagottelli di bambini addormentati nelle auto in marcia e si avverte una stretta al cuore. Credo sia utile, depositando i piccoli a bordo, mettere subito un segnale: la sveglia al cellulare o altre possibilità sonore come i contatempo (timer sonori) usati in cucina per non bruciare i cibi. Utile anche un fazzoletto al polso o sul retrovisore: ogni segnale insomma che ci scuota dal torpore assassino che può cogliere ognuno di noi.
l’Unità 29.5.11
Rafah, riapre il valico Il nuovo Egitto toglie dall’isolamento la Striscia di Gaza
Rimosso il blocco anti Hamas dopo 4 anni, passano bus e ambulanze
Israele cauto L’embargo è rotto ma i traffici continuavano nei tunnel
La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. Esulta Hamas, protesta Israele
di Virginia Lori
La Striscia di Gaza torna a respirare con la riapertura da ieri a tempo pieno, sei giorni la settimana, del valico di Rafah che garantisce l'ingresso all'Egitto e, da là, al mondo intero. In questa giornata di sollievo che è invece di preoccupazione per Israele che teme il crearsi di una «situazione problematica» Hamas ha voluto che tutto fosse in ordine impeccabile, organizzando fra l'altro quattro corsie separate di ingresso: per i malati; per gli studenti; per gli escursionisti; e infine per i cittadini stranieri.
Nella previsione di un «assalto» al terminal, i servizi di sicurezza avevano schierato forze capaci di contenere una folla di migliaia di persone. Ma all’apertura dei cancelli, alle nove di mattina, si contavano appena 350 passeggeri diretti verso il Sinai. Abituata a notizie negative, la popolazione della Striscia è rimasta incredula fino all'ultimo. A quanto pare, i transiti da Rafah aumenteranno però dai prossimi giorni. Già ieri comunque, ai cancelli il venditore ambulante di bevande calde si stropicciava le mani soddisfatto e lanciava sorrisi smaglianti ai clienti occasionali: i passeggeri in transito e le numerose troupes televisive. Da lui un tè o un caffè costano due shekel (meno di mezzo euro). Nei tempi magri delle aperture a singhiozzo di Rafah tornava a casa con un incasso giornaliero di 30 shekel. Ieri mattina i aveva già nelle tasche banconote per oltre 80 shekel. «Dopo quattro anni di sofferenze e di assedio, quello odierno è per noi un cambiamento importante» rileva il direttore generale del terminal palestinese di Rafah, Salameh Barake. «Finalmente l'Egitto è tornato ad assumere il suo ruolo di leaderhip verso Gaza». La gestione del valico, aggiunge, resta nelle mani dei palestinesi e degli egiziani. Contrariamente a quanto avveniva negli anni 2005-2007, «l'occupazione israeliana non ha più alcun controllo».
LA FINE DELL’EMBARGO
Nel contesto della soddisfazione generale, a Gaza resta peraltro l'interrogativo del ripristino del transito delle merci fra il Sinai e la Striscia, che resta in attesa di un accordo separato. Esso a quanto pare dipende dalla costituzione di un accordo per un governo transitorio palestinese di unità nazionale, che potrebbe essere varato fra una decina di giorni. Allora, secondo alcune indiscrezioni, gli uomini di Abu Mazen riassumeranno il controllo del valico di Rafah, assieme con gli osservatori internazionali.
Corriere della Sera 29.5.11
Cosa vuol dire per Gaza, e per Israele la riapertura del valico di Rafah
di Antonio Ferrari
Gaza, la striscia palestinese dei senza terra, da ieri non è più una prigione. Dopo quattro anni il passaggio di Rafah, al confine con l’Egitto, è stato riaperto. Il Cairo di Hosni Mubarak l’aveva chiuso come ritorsione alla rivolta dei fondamentalisti di Hamas contro l’Anp del presidente laico Abu Mazen. Ieri la giunta militare egiziana, nata dalla cosiddetta «primavera araba» , ha deciso di cancellare il divieto. Ma i cambiamenti nel Nord Africa e nel Medio Oriente c’entrano assai poco con il clamoroso ripensamento. Riaprire il valico infatti è uno dei risultati dell’accordo, firmato proprio al Cairo, tra laici e integralisti palestinesi, che hanno finalmente deciso di collaborare per chiudere una terribile stagione di scontri fratricidi. È evidente che la riapertura di Rafah preoccupa Israele, perché ripropone il rischio di traffici pericolosi a ridosso delle sue frontiere, e quindi rappresenta un serio problema. Ma era moralmente ingiusto e politicamente inaccettabile che i disperati della Striscia fossero condannati alla punizione collettiva di una vita da carcerati in casa propria. Si dirà: «Ma da Gaza partivano attacchi contro Israele» . Vero, questo però non significa che le azioni degli estremisti debbano essere pagate indiscriminatamente da tutti gli abitanti di quello sfortunato lembo di terra. Gerusalemme è comprensibilmente inquieta. In poche settimane ha perduto uno dei partner più affidabili (l’egiziano Mubarak); vede ormai in crisi un leader che è un nemico e, insieme, un futuro potenziale partner, cioè il presidente siriano Bashar el Assad. Adesso assiste alla riapertura di Rafah, il lembo inferiore di quella piccola Gaza dove Hamas, da qualche tempo, sta assumendo un ruolo meno aggressivo e più dialogante. È anche chiaro che il segnale di Gaza si coniuga con quella spinta internazionale, guidata da Obama, per poter giungere ai due Stati, Israele e Palestina, che vivano in pace e sicurezza.
l’Unità 29.5.11
Il Perù sognato da Vargas Llosa è rosso
Il Nobel ha presentato a Torino con Magris «Il sogno del celta» E sostiene Humana Tasso
di Silvio Bernelli
orza Perù» sta scritto nella bandiera lunga quattro metri che accoglie Mario Vargas Llosa al Piccolo Regio di Torino. L’uomo non è solo uno degli scrittori più apprezzati al mondo, soprattutto dopo il meritato Premio Nobel per la letteratura del 2010, ma anche un simbolo del martoriato paese sudamericano. Un paese del quale il romanziere di La casa verde, Conversazione nella cattedrale e altri capolavori, è stato a un passo dal diventare Presidente nel 1990. Scopo dell’incontro, presentare il nuovo romanzo Il sogno del celta, appena pubblicato da Einaudi nella traduzione di Glauco Felici (pp. 419, 22 €).Molto elegante, chioma bianca da far invidia a qualunque altro settantenne, Vargas Llosa, prende posto sul palco e, pungolato dalle domande di Claudio Magris, inizia a illustrare il personaggio di Roger Casement che è al centro del romanzo. Un uomo realmente esistito che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si trovò a combattere il colonialismo in Africa e Sud America e infine a lottare per l’indipendenza dell’Irlanda dall’Impero Britannico.
