martedì 5 aprile 2011

Il Sole 24 Ore Domenica 19.4.09
L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi



Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».


I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

l’Unità 5.4.11
In rivolta. Oggi giornata di mobilitazione civile e politica contro il colpo di mano sulla giustizia
Costituzione, resistenza e unità: le parole d’ordine per dire «no» alle leggi ad personam
Zagrebelsky: «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità»
Democrazia day una luce nella notte della Repubblica
Mentre il Parlamento torna ad occuparsi delle leggi ad personam la società civile scende in piazza. Dalle 14 sit in davanti a Montecitorio, il Pd alle 18 al Pantheon e dalle 20 in piazza SS. Apostoli.
di Maria Zegarelli


Tre parole d’ordine: Costituzione, resistenza, unità. Tre parole d’ordine e una bandiera, il tricolore, la stessa del 12 marzo, lunga 60 metri, per dire «no» alle leggi ad personam, al Parlamento piegato alle esigenze di un presidente del Consiglio che ormai da anni è concentrato soltanto a trovare il modo di non farsi processare, di non far partire o uccidere nella culla i procedimenti contro di lui. Democrazia day e poi notte bianca per la democrazia: è questa la risposta che arriva dalla società civile ai deputati della maggioranza che proprio oggi a Montecitorio ricominceranno da lì, ossessione eterna, i loro lavori: dalla prescrizione breve per cercare di fermare il processo Mills dove Berlusconi è imputato come corruttore, per passare poi al conflitto di attribuzione sul caso Ruby, alla vigilia dell’inizio del processo a Milano per le notti hard del premier con una minorenne. Nel frattempo i fedelissimi del presidente del Consiglio stanno pensando ad un’altra leggina da far ingoiare ai parlamentari: l’ improcedibilità nei confronti del premier, così da eliminare all’origine qualunque problema. Possono farcela, perché hanno i voti sono maggioranza e allora è la piazza il luogo nevralgico e simbolico della protesta. Popolo Viola, Articolo 21, Giustizia e Libertà, esponenti di Pd, Idv e Fli, saranno in piazza, per dire «no» mentre Pdl e Lega, con la complicità dei Responsabili faranno del tutto per dire «sì» in Parlamento. Un sitin davanti a Montecitorio a partire dalle 14 e poi dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli mentre alle 18 il Pd si incontra al Pantheon. «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione», rilancia Gustavo Zagrebelsky dal sito di Libertà e Giustizia, dove i commenti sono tantissimi.
IL SEGNALE AL PALAZZO
Gianfranco Mascia, del Popolo Viola commenta: «Siamo convinti che queste mobilitazioni di cittadini siano indispensabili per dare un segnale chiaro: in Italia la maggioranza degli elettori vuole che il Parlamento si occupi dei problemi reali e non degli interessi del capo». «Solo una tappa di un percorso comune verso la legalità repubblicana. Un percorso che vogliamo condividere con uno schieramento il più ampio possibile» dicono Sandra Bonsanti, di Giustizia e Libertà e Beppe Giulietti di Articolo 21. Tantissime le adesioni tra cui Roberto Zaccaria, Vincenzo Vita, Antonio Di Pietro, Fabio Granata e Filippo Rossi, (Fli), Giovani per la Costituzione, il Comitato “il nostro tempo è adesso” Sofia Sabatino per la Rete degli studenti medi; Giorgio Paterna per l’Unione Universitari, Radio Articolo 1, Ottavia Piccolo.
Stasera a partire dalle 20 in piazza Santi Apostoli ci saranno artisti, attori, musicisti e politici, un vero e proprio happening, 5 minuti a intervento, che vedrà alternarsi al microfono Dario Vergassola, Giobbe Covatta, Valerio Mastrandrea, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia, Rosy Bindi, Antonio Di Pietro, Angelo Bonelli, Paolo Cento e Oliviero Diliberto. La «Dies Irae. resistenza musicale permanente» canterà l’Inno nazionale e il Va’ Pensiero.
A Firenze alcuni attivisti suoneranno “la sveglia della democrazia” mentre a Perugia si parlerà dei costi della corruzione e a Padova si allestiranno banchetti per spiegare la riforma della Giustizia secondo il ministro Angelino Alfano. Collegamento Aquila-Roma, annuncia Stefano Corradino di Articolo 21 che oggi sarà in Abruzzo, per costruire «un “ponte” in diretta telefonica con la manifestazione di Roma auspicando che a l’Aquila il 6 aprile ci siano anche numerosi media per risarcire quei territori che furono usati per la propaganda e in molti casi cancellati quando hanno cominciato a rivendicare i loro diritti».
«Sarà una grande festa assicura Gianfranco Mascia del Popolo Viola davanti ad un luogo simbolico, la Prefettura di Roma. Noi crediamo nella legalità e tra i difensori di quest'ultima ci sono i prefetti. La difesa della Costituzione deve essere una cosa gioiosa, non come le tristi iniziative organizzate dal centrodestra dove pagano le persone per farle partecipare». Ma ancora una volta motore prezioso per la circolazione delle informazioni e delle idee è il web, dove non si contano gli appelli, la raccolta di firme, i commenti le sollecitazioni a partecipare alla protesta e a non rassegnarsi.

l’Unità 5.4.11
Intervista a Rosy Bindi
«Governo pericoloso È nostro dovere scendere in piazza»
La presidente Pd: «Se necessario, abbandonare l’aula è un’idea da tenere in considerazione. Ormai siamo arrivati alla dittatura della maggioranza»
di Simone Collini


La situazione è    di una    gravità senza precedenti nella storia repubblicana di questo paese. Già soltanto la consapevolezza di questo giustifica una mobilitazione permanente». Rosy Bindi denuncia la «dittatura della maggioranza» in atto e definisce «doveroso» per il Pd e per tutti gli altri partiti e sindacati e associazioni che oggi animeranno il “Democrazia day” «offrire le occasioni per far esprimere ai cittadini il disagio, il dissenso, e anche le proposte di fronte a un governo inconclu-
dente e pericoloso».
Presidente Bindi, il Pd è sceso in piazza l’8 marzo, ha organizzato un sit-in per la scuola, un altro contro le leggi ad personam e ora un altro ancora per dignità del Parlamento: sicuri che sia la strategia giusta?
«Giusta? Doverosa. Il limite è stato ampiamente superato. Sono a repentaglio la democrazia e i diritti costituzionali».
Non è la prima volta che lanciate un simile allarme... «Ormai non solo si vogliono piegare le leggi alle esigenze di una persona, ma la maggioranza ora voterà in Parlamento che Ruby è la nipote di Mubarak. Cioè attraverso un voto si arriva a stravolgere la realtà, pur di sottrarre Berlusconi a un processo. Se non è dittatura della maggioranza questa...»
Per questo ha proposto di abbandonare l’Aula, suscitando reazioni infastidite anche all’interno del suo partito? «Chiariamo subito: io non ho mai proposto l’Aventino. E non è neanche rispettoso nei confronti di chi in quel periodo fece una scelta così drammatica usare con tanta leggerezza un simile termine. Io dico che noi dobbiamo stare in Parlamento, e starci in maniera sempre più forte, organizzata, determinata. Ma siccome non bastano le trasmissioni televisive e neanche l’organizzazione del partito per costruire un collegamento con tutto ciò che si è messo in moto nel paese, noi dobbiamo stare anche fuori dal Parlamento. E dobbiamo anche, se necessario per denunciare la dittatura della maggioranza, prendere in considerazione l’ipotesi di abbandonare l’Aula. Del resto, lo abbiamo fatto più volte alla Camera e al Senato anche quando erano segretario Veltroni e poi Franceschini. Sinceramente, non capisco il perché di alcune reazioni». Non teme che questa vostra “mobilitazione permanente” influisca negativamente nel rapporto con l’Udc? «Ognuno ha il suo modo di fare opposizione e dobbiamo rispettarci nella nostra diversità. Nelle sedi parlamentari il lavoro è sempre più unitario e sta dando risultati. Dopodiché, lo stesso Parlamento può essere il luogo adatto per scrivere insieme un codice di comportamento comune. Ricordandoci anche che c’è una forza non presente in Parlamento, Sinistra e libertà, con la quale non possiamo però pensare di non avere rapporti».
Per arrivare a quella coalizione ampia, costituente, tra progressisti e moderati, a cui punta Bersani? «È la scelta giusta per ricostruire dopo questo governo inconcludente e pericoloso. Pensiamo all’immigrazione: hanno creato ad arte tensione e poi la situazione è degenerata. Alfano ha parlato di una riforma epocale della giustizia e poi hanno violentato il Parlamento con le leggi ad personam, tra l’altro in maniera impotente, senza approvarle». L’Udc su quella riforma si è detto disponibile al confronto.
«Se è per questo anche qualcuno all’interno del nostro partito. I fatti purtroppo hanno dato ragione a chi diceva che non ci sono le condizioni per sedersi al tavolo e discutere nel merito».
Pensa che questa vostra mobilitazione permanente sia compatibile col richiamo di Napolitano a mettere fine a questo clima di tensioni?
«Le tensioni le provocano i ministri che offendono il Parlamento. Non le creiamo noi, né le manifestazioni e i cittadini che vogliono difendere la Costituzione».

Repubblica 5.4.11
"In piazza contro le leggi ad personam"
Oggi il sit-in davanti a Montecitorio e la "Notte bianca della Democrazia"
Il segretario del Pd Bersani riunisce i suoi parlamentari in piazza del Pantheon
In piazza Santi Apostoli l´happening dalle venti a mezzanotte
di Carmine Saviano


ROMA - Vogliono opporsi al degrado delle istituzioni, difenderle dall´abuso a fini di interesse personale. E per questo vogliono dire no al processo breve, l´ennesimo scudo giudiziario che la maggioranza di centrodestra sta fabbricando per il suo capo, Silvio Berlusconi. Oggi, a Roma, via alla "Giornata della Democrazia", la mobilitazione lanciata da Libertà e Giustizia, Articolo 21 e Popolo Viola. Due i momenti principali: dalle 14 in piazza Montecitorio con un presidio che poi si ripeterà anche domani e giovedì, poi dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli per un happening, battezzato "Notte Bianca della Democrazia", che metterà insieme politica, cultura e musica. Tanti interventi, un solo filo conduttore: costruire «un percorso comune verso la legalità repubblicana».
Occhi puntati su piazza Santi Apostoli. Dove, oltre a quelli degli organizzatori, ci saranno numerosi interventi. Cinque minuti a testa, per lasciare spazio a tutti. Si va dal presidente del Partito democratico, Rosy Bindi, al leader dell´Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. A seguire Fabio Granata di Futuro e Libertà, Oliviero Diliberto della Federazione della sinistra, Paolo Cento e Angelo Bonelli dei Verdi. Inoltre, i rappresentati delle associazioni e dei movimenti che hanno aderito all´appello lanciato dal comitato promotore: dall´Arci all´Anpi alle organizzazioni degli studenti. Anche qui, un unico leitmotiv: resistere agli attacchi alle istituzioni sferrato dalla maggioranza parlamentare e lavorare per costruire un fronte democratico unico e compatto.
In piazza si dà appuntamento l´Italia stanca del berlusconismo. La parole-guida sono "resistenza" e "Costituzione". Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario di Libertà e Giustizia, ha lanciato un appello pubblicato ieri su Repubblica: «Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado». E ancora: «Non è vero che se non si abbocca agli ami che vengono proposti si fa la parte di chi sa dire sempre e solo no. In certi casi il no è un sì a un Paese più umano, dignitoso e civile dove l´uguaglianza e la legge regnino allo stesso modo per tutti».
La giornata sarà animata anche da un´iniziativa del Pd. Pier Luigi Bersani riunisce i suoi parlamentari in piazza del Pantheon, alle 18. Un´iniziativa che ha lo scopo di incontrare i cittadini e portare dal Parlamento alla piazza ragioni e proposte del Pd. I democratici sono attivi anche sul versante digitale. Sul web hanno dato vita a una campagna in chiave anti Lega. Si tratta di diffondere, sui social network, il manifesto: «Processo breve, la Lega lascia liberi i criminali solo per salvare Berlusconi». Nel manifesto lo spadone di Alberto Da Giussano, nume tutelare del Carroccio, appare afflosciato. Il messaggio vuol essere: anche i valori duri e puri della Lega si sono piegati agli interessi del Cavaliere.

