giovedì 21 aprile 2011

l’Unità 21.4.11
Il deputato azzurro Ceroni propone: modificare l’articolo 1 della Costituzione
«Il Parlamento viene prima del Presidente, dei magistrati, della Consulta»
Pdl contro il Quirinale «Tutto il potere alle Camere»
Solerti pidiellini fanno guerra al Quirinale: il deputato Remigio Ceroni ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 1 della Costituzione: il «Parlamento è sovrano», non il popolo. Ma il Pdl lo lascia solo.
di Natalia Lombardo


Goccia a goccia, colpo su colpo, le «iniziative individuali» dei solerti parlamentari del Pdl, come quelle del candidato milanese, rafforzano l’attacco al Capo dello Stato sferrato da Berlusconi e megafonato da Giuliano Ferrara su RaiUno.
Così ora un deputato del Pdl, il marchigiano Remigio Ceroni, è balzato alla ribalta mediatica sostituendosi addirittura ai padri costituenti. Vuole cambiare l’articolo 1 della Carta. In una proposta di legge depositata due giorni fa alla Camera vuole cancellare il dettato sul «popolo sovrano» per sostituirlo con la centralità «del Parlamento sovrano», che, secondo il deputato, «gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura e Consulta e presidenza della Repubblica». Ceroni va oltre, parla di «eversione dell'ordine democratico» per il «sopravvento di poteri non eletti dal popolo sovrano». Il Quirinale, per dire. Nel Pdl prendono le distanze: «Iniziativa personale» per il capogruppo Cicchitto, mai sentito dire a Palazzo Grazioli.
L’articolo 1 della Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e al comma 2 «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ecco, il Ceroni vuole unificare i comma in «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale».
Insomma, secondo Ceroni, il Parlamento sarebbe «troppo debole», ma non perché vota solo decreti governativi e pure con la fiducia.
E dato che non si può fare la riforma «presidenziale che vuole Berlusconi», allora Ceroni si accontenta di ribadire «la centralità del Parlamento troppo spesso mortificata, quando fa una legge, o dal presidente della Repubblica che non la firma o dalla Corte Costituzionale che la abroga». Ristabilire «la gerarchia tra i poteri dello Stato», dire quale è «superiore» in caso di conflitto, è il Remigio pensiero.
Nel Pdl cascano dalle nuvole: Ceroni chi? «Quale proposta di legge? Non ne so nulla», afferma Annamaria Bernini, portavoce del Pdl che in commissione Affari Costituzionali non ha visto nulla. Maurizio Lupi scuote la testa, «parliamo di cose più serie». Ma il protagonismo dei peones che fanno a gara nel megafonare i diktat del cavaliere, fosse solo per assicurarsi una ricandidatura, rafforza il bombardamento su Napolitano. Saranno solo provocazioni (non reggerebbero i quattro passaggi parlamentari e un referendum), ma concorrono alla rappresentazione di un Capo dello Stato «di parte» che va disegnando Berlusconi.
LA DIABOLICA CLASSIFICA
In un Transatlantico prefestivo due ex di Forza Italia ironizzano sulla «pioggia di proposte di legge, le più assurde, che vengono presentate. E bisogna anche stare attenti a firmarle, guardare la prima pagina...», racconta Giorgio Lainati. Secondo Gregorio Fontana bisognerebbe «mettere una tassa a chi propone leggi che poi restano in archivio» però fanno clamore (come quella sull’abolizione del divieto di ricostituzione del partito fascista, sulla quale si è tirato indietro di corsa il finiano Egidio Digidio). Sarà forse per «quella classifica di Openpolis che premia la produttività dei parlamentari che presentano più leggi?», si chiede Fontana.
Remigio Ceroni conferma che la sua è «una iniziativa personale» e assicura di non averne parlato prima con Berlusconi. Non è neppure membro della I commissione, la Affari Costituzionali, bensì delle Bilancio, vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti e Questioni regionali. Persino Brunetta si era limitato a contestare l’articolo 1: «L’italia non è fondata sul lavoro», ha gridato, ma a vuoto. N. L.

l’Unità 21.4.11
Napolitano marca le distanze: Il Colle non scende in guerra
Nessuna eco al Quirinale dell’iniziativa di Remigio Ceroni. Anche fosse farina del sacco di qualcun altro, non sono certo questi argomenti a muovere gli interventi di Napolitano. Che non abbocca alle brame di guerra altrui.
di Marcella Ciarnielli


L’iniziativa «personale» del deputato Remigio Ceroni non ha trovato alcuna eco al Quirinale nonostante il fin qui sconosciuto, a dispetto del suo stare praticamente sempre in Parlamento, parlamentare marchigiano abbia chiamato in causa esplicitamente il presidente Napolitano parlando di «ingerenza inaccettabile» a proposito dell’iter di alcune leggi. Silenzio al Colle. In una situazione come quella di questi giorni, in cui appare sempre più evidente il desiderio di vedergli compiere un errore, di vedergli, per così dire un’invasione di campo, il Capo dello Stato era abbastanza scontato che non intervenisse in alcun modo sulla iniziativa, legittima anche se sorprendente, dell’onorevole. Non restava davanti ad essa, un altro segnale di quella voglia di creare un clima di tensione, di impegnarsi in piccole ma significative prove di forza, che mantenere un giusto distacco. Pena l’accusa di non riconoscere ad un eletto dal popolo la libertà di opinione e di iniziativa.
Peraltro in questi giorni difficili sono già troppi i motivi di preoccupazione perché ci si metta ad inseguire le trovate di un parlamentare che d’improvviso decide di modificare la Costituzione e, per giunta, in uno dei suoi articoli, il primo, fin qui considerato intangibile, uno dei principi fondamentali. Ancora più sorprendente l’intenzione di stabilire una graduatoria di importanza tra gli organi costituzionali privilegiando proprio quel Parlamento che la parte politica del Ceroni non fa funzionare se non nell’interesse del premier. Contraddizioni. Provocazioni. Voglia di scontro piuttosto che di confronto nonostante il più volte ripetuto invito di Napolitano, a tutte le parti, a «non esasperare il clima» ma puntando, piuttosto al confronto. E non è certo con le iniziative personali che tendono a stabilire «la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale» che si ristabilisce un clima di dialogo costruttivo nell’interesse del Paese. Il primo effetto evidente è stato solo la sovraesposizione mediatica di un deputato di cui fin qui non si conosceva neanche il nome. Però è anche vero che in altre occasioni «l’iniziativa personale» è poi diventata patrimonio dell’intera maggioranza nella battaglia parlamentare. Questa volta, almeno per ora, Ceroni sembra destinato ad una (forse) imprevista solitudine. Chissà se si aspettava di essere mollato così in fretta dai suoi colleghi di coalizione. Al momento è così. Poi si vedrà .
Il premier intanto scalpita. Lui al Quirinale vorrebbe salirci di persona per cercare ancora una volta di illustrare le necessità inderogabili di ampliare il numero dei componenti del suo governo. Se il famoso rimpasto di cui tanto si parla, ma su cui anche ieri su tempi e modi, sono state riportate contraddittorie informazioni da due autorevoli esponenti del Pdl alla fine dello stesso vertice, passa per le forche caudine di un numero maggiore di poltrone rispetto a quelle previste dalla normativa in vigore. Su questo il presidente della Repubblica è stato chiaro fin dalla prima richiesta. Se si tratta di ricevere informazioni e presentazioni dei candidati, porte aperte. Ma l’aumento del numero può passare solo per un disegno di legge che dovrà compiere il suo completo iter parlamentare. Ed a proposito di riforme c’è sem-
pre quell’espresso desiderio di inviare al Colle il ministro Alfano per ulteriori approfondimenti sulla «epocale» riforma della giustizia. Finora non c’è stata alcuna richiesta. Peraltro il presidente della Repubblica, parlando per ultimo a Praga nei giorni scorsi, ha fatto ben intendere che non c’è alcun bisogno di ricevere ulteriori spiegazione. Al momento opportuno, quando l’itinerario in Parlamento sarà compiuto, entreranno in campo le prerogative del Presidente che valuterà il testo con l’attenzione di sempre. Ben nota a tutti.