«La vita di Roger Casement mi ha attratto per la sua essenza di eroe romanzesco» dice Vargas Llosa con la sua faccia severa e la voce forte e allenata del politico abituato a parlare in pubblico, più che del romanziere. «È un personaggio che ho scoperto leggendo una biografia di Joseph Conrad, uno scrittore che amo, in cui confida che non avrebbe mai potuto scrivere Cuore di Tenebra se non avesse incontrato Roger Casement in Africa. Così mi sono informato e da lì è venuta l’idea di farne il protagonista di un romanzo. Mi aveva molto colpito il suo senso della giustizia, che lo portò a denunciare gli orrori del colonialismo in Congo e in Amazzonia, e anche la sua evoluzione personale. Casement era un giovane dell’epoca, figlio dell’Impero Britannico, che vedeva la colonizzazione come strumento di civilizzazione. Ma quando arriva in Africa scopre che la colonizzazione serve solo l’avidità e gli interessi dell’occidente. Diventa consapevole dei soprusi ai danni della popolazione indigena e compie un passo molto coraggioso. Inizia a documentare in gran segreto e affrontando un lavoro titanico di anni, le violenze e le ruberie commesse ai danni dei popoli colonizzati».
Dalle parole di Vargas Llosa emerge tutta la fascinazione nei confronti di quest’uomo complesso, che aveva passato la sua intera vita a nascondere la sua omosessualità. «Una condizione inaccettabile per la morale Vittoriana, che creava in Casement una continua tensione tra pulsioni private e immagine pubblica, tra debolezza e forza. Dopo
aver denunciato le ingiustizie del colonialismo in Africa e Sud America, Casement si getta nell’ultima avventura: dare la libertà all’Irlanda. Una scelta forte per uno che veniva da una famiglia dell’Ulster, l’Irlanda del Nord, che era un’accesa sostenitrice dell’Impero Britannico. Casement su questo si comporta in modo contraddittorio, ingenuo ed eroico al tempo stesso. Durante la Prima Guerra Mondiale va addirittura in Germania per arruolare i soldati prigionieri irlandesi in una legione che combatta contro l’Impero Britannico e rimane stupefatto nello scoprire che odiano i tedeschi e gli danno del traditore».
IL COLONIALISMO
È il tema attorno al quale ruota Il sogno del celta. «Nessuna colonizzazione europea è stata disumana e distruttiva quanto quella belga in Congo. Questo disegno di atroce sfruttamento della popolazione e del territorio era stato concepito dal sovrano Leopoldo II, che porta anche la colpa di aver fatto passare il colonialismo belga come un’opera di evangelizzazione. Durante il suo dominio il Congo si è disfatto, ha perduto la sua unità come paese. Al momento dell’indipendenza, nel 1960, il Congo non vantava neanche un professionista, tanto che persino l’uomo che ne diventò presidente, Lumumba, era solo un contabile. Lo strazio del Congo di questi anni arriva da lì, perché in occidente non si è mai compresa la devastazione portata dal colonialismo belga. Certo, non tutti i colonialismi sono stati così insensibili e crudeli, ma non c’è dubbio che il colonialismo rappresenta sempre la sottomissione di un paese più debole e povero a un paese più potente e ricco, e per questo semplice fatto è sempre ingiustificabile».
Terminata la presentazione di Il sogno del celta, a Torino la parola passa al pubblico. Un giovane pone a Vargas Llosa una domanda poco gradevole, in cui lo accusa di sostenere le democrazie autoritarie sud-americane. Da politico di lungo corso qual è, lo scrittore non si scompone. «Credo che la democrazia permetta alla gente di correggere ciò che non funziona e avere più eguaglianza e giustizia, anche se la democrazia non è affatto perfetta. Ma quando la difendo, difendo l’alternanza del potere e la critica permanente al governo contro ogni dittatura: fascista, comunista, militare, religiosa. Per questo oggi il mio candidato per le elezioni presidenziali del Perù è quello della sinistra democratica Ollanta Humala Tasso. La vittoria di Keiko Fujimori (n.d.a.: figlia del dispotico Alberto Fujimori contro cui Vargas Llosa perse le elezioni del 1990) significherebbe legittimare quella dittatura corrotta, assassina e vergognosa contro cui mi ero battuto in prima persona». I peruviani in sala si spellano le mani, la bandiera con la scritta «Forza Perù» si solleva. Forza Humala Tasso.