Repubblica 5.4.11
Enrico Letta: la scorsa settimana il peggio è accaduto in aula, non in piazza
"Un impegno straordinario ma non facciamo autogol"
Solo l´autorevolezza del presidente della Repubblica Napolitano sta tenendo insieme le istituzioni E il Pd conduce la sua battaglia senza Aventino
di G.C.


ROMA - «La situazione è così grave che c´è bisogno di un impegno straordinario, nel paese, in Parlamento, nelle piazze. Ma attenti a non fare autogol, a non commettere errori come il lancio di monetine, mercoledì contro La Russa davanti a Montecitorio». Enrico Letta, vice segretario del Pd, raramente è sceso in piazza.
Ma questa volta sarà alla manifestazione del Pd al Pantheon, onorevole Letta?
«Farò di tutto per essere ovunque, sia nella piazza organizzata da noi che in quella dei movimenti. Non vedo contraddizione tra la piazza e fare il nostro lavoro in Parlamento. Nelle manifestazioni indette dalla società civile ovviamente i politici staranno in secondo piano perché protagonista è la società civile».
Mercoledì scorso c´è stato il lancio di monetine contro il ministro La Russa; il rischio di incidenti è sempre dietro l´angolo?
«Sarebbe un boomerang, se ci fosse un qualsivoglia incidente. Tutti coloro che organizzano e che parteciperanno alle mobilitazioni vogliono il buon esito di queste iniziative. Non bisogna fare autogol, quindi ci vuole il doppio di attenzione».
In questo clima di mobilitazioni di piazza, l´invito del presidente Napolitano a maggiore responsabilità e meno rissosità resta inascoltato?
«Il monito di Napolitano è stato fondamentale in quel momento. Mercoledì e giovedì scorsi però, le cose peggiori sono capitate in aula non in piazza. Dopo di che, il decoro non prevede che l´ingresso della Camera sia assediato ma che si manifesti a un centinaio di metri di distanza. Nel pomeriggio di mercoledì gli errori sono stati di gestione dell´ordine pubblico; la provocazione di La Russa e della Santanchè; il lancio di monetine. Mai come ora penso che all´Inno di Mameli andrebbe aggiunta, parafrasandola, una frase dell´Inno inglese: "Dio salvi il presidente della Repubblica". Solo la presenza e l´autorevolezza di Napolitano sta tenendo insieme le istituzioni. E nelle istituzioni il Pd conduce la sua battaglia senza Aventino, senza abbandoni, ma dimostrando che questo governo non ha più benzina».
Un governo senza benzina, lei dice, ma che va avanti, magari per forza d´inerzia?
«Ormai sta perdendo consenso. Da tanti anni vado a Cernobbio, il mondo delle imprese e delle finanza ha sempre guardato più al centrodestra che al centrosinistra, ma ora in un referendum online il 60% ha bocciato la politica del governo. Un fatto che dimostra quanto le cose stiano cambiando».
(g.c.)

Repubblica 5.4.11
Antonio Di Pietro: la rivolta sociale è alle porte, serve una terapia d´urto
"L´indignazione della gente può far cadere il governo"
di Giovanna Casadio


Inutile pensare a un voto di sfiducia da parte delle Camere, in Parlamento ci sarà sempre qualcuno da comprare o ricattare

ROMA - «Solo la piazza può fare cadere Berlusconi, e per piazza intendo la massa dei cittadini indignati che non si rassegnano più a stare alla finestra». Antonio Di Pietro, leader di Idv ed ex pm di Mani pulite, parla di resa dei conti.
È dall´inizio della legislatura che lei partecipa o organizza piazze di protesta, onorevole Di Pietro?
«La piazza soltanto, ripeto, può fermare questa deriva antidemocratica rappresentata dal modello piduista di Berlusconi. Noi l´abbiamo capito dal 2008 quando partecipammo alle proteste di piazza Navona e piazza Farnese. Siamo stati snobbati dagli stessi che ora la pensano come noi. Io sono stato denunciato per le affermazioni che feci allora sul rischio eversivo di questo governo e questa maggioranza»
Chi è stato invece poco coraggioso?
«Mi riferisco a chi ci ha criticati, al Pd, all´Udc e ai Soloni di alcuni giornali blasonati. Sono orgoglioso che una formazione come la nostra abbia messo in piedi una politica di contrapposizione netta e di partecipazione popolare. Ora sento una nuova responsabilità, di trovare cioè il metodo per uscire da questa impasse. Ci vuole una terapia d´urto. Il rischio è una presa della Bastiglia: non lo vogliamo e non lo dobbiamo permettere, ma la rivolta sociale è alle porte. L´altra possibilità è chiedere che Berlusconi si dimetta: come dire che il sole domani non sorge. Sono testimone oculare del fatto che Berlusconi si è messo a fare politica per motivi giudiziari, solo restando dov´è continua a mantenere l´impunità che in uno Stato di diritto non gli sarebbe consentita. Infine, c´è l´ipotesi della sfiducia in Parlamento: come mettere la luna nel pozzo, perché con questa legge elettorale ci sarà sempre qualcuno da comprare o ricattare. Né possiamo aspettare il 2013 trasformando il cancro in metastasi».
E quindi, la piazza. Ma il presidente Napolitano chiede meno rissosità tra le forze politiche. Appello inascoltato?
«Una cosa è la rissosità, altra il gesto di libertà e resistenza dei cittadini italiani ormai esasperati».
Lei però ha invitato chi manifesta a lanciare monetine contro il centrodestra, se si presentano a loro volta in piazza.
«Invito a evitare di guardare l´effetto senza vedere la causa. Le monetine a Craxi erano la rappresentazione simbolica di un popolo sull´orlo della rivolta per una classe dirigente che aveva distrutto le casse dello Stato. Ora al disastro etico del ladrocinio della Prima Repubblica si aggiunge la sfacciataggine. Spero nell´appuntamento referendario: se Berlusconi perde sul legittimo impedimento, Napolitano dovrà prendere atto che la maggioranza non c´è più».

l’Unità 5.4.11
Ribellarsi all’instabilità
«Adesso basta» I precari sabato si prendono le piazze italiane
I giovani precari prendono la parola. Lo faranno sabato 9 aprile manifestando in tutto il Paese. «Il nostro tempo è adesso», lo slogan. Iniziative senza bandiere politiche in quasi trenta città.
di Luciana Cimino


Una generazione espulsa dalla vita produttiva e sociale del paese che vuole riprendersi la scena pubblica. Sono respinti dal mercato del lavoro, che quando li accetta lo fa solo a condizioni paraschiavistiche, sono impossibilitati a formarsi una famiglia, ad avere una casa, a coltivare passioni e sogni. Non hanno uno stipendio e non avranno una pensione. Sono i precari italiani. Un’intera generazione, ma c’è chi dice siano due (se si includono tutti quelli che il posto lo hanno perso causa crisi), finora silente ma che adesso si compatta dietro l’appello lanciato in rete dal comitato «Il nostro tempo è adesso» e scende in piazza. Anzi, nelle piazze. Il 9 aprile a Roma, (dove è prevista la manifestazione principale con un corteo che partirà alle 14 da piazza della Repubblica destinazione Colosseo) così come a Milano, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, Catanzaro. E in altre 28 città italiane. Ma anche Bruxelles e Washington. Una mobilitazione che è nata dal basso e che vuole rimanere senza “padrini”. Tutti i partiti di sinistra hanno aderito (da Sel, fin dalla prima ora, al Pd e all’Idv) ma per adesso la richiesta dei promotori è di scendere in piazza senza bandiere. Immediato l’appoggio della Cgil con il segretario Susanna Camusso che ha anche diffuso in internet un video appello. Così come al video si sono prestati alcuni volti noti della cultura e dello spettacolo come Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Caterina Guzzanti, Dario Vergassola, David Riondino. Ma saranno le storie di ordinaria disperazione dei precari e delle loro famiglie a prendere la scena. Quelli che non se ne vanno, perché ogni anno sono 45mila i laureati che lasciano l'Italia per cercare lavoro altrove. Ci sarà in piazza, sperano gli organizzatori, tanta parte di quel milione e 500 mila circa di giovani sotto i 34 anni che svolge un lavoro precario e che sono operatori di call center, interinali dello spettacolo, archeologi, ricercatori, insegnanti. E ci saranno anche i giornalisti precari, gli studenti e i giovani imprenditori.
PADRI E FIGLI
E i genitori, come questo che dice in conferenza stampa: «Ho un figlio di 22 anni che stiamo facendo studiare con immensi sacrifici, io e sua madre sognavamo che i nostri sforzi e la sua grande volontà potessero dargli un futuro che fosse migliore del nostro, io sarò in piazza e griderò con forza la mia rabbia». Ma il 9 non sarà solo una giornata in cui «si metteranno in piazza questi temi – fa notare Claudia Pratelli, del comitato “Il nostro tempo è adesso” – vogliamo costringere il Governo a mettere in cima all’agenda la precarietà e non la riforma della giustizia a uso e consumo di qualcuno. La crisi economica ha massacrato i giovani, non è un problema solo nostro: è un problema del Paese se manda al macero una generazione. Si riempiono la bocca in campagna elettorale, poi però sulla precarietà l’azione politica è assente. È insopportabile quello che fa il Governo, adesso basta».

il Fatto 5.4.11
Sabato 9 aprile
“Il nostro tempo è adesso”, i precari in piazza
di Ste. Fel.