l’Unità 21.4.11
Il retroscena
Dopo Lassini, Ceroni Silvio lancia gli scagnozzi
Altro che tregua. C’è chi fa il lavoro sporco per il Capo, che si dice «all’oscuro». Ma ormai la strategia è evidente e svelata anche da Ferrara: trasformare Napolitano in un avversario Nuova promessa ai Responsabili: rimpasto subito dopo Pasqua: «Salirò al Colle per le nomine»
di Ninni Andriolo


Altro che «tregua pasquale»! I primi a non credere al Cavaliere erano stati i pdl destinatari del consiglio. Con l’esodo alle porte e la colomba sulla tavola di milioni di italiani, la promessa di «abbassare i toni» appariva ai consiglieri del premier una mossa sensata, anche se poco realistica. Ieri, per la verità, Silvio si è detto «all’oscuro», ma tutte le indiscrezioni fatte trapelare da Palazzo Grazioli segnalavano l’escalation di propositi di guerra. Dal conflitto sollevato davanti la Consulta contro i giudici milanesi del processo Mediaset che non ritennero legittimo l’impedimento accampato dal premier; alla carica data a coordinatori e capigruppo Pdl convocati a Palazzo Grazioli per trasformare le amministrative nella resa dei conti con le procure che «perseguitano» Silvio; fino alla nuova sfida al Capo dello Stato per interposta persona.
Se il clima che fomenta il Cavaliere è quello dello scontro «perché serve a vincere, e i sondaggi lo dimostrano» come si fa poi a sostenere che un tal Ceroni sia partito in quarta con l’idea di riscrivere l’articolo 1 della Costituzione, solo «a titolo personale»? Come Lassini ha preso alla lettera sui manifesti il Cavaliere sul «brigatismo giudiziario», Ceroni ha trasformato in disegno di legge di riforma costituzionale gli attacchi del premier a pm, Consulta e Quirinale. I fedelissimi di Silvio prendono le distanze, ma giustificano. «Ceroni ha cercato di ribadire la centralità del Parlamento spiega Giorgio Stracquadanio Sinistra e Udc non sono interessati al tema solo perché alla Camera e al Senato la maggioranza è di centrodestra?».
Il gesto dell’azzurro che «sbaglia», in realtà, suona come l’ennesimo tentativo di trascinare Napolitano nella contesa per non farlo apparire «super partes» nello «scontro finale» sulla riforma ad personam della giustizia. Un’offensiva che passa per le amministrative dove Silvio «ha messo la faccia». Ieri, i maggiorenti riuniti a Palazzo Grazioli, hanno fissato due grandi manifestazioni elettorali con Berlusconi, il 7 maggio a Milano e il 13 a Napoli. Ai milanesi, tra l’altro, il Cavaliere invierà una lettera personale. A dispetto della propaganda sulla «vittoria certissima», l’astensionismo che si registra nell’elettorato di centrodestra preoccupa il premier. Concentrato sulla «battaglia campale» del voto, Berlusconi avrebbe voluto occuparsi il meno possibile dei responsabili.
Ieri, però, Scilipoti&Co gli hanno ricordato che grazie a loro è stato evitato «il golpe» del 14 dicembre. E il premier è stato costretto a ricevere Luciano Sardelli per l’ennesima volta. La promessa? La stessa, inevasa, delle settimane scorse: «il rimpasto di governo». Sarà la volta buona per Pionati, Calearo e soci? Dopo Pasqua nove sottosegretari e uno/due viceministri: questa la promessa solenne del Cavaliere al capogruppo alla Camera di Ir.
Impegni fatti apposta per mandare su tutte le furie azzurri e leghisti in lista d’attesa per uno strapuntino di governo, sacrificati alle ragioni del «figliol prodico che ritorna» malgrado la fedeltà dimostrata a Silvio. Per loro, però, il Cavaliere annuncia un disegno di legge ad hoc per allargare le panchine di governo. Un altro espediente, a ben vedere, per gettare altra benzina sul fuoco dei rapporti con il Colle.

il Fatto 21.4.11
I parlamentari-schiavi all’ombra del Caimano
Deputati e senatori pronti a tutto pur di compiacerlo
di Paola Zanca


