martedì 19 aprile 2011

l’Unità 19.4.11
L’ira di Napolitano. Basta insulti sulla giustizia
“Ignobili”


La Stampa 19.4.11
Il doppio obiettivo del Colle
di Federico Geremicca


Ha aspettato un giorno, poi due, poi tre. Ha sperato fino all’ultimo che, dopo la dissociazione di questo o quell’esponente della maggioranza di governo, «l’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano» (parole del Quirinale) venisse finalmente stigmatizzata dallo stesso presidente del Consiglio. Alla fine, quando ha avuto chiaro che questo non sarebbe accaduto, la decisione: e stavolta non una nota di critica per i toni e i modi, non un generico invito alla moderazione e nemmeno un messaggio alle Camere oppure al Paese.
Piuttosto, il passo più istituzionale possibile, un’iniziativa che coinvolgerà e rappresenterà tutte le istituzioni: comprese quelle che mai avrebbero voluto che il prossimo Giorno della Memoria (9 maggio) venisse dedicato alle vittime del terrorismo, magistrati in testa a tutti.
Attesa da molti e temuta da altrettanti, ecco - dunque - la mossa del Quirinale. Che il Capo dello Stato intervenisse di fronte all’ormai incontrollabile escalation polemica in materia di giustizia era inevitabile: più difficile - piuttosto - era scegliere modi e toni capaci di evitare che a scontro si aggiungesse scontro, con tutto quel che avrebbe potuto seguirne. Di qui la decisione di non scegliere la via dell’ennesimo richiamo esplicitamente diretto al capo del governo, a vantaggio di un’iniziativa dal profilo inequivocabilmente istituzionale: il Giorno della Memoria - celebrazione voluta tre anni fa proprio da Giorgio Napolitano - ricorderà i magistrati assassinati dal terrorismo. Già, proprio quei magistrati definiti brigatisti nell’«ignobile manifesto» milanese e pesantemente attaccati come «eversori» dallo stesso presidente del Consiglio (che non ha avuto remore nel parlare addirittura di «brigatismo giudiziario»).
In verità, la scelta della via da seguire non è stata semplicissima. Da una parte, infatti, era evidente la necessità di una scesa in campo del Quirinale in difesa della magistratura (dalla Corte Costituzionale fino al singolo pm) sottoposta ad attacchi di gravità crescente; dall’altra - e altrettanto evidente - vi era la necessità di non contribuire a un ulteriore surriscaldamento del clima: col rischio, addirittura, di agevolare il capo del governo in una strategia che, giorno dopo giorno, si va sempre più manifestando in tutta la sua chiarezza.
Non si tratta di una strategia inedita: l’attacco alle «toghe rosse» e l’indice puntato verso «i comunisti» sono praticamente un classico per Berlusconi alla vigilia di ogni campagna elettorale. Con l’importante voto amministrativo di maggio alle porte (Torino, Napoli, Bologna e soprattutto Milano) il leader del Pdl ha ricominciato a suonare lo stesso ed evidentemente noto spartito. Per il Quirinale, dunque, l’esigenza era doppia: difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura senza fornire altra «benzina polemica» al capo del governo, così da poter corroborare una linea tipo «sono tutti contro di me, giudici, Alta Corte, poteri forti e perfino il Presidente della Repubblica...». Il fatto che la mossa del Quirinale non potrà comunque non essere intesa anche come un richiamo severo alle più recenti sortite di Silvio Berlusconi lascia immaginare che essa non risulterà particolarmente indigesta al capo del governo. Anzi. Nonostante l’attenzione del Colle a scegliere con cura un’iniziativa (il Giorno della Memoria, appunto) che non si prestasse a letture inevitabilmente polemiche, è facile prevedere che proprio in questo senso sarà - invece - utilizzata dal presidente del Consiglio. In questo - bisogna riconoscerlo - Berlusconi continua a dimostrare una indubbia abilità tattica: tanto che per l’avversario politico la scelta, a volte, sembra essere tra il non reagire (rischiando di apparire arrendevole, se non peggio) o passare all’attacco, col rischio di enfatizzare ulteriormente ogni argomento propagandistico del Berlusconi versione campagna elettorale.
Ieri il premier ha taciuto. Nessuna replica né diretta né indiretta all’annuncio che il Quirinale intende dedicare il 9 maggio ai magistrati vittime del terrorismo. Non è escluso che qualche commento possa arrivare di qui ad allora. Ma è soprattutto un altro l’interrogativo che comincia a fare il giro dei «palazzi romani»: che farà Berlusconi il 9 maggio? Potrà partecipare a una celebrazione che suonerà oggettivamente critica nei suoi confronti? E potrà mai, al contrario, disertare una cerimonia in ricordo di magistrati che hanno dato la vita per il loro Paese? Un bel rebus. Alla cui soluzione, forse, Silvio Berlusconi ha cominciato a pensare già ieri sera...