Si chiama “Giornata nazionale di mobilitazione”, perché non è uno sciopero (i precari non possono scioperare) e neppure una protesta o una manifestazione. Il 9 aprile, in tutta Italia e non solo, ci saranno iniziative e cortei, a cominciare da quello che attraverserà Roma. “Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”. Questo è lo slogan del comitato promotore, che ieri ha presentato l’iniziativa in una conferenza stampa. Tra i 14 che si sono inventati l’evento ci sono archeologi freelance, imprenditori emigrati all’estero, giornalisti più o meno precari, operatori dello spettacolo. C’è anche una sindacalista “tradizionale”, Ilaria Nani, della Cgil giovani, ma non è una manifestazione sindacale. Soprattutto perché i precari non si fidano dei sindacati (Cisl e Uil, all’inizio, hanno anche approvato il collegato lavoro che ostacola i ricorsi contro i rapporti di lavoro illeciti per i precari). “Vogliamo risollevare le coscienze dei precari, dare un messaggio di riscatto”, dicono dal comitato.
Sul sito ilnostrotempoea desso.it   ci sono le ragioni della manifestazione. Una delle rubriche è dedicata ai numeri della crisi di una generazione silenziosa. Oltre all’ormai cronico 30 per cento di disoccupati tra i ragazzi che hanno tra i 15 e i 24 anni (l’Istat non registra miglioramenti nelle sue stime mensili), ci sono altri dati, come quello pubblicato ieri sugli infortuni sul lavoro. Subiscono un incidente 5,06 lavoratori ogni 100 tra chi ha meno di 35 anni. Per i più vecchi la percentuale scende al 3,7. Altro numero: 45 mila laureati ogni anno fuggono dall’Italia, diventano “Expat”, espatriati.
Il momento non aiuta: tra processi berlusconiani, la guerra in Libia, la catastrofe nucleare in Giappone e un numero di manifestazioni di piazza ormai così frequenti da renderle un appuntamento settimanale. Ma il gruppo de “Il nostro tempo è adesso” confida nel-l’approccio a rete. Sia nel senso del web, affidandosi a donazioni volontarie sul sito della manifestazione, con finanziamento dal basso in stile Obama per garantire l’indipendenza. Ma il modello rete è applicato anche nel mondo reale, preferendo una molteplicità di eventi a un unico grande raduno. Da Trieste a Taranto, da Verona a Siracusa, dalla mattina al pomeriggio.
Sul sito continuano ad arrivare adesioni dalle associazioni di precari che stanno cercando di riempire il vuoto di rappresentanza dovuto allo scarso impegno dei sindacati e dei partiti. Tra le ultime adesioni, quella del gruppo “Fitness precario” di Terni che partecipa alla mobilitazione “per rivendicare il diritto alla malattia, il diritto al riposo retribuito per maternità, i contributi che danno diritto alla pensione, una copertura assicurativa Inail contro gli infortuni sul lavoro, la paga stabilita dal contratto collettivo nazionale di settore”.

Repubblica 5.4.11
Il potere sottosopra
di Gustavo Zagrebelsky


Nei 150 anni dell´unità d´Italia, Torino si conferma centro del pensiero politico: dal 13 al 17 aprile, affronterà con "Tutti. Molti. Pochi", il problema delle oligarchie. Ovvero, quando il normale sistema democratico si capovolge a favore di un´élite

Biennale Democrazia è un luogo di discussione civile per la formazione di un´opinione pubblica consapevole. È un laboratorio pubblico permanente, articolato in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie (laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, seminari di discussione) che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
In questa seconda edizione di Biennale Democrazia, intitolata Tutti. Molti. Pochi, l´attenzione si ferma in modo particolare sulle derive oligarchiche che minacciano le democrazie contemporanee, nella sfera economica, in quella culturale e in quella politica. La presenza di élite o classi dirigenti capaci di assumere su di sé responsabilità pubbliche e onori corrispondenti è, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico delle democrazie. Patologica è invece la concentrazione oligarchica del potere in circoli sempre più ristretti, sempre più potenti, sempre più impermeabili alle domande e al controllo dei cittadini.
Una discussione pubblica su questi temi ha un significato particolare in una fase storica nella quale l´interruzione dei canali di dialogo tra i cittadini e i decisori pubblici determina nel nord Africa la reazione delle popolazioni e si accompagna, anche nel ricco Occidente, a povertà e diseguaglianze crescenti, a insicurezza sociale, a una generalizzata incapacità di dare forma al futuro. In cinque giorni di lezioni e dibattiti con la partecipazione attiva dei cittadini, Biennale Democrazia sottopone ad analisi i grandi fenomeni contemporanei che danno corpo al "potere dei pochi" a danno dei molti: l´economia finanziarizzata, che sembra aver scaricato sulla società il peso della propria incapacità di regolarsi autonomamente, la contrazione delle garanzie nel mondo del lavoro, il rapporto strumentale dell´uomo con l´ambiente, l´autoreferenzialità crescente nel ceto politico.
Nelle lezioni e nei numerosi momenti di discussione con i cittadini non si guarda però a questi fenomeni come a problemi insolubili, ma come a sfide aperte per le democrazie contemporanee che, qui e ora, chiedono nuove risposte, e a volte le trovano. Nell´impegno sociale per uno sviluppo sostenibile, per un diverso rapporto tra i sessi e tra le generazioni o, ancora, nei movimenti di reazione all´ingiustizia sociale diffusi sulla Rete e, più in generale, in quell´assunzione di responsabilità da parte dei giovani e dei cittadini che Biennale Democrazia si è data il compito di promuovere.

Il Fatto 5.3.11
Il Pd parla Tedesco
Domani al Senato la giunta decide sulla richiesta d’arresto dell’ex assessore Democratico
di Paola Zanca


“Vuole sapere 36 ore prima quello che voterò mercoledì?”. Il senatore Luigi Lusi non trattiene lo stupore. Mai come sull’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco – l’ex assessore alla Sanità pugliese, indagato e subentrato in Senato a Paolo De Castro, finito a Strasburgo – si è vista tanta “discrezione”. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani non ha dato indicazioni di voto. Eppure, nemmeno lo scudo della libertà di coscienza, scuce qualcosa dalle bocche dei 9 parlamentari democratici della Giunta per le immunità del Senato che domani sera alle 20.30 decideranno se Tedesco deve andare in carcere (come dicono i giudici) oppure no.
“MI SEMBRA corretto parlare prima nelle sedi parlamentari – spiega Marco Follini, che in giunta fa il presidente - Tra i miei colleghi ne trova altri sicuramente più loquaci di me”. Mica tanto. “Non dovreste nemmeno sapere quando ci riuniamo”, esagera la senatrice Marilena Adamo. “Ho l’obbligo della riservatezza”, insiste la Pd Francesca Marinaro. Sì, ma i vostri elettori si aspettano una risposta... “Voteremo (pausa) secondo coscienza”. Federalista la collega Maria Leddi: “Non dico niente, su questo sono davvero un po’ sabauda”. “Non mi faccia parlare”, implora il senatore Gianni Legnini. Ma tra un no comment e l'altro si lascia scappare che questo, effettivamente, “non è il momento migliore per decidere in serenità”. Stasera i parlamentari Pd partecipano convinti alla Notte bianca della democrazia contro la prescrizione breve, domani votano indecisi sull’arresto di Tedesco. L’accusa dei due pesi e delle due misure incombe minacciosa sul Partito democratico. Almeno questa, aiuta Lusi a superare lo shock della domanda iniziale: “Dobbiamo spiegare agli elettori che il processo cammina lo stesso, noi su questo non mettiamo parola. Quello che ci viene chiesto è se sussistono i requisiti per l’arresto. E noi dobbiamo rispondere con la legge, non con la pancia. Sarebbe un errore se tutti quelli di cui si chiede l'arresto li buttassimo ar gabbio”. Il romanesco è stretto, ma lo capiscono tutti. “Non siamo mica handicappati”, chiarisce il senatore Vidmer Mercatali. “Noi rispettiamo il lavoro dei magistrati, loro rispettino il nostro: sull’arresto possiamo decidere”. Inutile provare a discutere sull'opportunità di difendere, proprio ora, chi ha dei conti in sospeso con la giustizia: “Se ragiona così abbiam già finito di parlare – dice Mercatali – A me non me ne frega niente dei processi di Berlusconi, noi dobbiamo guardare le carte di Tedesco”. I 23 commissari della Giunta (oltre ai 9 Pd, 9 Pdl, 2 leghisti, D'Alia dell'Udc , Li Gotti dell'Idv e Piscitelli di Coesione nazionale) le hanno esaminate nel corso di sei sedute. Alla fine, il relatore Alberto Balboni (Pdl) ha deciso che il fumus persecutionis non c’è: i giudici non si sono accaniti sull’ex assessore alla Sanità. È questo che la giunta dovrebbe valutare, ma i pidiellini (salvo trappoloni) ritengono che Tedesco vada difeso, perchè a suo carico non ci sono né “reati di straordinaria gravità”, né “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Li “ripugna”, precisano, “solo il pensiero di poter autorizzare la limitazione delle libertà personali per calcolo politico”.
OGGI , in una riunione, anche i 9 Pd decideranno il da farsi. Ma non troveranno l'unanimità: “Per noi è una riflessione complicata – ammette il senatore Francesco Sanna - Non ce la caviamo mettendo la polvere sotto il tappeto . C'è il problema dell'articolo 68 della Costituzione: cosa tutela, solo l'esercizio della funzione parlamentare o anche la dignità del Parlamento, il fatto che gli eletti devono essere al di sopra di ogni sospetto?”. Sanna un'idea sulla risposta ce l'ha: “Certo, se dovessimo ragionare politicamente diremmo: cosa ci chiede la base?”. Venerdì sera a Borgomanero, in provincia di Novara, un cittadino si è alzato in piedi e lo ha chiesto a Felice Casson, anche lui senatore del Pd. “L'ho scritto una settimana fa su Face-book: non esistono né i presupposti giuridici né le motivazioni politiche per negare l'autorizzazione all'arresto. La trasparenza e moralità della politica ci impongono di non ostacolare il lavoro della magistratura. D'altronde – conclude Casson – se non fosse diventato senatore, non saremmo qui a parlare di Tedesco: la magistratura avrebbe fatto il suo corso, secondo il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.