l’Unità 29.5.11
Bach è risorto in Persia
Ramin Bahrami e Riccardo Chailly alle prese con i concerti per piano: così il Kantor trova nuova linfa
di Luca Del Frà
Ramin Bahrami e Riccardo Chailly assieme alla Gewandhausorchester di Lipsia trovano una felicissima interpretazione dei Concerti per tastiera di Johann Sebastian Bach, riaprendo le porte alle interpretazioni pianistiche della musica per clavicembalo del grande Thomaskantor. Negli ultimi 50 anni con la progressiva affermazione della prassi antica o storicamente informata, la musica antica e barocca, quindi anche quella di Bach, è stata sempre più eseguita su strumenti d’epoca, e con un tipo di fraseggio assai diverso da quello del repertorio classico romantico che si è sviluppato tra Sette e Novecento. Sono esecuzioni molto spesso appannaggio di ensemble e musicisti specializzati che hanno avuto molti meriti, non ultimo quello di riscoprire un repertorio sepolto nell’oblio. Tuttavia la musica di Bach, obliata dopo la morte del compositore, ma riscoperta fin dal primo Ottocento, di questo fenomeno è stata la precorritrice e certo non era dimenticata: a partire da Felix Mendelssohn e Ferenc Liszt i più grandi pianisti l’hanno voluta nel loro repertorio. Così, paradossalmente, mentre la prassi musicale riscopriva tanta musica, ghettizzava, per dir così, nelle esecuzioni clavicembalistiche – talvolta splendide s’intende – quella per tastiera di Bach. I pianisti che hanno continuato a eseguirla, talvolta nomi di primo piano, si sono spesso anchilosati in interpretazioni tardoromantiche: ci sono naturalmente delle eccezioni, a esempio Angela Hewitt, Olli Mustonen e naturalmente Bahrami. Questo pianista iraniano si collega a Bach per una triste storia familiare: negli anni ’80 mentre lui era in Europa a specializzarsi il padre, incarcerato come oppositore del regime degli ayatollah, prima di essere ucciso gli scriveva di studiarne la musica. Questo legame extramusicale ha messo un po’ in ombra il grande lavoro di approfondimento svolto da Bahrami in anni di studio ed esecuzioni talvolta velate da una comprensibile ma forse eccessiva melanconia.
PERFETTA SINTONIA
Nei cinque Concerti (BWV 1052 1056) di questa registrazione Bahrami lascia sul tappeto un’interpretazione pianistica di grande equilibrio, sfruttando le possibilità espressive del pianoforte senza sovrastare mai l'origine clavicembalistica delle partiture. È vincente però un controllatissimo gusto nel ritmo, negli accenni di rubato usato con parsimonia, nelle inflessioni dinamiche che rendono con brillantezza, accentuata dall’esecuzione dal vivo, l’edonismo e il divertimento della forma Concerto per tastiera.
Bahrami trova in Chailly non solo una perfetta sintonia, ma un musicista in grado di dargli precise imbeccate: il direttore milanese guida l’orchestra di Lipsia con sottile intelligenza, facendo propri il fraseggio e l’accentuazione della prassi musicale antica senza giustamente scimmiottarla nel suono. Chailly peraltro aveva dato prova di squisitezza bachiana anche nella recente incisione della Mathäus Passion sempre con la compagine della Gewandhaus, e proprio nell’orchestrazione trasparente e modernissima trova una luminosità che rende radiose queste bellissime pagine di Bach.
Repubblica 29.5.11
I segreti di Wittgentein
Il professore, il filosofo e l´archivio ritrovato
di Riccardo Staglianò
Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l´ha cambiata dicendo il contrario. Ricco e frugale, soldato ed eremita, matematico e irrazionale, fu l´uomo che disse: "Ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere". Ora, a sessant´anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un´altra volta
A Berlino una mostra di oggetti tra cui la leggendaria giacca di tweed grigio
Da Sotheby´s all´asta gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello
La circostanza più paradossale, per un ossesso del linguaggio come Wittgenstein, che ha nella sua scarna bibliografia l´inespugnabile Note sul colore, è che si almanacchi ora sulla natura cromatica di un suo scritto ritrovato. «Può essere, come no, l´opera mancante chiamata Libro rosa o Libro giallo che gli studiosi cercano da tempo», commenta Arthur Gibson, l´uomo che ha trascorso gli ultimi tre anni su un colossale archivio inedito di uno dei più complessi e decisivi filosofi del Ventesimo secolo. Il professore di Cambridge si riferisce a un quadernetto da scolaro dalla copertina rosata che contiene nuovi testi del logico viennese. Un oggetto del desiderio per gli specialisti, forse il seguito ideale - seppur anteriore - delle Ricerche filosofiche con cui nella seconda parte della sua vita aveva demolito il Tractatus logico-philosophicus.
Chissà come avrebbe commentato lui («su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») di fronte a questa confusione di tonalità. Tuttavia sarebbe contento del rinvenimento del tesoretto da 150mila parole che contiene, oltre alla perla suddetta, l´unica versione vergata a mano del Libro marrone, ovvero appunti delle sue lezioni a Cambridge a metà degli anni Trenta. Con una sessantina di pagine aggiuntive e un´introduzione rivista. Oltre a un migliaio di calcoli matematici in cui l´allievo poi contestatore di Bertrand Russell si misura anche con il Piccolo problema di Fermat, in una dimostrazione lunga sei metri se si mettessero in fila i fogli. «È come se si fosse creduto di conoscere tutto il Dna e venisse fuori che ce n´era ancora un quarto ignoto. Oppure scoprire sia nuove opere che diversi arrangiamenti di Puccini. Quando ho aperto quelle scatole sono rimasto senza parole», confessa il curatore, «un intero mondo di manoscritti mai letti prima che aprono uno squarcio sui suoi processi mentali. Confrontando versioni, correzioni e aggiunte è come vedere il suo cervello all´opera».
Uno spettacolo, considerato il titolare della testa. Con tanto di illustrazioni e glosse sugli appunti che dettava al suo amanuense, nonché giovane amante, Francis Skinner. Nello spartano studio nella Great Court, dove Wittgenstein insegnava e Newton aveva vissuto, non c´era nient´altro che una sedia a sdraio, una stufa e Francis. «Il suo ruolo intellettuale esce molto rafforzato da queste carte, erano uno lo specchio dell´altro» spiega Gibson, «nei suoi confronti il filosofo aveva una relazione quasi bipolare, tra fortissima vicinanza emotiva e rigetto. Un amore-odio che già aveva provato verso il padre miliardario e ingombrante. E il fratello Paul, pianista di genio nonostante avesse perso un braccio in guerra, che non amava la sua filosofia più di quanto lui sopportasse la sua musica. Il numero degli studenti che aveva cacciato dalle lezioni cresceva di giorno in giorno. Alla fine in classe era rimasto solo lui».