Corriere della Sera 19.4.11
Monito per impedire un conflitto istituzionale
di Massimo Franco


E ra inevitabile che intervenisse Giorgio Napolitano: da capo dello Stato e quindi del Csm. La sua lettera al vicepresidente Michele Vietti contro «l’ignobile provocazione» dei manifesti coi quali a Milano un candidato del Pdl ha equiparato le Brigate rosse alla Procura di Milano, era attesa da ieri mattina. E tenta di rassicurare una magistratura che si sente aggredita e delegittimata da Silvio Berlusconi; e che grazie all’irresponsabilità di un aspirante consigliere comunale ha trovato una solidarietà trasversale. L’imbarazzo della maggioranza è evidente. Fa passare in secondo piano le accuse, finora non dimostrate, del capo del governo su un «patto scellerato» fra Gianfranco Fini e i giudici per impedire qualunque riforma proposta da Berlusconi. Quando ieri Fini ha ricevuto i vertici dell’Anm, Luca Palamara avrebbe scherzato sul tema. Aggiungendo che la sua Associazione non vuole essere «trascinata in uno scontro politico» . Ma la sintonia che il colloquio ha fatto registrare è stata salutata dal Pdl come una conferma indiretta delle tesi berlusconiane: anche se era programmato da un mese. Si tratta di una spaccatura che non esita a comporsi: anzi, di giorno in giorno assume toni e cadenze da conflitto istituzionale. L’intervento di Napolitano si inserisce su questo sfondo, dopo giorni di crescendo polemico. Dedicare la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo, il 9 maggio, ai magistrati assassinati, è il modo in cui il capo dello Stato vuole rispondere. La domanda tacita è se lo scontro non sia destinato a scaricarsi sui rapporti fra Napolitano e Berlusconi. Finora il governo è stato attento a non entrare in rotta di collisione col Quirinale. Ma la riforma della giustizia fa saltare qualunque possibilità di compromesso. Minaccia di incanaglire ulteriormente le posizioni: con la maggioranza portata alla resa dei conti con quelli che considera giudici di parte; e con il resto della magistratura condannata ad arroccarsi da una logica conflittuale che non ammette concessioni al «nemico» . Quando Vietti invita ad avere «il coraggio di percorrere la strada dell’autoriforma» , intercetta il pericolo. Sono gli effetti distorti della guerra istituzionale; e della volontà berlusconiana di dimostrare che i processi nei quali è imputato sono altrettante tappe di una lunga persecuzione giudiziaria. Roberto Lassini, il candidato autore dei manifesti indefinibili di Milano, annuncia che non si ritirerà; e questo trasferisce il problema sul Pdl. L’impressione è che, continuando così, le vie d’uscita immaginabili saranno traumatiche: per entrambe le parti.