Uno accorcia, l'altro allunga. Uno sogna di cambiare l'articolo 1 della Costituzione, l'altro si accontenta di modificare il 136. Lavorano nell'ombra fino al giorno in cui le riflessioni di una vita finiscono lì, in una proposta di legge. Ieri, Remigio Ceroni ha compiuto il suo personalissimo miracolo: alla sua terza iniziativa presentata come primo firmatario, con il 99,85 per cento di presenze in aula, ha sfondato il muro del silenzio. Su tutti i siti web ieri, su tutti i giornali oggi, perché vorrebbe cambiare le prime righe con cui comincia la nostra Carta, quelle in cui si dichiara “la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale della Repubblica”. Consulta e presidente della Repubblica la smettano di intromettersi, le leggi votate dalla maggioranza non si toccano.
Ridurre lo zelo dei parlamentari a brama di popolarità, però, sarebbe riduttivo. Perché una cosa in comune, le decine di proposte incardinate nelle commissioni di Camera e Senato ce l'hanno: piacciono tanto a lui, il presidente del Consiglio.
Luigi Vitali per ora è a quota tre. Tre proposte di legge che sembrano ricalcate sugli anatemi di Berlusconi. È diventato famoso grazie alla cosiddetta prescrizione breve - la norma che accorcia i tempi per incensurati e over 65 – ma in passato (era febbraio del 2009) aveva già chiesto modifiche agli articoli 107 e 110 della Costituzione “in materia di esercizio dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati”. Si era poi dedicato alle intercettazioni: voleva introdurre nel codice di procedura penale una sanzione per riparare a “ingiusta intercettazione di comunicazioni telefoniche o di conversazioni”. L'obiettivo non è ancora stato centrato per questo poco più di un mese fa, il 3 marzo, Maurizio Bianconi è tornato alla carica con un nuovo testo che permetta di evitare che le telefonate “prese a pezzi, poi utilizzati con il copia e incolla, divengano clave da utilizzare per emettere sentenze di condanna anticipata o strumenti per montare processi popolari di discredito della stampa”. Controcorrente alla proposta di Vitali, invece, è quella di Franco Mugnai: anziché breve, lui il processo lo vuole lungo. Infiniti elenchi di testimoni da ascoltare, con lo stesso obiettivo di sempre: arrivare alla prescrizione. Mugnai sta al Senato, e di certo dovrà farne di strada prima di eguagliare il lavoro del suo collega in commissione Giustizia, Giuseppe Valentino, che di riforme ne ha annunciate parecchie. Della Costituzione, per esempio, vorrebbe cambiare almeno cinque articoli: quelli che riguardano l'immunità parlamentare, la nomina della Consulta, nonché del Csm.
Valentino è in buona compagnia. A Raffaello Vignali, di articoli della Carta, piacerebbe modificarne tre: un classico, l'immunità, e due new entry: il 136, relativo alle sentenze della Corte costituzionale che dichiarano illegittima una legge, e il 41, quello sull'iniziativa economica privata. Che – Berlusconi dixit – costringe gli imprenditori italiani a lavorare con regole di “matrice cattocomunista”.
Ma con la nascita dei Responsabili, la concorrenza si è fatta agguerrita. Mario Pepe, che ha sacrificato un suo seggio nel Pdl per alimentare il gruppo neonato, il 2 marzo ha proposto di modificare due articoli in un colpo solo: il 70 e l'82. Uno riguarda la “semplificazione del procedimento legislativo”, l’altro le funzioni “di indirizzo politico, di controllo e di inchiesta del Parlamento”. Sarà un caso, ma poco dopo è arrivate l'idea di “indagare” sui giudici di Milano a firma Gasparri e Quagliariello. Non voleva essere da meno Domenico Scilipoti. Il medico omeopata si è buttato anche lui sulle intercettazioni: l'8 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 192 del codice di procedura penale, “in materia di valutazione delle dichiarazioni acquisite mediante intercettazione”. Ultimo, chissà fino a quando, Luciano Sardelli, che dei Responsabili è capogruppo: il 12 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 94 della Costituzione, che riguarda la disciplina delle mozioni di fiducia e di sfiducia nei confronti del premier. Infine, c'è chi ha fatto strada. Edmondo Cirielli, dai tempi della firma (poi ritirata) alla legge sulla recidiva che accorciava i tempi di prescrizione, ha conquistato un po' di sano egoismo. Il 29 marzo, da deputato e presidente della Provincia di Salerno ha chiesto la modifica dell'articolo 131 della Costituzione: chiede che nella città campana venga istituito un “Principato”.

Corriere della Sera 21.4.11
La plastica istituzionale
di Michele Ainis


P otremmo iscrivere alla fiera dell’ovvio la proposta dell’onorevole Ceroni, benché il Palazzo l’abbia salutata con fragore. Potremmo gettare nel cestino dei farmaci scaduti quest’ultima iniezione ri-costituente. A che serve infatti dichiarare — già nel primo articolo della nostra Carta — che il Parlamento è l’organo centrale del sistema, che per suo tramite s’esprime la volontà del popolo, che il popolo a sua volta designa deputati e senatori attraverso un rito elettorale? Magari può servire a ricordarci che in quel posto lì ci si va per elezione, non per cooptazione, non per nomina d’un signorotto di partito, come c’è scritto nel «Porcellum» . Ma tutto il resto è già nero su bianco nella Costituzione: articoli 55 e seguenti. Basta sfogliarne qualche pagina, dopotutto non è una gran fatica. Le leggi inutili, diceva Montesquieu, indeboliscono quelle necessarie. E infatti almeno un quarto del tempo speso dai costituenti nel 1947 fu dedicato a interrogarsi su quanto avesse titolo per entrare nella Carta, allo scopo di non sottrarle dignità e prestigio. Scrupoli d’altri tempi, diremmo col senno di poi. D’altronde, proprio l’articolo 1, con questa folla di chirurghi plastici che sgomita attorno al suo capezzale, ne è la prova più eloquente. C’è per esempio la proposta — avanzata a turno da Segni e da Brunetta, dai radicali, dallo stesso Berlusconi — d’espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. Parola comunista, dicono: meglio libertà. Anche se la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’articolo 1. Non importa, costruiremo una democrazia al quadrato. E poi, libertà di chi? Del popolo, ovviamente. Sicché potremmo scrivere così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Popolo della libertà» . Il guaio è che proprio questa parrebbe l’intenzione di Ceroni, nonché dei molti che annuiscono in silenzio. Se non il testo, stavolta fa fede il contesto. Ossia la relazione che accompagna la proposta, dove s’alza il tiro contro gli organi di garanzia costituzionale, a partire dal capo dello Stato. Dove si denunciano abusi e prepotenze a scapito della «centralità parlamentare» (a proposito, ma non fu uno slogan degli anni Settanta, i nostri anni più rossi? Si vede che i politici sono diventati un po’ daltonici). Dove infine si disegna un modello di democrazia plebiscitaria. Conviene allora dirlo con chiarezza: così usciremmo fuori dalla Costituzione. Non solo da quella italiana, ma da qualunque altra. Come scrissero i rivoluzionari del 1789, se una società non regola la separazione dei poteri, non ha una Costituzione. Eppure è esattamente questo che ci sta succedendo. La proposta Ceroni è figlia d’un clima che nega il valore stesso delle regole, perché l’unica regola vigente è quella che ciascuno sagoma attorno al suo pancione, come una cintura. Non a caso la parola più abusata è «eversione» , e infatti ieri è risuonata mille volte. Nel frattempo sulla Consulta piovono conflitti come rane (l’ultimo è sempre di ieri). Servirebbe una tregua, una vacanza, un giorno di riposo. Ma intanto ci servirà l’ombrello.

l’Unità 21.4.11
Intervista a Emma Bonino
«Vittima dei nemici politici ma la Ue si fa anche male da sé»
Per la vicepresidente del Senato suscita preoccupazione l’avanzata dei partiti xenofobi nelle elezioni e nei sondaggi in diversi Paesi europei
di Gabriel Bertinetto