Quel che non riuscivano a fare all´università lo finivano a casa. Convivevano, nonostante l´omosessualità fosse reato. Studiavano russo e vagheggiavano di trasferirsi in Unione Sovietica, abbandonando la filosofia per darsi alla medicina o all´allevamento. Indifferentemente. Così, quando nel ´41 la poliomelite uccide l´allievo, il maestro rischia di impazzire. Considera di lasciare l´insegnamento. E per sbarazzarsi dei ricordi spedisce per posta i tre pacchi di appunti a Reuben Goodstein, amico di Francis e suo studente. «Questi si impegna», spiega Gibson consegnando a Repubblica la copia della lettera, «a contattare il filosofo se avesse trovato materiali pubblicabili. E oggi, di fronte a testi di tale importanza resta il mistero del perché non l´abbia fatto».
Qui la trama epistemologica si intorbidisce di umanissime pulsioni. Da una parte il custode era stato vicino a Skinner, dall´altra venerava Wittgenstein («sua moglie ne era tanto gelosa da proibire che se ne pronunciasse il nome in casa») e potrebbe aver sottovalutato per rivalità la rilevanza degli scritti. Così si spiegherebbe forse il lungo letargo ermeneutico, continuato anche quando nel ´76 li affiderà alla Mathematical Association. Per concludersi infine negli ultimi anni, con la presa in cura di Gibson al Trinity College.
Nel sessantennale della sua morte lo Schwules Museum di Berlino gli dedica una mostra piena di diari e oggetti, compresa la leggendaria giacca di tweed grigio di tante foto, mentre Sotheby´s batte a quattromila sterline di base d´asta anche gli appunti minori scritti sul retro delle lettere del fratello. Pochi pensatori possono vantare inversioni a U tanto radicali e tuttavia convincenti nel proprio tragitto intellettuale. Il Wittgenstein 1.0, quello del Tractatus (1921), studia la lingua come modo per conoscere. Solipsisticamente dice: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Al di fuori non c´è niente, dal momento che non si può dire. Il Wittgenstein 2.0 invece si concentra sulla sua natura più sociale, di strumento di comunicazione. è come se fosse uscito dalle trincee della Grande guerra e dal campo di prigionia italiano dove aveva terminato il Tractatus per mischiarsi col mondo.
Molte delle riflessioni che poi confluiranno postume nelle Ricerche (1953) sono concepite nello stesso periodo delle carte ritrovate. In quegli anni sostiene che il linguaggio va studiato non nella sua dimensione astratta (come di «ghiaccio puro») ma nei suoi usi pratici («la terra ferma»). Spiega Gibson: «Da quest´archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po´ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l´idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell´uso ordinario del linguaggio, straordinariamente preciso e al contempo sorprendentemente arbitrario, vedeva somiglianze con la matematica pura avanzata. Nel solco delle Ricerche voleva indagare proprio i legami tra matematica e lingua, sostenendo che è dal loro incontro che deriva la logica. Che non si può estrarre dalla matematica soltanto, seguendo invece Russell e Frege». Che sia il Wittgenstein 2.1 o addirittura 3.0, resta la nuova entusiasmante puntata di un film teoretico dal finale ancora aperto.
Repubblica 29.5.11
La vita agli antipodi del mistico-logico
di Maurizio Ferraris
Trattenbach, Hassbach, Puchberg e Otterthal sono villaggi della bassa Austria dove Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 - Cambridge 1951) si ritirò negli anni Venti per fare il maestro elementare. Prima era stato studente di ingegneria a Manchester e allievo di Bertrand Russell a Cambridge, eremita per un anno in una casupola in un fiordo norvegese, soldato austroungarico in Galizia e sull´altopiano di Asiago, poi prigioniero in Italia, a Cassino, intenditore di musica e lettore di Schopenhauer. Oltre che autore del Tractatus logico-philosophicus, un libro in cui riteneva di aver trovato la soluzione finale per i problemi della filosofia. Dopo quel libro, non c´era altro da aggiungere, e conveniva fare il maestro elementare (ma tra le altre attività di ripiego rispetto alla filosofia ci sarà per Wittgenstein anche il lavoro come giardiniere in un convento e la costruzione di una casa in stile razionalista a Vienna).
Non era certo il bisogno di denaro che lo spingeva a quella scelta, dal momento che Wittgenstein era l´erede di una delle più ricche famiglie di industriali dell´Austria. Una famiglia colta e illuminata, amica di pittori, scrittori e musicisti, e che si era ulteriormente arricchita perché durante la guerra, cioè quando Wittgenstein era prima soldato e poi prigioniero, il padre aveva investito i suoi capitali in azioni inglesi, francesi e americane che sarebbero lievitate alla fine del conflitto. Ma Ludwig aveva rinunciato a tutto, per non essere disturbato dai soldi.
Già a quell´altezza c´era tutto quello che è necessario per costruire un mito non solo filosofico, ma letterario, e il bello è che la storia non finiva lì. Perché dopo qualche anno in bassa Austria Wittgenstein tornò a Vienna, influenzò una generazione di filosofi, poi riandò a Cambridge, e in seminari quasi privati e in testi rimasti in buona parte inediti - intervallati da viaggi e soggiorni in Russia e in Irlanda, e alla fine anche da qualche insegnamento in America - sviluppò una seconda filosofia che è il contrario della prima, e che sostiene che nella filosofia non c´è una soluzione finale, un fondamento ultimo. Divenendo così l´origine di buona parte delle filosofie del Novecento, fondazionaliste e antifondazionaliste.
Si aggiunga che era travagliato da scrupoli religiosi come avrebbe potuto esserlo un santo delle agiografie e che era tormentato dalla sua omosessualità. E che, diversamente da quello che a lungo è stato l´altro filosofo di culto del Novecento, Heidegger, non si vestiva come una specie di tirolese deportato in un´aula universitaria, con loden, giacchette impossibili e papaline ancora più impossibili. No, Wittgenstein indossava, nelle bellissime foto che ci sono rimaste, ora eleganti e inglesissime giacche di tweed, ora addirittura giubbotti di pelle da pilota, venendo quasi a toccare un altro culto del Novecento, tra Liala e Saint-Exupéry, cioè appunto l´aviatore.