«La posizione di Vendola, a suo tempo indagato, è stata nettamente archiviata. Ed è proprio Tedesco, in un interrogatorio di pochi giorni fa, che prova a tirarlo in ballo dicendo ai pm che Vendola “sapeva tutto”»
Il Fatto 5.3.11
L’inchiesta di Bari
“Collaudato sistema criminale” questo scrive il gip
di Antonio Massari


Secondo l’accusa, il senatore del Pd Alberto Tedesco, “pilotava le nomine dei dirigenti generali delle Asl pugliesi verso persone di propria fiducia”. Attraverso i dirigenti, poi, puntava a “controllare la nomina dei direttori amministrativi e sanitari in modo da dirottare le gare di appalto e le forniture verso imprenditori”. E gli imprenditori, secondo la procura, erano legati a Tedesco da “vincoli familiari o da interessi economici ed elettorali”. Il gip Giuseppe De Benedictis, firmando la richiesta d’arresto per Tedesco, poi trasmessa alla Giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere, descrive un “collaudato sistema criminale, stabilmente radicato nei vertici politico-amministrativi della sanità regionale”. L’ex assessore regionale alla sanità è indagato per vari episodi di concussione. Le indagini condotte dai pm Desirèe Digeronimo, Francesco Bretone e Marcello Quercia sono iniziate quando era ancora al vertice della sanità regionale. La richiesta di arresto, invece, è arrivata quanto Tedesco già sedeva in Parlamento. A indagini in corso, infatti, è stato nominato senatore: primo dei non eletti alle ultime elezioni politiche, ha preso il posto dell’ex senatore Paolo De Castro quando quest’ultimo, alle elezioni europee, s’è candidato al Parlamento europeo in quota Pd. Le 316 pagine firmate dal gip De Benedictis sono un duro atto di condanna alla politica pugliese: “Le indagini hanno dimostrato che l’invasività della politica non era una cosa sporadica ma, purtroppo, tutte le decisioni e gli indirizzi di politica sanitaria erano orientati quasi esclusivamente in una prospettiva clientelare di ritorno del consenso elettorale e di acquisizione d’indebite utilità nelle gare pubbliche”. È in questo contesto che Tedesco risulta indagato – spesso in concorso – per associazione per delinquere , concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, corruzione, falsità materiale in atti d’ufficio. Gli atti dell’inchiesta – inclusa la richiesta d’arresto firmata dal gip – si soffermano a lungo sulla presenza, nel mercato sanitario pugliese, delle aziende della famiglia Tedesco. Il gip scrive che già un’inchiesta del 1998 “consentirebbe di delineare un quadro preciso delle modalità operative di Alberto Tedesco, e di suo figlio Giuseppe (non è indagato, ndr), finalizzate all’acquisizione di fette di mercato sempre più vaste per la vendita di prodotti sanitari (in particolar modo protesi) e dei meccanismi di partecipazione alle gare pubbliche bandite dalle asl pugliesi sulla base di compiacenza e/o cointeressenza intessuti con personale medico e amministrativo operanti in tali strutture pubbliche”. S’è così riversato, in un ambito giudiziario, il problema politico del conflitto d’interessi che riguardava la figura di Tedesco, da un lato “imprenditore”, dall’altro assessore alla Sanità. Un rischio che il presidente della Regione, Nichi Vendola, ben conosceva sotto il profilo politico, già al momento della sua nomina. Nel 2008 però accade qualcosa: “Nel corso della 56esima seduta del consiglio regionale pugliese – scrive il gip – a seguito d’interrogazione urgente, veniva sollevato il problema del conflitto d’interessi dell’assessore Tedesco, con particolare riferimento alla titolarità della società Euro hospital, costituita in data 6 settembre 2005 da suo figlio Carlo, dopo la cessione delle quote, operate dai familiari del Tedesco, delle due precedenti società di famiglia, la Aesse hospital e la Medical surgery. La Euro hospital – come ammetteva sol stesso Tedesco durante il dibattito consiliare – acquisiva in esclusiva la rappresentanza della multinazionale Biomet, azienda fornititrice di protesi utilizzate sia nel settore della sanità pubblica, sia nel settore della sanità privata dal figlio Giuseppe Tedesco. Del resto, la circostanza di forti interessi nel settore sanitario, da parte di Alberto Tedesco, così come il costante incremento del fatturato della Euro hospital, per la fornitura di protesi, risulta consacrata in un’informativa d’indagine della Guardia di Finanza”.

il Fatto 5.4.11
Lampedusa e dintorni
L’isola si svuota, ma gli sbarchi non si fermano Accesso al Cie vietato ai deputati Pd
di Michele De Gennaro e Vincenzo Iurillo


Lampedusa si svuota: 450 migranti hanno lasciato l’isola nel tardo pomeriggio di ieri sulla nave “Catania” della Grimaldi. Nel centro di accoglienza rimangono così poco meno di 800 persone, compresi circa 150 minori. Alcuni di questi potrebbero lasciare l’isola già oggi sulla “Flaminia” della compagnia Tirrenia. Ma il mare calmo di queste ore ha favorito l’arrivo di altri barconi: solo in serata ne sono stati soccorsi quattro. Ieri, intanto, al senatore del Pd Furio Colombo arrivato a Lampedusa per visitare il centro di accoglienza insieme al collega Andrea Sarubbi, è stato vietato l’accesso nella struttura. “Si è trattato di un provvedimento ad personam – ha detto Colombo – avevamo informato preventivamente il comandante dei Carabinieri che ci ha accolti in aeroporto e accompagnati verso il Centro”. Ma una telefonata di un rappresentante della prefettura di Agrigento ha posto il veto assoluto alla visita dei due parlamentari: “È un fatto di una gravità assoluta – ancora Colombo – Tra le prerogative dei parlamentari è prevista la visita nei centri detentivi senza necessità alcuna di preavviso. Non vorremmo che si trattasse di un tentativo maldestro di nascondere all'Italia quanto sta realmente accadendo”.
“IL DIVIETO opposto ai nostri deputati è grave e inaccettabile – ha detto Dario Franceschini – Ci chiediamo come mai proprio ieri un deputato del Pdl abbia invece potuto regolarmente svolgere un sopralluogo”. Ma al Fatto Quotidiano Vincenzo Fontana, deputato Pdl, smentisce: “Non sono entrato nel centro. Sono arrivato fino all’ingresso, dove si procede all’identificazione degli immigrati. Poi mi sono incontrato con il questore. Stiamo studiando interventi infrastrutturali, fiscali e per l’ambiente per consentire a Lampedusa un veloce ritorno alla normalità e salvare l’imminente stagione turistica”.
Ieri la nave “Excelsior”, partita lunedì da Lampedusa con a bordo 1.714 migranti, ha fatto tappa nei porti di Palermo, Catania e Napoli. Dalla città etnea 15 autobus hanno trasferito 600 persone nella tendopoli di Pian del Lago a Caltanissetta (dove sono già ospitati circa 400 profughi). Altri 200 sono stati indirizzati verso la tendopoli Kinisia a Trapani (dove sono stati accompagnati anche 50 tunisini approdati sulle coste di Pantelleria). A Napoli, oltre alla “Excelsior”, è attraccata anche la “San Marco” con a bordo 470 tunisini destinati alla tendopoli di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano.
A vederla sembra un carcere, e i migranti, provati da un lungo viaggio di 40 ore nutriti a pane e pomodoro, si sono spaventati. Muri alti cinque metri, cocci sulla parte alta, architettura militare: del resto, è una ex caserma riallestita per l’occasione. Tra i 470, anche un ragazzo che giura di essere sposato con un’italiana. L’uomo ha insistito a lungo e secondo i mediatori culturali che ieri hanno atteso i profughi della “San Marco”, la signora in questione era sulla banchina del molo Beverello ad aspettarlo, proprio sotto lo striscione “Benvenuti” montato dal Forum delle associazioni antirazziste. Vero o falso il matrimonio, il ragazzo non ha potuto separarsi dal gruppo. All’ex caserma i tunisini hanno trovato 120 tende blu, montate dai vigili del fuoco del comando provinciale di Caserta, ciascuna per 8 persone con brandine e lenzuola, e tre tende grandi per il servizio mensa: “Tutti sono apparsi stanchi – sottolinea Jamal Qaddorah, italo-palestinese responsabile immigrati della Cgil di Napoli – e bisognosi di una doccia”. Secondo Qaddorah tra i profughi ci sarebbero una decina di minorenni, che non dovrebbero essere ospitati qui. La Prefettura, invece, conferma la presenza di un solo minorenne.
ANCORA critica, invece, la situazione nella tendopoli di Manduria, in provincia di Taranto. Circa 200 ospiti, nella notte tra domenica e lunedì, hanno dormito all’aperto; 70, da ieri pomeriggio, hanno iniziato uno sciopero della fame. Altre mille persone, salpate ieri da Lampedusa, sembravano destinate a Manduria, ma la nave “Clodia”, in un primo momento attesa a Taranto, in serata ha proseguito verso nord.
Per ora la quasi totalità dei migranti di Lampedusa viene ospitata in strutture del Sud Italia. Congelata l’“Arena Rock” di Torino, messa a disposizione in un primo momento dal sindaco Chiamparino, fa eccezione la sola Toscana, pronta a ricevere entro poche ore circa 400 profughi in numerosi comuni, tra cui Firenze, Livorno, Sesto Fiorentino, Empoli e Massa Marittima. Ma anche qui non mancano tensioni: ieri decine di persone hanno manifestato di fronte all’ex ospedale di Calambrone, in provincia di Pisa, una delle strutture individuate per l’accoglienza. Motivo, la prossima stagione estiva, che si ritiene danneggiata dai “clandestini invasori”.

il Fatto 5.4.11
La direttiva europea sui rimpatri che l’Italia non vuole recepire
di Silvia D’Onghia


Dal 24 dicembre scorso, per l’ennesima volta, l’Italia è fuori legge rispetto all’Europa. È scaduto infatti il termine per recepire la direttiva comunitaria sui rimpatri (varata da Bruxelles nel 2008), quella che mette in crisi la Bossi-Fini, e per questo Maroni non la vuole, ma che potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza immigrazione. Nel pomeriggio di oggi l’aula di Montecitorio sarà chiamata a pronunciarsi sugli emendamenti presentati dai Radicali per il recepimento del testo: un’analoga operazione al Senato prima di Natale è fallita a causa della Lega, che all’ultimo momento, con il parere favorevole del governo, ha eliminato dalla legge comunitaria (che annualmente deve recepire le indicazioni europee) proprio l’emendamento sulla direttiva rimpatri.
PERCHÉ tanta ostilità? “Il punto fondamentale è che l’Europa considera la reclusione degli immigrati irregolari come l’estrema ratio, e non la prima, cosa che fa invece la Bossi-Fini – spiega il segretario radicale, Mario Staderini –. All’irregolare viene offerta invece la possibilità del rimpatrio volontario entro 30 giorni, poi scattano misure coercitive meno lesive della dignità personale: l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo. Se fosse recepita, la direttiva smaltirebbe il sovraccarico delle Procure, che si trovano a dover gestire decine di migliaia di procedimenti per immigrazione clandestina (quasi 20 mila quelli avviati dalla Procura di Agrigento proprio in seguito agli sbarchi dell’ultimo periodo, ndr). Un reato che l’Unione europea non ammette”. Già, perchè la Corte europea di Giustizia si pronuncerà a breve anche su questo, dopo il ricorso presentato da un immigrato. Il mancato recepimento della direttiva negli ultimi mesi ha creato un grande caos: molte Procure l’hanno ritenuta immediatamente applicabile e hanno così scarcerato decine di irregolari. Lo stesso hanno fatto gli investigatori, tanto che a dicembre il capo della Polizia, Antonio Manganelli, è stato addirittura costretto ad emanare una circolare per spiegare alle Questure come comportarsi. Maroni a gennaio ha annunciato di voler “disinnescare” la direttiva con un decreto legge, cosa che poi naturalmente non ha fatto.
“È UNA situazione paradossale – prosegue Staderini –: i magistrati sono stracarichi di lavoro, almeno duemila persone affollano le carceri italiane per il solo fatto di essere clandestine e andranno incontro a un processo. E ci sono in giro circa 500 mila irregolari che, se fossero presi, dovrebbero essere rinchiusi nei Centri di Identificazione ed espulsione. Il governo non ha né le risorse né il personale di polizia per attuare la legge e per questo, al di là di qualche retata spot davanti alle mense della Caritas, li lascia liberi. Recepire la direttiva 115 del 2008 servirebbe invece a garantire un percorso legale anche per gli stessi rimpatri, aprendo nello stesso tempo alla possibilità che gli stranieri vengano ospitati in strutture private, senza l’impiego delle forze dell’ordine”.
Per questo i Radicali lanciano un appello, “alle opposizioni, prima di tutto – conclude il segretario –, ma anche ai membri cattolici della maggioranza: così potete salvare il governo dalla situazione allucinante in cui si è messo”.