Acolloquio con Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ex-ministra per le politiche europee con Prodi.
Recenti risultati elettorali (dalla Finlandia all'Ungheria) e sondaggi d'opinione (l'ascesa del Fronte nazionale in Francia) riflettono la crescita di atteggiamenti xenofobi, chiusure nazionaliste, settarismi culturali. Come valuta questi fenomeni?
«Con preoccupazione, soprattutto perché non vedo contrappesi istituzionali. Per entrare in Europa si fissano dei parametri severi ma una volta entrati non esiste meccanismo che possa mettere in dubbio lo status di paese membro. Neppure di fronte a derive che vanno contro lo spirito e la lettera dei Trattati istitutivi e della Convenzione europea sui diritti dell' uomo. Non a caso, anche il Consiglio d'Europa, custode della Convenzione, è molto preoccupato tanto da incaricare un gruppo di personalità europee, di cui faccio parte, di redigere un rapporto sul tema della convivenza in Europa nel 21mo secolo. Lo presenteremo tra un paio di settimane».
Il rafforzamento di formazioni politiche euroscettiche condiziona le politiche dei singoli Stati. La Ue può resistere a queste spinte disgregatrici? «Solo se troverà la forza di rilanciare subito la sua azione in maniera da evitare che i microinteressi nazionali o sub-nazionali diventino egemoni nel processo politico europeo. Con il Partito Radicale Nonviolento da anni sostengo che i nazionalismi, l'Europa delle patrie, rischiano di determinare la fine non solo della patria europea, ma delle patrie stesse. È ora di tornare al progetto dei padri fondatori, abbandonando l'idea antistorica dell'Europa dei piccoli Stati-nazione. Nessun paese, neanche la Germania o la Francia, figuriamoci una piccola Italietta autarchica, è in grado da solo di affrontare i passaggi chiave di quest’epoca, o di sedersi al tavolo con i giganti Russia, India, Cina o Stati Uniti. Questo può farlo solo l’Europa. O, meglio, gli Stati Uniti d'Europa».
Berlusconi e Maroni ipotizzano l'uscita dalla Ue. Sparate propagandistiche? «Forse non sono solo sparate propagandistiche, ma temo elementi fondativi di questa coalizione di governo e di questo blocco politico». Tremonti suggerisce di abrogare i trattati esistenti e ricostruire l'Europa da zero. Vuole consolidare le istituzioni comunitarie o affossarle?
«Quando parla di un'Europa rafforzata Tremonti dovrebbe chiarire a che entità si riferisce, senza dimenticare però che la prima ferita profonda alla coesione europea fu inferta nel 2003 quando Germania e Francia violarono il Patto di Stabilità, anche con il consenso di Tremonti, che in quel momento era presidente dell' Ecofin. Due anni dopo il Consiglio dei ministri europei bocciò, se non ricordo male all'unanimità, una proposta di iniziativa della Commissione in seguito alle rivelazioni sui dati alterati dalla Grecia per essere ammessa nella zona euro tesa ad affidare ad Eurostat un potere di audit sulle statistiche nazionali». Minacciata dai nemici politici, la Ue è poco aiutata dai suoi stessi dirigenti. Barroso, Ashton e altre figure di spicco dell'Unione sembrano esse stesse contagiate dall'euroscetticismo. Esiste un problema di leadership inadeguata?
«Sì, purtroppo da troppo tempo anche nelle istituzioni europee si celebra una messa senza fede. La Commissione Barroso rinuncia troppo spesso a fare il proprio mestiere riducendosi a fare da segretariato al Consiglio. Sarebbe bello se ogni tanto facesse delle battaglie a tutela degli interessi europei e del loro rafforzamento e avanzasse, esercitando il proprio diritto d'iniziativa, proposte magari impopolari agli occhi del Consiglio, anche a costo di farsele bocciare. Almeno si capirebbe che l’Europa vuole esistere al di là delle resistenze nazionali. E invece no: quando la Commissione capisce che una proposta rischia di non passare in Consiglio, neanche la avanza. Però, più che buttare la croce addosso ai Barroso e alle Ashton, le responsabilità sono dei governi che li hanno nominati».
Una, due, tre scelte urgenti e importanti per rivitalizzare la Ue... «Gli Stati Uniti d'Europa, cioè una politica estera e di difesa comune, un solo esercito anziché 27, una politica comune dell'immigrazione e dell'energia. Senza dimenticare che molte cose si potrebbero fare a trattati vigenti, ad esempio portare a compimento il mercato interno, come l'ex commissario Monti ben documenta nel suo rapporto. Occorre poi rivedere i rapporti con il Sud del Mediterraneo, i cui sconvolgimenti di questi mesi fanno emergere il fallimento delle nostre politiche. Non si può rinviare oltre l'accelerazione del processo di adesione della Turchia».

il Fatto 21.4.11
Immigrazione “Noi che curiamo il mal d’Italia”
Viaggio nei centri che assistono gli stranieri con problemi psichici
di Ferruccio Sansa