Non stupisce che a sessant´anni dalla morte il culto non sia cessato ma anzi si alimenti, anche con quella forma tipica di venerazione che riguarda chi scrive, che è la ricerca e la pubblicazione degli inediti. La perfezione è suggellata da una serie di detti memorabili, compreso quello pronunciato in punto di morte e che sembra rivolgersi programmaticamente ai lettori futuri: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». A Kirchberg, vicino ai villaggi in cui aveva fatto il maestro di scuola, solo un po´ più grande e con un paio di alberghi, ogni agosto organizzano un convegno di studi wittgensteiniani, e con una ironia che avrebbe incantato Thomas Bernhard i negozi vendono delle scatole di cioccolatini che sul coperchio portano una foto di Wittgenstein, con il giubbotto di pelle e lo sguardo che sembra inseguire l´ala del turbine intelligente.
La Stampa 29.5.11
L’ora perfetta per andare a dormire
L’idea ovvia ma rivoluzionaria di un medico americano: puntate la sveglia per mettervi a letto
di Egle Santolini
Il Dottor Sonno Michael J. Breus è uno psicologo clinico che da anni divulga i metodi migliori per riposarsi. La ricetta delle nonne. I suggerimenti sono un misto di vecchie usanze e spirito pragmatico made in Usa
Il trucco. Puntare la sveglia due volte: all’ora giusta per il risveglio ed un quarto d’ora prima
I cicli. L’ideale sono cinque fasi di 90 minuti ciascuna per ristorare l’organismo
7.30 ore di sonno è l’ideale «Quanti anni sono passati da quando qualcuno vi ha mandato a letto?», è la domanda di Michael J. Breus. Cinque cicli di 90 minuti l’uno, senza interruzioni, in totale 7 ore e 30 sono l’ideale
Quanto incide sulla nostra salute, osserva Breus, quella mezz’ora passata ogni sera a ricontrollare maniacalmente la posta elettronica? O a giocare a pet society su Facebook? O a rivedere sul satellite per la diciottesima volta l’episodio di Sex and the City in cui Carrie e le sue amiche vanno alla festa dei pompieri di New York? Ha senso spendere fortune per esose creme antiocchiaie quando per ottenere uno sguardo più fresco basterebbe puntare due volte la sveglia? Sì, proprio due volte, perché l’uovo di Colombo consiste proprio in questo: fissare un piccolo allarme sonoro un quarto d’ora prima dell’ora X, e seguirlo senza barare.
Non importa se a Napoleone, Pirandello e Winston Churchill bastavano sonni di tre ore. Il dottore consiglia di calcolare a ritroso sette ore e mezzo dall’ora del risveglio e di rispettare l’impegno, filando sotto le coperte senza tirarla tanto per le lunghe. La quantità delle ore di sonno consigliate corrisponde ai cinque cicli di 90 minuti ciascuno che, secondo le ricerche, servono a ristorare il nostro organismo. Tutto ciò sa molto di antico, perché la nonna ci ha sempre detto che otto ore di sonno, cari bambini, erano quello che ci voleva per rimanere attenti in classe. Ma proprio questo tono da vecchio manuale di puericoltura, intrecciato al sano pragmatismo americano e alla scintillante immediatezza della Rete, è tra le ragioni del successo di Breus. Sentite qua: «Quanti anni sono passati da quando qualcuno vi ha spedito a letto? Ne avevate otto? Forse dieci? Eppure vi volevano bene e sapevano quel che facevano», catechizza dal suo blog. E ancora: «Il momento del risveglio è determinato dagli obblighi sociali, ma di solito nessuno può costringervi ad andare a letto troppo tardi: è una circostanza su cui potete esercitare pieno controllo. Approfittatene».
Particolarmente suggestiva è poi quella parte della sua teoria che mette in relazione le ore di sonno con la perdita di peso. Qui ci si dovrebbe addentrare in complesse disquisizioni biochimiche, ma la sostanza è questa: se ci si depriva del sonno, l’organismo produce maggiori quantità di grelina, l’ormone dell’appetito, e minori di leptina, quello che innesca un senso di sazietà; inoltre, meno si dorme e più si fabbrica cortisolo, sostanza che fa venir fame. Ergo, più sei in stato di veglia e più mangerai, e non stiamo parlando solo dei biscotti al cioccolato che qualcuno è tentato di sgranocchiare quando non riesce a prendere sonno.
Aggiunge il guru della buonanotte: «Sembra di poter ipotizzare che in periodo Rem (cioè nelle fasi di sonno in cui si registrano rapid eye movements, movimenti rapidi dell’occhio, ndr), il nostro organismo bruci più energia rispetto agli stati di veglia, e maggiori quantità di zuccheri necessari all’attività cerebrale». Insomma, si dimagrisce di più dormendo che guardando la tivù impitoniti sul divano. Ancora meglio: siccome le fasi Rem, quelle in cui si sogna, tendono a prolungarsi nel corso della notte, e arrivano al massimo della durata verso l’alba, se dormi soltanto sei ore non soltanto bruci meno calorie, ma ti giochi anche la possibilità di sognare tanto e soddisfacentemente. La Weight Watchers abbraccia il dottor Freud, insomma, e tutti insieme ci consigliano di non morire di sonno.
Per chi invece sta ore a occhi spalancati al soffitto, l’insomnia blog di Michael Breus (www. theinsomniablog.com) è una cornucopia di consigli, una specie di gorgo da cui non si vorrebbe uscire più. Sapete, per esempio, che cos’è il Nap-a-Latte? Neologismo composto da “nap” , sonnellino, e dal suffisso “latte” usato per certi beveroni prodotti dalla catena Starbucks, è il pisolo postprandiale alla caffeina: se vi sentite sonnolenti a metà giornata, il dottore consiglia di bervi mezza tazza di caffè e, POI, di assopirvi per non più di 25 minuti: la nanna vi ristorerà, la caffeina vi sveglierà al momento opportuno, ma il fatto di averla assunta prima delle 14 non interferirà con il riposo notturno. E il “metodo bicchiere per bicchiere”? L’alcol dà un illusorio senso di sonnolenza, ma in realtà interferisce con il riposo fisiologico. Breus consiglia di bere un bicchier d’acqua ogni bicchiere di vino, e di interrompere qualsiasi assunzione d’alcol tre ore prima di coricarsi. E le pecore? Se proprio volete, continuate a contarle. Ma Breus è sicuro che non vi serviranno più.