Repubblica 19.4.11
Il Quirinale in campo
di Giuseppe D’Avanzo


Dinanzi alle parole violente e alle iniziative aggressive di un uomo che ha preso dimora stabile nell´inimicizia, si attendeva una parola saggia del presidente della Repubblica. Una parola che potesse indicare a tutti – e soprattutto a Silvio Berlusconi – un limite. Il confine insuperabile per una democrazia e per le istituzioni che la governano prima che quell´inimicizia privatissima e ostinata e ossessiva le distrugga. Prima che la stessa identità del sistema diventi rovina, macerie.
Quella parola saggia ora è arrivata dal Quirinale. Con una lettera al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giorgio Napolitano ha deciso di dedicare «il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi» (il 9 maggio) ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. «Tra loro – scrive il capo dello Stato – si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche».
Ricordiamone i nomi: Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione.
Non c´è alcun convenzionalismo nella mossa del Capo dello Stato. Napolitano non tace le ragioni più autentiche della sua scelta. Che è esplicita e suona come un atto di accusa contro chi, come il capo del governo, da settimane aggredisce, insinua, minaccia, ingiuria, calunnia cianciando di «brigatismo giudiziario», premessa politica – e mandato morale – per un figurante, candidato a Milano nella lista del Pdl, che ha fatto affiggere manifesti che diffondono, con gran dispendio di mezzi, la stessa convinzione del premier: «Via le Br dalle procure».
«La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria – scrive Giorgio Napolitano – costituisce una risposta all´ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia". Quel manifesto rappresenta una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non. Essa indica come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull´amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti».
Napolitano indica un confine, abbiamo detto. Si può dire, un primo limite, un primo confine alla "strategia del ricatto" che Berlusconi ha inaugurato per rendersi immune dai processi che possono svelare quanto corrotta sia stata la sua avventura imprenditoriale (Mills) e quanto disonorevole e ricattabile e irresponsabile sia la sua vita di capo del governo (Ruby).
Il dispotico egomane pretende di essere «tutelato», come dice. Strepita, gesticola, urla, aizza rumorose pattuglie di comparse a pagamento. Esige che il Parlamento diventato cosa sua, proprietà personale, approvi leggi che lo liberino dalle accuse, dai processi, dai giudici di Milano: le manifestazioni che organizza dinanzi al palazzo di giustizia palesemente vogliono costruire le condizioni di un trasferimento dei dibattimenti in un´altra sede «per gravi motivi d´ordine pubblico», un espediente per allontanarlo dal giudice naturale. La prescrizione ancora più breve (approvata alla Camera, ora al Senato) non gli può bastare. Reclama che anche il processo per concussione e prostituzione minorile sia sospeso in attesa che la Corte costituzionale decida se il Parlamento può stabilire contro i giudici la «ministerialità» dei reati contestati al Cavaliere. In caso contrario, una nuova legge è già pronta. Per condizionare le volontà della magistratura, influenzare le scelte della Consulta, ottenere (come dicono spudoratamente gli araldi del potere berlusconiano) un impegno di Giorgio Napolitano «in una sorta di moral suasion sulla Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi», il premier spinge la riforma costituzionale della magistratura; la responsabilità civile delle toghe; la legge bavaglio sulle intercettazioni; l´introduzione del quorum dei 2/3 per le decisioni della Consulta che abrogano una legge per incostituzionalità. Berlusconi le chiama «riforme». Sono soltanto le poste del ricatto che egli lancia contro le istituzioni della Repubblica. Il programma, dimentico delle vere necessità di un Paese in crisi abbandonato al suo destino da un governo fantasma, ha un solo obiettivo: mostrare come il premier sia disposto – se non ottiene la «tutela» immunitaria – a «decostituzionalizzare» la nostra democrazia, come dice Stefano Rodotà, ribaltandone i principi, le regole, gli equilibri, i poteri.
Napolitano è il primo e più autorevole ostacolo a questo disegno ricattatorio. Dovrà decidere della ragionevolezza della prescrizione breve. Giudicare l´esistenza di una palese incostituzionalità di un riforma del pubblico ministero che affida a leggi ordinarie – e quindi a chi governa momentaneamente in Parlamento – materie oggi protette dalle garanzie della Carta fondamentale. Difendere l´indipendenza della Corte costituzionale dalla longa manus del potere politico. Vigilare sui diritti dell´informazione. Le sagge parole di oggi, ricordano a chi vuole screditare le istituzioni e ribaltare l´equilibrio democratico che c´è un limite oltre il quale si manifestano «degenerazioni» che egli non tollererà. A Napolitano è toccato in sorte il più ingrato dei ruoli politici. È il custode della Costituzione. È chiamato a difenderla e proteggerla da partiti e uomini che, in quella Costituzione, non credono; che quella Costituzione disprezzano e umiliano. È la condizione estrema in cui si trova il nostro presidente della Repubblica. Avrà bisogno del sostegno di tutto il Paese per affrontare i conflitti che lo attendono.