“Anche gli immigrati hanno sogni. E incubi. Voi pensate… ancora grazie che hanno un lavoro. Non immaginate che possano soffrire. Io sono una badante, venti ore al giorno chiusa in un appartamento, in una città di cui non capisco la lingua. Con una donna morente. Sono depressa fino alla disperazione”. Elisa è lituana, ha 47 anni. Sta zitta per ore, ma appena l’interprete traduce i discorsi scopri che cosa si nasconde dietro i suoi occhi azzurri.
“È dura far accettare che gli immigrati soffrono come noi di depressione, esaurimento, panico. Per di più con il trauma della migrazione”. Francesca Vallarino Gancia, psicoterapeuta, è nel suo Centro Etnopsichiatrico. Il nome astruso contrasta con l’ambiente pieno di vita. Siamo nella periferia torinese. Il Centro è una vecchia cascina dimenticata tra i condomini. Un’isola, così devono vederla gli immigrati che vi approdano per essere aiutati.
Mamre si chiama l’associazione di cui Vallarino Gancia è presidente. Qui lavorano 29 psicoterapeuti, mediatori culturali e antropologi. Ma c’è anche la cooperativa “Il Crinale” a Milano, c’è il Dipartimento di Salute Mentale Roma B. Decine di strutture che in Italia, con approcci diversi, affrontano la sofferenza psichica degli immigrati. “Mancano i fondi. E bisogna superare l’indifferenza”, spiega Ida Finzi, psicoterapeuta del Crinale. “Pochi si rendono conto di quanto pesi cambiare mondo. Ciascuno di noi appartiene a un luogo, a una cultura. È un involucro che contiene e delimita il senso di sé”, spiega Finzi. Già, da una parte le radici, dall’altra l’ambiente in cui vorresti integrarti. E comincia la sofferenza: giovani divisi tra la cultura dei genitori e quella dei compagni, donne sole ad affrontare la maternità, uomini consumati da lavori allucinanti. E famiglie separate per anni: al ricongiungimento sono estranei.
“LE DONNE affrontano l’emozione della maternità in solitudine. Nel loro Paese avevano la famiglia che le sosteneva perché la nascita altrove coinvolge tutti”, racconta Finzi. Ecco la prima differenza con la nostra società individualista. Nel lavoro di Vallarino Gancia, Finzi, del professor Alfredo Ancora, le teorie diventano storie vere (raccontate nel libro Terapia transculturale per le famiglie migranti di Cattaneo e dal Verme). Come quella di Berenice: 40 anni, intelligente, ma non parla una parola di italiano. Vive qui da anni con il marito e tre figli. Finché arriva una gravidanza, non desiderata, ma accettata. Poi la depressione post partum: “I dottori mi aiutavano – racconta – ma io non capivo cosa mi facevano, mi sentivo terribilmente sola”.
È difficile per gli immigrati chiedere aiuto. Tutto è diverso, a cominciare dall’interpretazione della sofferenza. “In Cina dicono che i disturbi mentali sono come il vento. Non si vedono, non si capisce da dove vengano”, racconta Alfredo Ancora, professore di psichiatria transculturale all’Università di Siena e psichiatra della Asl Roma B. Sahid, 18 anni, parla di ciò che noi chiamiamo panico: “Al mio Paese se stai così male ti portano dal guaritore in contatto con gli spiriti che ti proteggono”. Verrebbe da sorridere, ma Ancora avverte: “Pensate all’effetto che avrebbe su uno straniero la nostra figura dell’angelo custode”.
Già, raccomanda Ancora, “non pensiamo che la nostra cultura sia la migliore. Confrontiamoci senza giudicare”. Così si affronta la terapia. In gruppo: il paziente e gli psicoterapeuti, ma essenziale è il mediatore culturale. Che deve parlare la lingua dell’immigrato, conoscerne la cultura.
UN LAVORO complesso. Ma ecco Liang, sedicenne cinese, che si apre dopo anni di silenzi: “Quando i miei genitori sono venuti in Italia io sono rimasta in Cina con mia nonna, in un villaggio di montagna. Ero felice. Sono venuta a Milano a dodici anni, da sei non vedevo i genitori, non li conoscevo più. Mio fratello non l’avevo mai visto. Andavo a scuola, imparavo l’italiano, ma tacevo. A chi interessava la mia storia? È la prima volta che racconto queste cose, qui di fronte a tante persone”.
Parole diverse, differenti espressioni degli occhi e del sorriso, ma gli stati d’animo sono uguali. Quanti di noi si identificherebbero in Francis, originaria dell’Ecuador: “Ho paura che mia madre muoia senza rivedermi. Quando le ho detto che venivo da mio marito, mi ha risposto che facevo bene, ma lei perdeva il più bel fiore del suo giardino”. Nessuno si era accorto del dolore di Francis. E di quello di Anna e Jussef: “Ci conosciamo da ragazzi. Ma in Italia non riconoscevo più il mio sposo. Mi picchiava”, racconta Anna. E Jussuf, un ottimo padre: “Nel mio Paese quelle non erano considerate violenze”. Sì, Anna e Jussuf è come se si fossero conosciuti due volte. Dopo la terapia si sono ritrovati.
Adesso il professor Ancora sperimenta incontri con immigrati e italiani. Luca, ragazzo delle borgate di Roma, si trova di fronte Mohammed, coetaneo tunisino zoppo. Entrambi affrontano il “male oscuro”. E all’inizio è scontro. Luca urla: “Ci rubate il lavoro”. Ma poi la tensione scompare. Oggi Luca porta a casa Mohammed che non cammina. Alfredo Ancora è convinto: “L’incontro nasce spesso dallo scontro, ma se c’è conflitto meglio tirarlo fuori. E alla fine la sofferenza unisce”.

il Fatto 21.4.11
Tutta colpa dei giovani
Il governo sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi
di Stefano Feltri


La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.
Non c'è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall'età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza.
“NON C’È ALCUN dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Data-giovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c'è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero di-sposti a fare per lavorare”.
Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Alma-laurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Data-giovani.
Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento.
ERGO, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani” . Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.

il Fatto 21.4.11
Ma lo straniero costa sempre meno
Gli immigrati hanno salari più bassi anche del 30 per cento
di Salvatore Cannavò


Nella vulgata leghista sono quelli che “rubano il lavoro agli italiani”. Ministri come Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti difendono la tesi che i migranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono più fare.Laradiografiaoffertadaidati ufficiali, in realtà, mostra un lavoro migrante che in realtà si sposta là dove il lavoro già c'è. Lavoro essenzialmente operaio e legato all'industria manifatturiera, ma soprattutto che pagato fino al 30 per cento in meno degli italiani. Fino al 30 per cento in meno. Secondo il rapporto Caritas gli stranieri residenti in Italia sono circa 4,5 milioni, il 7,5 per cento della popolazione italiana. I lavoratori sono stimati tra 1,5 e 2 milioni di cui la metà circa è iscritto ai sindacati.
DELL’OLTRE milione e mezzo iscritto all’Inps nel 2008 (come mostra la tabella in pagina) circa la metà lavora nel Nord del paese e in particolare in tre regioni: Piemonte, Lombardia e Veneto, il cuore dell'insediamento leghi-sta. Circa 200 mila lavorano invece in Emilia Romagna e poi 120 mila nel Lazio. A parte i 59 mila della Campania, la presenza di lavoratori immigrati nel Sud è poco rilevante: meno di centomila. Dove i tassi di disoccupazione sfiorano il 30 per cento, quindi, i migranti non ci sono. Fino al 2009 i lavoratori immigrati in Italia provenivano per la maggioranza dall'Est europeo e "solo" il 21 per cento dal Nordafrica.
Sempre secondo i dati dell'Inps, riferiti al 2008, la grande maggioranza (72,7 per cento) di questi lavoratori sono dipendenti, ma esiste anche un 5,3% di lavoratori autonomi (di cui più della metà artigiani), un 4 per cento di operai agricoli (di cui la stragrande maggioranza a tempo determinato e insediati soprattutto nel meridione) fino a un 16,5 per cento di lavoratori domestici pari a circa 260 mila persone. Un dato sottostimato vista la quantità di lavoro nero tra colf e badanti, lavori al 90% femminili. Ancora la Caritas sottolinea che a Milano ci sono più pizzaioli egiziani che napoletani mentre in Val di Non le mele sono raccolte quasi esclusivamente dai senegalesi. Nel Veneto la concia delle pelli è fatta da lavoratori nigeriani mentre in Campania e nel basso Lazio a occuparsi dell'allevamento delle bufale sono i sikh.
NEL DOCUMENTO più completo redatto dall'Inps dopo l'introduzione della Bossi-Fini – che riepiloga i dati raccolti fino al 2003 quindi prima dell'ingresso della Romania nella Ue e prima delle ultime regolarizzazioni degli ultimi due anni ma che comunque offre una radiografia indicativa - le categorie in cui i lavoratori migranti sono maggiormente concentrati sono il commercio (34,5%), l'edilizia (18,1), la metallurgia e la meccanica (14,3), trasporti e telecomunicazioni (5,2), tessile e abbigliamento (5,2), chimica e gomma (4,5). Nel complesso, il settore maggiormente rappresentativo è l'industria (50,1%) e poi il terziario con il 42% di impiego. Dove sostituiscono gli italiani? Certamente nel settore edile dove gli immigrati rappresentano il 15% dei lavoratori regolari (ma dopo l'ingresso della Romania nella Ue questa percentuale è più alta); nella lavorazione del legno (10%), nel tessile (9,7) dove si registra un'alta presenza di lavoro autonomo in particolare cinese, e poi trasporti, commercio, estrazione e trasformazione minerali e chimica con una percentuale di lavoro immigrato di circa il 7%. L'Inps fa notare che gli immigrati "si inseriscono in tutti quei settori dove c'è bisogno di manodopera aggiuntiva" ma vanno a occupare qualifiche medio-basse. L'85% sono operai (contro il 55% dei lavoratori dipendenti italiani), l'8,9 impiegati (35% gli italiani).
SEMPRE L'INPS sottolinea che la maggiore presenza di immigrati nel commercio e nell'edilizia si spiega per "la minore consistenza delle retribuzioni e per la maggiore faticosità del lavoro" così come nel settore domestico e nell'agricoltura. Secondo la Cgia di Mestre in media, oggi i lavoratori stranieri percepiscono 965 euro netti al mese, 319 euro in meno rispetto agli italiani.