Corriere della Sera Salute 29.5.11
La scelta di come si sta fra le lenzuola non è irrilevante
I pro e i contro di ogni posizione quando dormi
di Adriana Bazzi
D ice un proverbio irlandese: "una buona risata e un lungo sonno sono le migliori cure che i medici possono prescrivere". Risate a parte (che funzionano), le ricerche scientifiche hanno dimostrato che il sonno è una grande medicina. Dormire un giusto numero di ore (ognuno ha il suo) fa stare meglio, riposare bene è altrettanto importante, ma c'è un terzo fattore da considerare: la posizione a letto. E non parliamo di "dimmi come dormi e ti dirò chi sei", cioè degli indizi che si possono ricavare sulla personalità di un individuo, ma del fatto che un certo modo di sdraiarsi (il 95%delle persone assume la stessa posizione ogni notte), può peggiorare alcuni disturbi o, viceversa, alleviarli. Così, analizzando qua e là la letteratura scientifica, si possono individuare, per ognuna delle cinque classiche posizioni, tutti i pro e i contro. La posizione fetale, per esempio, (la più comune) è ottimale per combattere il mal di schiena lombare, ma può peggiorare i dolori al collo e alla testa. Ecco perché. Quando si dorme in posizione supina, i dischi intervertebrali (che di giorno vengono "schiacciati"per la forza di gravità) "attraggono"i fluidi che aiutano a decomprimere la colonna e a ridurre il dolore. Come evitare, d’altra parte, la comparsa di problemi alla cervicale e il mal di testa? Assicurandosi che la colonna mantenga la sua curvatura naturale e scegliendo un cuscino giusto: non deve essere né troppo alto, né troppo basso, e deve riempire lo spazio fra la spalla e la testa. Simile a questa posizione, è la posizione semi-fetale: è utile per combattere il reflusso esofageo e le indigestioni, ma accentua le rughe. Secondo i ricercatori del Graduate Hospital di Philadelphia, il reflusso esofageo (cioè la risalita del contenuto acido dello stomaco nell’esofago) è favorito dal dormire sul lato destro: meglio, quindi, coricarsi sul sinistro (se anche questo non funziona, non rimane che dormire "sollevati"su un cuscino). Prezzo da pagare, sia su un fianco sia sull'altro: più rughe, con accentuazione, soprattutto, di quelle naso-labiali, dovute allo schiacciamento della faccia sul cuscino. Rimedi? Un cuscino di seta, suggeriscono alcuni, anche se non ci sono prove scientifiche che funzioni. Ritorniamo ai problemi di ossa e articolazioni. Chi soffre di artrite può trovare sollievo nella posizione supina: dormire sulla schiena, secondo Sammy Margo, autore del libro «Good Sleep Guide» , aiuta a distribuire il peso del corpo in modo omogeneo. Ecco, però, il rovescio della medaglia: questa posizione fa russare di più, perché i muscoli della mandibola e della lingua si rilassano, la gola si restringe e l'aria, passando, crea turbolenze, vibrazioni e il caratteristico rumore del russare. Alcune ricerche hanno dimostrato che, chi dorme supino, ha meno ossigeno nel sangue e questo può avere conseguenze negative in persone che soffrono di disturbi cardiaci o di problemi polmonari. Come sottrarsi ai questi guai? Intanto scegliendo un cuscino piuttosto duro, che sostenga il collo ed eviti tensioni muscolari che potrebbero provocare dolore cervicale. Un cuscino sotto la schiena può, invece, costringere i russatori a girarsi su un fianco o sulla pancia. Quest'ultima posizione ha proprio il vantaggio di aiutare i russatori, ma ha lo svantaggio di peggiorare l'abitudine a digrignare i denti (la mandibola va in avanti e i denti inferiori si usurano di più) e di provocare dolore e intorpidimento delle mani. Quando si dorme proni, infatti, il collo non si allinea con la colonna e questo può provocare compressione dei nervi, soprattutto nelle persone anziane e in chi soffre di artrosi. Ecco perché possono comparire formicolii e intorpidimento delle mani. Per evitarli, e per ridurre anche i danni ai denti, si dovrebbe scegliere un materasso di lattice o uno che si modella sulla forma del corpo, in modo da sostenere meglio la colonna. In alternativa, si può mettere un cuscino per traverso sotto spalle e stomaco, in modo da ridurre l'arco che fa la schiena. Per chi dorme con una persona a fianco, c'è, infine, la posizione a "cucchiaio": quella di chi abbraccia l'altro da dietro. Secondo uno studio condotto dal neuropsichiatra James Coen, il contatto fisico, anche durante il sonno, riduce lo stress. Ma la posizione non è certo comoda e può provocare dolori alla schiena e al collo. Così il suggerimento è quello di essere un po'egoisti quando si va a letto: l'importante è scegliere una posizione confortevole, anche se presuppone lo stare lontano dal partner e, perché no, anche due materassi diversi, che soddisfino le esigenze di ognuno.