Repubblica 19.4.11
La menzogna come bandiera
di Barbara Spinelli


Nella favola i non-politici «trasporteranno al governo i metodi di azione che sono loro familiari; faranno marciare le ferrovie; licenzieranno gli inetti; incuteranno un sano terrore agli altri». Ma è una chimera, e la macchina s´incepperà: «Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi industriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori». Saranno audaci, ma il primo impulso di simili audaci è di semplificare quel che è complesso: «di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via».
Gli italiani tuttavia erano attratti dalla chimera, allora come oggi. Il fatto è che si sentivano abbattuti, tristi: erano «come malati che non trovano tregua alle loro sofferenze da qualunque lato si voltino». La via della dittatura pareva così rapida, e brillante, mentre com´era «noiosa, fastidiosa, minuta, la via della legalità costituzionale, sotto il maligno sguardo di giornali avversari e infidi»! È a questo punto che Einaudi, che nel ´48 sarà il secondo Presidente della Repubblica, ricorda come esista una sola salvezza dall´errore e il disastro che è la dittatura: la discussione, essenza della democrazia. Al cittadino triste e malato ci si rivolge con fiducia, non trattandolo come un triste, un malato. Meglio informarlo bene e aiutarlo a discutere sul vero e il falso, piuttosto che dargli verità preconfezionate per sedarlo. Meglio una pluralità di poteri, che il potere apparentemente efficace di uno solo.
Sono saggezze che tanti italiani hanno difeso lungo il tempo, ma che si sfaldano quando viene meno la discussione libera. Si sfaldano da quasi un ventennio e spesso vien da pensare che siamo nella stasi più totale, ma non è così: ultimamente qualcosa si è incrinato ancor più vistosamente. Accusato di reati commessi prima e dopo essere entrato in politica, il premier ha smesso di presentare le leggi che si fa cucire sulla propria persona come utili per l´intero Paese. I suoi seguaci, politici o giornalisti, hanno cominciato a dire apertamente, senza remore, che sì, il Parlamento deve mobilitarsi per mettere il capo sopra la legge e le corti. Il capo è quel conta, e i suoi eventuali reati sono bazzecole, da non evocare. Di bene pubblico nessuno parla più, l´inganno si disfa e tutto ruota attorno a un privato che governando gode di meritati privilegi.
È cosa sana e buona, rispondere a un attacco giudiziario ad personam con leggi ad personam. Lo stesso Berlusconi ha citato il mitico mugnaio prussiano che nel ´700 decise di veder riconosciute le proprie ragioni, e ai soprusi di Federico il Grande replicò: «C´è pur sempre un giudice a Berlino». Solo che Berlusconi non è un mugnaio, diffida d´ogni giudice, ed essendo Re assoluto pensa di non dover rispondere dei propri soprusi, di potersi fare giustizia da sé. Perfino l´apologo sulla giustizia del mugnaio è riuscito a riscrivere, trasformandolo in apologo dell´impunità.
Altra incrinatura visibile, da settimane, è nel linguaggio dei potenti. I giudici che indagano sui reati sono chiamati ufficialmente brigatisti (Berlusconi davanti alla stampa estera, 13 aprile). Il loro scopo è sovvertire lo Stato, violare la sovranità del popolo elettore. Egualmente eversore è chiunque dissenta: giornalisti, intellettuali, coi quali non si discute. È lunga la lista dei neo-terroristi, e in cima a tutti sta ora Asor Rosa. Probabilmente anche il cardinale Tettamanzi disarticola lo Stato, avendo detto domenica scorsa al Duomo che davvero paradossali sono questi giorni in cui tocca domandarsi: «Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come "guerra" le loro azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?». Siamo, insomma, davanti a un salto di qualità importante, a qualcosa che somiglia a una vigilia: tanto esibiti, innalzati come stendardi, sono inganni e paradossi.