il Fatto 21.4.11
Per chi usa il cervello qui non c’è posto
di Alessandro Rosina


Le fregature per le nuove generazioni italiane vanno a stagioni. C’è stata quella dell’enorme debito pubblico creato nel corso degli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta. É seguita la stagione della riforma generazionalmente squilibrata delle pensioni. Poi la riforma del mercato del lavoro senza adeguamento del sistema di welfare pubblico, che anziché flessibilità ha introdotto precarietà.
Siamo diventati uno dei paesi industrializzati che meno crescono e meno offrono spazio e opportunità per i giovani. Il dato Eurostat più fresco ci vede fanalino di coda in Europa in termini di occupazione degli under 30. Colpa dei giovani o di scelte pubbliche sbagliate? Ecco allora che oggi avanza il nuovo inganno. Si fa sempre più strada nella nostra (matura) classe dirigente la convinzione che il problema risieda in una distorsione di fondo propria delle nuove generazioni. Che a sostenerlo sia chi nel governo ha responsabilità sui temi dell’economia e del lavoro non meraviglia. È evidente da tempo che la principale preoccupazione di costoro è tutelare l’esistente. Ma l’idea che siano i giovani ad avere ambizioni e attese mal calibrate va ben oltre il governo e i suoi sostenitori. Cosa dovrebbero allora fare le nuove generazioni secondo questa sempre più diffusa linea di pensiero? Accontentarsi di quello che trovano, compresi i lavori più umili che sinora si son lasciati fessamente sfilare sotto il naso dagli immigrati.
E se il problema vero, invece, fosse questa classe dirigente e i limiti del modello di sviluppo che ha imposto al Paese? Possiamo pensare alla condizione dei giovani come a quella di chi entra in un ristorante ritenuto almeno di media qualità e si trova invece con un’offerta di cibo mediocre. Ecco però che con incredibile faccia tosta il cuoco, anziché chieder scusa e impegnarsi a rimediare, si mette ad accusare i clienti di essere troppo schizzinosi ed esigenti. Il problema, insomma , starebbe nel fatto che i clienti vogliono mangiar bene. Ma i giovani non sono fessi e la controprova la trovano quando vanno all’estero. Cambiando ristorante capiscono che il problema non sono loro e che, anzi, altrove i loro gusti sono tanto più apprezzati quanto più sono raffinati. Come mai qui in Italia il capitale umano delle nuove generazioni non vale nulla e nelle altre economie avanzate è invece valorizzato? E’ questa la domanda cruciale.
I dati sono impietosi. Da fonte Eurostat apprendiamo che l’Italia risulta essere uno dei Paesi con minor crescita delle professioni più qualificate, intellettuali e dirigenziali. Secondo l’Istat, poi, sono oltre un milione gli under 30 che svolgono un lavoro sottoinquadrato, accontentandosi di una occupazione che richiede un titolo di studio inferiore a quello acquisito.
Come mai ci troviamo in questa situazione? I motivi sono molti. Ma una delle maggiori conferme dell’incapacità italiana di riorientare l’uso delle risorse a favore di un maggiore e migliore contributo dei giovani alla crescita del paese, la si può trovare nel basso investimento in ricerca e sviluppo. A questa voce noi destiniamo il 50 per cento in meno rispetto alla media europea. Siamo lontani anni luce dalla Germania che pur è attenta anche alla formazione tecnica.
L’innovazione è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e innovativi. Qui le nuove generazioni possono diventare una risorsa strategica per la crescita. Negli ultimi anni persino il Rwanda ci ha superati nella classifica globale sulla facilità di fare impresa stilata dalla Banca Mondiale. Eppure l’Italia le potenzialità le ha. Non mancano certo i talenti, quello di cui difettiamo strutturalmente è la loro valorizzazione.
Dato però che chi guida il Paese non sa come valorizzarli allora basta con l’uso dei cervelli, concentriamoci su quello che si può fare con le mani. L’alternativa, forse, è cambiare chi guida. Nel frattempo chi vuole usare il cervello vada all’estero, per gli altri qui ancora c’è posto.
L’autore è professore Associato di Demografia all’Università Cattolica di Milano

il Fatto 21.4.11
La giornata dei palestinesi dedicata a Vittorio Arrigoni
Il primo ministro Fayyad: “Chi lo ha ucciso è nostro nemico”
di Giampiero Calapà