l’Unità 5.4.11
I bambini migranti
di Giancarlo De Cataldo


La Convenzione sui diritti del fanciullo di New York (1989), ratificata in Italia con una legge del 1991, stabilisce che in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche e delle autorità amministrative, l'interesse superiore del fanciullo deve essere tenuto in considerazione preminente.
E stabilisce che i diritti dei minori vadano garantiti senza distinzione di sorta “a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza”.
Un preciso impegno internazionale vincola l'Italia, e gli altri Paesi firmatari, al rispetto di questa convenzione. Fra le conseguenze pratiche del dovere normativo rientrerebbe, dunque, l'obbligo di prestare assistenza degna di questo nome ai minori migranti che sbarcano, in queste ore, sulle coste europee. E l'Italia dovrebbe essere in prima fila: siamo, dopo tutto, il Paese che vanta strenui difensori della famiglia da pericoli come le unioni gay e il relativismo culturale.
Invece, per un singolare sussulto culturale, sembra che il tema stia a cuore solo a qualche lacrimosa anima bella della sinistra radical-chic (ovviamente, dal caldo rifugio di eleganti loft nei centri storici). Mentre i nostri governanti, in sintonia con il popolo che chiede sicurezza, si danno da fare per difenderci dall'orda di potenziali stupratori in fasce e terroristi in erba.

il Fatto 5.4.11
Ben Jelloun: “Giuste le bombe su Gheddafi”
Lo scrittore marocchino però precisa: “Ricordate che il raìs è un prodotto dell’Occidente”
di Alessandra Cardinale


Una primavera in pieno inverno che non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Un po’ forse alla Rivoluzione dei garofani in Portogallo del 1974. Ma è diversa. Tahar Ben Jelloun, scrittore, giornalista, nato a Fèz in Marocco, l’autore francofono più tradotto al mondo, inizia così a raccontare il suo ultimo libro La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba (Bompiani). “È un risveglio della dignità che non ha precedenti perché – spiega l’autore – nessuno l’aveva prevista. Né gli islamisti né la gente al governo”. Avverte lo scrittore marocchino che il capitolo sulle dittature arabe si chiuderà definitivamente quando Mubarak, Ben Ali, Gheddafi e tutti gli altri saranno giudicati da un tribunale internazionale: “Dopo la fine politica deve esserci quella giuridica”.
Rivolta o Rivoluzione?
Non si tratta solo di una questione di parole, c’è una differenza. Una rivoluzione è qualcosa che viene pensata e organizzata negli anni, ha una struttura politica che la sorregge, un’ideologia che la anima. Non c’è nulla d’improvvisato nella rivoluzione. La rivolta – ed è il caso in questione – è una reazione spontanea, istintiva che con il passare del tempo può trasformarsi in rivoluzione. Sono state rivolte contro l’insostenibile.
I giovani in piazza non bruciano bandiere israeliane o americane. Chi sono?
Non si sono fatti influenzare dagli islamisti, molti hanno vissuto negli Stati Uniti o in Europa, usano Internet per comunicare e lottare. Poco tempo fa leggevo su Libération che un gruppo di giovani libici che studiano a Londra sono partiti per Tripoli per unirsi alla rivoluzione. È molto interessante. Questo movimento, che non ha un leader, ha però una forza tale da abbattere i partiti politici tradizionali e islamisti che per la prima volta nella loro storia stanno subendo una dura sconfitta.
“Facciamo come loro, facciamo la rivoluzione”. La Rivoluzione dei gelsomini diventa fonte d’ispirazione anche nelle manifestazioni in Italia. Sorpreso?
È straordinario. Ancor più se si pensa che l’onda rivoluzionaria sta mettendo in allerta e spaventa Paesi lontani come la Cina, che ora ha vietato la ricerca di due parole su Internet: Tunisia ed Egitto, perché sinonimi di ribellione.
Che effetto le ha fatto vedere bandiere francesi e cori pro Sarkozy nelle strade libiche?
È un gesto simbolico: quando stai per annegare e il diavolo ti tende la mano che fai? La prendi. La Francia, per una volta però ha fatto una cosa buona. Il Colonnello non è un pazzo, sa quello che fa. È un uomo molto crudele e spero venga giudicato come Saddam. Essendo contro la pena di morte, non sto chiedendo la sua esecuzione, ma chiedo che venga giudicato da un tribunale internazionale così da creare un precedente: il prossimo dittatore che salirà al potere saprà a quale rischio va incontro.
Dunque è a favore dell’intervento in Libia?
Non intervenire significava lasciare un leone e un bebé chiusi in una gabbia. Cosa avrebbe fatto il leone? Lo avrebbe divorato. Se qualcuno sta uccidendo, centinaia, migliaia di cittadini con armi pesanti e l’uso di mercenari è necessario fermarlo.
Gheddafi, a differenza di Ben Ali e Mubarak, non molla. È diverso dagli altri dittatori?
Gheddafi è un caso speciale. Dal ’69, anno del colpo di Stato, considera la Libia la sua casa, la sua proprietà, la sua tenda. Tutto. Non ha capito che la gente reclama giustizia e dignità. Quando ho visitato la Libia ho potuto verificare che il Paese è totalmente bloccato, fermo dal 1969: Gheddafi non ha fatto nulla per la sua gente. È un criminale, terrorista, colpevole di centinaia di morti. La colpa è dell’Occidente che lo ha perdonato e che gli ha permesso di comprarsi l’innocenza con i soldi. Ha pagato miliardi, credo due miliardi di dollari per le vittime di Lockerbie, ha dato centinaia di dollari a ciascuna famiglia americana e la stessa cosa ha fatto con i francesi. Gli americani sono quelli che hanno fabbricato il Gheddafi di oggi.
Il giornalista Samir Kassir scriveva nel suo libro L’Infelicità araba: “ gli arabi possono riappropriarsi del proprio destino a patto di liberarsi della cultura del vittimismo”. Sta avvenendo questo?
Ricordiamo che Samir Kassir era un giornalista libanese ucciso dai siriani per le sue idee di libertà. Terribile. Kassir aveva ragione nel dire che per molto tempo i popoli arabi hanno continuato a dare la colpa al colonialismo e all’Occidente. Noi ora abbiamo i nostri dittatori. Bisogna tornare su noi stessi per guardare quello che sta succedendo nel mondo arabo: perché quelli che ci fanno più male ora sono arabi.

Repubblica 5.4.11
La Braidense senza lampadine e Manzoni si legge al buio
di Michele Smargiassi


Aumenta i servizi, wireless compreso, ma ha sempre meno denaro e perde personale
Per problemi al tetto alcune stanze sono state svuotate e si è ricorso a teli impermeabili

In mutande e reggiseno tra incunaboli e cinquecentine. Uno spogliarello, e nella Sala Teologica, per giunta. Ma persino Maria Teresa d´Austria, la fondatrice della Biblioteca Braidense, sarebbe stata d´accordo. «Con quello spot della Golden Lady abbiamo sistemato e ridipinto gli infissi e sostituito i vetri rotti». Aurelio Aghemo era da poco soprintendente: «Non fu un sacrificio. La sala restò chiusa un giorno solo, fecero tutto con grande velocità e rispetto per il luogo. E la modella, una ragazza francese, devo dire, era bellissima...».
La cultura si arrangia anche così, nell´Italia dei tagli che vanno, e vengono, e magari rivanno, del doman non v´è certezza, quest´anno dalla vergogna del disastro ci ha salvato una fermata al distributore di benzina, due centesimi d´accise in più sul litro per salvare il genio italico, ma cosa accadrà con la prossima finanziaria nessuno lo sa, si naviga a vista. E allora perché scandalizzarsi se ci si adatta ingegnosamente a sopravvivere nella precarietà, facendosene una ragione, quasi una filosofia. Sulla parete dietro la scrivania del suo ufficio, Aghemo ha appeso un ritratto di Napoleone, come memento: «per ricordarmi che da grandi altezze si può sempre precipitare in grandi insuccessi».
Finora non è accaduto, nonostante tutto. Da duecentoquarant´anni la Braidense è uno scrigno delle patrie lettere incastonato a Brera, quarta biblioteca italiana per importanza, un milione e mezzo di volumi, un fondo antico inestimabile, gli archivi di Foscolo, Manzoni, Pascoli, una mediateca multimediale aperta da poco nella vicina ex chiesa di Santa Teresa. La biblioteca aumenta i servizi, cresce di 18 mila volumi l´anno. Ma ha sempre meno denaro, e perde personale. Centoventi dipendenti fino a tre anni fa, entro l´anno coi pensionamenti senza turnover scenderanno a 69: è vicino il dimezzamento. «Ma non abbiamo tagliato neanche un minuto dell´orario di apertura», rivendica con orgoglio il sovrintendente. Certo, «è una partita a dama». Due o tre giorni a settimana, i catalogatori interrompono il lavoro sugli archivi per sedersi al banco del prestito e della consegna dei libri ai visitatori. Ci si adatta. Anche con gli acquisti si stringe la cinghia. Nel 2006 il fondo era di 320 mila euro l´anno. Oggi 70 mila, quasi un quinto. Bene, si taglia. Con «oculatissimo dolore». Si sacrificano gli abbonamenti a riviste meno lette, si rinuncia a completare quell´area di studio marginale. Il lettore medio non se ne accorge. Ma le lacune un giorno peseranno. La Braidense è un archivio del sapere, e un sapere coi buchi che sapere è?
Nell´augusta saletta che custodisce l´archivio manzoniano manca il celebre ritratto dell´Hayez: per le celebrazioni unitarie è andato in prestito al Quirinale. Vorrà pur dire che ci tiene, l´Italia, al romanziere della Patria. Daniela Goffredo, che ne è la conservatrice dal 1981, apre con cautela il faldone dei manoscritti, la grafia minuta di don Lisander recita: «Ei fu come al terribile / segnal della partita», è l´originale del Cinque Maggio, sì, quella che abbiamo imparata a memoria è una poesia diversa, vuol dire che l´arte è fatta di correzioni, che la manutenzione è una necessità delle parole come dell´edilizia.
Infatti le tegole si rompono. Il tetto della Braidense, da dove Schiapparelli scopriva i canali di Marte, ha qualche problemino. Niente di drammatico, ma è stato necessario sgomberare un paio di ambienti e metterci teloni impermeabili. Mica può piovere sul Manzoni. Allora s´è dato da fare il Fondo ambiente italiano, che assieme all´associazione Amici di Brera ha animato una colletta da 27 mila euro. Bene? Sì. Cioè no, perché la Braidense, essendo una proiezione del Ministero dei Beni culturali, non ha una contabilità autonoma, dunque non può accogliere e spendere donazioni private. Dovrebbe girarle al bilancio generale dello Stato, e poi chiedere per via burocratica un finanziamento straordinario per lavori. E avete già capito cosa significa. Così, ci si arrangia di nuovo. I privati pagano direttamente le fatture ai lattonieri, ai muratori, agli elettricisti. Anche con lo spot dello spogliarello andò così. Il dottor Aghemo si pente di avermi raccontato lo stratagemma non procedurale, «nulla di irregolare, ma se può sfumi sui dettagli...». La burocrazia non tollera certe creatività, ancorché sacrosante.
Nell´imponente sala Maria Teresa tutti i ragazzi seduti ai tavoli hanno un laptop acceso. Da un anno tutta la biblioteca offre il wireless gratuito. E solo per questo i frequentatori sono aumentato di colpo del 50%, da 300 a 450 in media al giorno. Però nella Braidense interconnessa si fatica a cambiare le lampadine. Bruciano, è inevitabile, e bisogna cambiarle. Non si dice "semplice come svitare una lampadina"? Bene, questo alla Braidense, che pure fu la seconda biblioteca del mondo illuminata elettricamente, non vale. Con soffitti da nove metri, ogni volta bisogna chiamare gli operai con il trabattello, l´impalcatura mobile, aprire un cantiere con piano sicurezza a norma antinfortunistica. Un investimento oneroso. Ma al buio non si legge. Solo che il fondo spese correnti, per la manutenzione ordinaria e le bollette, quest´anno è stato tagliato del 30%. Che si fa? «Non so, accenderemo le luci mezz´ora dopo. Oppure cambieremo una lampadina su due...».
Eppure ci fu un´età dell´oro anche per la Braidense. Quando il ministro Veltroni inventò il "lotto del martedì" riservato alla cultura, piovvero denari per le spese extra, per le iniziative. Poi anche quella manna s´inaridì, tagliata per esigenze di bilancio dalle successive finanziarie. Chissà se alla tassa culturale sulla benzina accadrà la stessa cosa. Alla Braidense sono già abituati da anni ai soldi che vanno e vengono, ai bilanci decisi a Roma senza poter spostare neppure un euro da un capitolo all´altro, versati sempre in ritardo, a spese già fatte. S´arrangeranno ancora. Finché si può. «Manca la carta per le fotocopie, ricordiamoci di trovare uno sponsor».