Corriere della Sera Salute 29.5.11
New Scientist
Le luci nemiche della buona notte
di Margherita Fronte
A bituato a seguire l'alternarsi di giorno e notte da milioni di anni, l'orologio biologico dell'uomo si trova un po'a disagio con la luce artificiale. Le stanze illuminate fino a tarda sera, infatti, possono sfasarlo, rallentando l'addormentamento, fino a renderlo difficoltoso nelle persone più sensibili. Ma stando a quanto riportato dalla rivista New Scientist, a minacciare le nostre notti è anche la qualità delle lampadine: quelle con uno spettro luminoso spostato verso il blu sembrano nemiche di quel 10-20%della popolazione che soffre di insonnia cronica. E, almeno nei periodi critici, andrebbero evitate anche dal 30-40%di italiani che sperimenta disturbi del sonno occasionalmente. Diverse ricerche indicano che le lunghezze d'onda fra i 450 e i 480 nm (nanometri), che corrispondono al blu, inibiscono più delle altre la produzione di melatonina, ormone che regola l'orologio biologico e induce l'addormentamento. «Alcuni studi suggeriscono che sorgenti di luce Led nello spettro del blu siano in grado di sopprimere la secrezione della melatonina, e che esista una relazione fra l'intensità della luce e l'entità del fenomeno» conferma Paolo Maria Rossini, docente di neurologia all'Università Cattolica di Roma. «Il dato è confermato nella popolazione anziana, mentre si attendono verifiche per le fasce di età più giovani» . Fra i primi a notare l'effetto negativo del blu sulla melatonina, in uno studio pubblicato su Journal of Neuroscience già nel 2001, è stato un gruppo di ricercatori Usa, che ha misurato i livelli dell'ormone nel sangue di 72 volontari, esposti fra le 2 e le 3 di notte a luci di diverse lunghezze d'onda. Qualche anno più tardi, con un esperimento simile, Charles Czeisler, della Harvard Medical School di Boston, ha verificato che sotto una luce blu pura la produzione di melatonina risultava dimezzata rispetto a quella che si registrava con una luce verde. Ora Czeisler ha dimostrato che a tarda sera anche un'illuminazione di media intensità, come quella di un normale soggiorno, inibisce la sintesi di melatonina in modo meno marcato rispetto alle luci più forti. Per scongiurare notti insonni alcune semplici regole permettono di limitare l'effetto negativo dell'illuminazione artificiale. Fra quelle elencate da New Scientist: preferire le luci poco intense nelle ore serali; scegliere lampadine con colori caldi; non andare a dormire troppo tardi; utilizzare piccole luci di colore rosso se ci si alza di notte; limitare la televisione, non lavorare al computer e spegnere gli smartphone nel periodo che precede il riposo notturno.
L’Osservatore Romano 29.5.11
"La sepoltura e gloria di santa Petronilla" oggi ai Musei Capitolini fu realizzata nel 1623 per la basilica di San Pietro
La luce del Guercino e la forza del Caravaggio
di Marco Agostini
Nella cappella di San Michele Arcangelo, la seconda delle quattro previste dal progetto di Michelangelo per la nuova basilica di San Pietro, situata tra il braccio destro dei Santi Processo e Martiniano e quello dell'Altare della Cattedra, confluì l'antico culto di santa Petronilla della quale la Chiesa fa memoria liturgica il 30 maggio. Nel XVI secolo, la nuova basilica Vaticana aveva, infatti, preso il posto della precedente con le sue monumentali appendici allocate sul lato meridionale dell'area vaticana tra cui la celebre rotonda di santa Petronilla.
La tradizionale agiografia del VI secolo narra di Petronilla come di una santa dell'età apostolica, figlia carnale o spirituale di san Pietro, morta in giovane età prima del matrimonio da lei non desiderato - aveva, infatti, promesso la propria verginità a Cristo - con il nobile romano Flacco. La sua accorata preghiera le ottenne di rimanere fedele al proprio voto ottenendo di morire dolcemente innanzi al suo fidanzato. Fu sepolta nel cimitero sviluppatosi nel podere di Flavia Domitilla, nipote di Vespasiano, sulla via Ardeatina. Lì ancora - annesso alla basilica del IV secolo sorta sulla tomba dei soldati martiri Nereo e Achilleo - vi è un piccolo cubicolo affrescato con la defunta Veneranda introdotta in cielo dalla martire Petronilla.
All'indomani della promessa fatta da Papa Stefano II (752-757) a Pipino il Breve di un mausoleo dedicato alla santa, da porsi sotto la protezione del re franco e dei suoi successori a memoria della predilezione della Chiesa per la Francia, si iniziò l'adattamento della rotonda d'età imperiale, circolare all'esterno e ottagonale all'interno, adiacente la basilica di San Pietro. In essa Papa Paolo I (757-767) trasportò, dal cimitero dei Flavi sull'Ardeatina, il sepolcro di santa Petronilla. A motivo di tale mausoleo l'area meridionale della basilica fu, poi, denominata area regis Christianissimi.
La cappella della basilica michelangiolesca conserva, unitamente al sepolcro della santa collocato qui da Paolo V (1606), anche la memoria della devozione dei re di Francia per la Chiesa cattolica e specificamente per la basilica petriana. La nazione che si gloriava dell'appellativo di "figlia primogenita della Chiesa" ancora oggi innanzi a questo altare manifesta annualmente la sua devozione a colei che era ritenuta la figlia del pescatore divenuto supremo pastore della Chiesa.
Sull'altare privilegiato sta la copia a mosaico settecentesca della grandiosa pala, ora ai Musei Capitolini, di Francesco Barbieri detto il Guercino, La sepoltura e la gloria di santa Petronilla. L'originale, rimosso da san Pietro nel 1730, fu dapprima trasferito nella dimora dei Papi del Quirinale. Requisito dalle truppe francesi e portato a Parigi per essere esposto al Louvre, fu recuperato da Antonio Canova, dopo la caduta di Napoleone, e dal 1818 allocato nei Musei Capitolini.
Francesco Barbieri - il nomignolo Guercino gli derivò da una menomazione all'occhio destro subita quand'era ancora in fasce - ebbe la primissima formazione a Cento (Ferrara), dove era nato (1591), e poi a Bologna. Il pittore si dissetò alle acque sorgive e fresche della cultura bolognese e ferrarese. A Ludovico Carracci, allo Scarsellino e a Carlo Bonomi va ascritta la responsabilità nell'indirizzare il giovane pittore.
Fu a questa scuola che apprese la sua "bella e semplice naturalezza con bene accordate tinte e con gran forza di chiaroscuro" (Calvi).
A tale formazione si aggiunse nel 1618 a Venezia l'incanto di un felice cromatismo: il contatto con Jacopo Palma e la tradizione pittorica veneta del Cinquecento gli giovò assai. La scoperta di Tiziano e la genialità di Jacopo Bassano accendono la sua già ricca sensibilità per il colore e un'attenzione nuova per gli effetti luministici. Sarà questa inclinazione al colore a distaccarlo dagli intenti di Caravaggio, anche se per il primo risulterà inevitabile subire il fascino del secondo. L'incantato luminismo guercinesco però si trattiene dal dare alla realtà le intonazioni crude e drammatiche del bergamasco.