“Dal Golfo all’Oceano c’è un movimento che chiede libertà e diritti: non saremo gli ultimi!”. Il vento della primavera araba soffia anche nei Territori occupati. Le parole di Abbas Zacki dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sono una dichiarazione di intenti, perché il prossimo settembre rappresenta l’ultima speranza palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite dello scorso aprile afferma che l’Anp (Autorità nazionale palestinese) è pronta ad annunciare la nascita di uno Stato sovrano e indipendente da Israele, entro i confini del 1967. A Gerusalemme starebbero anche valutando l’ipotesi di ritirare le truppe per quella data, ma di evacuare le colonie non se ne parla, come riferisce Ha’aretz, il principale quotidiano israeliano. “Speriamo che a settembre si potrà attraversare tutta la Cisgiordania senza chiedere permessi ai soldati israeliani”, ammonisce ancora Zacki. Nelle stesse ore, dalla Tunisia, dove la primavera araba pare aver già compiuto il suo corso, interviene il presidente dell’Anp Abu Mazen per scongiurare l’idea di una terza Intifada (nella seconda, cominciata il 28 settembre 2000, ci furono più di 7 mila vittime palestinesi e mille israeliane): “Non è la risposta giusta allo stallo del processo di pace, le rivolte degli ultimi dieci anni sono state disastrose per i palestinesi”.
A BIL’IN villaggio palestinese isolato e messo a dura prova dal muro che divide e separa al loro interno i Territori da Israele e dalle colonie, Zacki parla alla platea della sesta conferenza internazionale della resistenza popolare palestinese, quest’anno dedicata alla memoria di Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso pochi giorni fa a Gaza, appena 90 chilometri da qui, da estremisti islamici salafiti. In collegamento video dalla Striscia altri attivisti dell’Ism annunciano il varo di Oliva: “Con questo peschereccio proteggeremo i pescatori di Gaza e romperemo il blocco navale imposto da Gerusalemme”. L’importanza della conferenza di Bil’in per i palestinesi è testimoniata dalla presenza del primo ministro dell’Anp Salam Fayyad, il cui primo pensiero è rivolto proprio ad Arrigoni: “Condanniamo questo vergognoso crimine compiuto contro Vittorio da oltranzisti che sono nostri nemici. E ci prendiamo la responsabilità di affrontare tutti coloro che utilizzano la religione per una cultura di violenza”. Le parole che la platea attende con ansia sono quelle riferite a settembre. La Palestina sarà finalmente Stato? “L’occupazione israeliana rappresenta una difficoltà insormontabile”, Fayyad si ferma un attimo, guarda i volti di donne e uomini arrivati qui in questo villaggio sperduto della West Bank (anche dall’Italia con una delegazione guidata dall’ex europarlamentare di Rifondazione Luisa Morgantini), poi riprende: “Tuttavia il mondo guarda all’Anp per la dichiarazione di settembre e, quindi, Israele nel rispetto della legalità internazionale deve ritirarsi e garantirci la possibilità di creare un nostro Stato”.
IL PALCO DA DOVE Fayyad parla è dominato da una gigantografia di Vittorio Arrigoni, accanto a quella dell’americana Rachel Corrie, anche lei attivista dell’Ism, ferita a morte nel 2003 a Rafah, mentre tentava di impedire a un bulldozer di demolire un’abitazione palestinese. C’è sua madre, Cindy: “Quando ho saputo della morte di Vittorio ho sentito lo stesso dolore procurato dalla perdita di Rachel. È tempo di mettere un limite a questi crimini. In tutte le forme possibili: sia con la fine immediata del lancio di missili dalla Striscia di Gaza verso le città israeliane, sia con il ritiro definitivo delle truppe militari dalla Palestina”. Con questo stesso spirito da Gerusalemme un gruppo di 17 intellettuali vincitori del prestigioso Israel Prize, la massima onorificenza del Paese, annunciano una petizione, a favore di uno Stato palestinese, che chiede “la fine completa dell’occupazione” come “condizione essenziale per la liberazione dei due popoli”.

Repubblica 21.4.11
All´origine della regalità sovrannaturale
Quel potere del sovrano

In principio il re aveva qualcosa di magico Gli antichi regnanti erano sciamani e guaritori sanavano i sudditi imponendo le mani ed erano il legame tra uomini e dei
di Marino Niola

Una monarchia può essere instaurata dall´oggi al domani. Ma non la regalità. Che viene da molto lontano. E precede tutti i regimi politici. Perché è la materia prima del potere, il basic instinct della sovranità. Non a caso la fiaba, che rievoca il tempo delle origini, inizia sempre con il fatidico "c´era una volta un re".
E in principio il re non governa per volontà della nazione ma regna grazie a una forza che ha qualcosa di sovrumano. E ne fa un dio fra gli uomini. Superiore per natura prima ancora che per investitura. Come indicano molti dei titoli che ancora oggi si rivolgono ai monarchi. Altezza, grazia, maestà. Parole che hanno come primo significato la grandezza, la bellezza, lo splendore. Lo stesso termine rex, da cui viene il nostro re, nonché l´indiano rahja, derivano da una medesima radice indoeuropea che ha a che fare con il reggere, con il dominare, ma anche con la luccicanza. Come dire che il potere supremo nasce da uno shining soprannaturale.
Ecco perché gli antichi sovrani regnano sia sulla società che sulla natura. Da loro dipendono l´ordine politico e l´ordine cosmico. Un po´ sacerdoti, come quelli della Roma antica. Un po´ maghi come quelli polinesiani. Un po´ belve feroci come quelli africani. Autentici re leoni. In realtà l´analogia tra il sire degli animali e quello degli umani si ritrova anche nell´immaginario delle monarchie europee. Come nell´Inghilterra di re Riccardo, detto non a caso Cuor di Leone. E nella Francia di Carlo Martello dove si credeva che un felino non avrebbe mai aggredito un individuo di stirpe reale perché avrebbe istintivamente riconosciuto in lui un suo simile. Al punto che nel Trecento, l´inglese Edoardo III sfidò Filippo VI di Francia a entrare in una gabbia di leoni affamati per certificare il suo sangue blu.
I superpoteri del sovrano ne facevano insomma un catalizzatore di energie, un trasformatore di forze, un interfaccia tra società e natura, tra uomini e dei. Tanto è vero che nell´antico Egitto si credeva che la vita eterna fosse un privilegio esclusivo del faraone. È stata la successiva democratizzazione dell´aldilà operata dalle filosofie e dalle religioni che ha spalmato l´immortalità regale sulle anime di tutti i comuni mortali.
Il loro potere di vita e di morte rende gli antichi re molto simili a sciamani e guaritori. In grado di sanare i sudditi con la sola imposizione della mano. È il caso del Mikado, l´imperatore giapponese, considerato figlio della dea solare Amaterasu e depositario del potere rigeneratore della grande madre.
Ma l´esempio più celebre è quello dei re taumaturghi di Francia e d´Inghilterra cui a partire dall´alto medioevo viene attribuito il potere di guarire la scrofola, nome popolare dell´adenite tubercolare. Conosciuta anche come mal du roi e king´s evil. Pare che Luigi XIV, il re sole, perfino sul letto di morte abbia ricevuto 1700 ammalati. L´ultimo a toccare le scrofole è stato Carlo X nel 1825, ben trentacinque anni dopo la rivoluzione francese e in piena civiltà industriale.
È la sua natura straordinaria dunque a svincolare il sovrano archetipico dalle regole che egli stesso fa rispettare. A renderlo letteralmente assoluto, ovvero sciolto. Custode incustodito dell´ordine, incarnazione dello stato d´eccezione. In questo senso l´ombra del re rimane ancora imprigionata al fondo della democrazia moderna. Come fantasma ricorrente degli spiriti animali del potere. O della sua fascinazione misteriosa, pronta a riaffiorare nella fiaba mediatica di un royal wedding.