l’Unità 5.4.11
Polemiche sul fine vita
Caso Eluana. La strana realtà dell’Avvenire
di Maurizio Mori


Paola Binetti ha osservato che il contrasto sulla legge sul fine vita si è «spostato tutto in casa cattolica», così cattolici con gli stessi valori «raggiungono conclusioni diverse» sulla legge (Ansa, 9 marzo). Ma per il giornale dei vescovi Avvenire queste divisioni non esistono ed a leggerlo sembra che i cattolici siano monolitici. Ma non solo: insiste nel sostenere tesi palesemente non vere, solo per fare terrorismo psicologico. Così Pino Ciociola il 19 marzo ha scritto che Eluana a Udine fu «sedata – pesantemente –, nei giorni in cui la fecero morire», ma, ciò nonostante, questo non bastò ad evitarle le sofferenze atroci, tanto che l’autopsia avrebbe riscontrato «nel palmo delle sue mani le ferite provocate dalle sue stesse unghie, perché le aveva strette tanto forte da entrare nella pelle». Amato De Monte e Cinzia Gori, che hanno accompagnato Eluana alla fine, a nome dell’Associazione «Per Eluana» hanno subito smentito la notizia con un comunicato stampa che sottolineava come l’autopsia ha accertato che «la quantità di sedativo ... fosse oltremodo bassa»: nessuna sedazione pesante, ma anzi dosi «al di sotto» dei valori terapeutici. Pertanto, nessuna atroce sofferenza! Quanto alle ferite alle mani esse dipendevano da tetraplegia spastica diagnosticata da tempo, non dai dolori atroci dell’agonia.
Invece di accettare l’evidenza autoptica, Ciociola nella trasmissione «A sua immagine» di Rai1, domenica 27 mattina ha ripetuto la tesi iniziale, rincarando la dose di imprecisioni. Suscita tristezza vedere come il quotidiano cattolico rifiuti la discussione razionale e basata sui fatti accertati, insistendo nella riproposta di tesi preconcette basate su intense emozioni. Sorprende notare come più che dalla «ricerca della verità» (Benedetto XVI, 7 ottobre 2010) i giornalisti cattolici sembrano essere mossi dall’esigenza di serrare i ranghi prima della battaglia decisiva. Si sentono accerchiati dalle innovazioni della biomedicina, e per dare un senso alla resistenza giungono a negare la realtà: non riconoscono la presenza di una forte divisione tra i cattolici e censurano eventuali dissensi, insistono nel dire che Eluana sarebbe stata lasciata morire tra atroci sofferenze nonostante la sedazione.
In pochi anni i cattolici sono tornati all’epoca preconciliare in cui si ponevano in guerra col mondo moderno visto come malvagio. Per mostrare questo devono travisare e negare la realtà. In questo modo non andranno lontano, sia perché le bugie hanno le gambe corte, sia perché quand’anche riuscissero ad imporre una legge liberticida non avrebbero vinto la guerra né restaurato l’ordine morale, ma solo accettato un favore da una maggioranza moralmente impresentabile.

La Stampa 5.4.11
Intervista
“Pechino si sente insicura per questo ha arrestato un artista così famoso”
Lo scrittore Bao Pu: dopo Ai Weiwei siamo tutti in pericolo
di Ilaria Maria Sala


Bao Pu, pechinese, editore a Hong Kong di libri d’arte e politici, come le scottanti memorie dell’ex premier cinese Zhao Ziyang caduto in disgrazia dopo la rivolta di Tienanmen del 1989, conosce i meccanismi della politica cinese dall’interno: suo padre, infatti, è Bao Tong, il consigliere di Zhao Ziyang, agli arresti domiciliari in forma quasi permanente fin da quel fatidico 1989.
Come vede il giro di vite in atto in Cina?
«L’inizio di ciò è da ricercarsi nell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo lo scorso anno. Altri eventi, come la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” sono più reali nel timore delle autorità che non nei fatti: è una reazione del tutto sproporzionata, che riflette un’insicurezza generalizzata».
Eppure, la leadership cinese sembra coronata di successi, economici e diplomatici: perché sarebbe insicura?
«È ovvio che il sistema politico non è stabile come vorrebbero che fosse. Nessuno in Cina pensa che il governo sia minacciato da veri tentativi di rivolta, eppure spendono una fortuna in sicurezza interna: più di quanto non sia speso per l’esercito. La prima causa di morte fra la polizia cinese è il superlavoro: due dati che mostrano fino a che punto il governo si senta insicuro del sostegno di cui gode internamente. Arrestare Ai Weiwei ne è una prova supplementare: Ai è un artista, non un attivista politico. Certo, si è occupato di temi considerati sensibili dalle autorità, ma non minaccia il potere politico. Arrestarlo significa aver perso ogni senso della misura, significa che la percezione che il potere cinese ha di sé è molto più fragile di quello che si vede dall’esterno. Credo che si stiano rendendo conto che lo sviluppo economico, da solo, non risolverà tutte le questioni aperte, al contrario: i problemi sociali nel corso del periodo di riforme non hanno fatto che aggravarsi».
Fino a che punto Ai Weiwei è rappresentativo della società cinese?
«Ai appartiene a quella che possiamo definire un nuovo tipo di attivisti sociali e politici, che ha messo davanti al governo, in modo inequivocabile, come lo scontento popolare non sia ridotto dalla maggiore prosperità odierna. Tramite questo tipo di attivisti il governo si è reso conto che la maggior parte delle persone non lo sostengono. È una dinamica critica: più il governo si sente insicuro, più reagisce in maniera sproporzionata, più il suo senso d’insicurezza diventa vistoso. Arrestare un artista come Ai non fa che allargare la fascia della popolazione consapevole dell’insicurezza del governo. E l’unica cosa che le autorità sanno fare in risposta è utilizzare la forza, ancora ed ancora».
Quale sarebbe la soluzione?
«Affrontare e risolvere i problemi a livello politico. La leadership attuale, chiaramente, non ne è capace. L’unica soluzione che hanno trovato è quella di guadagnare tempo con la crescita economica da un lato e la forza dall’altro. Quanto tempo hanno a disposizione prima che le tensioni raggiungano un punto esplosivo? Impossibile dirlo, perché finora se sembrava che potesse esserci uno strappo sociale significativo, sono riusciti a mettere delle toppe temporanee gettando soldi in pasto ai problemi. Ma questo non compra appoggio o solidarietà, e l’arresto di un artista internazionalmente noto crea enorme risentimento. È un errore di giudizio».
Questo può scatenare una reazione popolare?
«Al momento è difficile: quelli che potrebbero reagire sono stati messi agli arresti, desaparecidos, o messi a tacere. Ma tutti stanno osservando, e il segnale dato dall’arresto di Ai è molto forte, la gente si sta chiedendo: se può essere arrestato uno come lui, significa forse che siamo tutti potenzialmente in pericolo?».

Repubblica 5.4.11
Al governo, figli e nipoti dei fondatori del partito
I principini della Cina un clan venuto da Mao
di Federico Rampini


Sembrano passati secoli dalle congiure di palazzo, spesso accompagnate a spargimenti di sangue sulle piazze, che segnarono il passaggio di potere da Mao Zedong a Deng Xiaoping. Giunta alla quinta generazione, l´oligarchia che governa la Cina ha imparato a gestire in modo ordinato e pacifico le successioni. Il prossimo passaggio delle consegne è stato annunciato con largo anticipo: il vicepresidente Xi Jinping, 57 anni, è stato incoronato come il successore di Hu Jintao al vertice della superpotenza asiatica. Nel marzo 2013 Xi sostituirà Hu alla presidenza della Repubblica. Il meccanismo è bene oliato. Pechino ha adottato un metodo di governo collegiale, le mediazioni tra le correnti di partito e i vari clan al potere si fanno in modo incruento, dietro le quinte. Al popolo si presenta una facciata di unità.
È una lezione che il regime ha tratto dalla rivolta democratica di piazza Tienanmen (1989): quel movimento di protesta fu incoraggiato dalle visibili divergenze tra i leader di allora. Della biografia di Xi due cose sono chiare. La prima è che il leader in pectore appartiene alla categoria detta dei "principini": figli e nipoti dei fondatori del partito comunista, eredi biologici e consanguinei del gruppo originario raccolto attorno a Mao.
I "principini" sono un´élite controversa. Loro si considerano i custodi di una tradizione, di un´etica dei padri della patria, e del primato del partito comunista. Chi non fa parte di questo clan li considera dei rampolli cresciuti nel privilegio, arroganti come tutte le nomenklature ereditarie. L´altro aspetto importante nel suo curriculum è che i suoi principali incarichi sono stati al governo di due province ricche, il Fujian e lo Zhejiang, più un periodo come segretario del partito comunista di Shanghai. Si è fatto le ossa nella Cina più avanzata e moderna, non nelle regioni povere. Con due conseguenze. Primo: è più sensibile alle aspirazioni e ai bisogni del ceto urbano medioalto e delle lobby industriali. Secondo: governando regioni sviluppate ha potuto scremare ricchezze personali da elargire a parenti, amici e alleati.
Il dipartimento di scienze politiche dell´università di Singapore, autorevole osservatorio esterno sulla Cina, fa questa distinzione tra noi e loro: le liberaldemocrazie occidentali sono sistemi fondati sulle procedure (cioè le regole attraverso cui i cittadini selezionano i propri governanti), il sistema cinese è basato sulla performance. Non avendo un´investitura dal basso ma solo una selezione dei dirigenti per cooptazione, il regime di Pechino costruisce a modo suo una forma di consenso, e di legittimità dei suoi leader, in proporzione ai risultati - crescita, benessere economico - che garantisce alla popolazione. La stabilità è il suo obiettivo primario.
Dopo che quel sistema ha retto meglio degli Stati Uniti la terribile prova della crisi economica nel 2008-2009, Xi e i suoi sono convinti che quel modello non ha nulla da invidiare al nostro. E tuttavia, il nervosismo con cui questi leader hanno reagito alle rivolte del mondo arabo, con un inasprimento della censura su Internet e della repressione contro i propri dissidenti, indica che l´autocrazia cinese si considera meno forte e meno stabile dell´immagine che proietta all´esterno.