Nel 1621 Guercino è chiamato a Roma dal cardinale Alessandro Ludovisi, proprio in quell'anno eletto al soglio pontificio col nome di Gregorio XV. L'ambiente romano ricco di cultura e ricordi letterari, grazie ai contatti con Domenichino e Agucchi, adegua per gradi Guercino a una poetica di stampo classicistico. In tale preciso contesto, dopo aver affrescato il soffitto del salone nel Casino Ludovisi, vede la luce la nostra pala. Del vastissimo dipinto, alto più di sette metri e largo quattro, commissionato da Papa Gregorio XV nel 1622, e consegnato nella primavera del 1623 come attesta l'iscrizione in basso a destra, resta pure un bozzetto. Il dipinto, diviso in due scene, narra in terra il seppellimento della santa e in cielo la sua glorificazione. Petronilla, con la testa rovesciata verso lo spettatore e girata verso il cielo, adorna ancora della corona nuziale composta di fiori dai colori simbolici - il bianco della verginità e il rosso del martirio ma anche dell'amore terreno - è calata nella tomba da due fossori, mentre le mani di un terzo ne sostengono le spalle dall'interno dell'avello.
La pittura, quando svolgeva la sua funzione di pala, stabiliva un'efficacissima connessione con l'urna posta sotto l'altare: il pavimento su cui si apre la tomba del dipinto era in continuità visiva con la mensa dell'altare sul quale il sacrificio di Cristo ristabiliva il contatto tra cielo e terra e rendeva possibile la comunione dei santi. A sinistra accanto al letto due donne si rattristano per la fine della sua giovane vita insieme a un ragazzo e un adolescente con il cero in mano.
La candela che arde illumina, riscalda e si consuma sugli altari, nella mano dei fedeli nei momenti salienti della liturgia cattolica, nella consacrazione delle vergini, quando si accompagna il feretro nelle esequie, o per voto davanti alle immagini, è un simbolo potentissimo della fede cattolica. Lo stoppino che brucia e fa fondere la cera, partecipa del fuoco: tale è il rapporto tra spirito e materia. Enrico VIII, nella sua riforma liturgica, abolì anche questo simbolo di fede dalle chiese inglesi. Reintrodotte a furor di popolo furono di nuovo, e definitivamente eliminate da Cromwell come uno dei segni espliciti del cattolicesimo.
La candela evoca qui la parabola delle vergini sagge (Matteo, 25). Bilanciano la scena tre uomini uno con il turbante, un secondo di età veneranda, molto probabilmente san Pietro, e il giovane fidanzato Flacco col cappello piumato.
È nella scena della sepoltura che le rimembranze caravaggesche sono più evidenti: la ripartizione dei protagonisti a gruppi di tre rimanda a quegli episodi sacri che Caravaggio narra nelle opere romane con corpi scultorei occupati a compiere gesti semplici e ieratici, quasi liturgici.
L'impatto evocativo è altissimo. L'armonico giustapporsi dei corpi vivi e di quello morto appena accennato, la loro possanza e peso fisici, accentuano l'ardito disporsi dei personaggi a losanga. Braccia nude, con vene evidenti e nervi contratti nello sforzo, mani che hanno lavorato nella terra, gambe muscolose di fossori esaltate dalla luce. La testa del fossore di sinistra così vicina al Nicodemo della Vallicella, il busto girato all'indietro della santa che mostra il collo e parte della spalla come la Madonna dei Palafrenieri, sebbene più pudica, che rimase sull'altare di san Michele solo pochi giorni.
Il dramma caravaggesco si affaccia, anche se in modo meno altisonante, così come il piegarsi del ragazzo dal volto emaciato con la candela propone quella precettistica che l'opera di Domenichino andava diffondendo a Roma.
Nella parte apicale è rappresentata la glorificazione della santa. Innanzi a Cristo, assiso su un trono di angeli e nubi, si prostra Petronilla in vesti suntuose nell'atto di ricevere dall'angelo la corona d'oro della gloria, corona ben più splendida di quella terrena: Veni sponsa Christi accipe coronam, quam tibi Dominus praeparavit in aeternum.
Negli occhi e nella memoria di Guercino ci sono le numerose egregie pitture che abbellivano Roma. Il pittore si sforza in sommo grado di salvare attraverso la logica chiaroscurale, l'unità composita delle grandi "macchine" d'altare. Ma i valori accademici di correttezza e precisione si fanno a tal punto robusti quasi da avere il sopravvento sullo slancio del talento e paiono un po' indebolire la sua fantasia e creatività. Si accentua l'assillo per la composizione e i rapporti cromatici possono sembrare frutto di un calcolo troppo artefatto. "È in atto da tale momento il trapasso verso quella che i biografi amarono definire la sua "seconda maniera", che è soltanto l'inizio di un'irreversibile conversione accademica. Un trapasso cauto e per gradi, ma che si avverte" (Ottani).
L'arte di Guercino ci convince che verginità e matrimonio sono due beni. La sepoltura di Petronilla e la sua glorificazione non sono il confronto tra un bene e un male: il matrimonio è sempre un bene e può essere paragonato solo ad altri beni, magari migliori. Infatti, il matrimonio continua a rimanere un bene anche paragonato all'eccellenza della verginità: per questo nel dipinto la morte di Petronilla non avviene drammaticamente, ma è un addormentamento dolce che meraviglia il fidanzato.
Flacco chiede spiegazioni a san Pietro: chi meglio di lui che aveva conosciuto il bene del matrimonio poteva spiegargli l'eccellenza della verginità nella sequela di Cristo?
Nel quarto secolo c'era chi voleva uguagliare il matrimonio alla verginità (Gioviniano), o chi voleva esaltare la verginità a scapito del matrimonio (Mani). Queste tendenze, tuttavia, non sono del tutto scomparse; c'è anche oggi chi le ripropone, in mutate forme ma identiche nella sostanza. Sant'Agostino esclama: "Questa è la dottrina del Signore, la dottrina apostolica, la dottrina vera, la dottrina sana: scegliere i doni maggiori senza condannare i minori" (De bono coniugali, 23, 28).