Repubblica 21.4.11
Bertinotti all´Osservatore "Imparai da Wojtyla"


CITTÀ DEL VATICANO - «Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II». Così l´Osservatore Romano titola un «colloquio» con l´ex leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti. É un´analisi del rapporto di stima fra Karol Wojtyla e il capo dei comunisti italiani. Un´intervista che non deve stupire. Forse molti ricordano una foto di Bertinotti intento a leggere il quotidiano ufficiale della Santa Sede. Così come intenso fu il suo rapporto con Wojtyla. Bertinotti ha voluto ricordare i suoi incontri con il Papa polacco. «Un uomo realmente capace di ascolto. Guardava l´altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani"». Ed è questa capacità di sguardo, continua Bertinotti, ad aver provocato nelle persone che entravano in contatto con lui «un atteggiamento di attenzione e ascolto». Wojtyla era un Papa capace di intervenire «in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell´Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell´uomo sull´uomo». Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana sulla doppia festa del 1 maggio si legge: «In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio». Chiosa Bertinotti: «La frase del Pontefice su Gandhi vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano».
(m. ans.)

L’Osservatore Romano 21.4.11
A colloquio con Fausto Bertinotti
Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II
di Silvia Guidi


"Bertinotti santo subito"; non sono teneri i blogger di sinistra con il presidente della Fondazione Camera dei deputati, accusato di "alto tradimento ideologico" e complicità attiva nello scippo simbolico del primo maggio che quest'anno si consumerà a Roma, giorno in cui la festa dei lavoratori sarà oscurata mediaticamente dalla beatificazione di Papa Wojtyla. Lo accusano perché il 20 aprile l'ex segretario di Rifondazione comunista sconfina, tecnicamente, in terra straniera - il palazzo della Cancelleria, a Roma gode dell'extraterritorialità vaticana - per intervenire, insieme al cardinale Renato Raffaele Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al ministro del Lavoro e delle politiche sociali italiano Maurizio Sacconi, e al segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, all'incontro organizzato da Elea "Un primo maggio speciale: Giovanni Paolo II celebrato nel giorno della festa del lavoro". Una contaminazione tra sindacalismo e Chiesa sgradita a molti, come la simpatia un po' troppo esplicita dell'ex leader di Rifondazione comunista per il Papa polacco che ha contribuito ad abbattere il muro di Berlino, un feeling sospetto, secondo tanti suoi ex sostenitori ed ex compagni di partito, che non si limita a generici discorsi di circostanza: dalla frequentazione dei monasteri del monte Athos in Grecia, all'ammirazione per la nave-cattedrale di Richard Meier costruita nelle estreme propaggini della periferia romana, a Tor Tre Teste (una stima molto concreta: qualche anno fa il risarcimento di una causa per diffamazione vinta da Bertinotti ha finanziato la costruzione del campo da calcio dell'oratorio). Nel "cursus honorum di ateo devoto del subcomandante Fausto" come chiosano con duro sarcasmo i suoi detrattori, ci sono anche due lauree honoris causa provenienti dalle università cattoliche del Perú e dell'Ecuador, oltre al Premio Giovanni Paolo II ricevuto nel settembre scorso dall'associazione campana Aglaia.
Tra l'altro, Bertinotti non ha mai fatto mistero di essere un attento lettore del nostro giornale: non solo per collezionare spunti di polemica e occasioni di dissenso, ma proprio per i suoi contenuti e per il suo taglio originale, oltre che per seguire la campagna contro le morti bianche condotta dall'"Osservatore Romano" che, ha dichiarato più volte il presidente della Fondazione Camera, "ha contribuito a ispirare la nostra battaglia per la sicurezza sul lavoro".
La stima per Giovanni Paolo II non è solo personale, non si ferma alla simpatia istintiva per la celebre ola al raduno della gioventù di undici anni fa - un "gesto irrituale capace di unire spontaneità, partecipazione e autorevolezza" - è anche, a tutti gli effetti, politica: è un riconoscimento, da parte di un non cristiano, delle positive conseguenze politiche di una visione del mondo cristiana.
"Storicamente - aveva riconosciuto Bertinotti all'indomani della morte di Papa Wojtyla - è stato un formidabile anticorpo contro il rischio possibile dell'apertura di un conflitto di civiltà. Ha dato un'idea integrale dell'uomo, un'idea non banale, non legata al mito pubblicitario del benessere, della forza, della bellezza".
Alla vigilia della beatificazione, l'ex leader di Rifondazione lo ricorda come un uomo realmente capace di ascolto. "Guardava l'altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani". Questa capacità di sguardo ha promosso negli altri un atteggiamento di rispetto, attenzione e ascolto; è questo, secondo me, che ha reso così potente la presenza di questo Pontefice nella storia, in un periodo che non era più lo stato di grazia dell'immediato dopoguerra, parlando dell'Europa occidentale ovviamente, e neanche la fase della "speranza ascendente"".
Questo Papa - continua Bertinotti - "interviene in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell'Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, così come in un'altra condizione, in pieno sommovimento del mondo, nella spirale guerra-terrorismo ha detto parole di pace di una pregnanza acutissima. A me stupisce che su due questioni cruciali della crisi della civiltà occidentale, il lavoro e la coppia pace-guerra, questo Pontefice si sia pronunciato con le parole del futuro".
Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana un po' meno manichea sulla doppia festa del primo maggio si legge anche: "In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio". Del resto, quando le forze di occupazione naziste chiusero l'università, il giovane Karol Wojtyla entrò nella Solvay polacca, lavorando per quattro anni nelle cave di pietra di Zakrzówek, poi alle caldaie di Borek Falecki e Nowa Huta. "La frase del Pontefice su Gandhi - dice Bertinotti al nostro giornale - vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano. Ho imparato da lui. E davvero trovo in questo rifiuto del dialogo una chiusura un po' inquietante. Sono stato a Torino in anni straordinari per la vita sociale di quella città; ebbi l'avventura e la fortuna di incontrare un sacerdote, arcivescovo e poi cardinale, Michele Pellegrino. La sua pastorale, il suo "camminare insieme" per molti di noi divenne un viatico; comunisti, socialisti, cattolici, protestanti, nella Federazione lavoratori metalmeccanici ci sentivamo una comunità, uniti nell'emancipazione della persona che lavora, per usare un termine caro a Maritain. Da presidente della Camera avrei voluto creare in Parlamento un luogo di meditazione, come nel Bundestag tedesco; mi è dispiaciuto non avere avuto il tempo di realizzarlo, c'era un largo consenso su questa iniziativa".
E conclude il nostro incontro ribadendo che "l'appartenenza non è un totem, è una strada da percorrere; è importante custodire i confini, ma anche avere il coraggio di oltrepassarli".