Repubblica 5.4.11
"Reazionario e me ne vanto" la gauche sedotta dalla Le Pen
Il fondatore di "Reporters sans Frontières" ora pubblica un libro che celebra Marine
La spiegazione: c’è troppo disprezzo a sinistra per il popolo che vota a destra
di Giampiero Martinotti


«Sono reazionario e me ne vanto». Lo slogan è solo sottinteso, ma non per questo meno esplicito. Cementa un gruppo di opinionisti che comincia a imporre le proprie idee su stampa, radio e tv. Idee che si vogliono controcorrente ma in realtà molto vicine a quelle del Fronte nazionale, portate avanti da personalità intelligenti, capaci di trovare le formule che colpiscono l´immaginazione e a loro modo coraggiose nel difendere il populismo dilagante in tutta Europa, Francia compresa. Alcuni di loro sono sempre stati a destra, altri sono transfughi della sinistra. Poco conosciuti al di là delle frontiere, sono stati recentemente raggiunti da un personaggio più conosciuto, perlomeno nelle redazioni: Robert Ménard. Fondatore di "Reporters sans Frontières", è stato per anni il più mediatico difensore della libertà di stampa e dei giornalisti incarcerati o rapiti in tutto il pianeta.
Adesso, si dichiara favorevole alla pena di morte, flirta con l´omofobia e pubblica un libro dal titolo inequivocabile: "Viva Le Pen". Per stigmatizzare, dice lui, il disprezzo degli intellettuali verso il popolo che vota per l´estrema destra.
Secondo Le Monde, i moschettieri della reazione sono cinque: oltre a Ménard gli editorialisti del Figaro Eric Zemmour e Yvan Rioufol, l´economista Eric Brunet, la giornalista Elisabeth Lévy, un tempo a sinistra. Sono solo la punta di diamante: si sa che Marine Le Pen ha reclutato alcuni alti funzionari che in passato avevano servito la destra e la sinistra nazionaliste, e nella redazione del settimanale più anti-sarkozista, Marianne, c´è stata maretta per alcuni articoli.
Il fenomeno, insomma, non va sottovalutato: se la società francese negli ultimi anni si è spostata a destra, come sostengono Nicolas Sarkozy e alcuni suoi consiglieri, i reazionari più mediatici sarebbero l´avanguardia di questo movimento.
I personaggi sono diversi tra loro, ma hanno almeno due punti in comune: non amano l´islam e gli immigrati, vogliono sdoganare il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Zemmour si è distinto sul primo argomento: «I francesi di origine straniera sono più controllati degli altri perché la maggior parte dei trafficanti sono arabi o neri». Dichiarazione che gli è costata una condanna a diciotto mesi per provocazione all´odio razziale, ma che lui difende: «E´ un fatto». Tutti gli altri non gli darebbero torto.
Ménard non è da meno: per lui i pedofili meritano la pena di morte, come padre «non ha voglia che i suoi figli siano omosessuali», come cittadino chiede libertà di espressione e una rappresentanza politica per l´Fn. E come i suoi compagni di lotta e di ideologia fa spesso riferimento a Voltaire, diventato da parecchi anni l´idolo di tutti i reazionari in nome della libertà di pensiero.
Ménard, Zemmour e gli altri vanno presi sul serio soprattutto perché fanno presa sul pubblico che li ascolta e, spesso, li ammira. In un paese in cui si contano cinque radio di qualità per l´informazione e i talk show e tre televisioni "all news", la presenza di opinionisti dalla lingua tagliente e dai discorsi eterodossi è sempre una benedizione. Lo dimostrano le curve dell´audience: i reazionari, quando partecipano ad un programma in cui si discutano temi di attualità o ad un dibattito di taglio politico, attirano radioascoltatori e telespettatori. Le differenze fra destra e sinistra democratica si sono affievolite, gli atteggiamenti politicamente corretti dominano nei mass-media e i reazionari ne approfittano, possono passare per degli anticonformisti che vanno controcorrente. Sono i grandi ideologi e gli alleati di un processo politico in pieno svolgimento: il traghettamento di Marine Le Pen nel mondo politico «rispettabile» e lo spostamento a destra l´asse politico-ideologico del paese. Paradossalmente, sono loro a vestire i panni degli intellettuali organici del nuovo secolo.

il Fatto 5.4.11
Eichmann. Riemerge lo scontro sull’esecuzione


Nel giorno in cui Israele ripropone, in dichiarazioni del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il volto dell’intransigenza, sul riconoscimento di uno Stato palestinese, dagli Archivi di Stato emerge un’anima ebrea travagliata e combattuta: documenti ora pubblicati rivelano che l’impiccagione nel 1962 del gerarca nazista Adolf Eichman fu al centro di un dibattito nazionale, fuori e dentro il governo dell’allora premier Ben Gurion, sull’opportunità o meno di eseguire la condanna a morte pronunciata nel 1961. Eichmann, rintracciato nel 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato nel ’50 con falsi documenti rilasciatigli in Italia, fu catturato con azione da commando e fu portato in Israele per esservi processato, condannato, giustiziato. La pubblicazione su internet di molti documenti originali da parte degli Archivi di Stato israeliani avviene nell’imminenza del 50° anniversario dell’apertura del processo, l’11 aprile 1961. I testi gettano squarci di luce sulle circostanze della cattura, del giudizio, della condanna e dell’esecuzione di uno dei responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Eichmann, che era un ufficiale delle Ss, organizzò i convogli ferroviari che trasportarono ebrei ed altri deportati verso i campi di sterminio. Il processo ad Eichmann “resta – afferma la direzione degli Archivi – una pietra miliare nella storia di Israele e nell’atteggiamento degli israeliani sull’Olocausto”. I testi riguardano anche le ripercussioni diplomatiche dell’irrituale arresto e l’atteggiamento del governo di Ben Gurion sulla copertura mediatica dell’evento, la condanna e l’esecuzione. Proprio all’approssimarsi dell’esecuzione si aprì un dibattito persino aspro sulla opportunità di mettere, o meno, a morte Eichmann. Dirigenti politici come Levy Eshkol e Yosef Burg, filosofi come Martin Buber e Natan Rothenstreich e la “poetessa nazionale” Lea Goldberg erano contrari: gli intellettuali, in extremis, chiesero un atto di clemenza al capo dello Stato Yitzhak Ben Zvi, ma prevalse la linea dell’intransigenza del premier Ben Gurion: Eichman fu impiccato il 31 maggio 1962 e le sue ceneri furono disperse in mare. (g. g.)

l’Unità 5.4.11
Ritorni. La prefazione di Michela Murgia alla nuova edizione delle «Lettere dal carcere» (Einaudi)
Un testo che lo riavvicina ai contemporanei: no, non dev’essere soltanto un monumento nazionale
Gramsci non è solo un’icona pop Restituiamolo ai ventenni di oggi
Un po’ come il Che...il volto di Gramsci è ormai un’icona. Eppure il suo pensiero rischia di essere come sterilizzato dalla sua stessa importanza. Ecco perché è cruciale, oggi, leggere (o rileggere) le «Lettere»...
di Michela Murgia


Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marilyn Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo, eccetto Marx, ha esercitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica cosí tagliente da aver colonizzato il linguaggio ben oltre l’area ideologica a cui voleva dare riferimenti. Espressioni come «intellettuale organico», «egemonia culturale» e «ottimismo della volontà» – anche se non sempre usate propriamente rispetto al senso originario – fanno parte da tempo del linguaggio comune, giornalistico e televisivo. Eppure proprio questa sua progressiva trasformazione in monumento intellettuale rischia di rende-
re Nino Gramsci inavvicinabile alla passione di una ventenne o di un ventenne di oggi.
Troppo ingombrante per approcciarlo senza timori reverenziali, il pensiero gramsciano finisce per essere sterilizzato dalla sua stessa importanza, il che danneggia Gramsci stesso, ridotto a santino laico tanto citato quanto poco letto, e contraddice l’umiltà rigorosa che lo portava a credersi «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo». Ma soprattutto danneggia i ventenni, privati ingiustamente dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile.
Queste lettere personali, quanto di piú lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico. Mentre i parenti lo piangevano carcerato e il regime fascista lo credeva politicamente neutralizzato, Gramsci rivendicava il senso della sua prigionia come atto di lotta, rivelandosi capace di generare formidabili chiavi di lettura del mondo proprio dal luogo in cui il mondo lo voleva muto e monco. Con orgoglio lo ripete alla cognata che nelle lettere lo compativa: «Io non sono un afflitto che debba essere consolato, e non lo diverrò mai». La vicenda biografica del carcere di Gramsci commuove, indigna e conquista al punto che, dopo questo approccio, avvicinarsi al suo pensiero piú strutturato sembrerà il naturale proseguo di un’amicizia spontanea con un uomo speciale.
LA FEDINA PENALE
Per avere una prospettiva completa sugli scritti personali di Gramsci in carcere bisognerebbe essere cosí fortunati da avere a disposizione due strumenti: il primo sono le lettere vere e proprie, l’altro è la sua fedina penale, perché il percorso intimo e quello burocratico carcerario si intrecciano in maniera cosí dissonante che solo accettando di stare dentro la loro contraddizione si può intuire davvero la complessità dell’uomo Gramsci e del tempo che ha vissuto.
Di solito i documenti giudiziari sono freddi e poco esplicativi, ma dalla lettura di quella preziosa fedina penale si capiscono invece molte cose, prima tra tutte che il regime fascista era un sistema ipocrita al punto da non poter fare a meno della messa in scena di una qualche forma di legalità: per combattere gli avversari politici non si limitava a imprigionarli, ma cercava di legittimare il proprio arbitrio costruendo intorno a loro un impianto formale fatto di reati inventati che attribuissero l’apparenza del danno sociale al moto di dissenso che si voleva soffocare.
Per mettere a tacere Nino Gramsci di reati ne furono inventati ben sei: cospirazione, incitamento ai militari per disobbedienza alle leggi, offese al capo del governo, incitamento alla guerra civile, incitamento alla insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo e infine incitamento all’odio di classe e alla disobbedienza delle leggi a mezzo stampa. Poiché però per reati fittizi non si possono chiamare in causa giudici veri, a decretare la condanna di Gramsci non era stata la magistratura ordinaria, ma una corte fascista, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in Roma, di fatto una magistratura parallela che si occupava dei nemici politici del regime. Persino la sentenza risentiva dell’ipocrisia del contesto: vent’anni di reclusione, seimiladuecento lire di multa, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e due anni di vigilanza speciale erano solo apparentemente una detenzione; a tutti gli effetti costituivano una condanna a morte, la traduzione formale della richiesta del pubblico ministero Michele Isgrò, un uomo talmente complessato dall’autorevolezza intellettuale dell’imputato da concludere la sua requisitoria con la famosa frase: «Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni».
Quel tribunale gli comminò dunque l’annullamento civile e quello politico, ma anche quello meramente fisico, perché nove anni dopo, quando il regime rilasciò Gramsci a causa delle sue disperate condizioni di salute, egli morí in meno di una settimana.
Nell’avvicinarsi a queste lettere non bisogna dimenticare che sono il testamento intimo di un uomo innocente finito in carcere a causa di quello che pensava, un uomo giovane che non si godrà il suo amore, che non vedrà crescere i suoi figli, la cui anziana madre morirà a sua insaputa e la cui salute declinerà gravemente di prigione in prigione, fino
alla morte avvenuta a meno di cinquant’anni. Se non si ricorda questo, sarà facile farsi sedurre dallo spirito eccezionalmente vivace di Gramsci – quello che lui stesso definiva come «un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre» – che permea il carteggio al punto che egli quasi riesce nel miracolo di far dimenticare da dove e in che condizioni scrive. Tenerlo a mente serve non solo a mantenere un corretto approccio ermeneutico ai testi, ma anche – ed è la cosa piú appassionante per un lettore che non abbia solo intenti accademici – a capire la misura morale di un uomo la cui libertà di spirito aumentava in proporzione inversa al peggioramento delle sue condizioni detentive. In questo carteggio multiforme appaiono scorci splendidi della i prefazione sua natura umana: ricordi vividi dell’infanzia in Sardegna, l’amore per gli animali che Gramsci coltivava anche in cella addestrando passeri e altre creature che riuscivano a passare le sbarre, il rapporto via via sempre piú teso con la moglie e quello parallelo, tenerissimo e confidenziale, con la cognata, a tutti gli effetti una consorte vicaria.
UMORISMO E TENEREZZA
Ci si sbalordisce per la sua straordinaria passione per lo studio, che lo portava a leggere un libro al giorno delle materie piú svariate e in piú lingue, arrivando a mandarne a memoria alcune parti nei frequenti periodi in cui gli veniva impedito di avere a disposizione carta e penna per gli appunti. Si scopre in lui anche l’inatteso talento inventivo, proprio di un narratore naturale, che lo spingeva a costruire piccoli racconti per il diletto della cognata, spesso conditi da un irresistibile senso dell’umorismo. Commuove la sua tenerezza di padre, quando completamente debilitato scrive ai figli piccoli gli ultimi brevi biglietti di saluto e istruzione, nei quali mai traspare la progressiva certezza di non rivederli piú. Conquistano persino certi cedimenti allo sconforto, alla rabbia, al senso di abbandono quando le lettere si diradano o si perdono, portandolo a lamentarsi vivacemente. Questo piccolo, stortignaccolo uomo in carcere giganteggia davanti al lettore in ogni riga e senso possibile, e a centovent’anni dalla nascita continua a prendersi gioco della sua stessa fama, esattamente come fece con quel compagno di carcere a Palermo che, incredulo di trovarsi davanti al vero Antonio Gramsci, lo apostrofò dicendo: «Non può essere. Antonio Gramsci dev’essere un gigante, e non un uomo cosí piccolo». Il galeotto non gli rivolse piú la parola, deluso della distanza tra la proiezione e l’originale. Non saprà mai cosa si è perso.

Repubblica 5.4.11
Mamme diventate tigri
Amy Chua: "Più disciplina per i figli. Ecco perché ho sconvolto l’America”
"Attendersi molto dai ragazzi significa avere fiducia nelle loro capacità: questo dice la nostra tradizione"


Intervista con la studiosa che ha raccontato in un libro la sua esperienza di "genitore asiatico" Pretendere il massimo impegno nello studio e proibire Facebook ha fatto gridare al mostro

"Non ho mitizzato l´educazione cinese Molti mi hanno scritto: vorremmo essere meno permissivi"

Nessuno, a cominciare dall´autrice, aveva previsto che un libro autobiografico sui rapporti tra una madre e due figlie adolescenti potesse suscitare un simile pandemonio. Uno scandalo, uno psicodramma collettivo come non si vedeva da decenni. Fino alle minacce di morte rivolte all´autrice. Non da qualche imam fondamentalista, ma da "rispettabili" genitori americani. Offesi, sconvolti nelle loro certezze. O forse peggio: improvvisamente denudati nelle loro debolezze. E messi di fronte ai fallimenti di un´intera generazione di educatori. La causa dello shock è una brillante studiosa di diritto internazionale e di storia, Amy Chua. 48 anni, docente a Yale, autrice di importanti saggi sul declino e l´ascesa degli imperi, finora Amy Chua era un´autorità rispettata ma conosciuta solo negli ambienti più colti. Mai avrebbe immaginato il balzo di popolarità – e l´esplosione di controversie – che è venuto da una innocua decisione: raccontare la propria vita di figlia di immigrati cinesi negli Stati Uniti, mettendo al centro dell´autobiografia le differenze culturali nei rapporti genitori-figli e nello stile di educazione, fra asiatici e americani. Ne è uscito Il ruggito della mamma tigre, pubblicato ora in Italia da Sperling&Kupfer. Lo ha lanciato in America un´anticipazione del Wall Street Journal dal titolo forte: "Perché le mamme cinesi sono superiori". Ahi. Più di un milione di lettori hanno divorato l´anticipazione, in migliaia hanno reagito con lettere o email. Spesso inferociti, di fronte a certe forme di autoritarismo: il divieto di andare alle feste degli amici, di trastullarsi su Facebook o di guardare la tv fino a tardi la sera, le massacranti ripetizioni al pianoforte o al violino, la pretesa che sulle pagelle ci siano solo i voti massimi, la durezza con cui viene respinto dalla mamma ogni risultato scolastico men che eccellente. "Un mostro", l´ha aggredita una telespettatrice al Today Show. Ma dietro i risentimenti traspare un´ondata d´insicurezza collettiva. Dopo decenni di permissivismo, una cultura di massa che ha trasformato l´America in una "dittatura del teenager", con genitori che danno sempre ragione ai figli (in nome dell´"autostima") contro i professori, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: gli asiatici stravincono le gare per le borse di studio nelle migliori università Usa, i liceali americani non arrivano neanche al ventesimo posto nella classifica internazionale Ocse-Pisa sull´apprendimento, dove al primo posto svettano gli studenti di Shanghai. Ne parlo con Amy Chua a New York, nella pausa fra un talkshow televisivo e l´altro, mentre la tempesta su di lei non accenna a placarsi. Ci manca poco che le addebitino anche il massacro di Tienanmen o la repressione contro il Tibet e il Dalai Lama.
Lei come spiega questo uragano di accuse e di polemiche?
«In parte è il risultato di una lettura unidimensionale. No, nel libro non c´è la tesi che le mamme cinesi sono superiori. Nella seconda parte racconto il mio conflitto con la figlia più piccola, le lezioni che ho appreso da una 13enne ribelle, e come ho rivisto certi principi dell´educazione cinese. Ma le reazioni americane in parte sono legate alla rivalità con la Cina, all´impatto inquietante delle classifiche internazionali sulla mediocre performance scolastica dei ragazzi americani. Infine, probabilmente questo libro è uscito quando il "pendolo" stava tornando indietro, era già matura una revisione autocritica rispetto ai principi della pedagogia permissiva in voga da decenni. Ho ricevuto anche tante reazioni positive. C´è chi mi ha scritto per dirmi: vorrei essere un genitore più severo, ma c´è troppa pressione nell´ambiente sociale che m´impedisce di cambiare».
Il clima che lei fa regnare in casa sua, a molti americani sembra quello di una caserma.
«Invece un po´ di disciplina e di organizzazione fa bene ai ragazzi: due ore di studio la sera sono più che sufficienti, se si concentrano al 100% e non vengono distratti possono andare a letto alle dieci. Troppi adolescenti americani tra videogame e Facebook hanno giornate che non finiscono mai, dormono troppo poco, soffrono di depressione. E come rimedio quando si arriva a queste patologie, i medici li imbottiscono di psicofarmaci».
Una regola d´oro della pedagogia progressista è istillare ai ragazzi fiducia in se stessi. Lei invece arriva a rifiutare un cartoncino d´auguri disegnato da sua figlia troppo frettolosamente. I voti se non sono l´equivalente della lode "non sono abbastanza".
«Tutto questo è inaccettabile secondo le regole politically correct in America. Ma io qualche volta ho l´impressione che i genitori americani ottengono il risultato opposto: trasmettono l´idea che i loro figli sono deboli, perciò non si può pretendere troppo da loro, bisogna accontentarsi. Quello che mi piace della tradizione asiatica, è che nel pretendere molto dai propri figli si comunica una grande fiducia nelle loro capacità. Qualche volta i genitori americani sembrano impauriti dai propri figli. Che razza di segnale gli mandano in questo modo?».
Una delle ricchezze del suo libro è nei tanti shock culturali che rivela. Comprese le divergenze tra lei e suo marito, Jed Rubenfeld, anche lui giurista a Yale e scrittore, nonché ebreo-americano. Ma forse lo shock più divertente è quello che si è prodotto dopo: quando il suo Ruggito della madre tigre è stato tradotto… in Cina.
«Lì è successo tutto il contrario, rispetto alle reazioni americane. La parte del libro in cui descrivo il rispetto dei figli per i genitori, i rapporti di autorità, le regole severe, il divieto di andare alle feste degli amici: tutto questo in Cina lo si dà per scontato, è quasi banale, non fa notizia. I lettori cinesi sono stati colpiti invece dal finale: la ribellione di mia figlia minore, e come io mi sono dovuta adattare. Così il libro in Cina è stato venduto con una campagna di marketing completamente diversa, che dice: una professoressa di Yale vi spiega il metodo occidentale per educare i figli!».

Terra 5.4.11
Pedofilia nel clero
«La Chiesa continua a insabbiare i crimini»
Federico Tulli da Londra

1 e 6

Terra 5.4.11
Domenica di sangue
di Francesca Pirani

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