Il colmo, a mio parere, è stato raggiunto con l´elogio, da parte di un giornale del potere berlusconiano, del Grande Inquisitore di Dostoevskij (Il Foglio, 16-4). Nelle Lamentazioni che si recitano alla vigilia della Croce e della Resurrezione, Geremia parla di abominio, di panno immondo, e c´è un elemento di abominio nell´allegra difesa di una delle più nere leggende della letteratura. Come pretesto si è scelto il libro di Franco Cassano, L´Umiltà del Male (Laterza). La leggenda narra di Gesù che torna sulla Terra - con la sua mitezza, con i suoi messaggi di libertà - e per la seconda volta, quindici secoli dopo la sua morte, è giustiziato.
Ma il libro è stravolto, usato in difesa del nostro premier. L´Inquisitore non è forse santo ma di certo è più attento alle umane debolezze di quanto lo sia stato Cristo, perché sa quanto il male sia radicato nell´uomo e come difficile sia estirparlo e dare pace ai mortali infelici invece che tormento e angoscia. Sa che l´uomo non sopporta la libertà che Cristo gli ha dato: che la salvezza la troverà inginocchiandosi davanti all´autorità, commettendo le colpe che vuole ma col consenso delle gerarchie ecclesiastiche, le quali prenderanno su di sé il castigo patteggiando con Satana. Le parole che ho letto sabato sul quotidiano berlusconiano sono stupefacenti.
È scritto che il cardinale gesuita di Siviglia (l´Inquisitore), «impartisce (a Gesù) una lezione appassionata e tragica di umiltà del male e di teologia della storia e nella storia, spiegandogli che il suo aristocratismo etico, la sua bontà naturale e santa, non riesce a fare i conti, come riesce invece e bene la sua chiesa gerarchica, con la natura radicale del peccato umano». Gesù non ha la boria e la iattanza dei neopuritani che oggi avversano Berlusconi, ma in fondo appartiene anch´egli a una minoranza etica, che non ama gli uomini come li ama e li aiuta la Chiesa. Solo la Chiesa e l´Inquisitore amano davvero, perché tengono conto dei «bisogni umili delle maggioranze relativamente indifferenti, di coloro che non sono tra gli eletti, che per insicurezza chiedono protezione e sogni, magari anche rivolgendosi ad agenti del male, e che praticano la tutela del proprio interesse legittimo nelle forme e nei modi possibili alla creatura umana sofferente» (i corsivi sono miei).
Se Gesù non diventa un brigatista, è solo perché nel momento decisivo (un momento musicale, vien definito) tace e bacia l´Inquisitore, a suo modo assoggettandosi. Così vengono distorti sia Gesù sia Dostoevskij: con il suo bacio, infatti, Gesù non s´assoggetta affatto; non accetta il parere dell´Inquisitore e i consigli di Satana. Il bacio è dato perché l´Inquisitore ha detto la verità, su se stesso e la Chiesa (la Chiesa gerarchica, non la Chiesa-popolo di Dio). Perché ancora una volta, come sempre ha fatto, Gesù restituisce all´uomo, compreso il malvagio, la piena libertà di scegliere, ragionando, tra il bene e il male. Dostoevskij almeno lo racconta così: il vecchio Inquisitore sussulta, «il bacio gli arde nel cuore» anche se resiste nella sua idea.
Non ho mai letto elogi simili del Grande Inquisitore, e mi domando cosa li renda possibili: oggi, qui in Italia. Forse perché siamo oltre la constatazione che l´umanità è fatta di un legno storto. La stortura non è constatata, ma incensata, addirittura cavalcata. Una sfiducia radicale negli uomini permette agli inquisitori odierni di trasformare il male e l´ingiustizia in vanti personali messi trionfalmente in mostra. L´uomo è malvagio. Inutile, assurdo, scommettere sulla sua libertà come fece Cristo, perché questa libertà la creatura umana vuole consegnarla, in cambio di protezione e sogni (di «felici canzoni infantili e cori e danze innocenti», scrive Dostoevskij) a chi usa le tre grandi forze necessarie al controllo delle coscienze: il miracolo, il mistero, l´autorità.
Per questo si giunge sino a sfoderare la menzogna come bandiera. Si dice senza temere smentite che Berlusconi è stato sempre assolto nei processi. È un falso: su 16 processi, solo 3 lo hanno assolto, gli altri o sono stati prescritti o è stato abolito il reato con leggi ad hoc. Si dice che i suoi processi iniziarono appena entrò in politica. È un falso: cominciarono prima, e fu colpa di tutta la classe politica accogliere chi era gravemente indagato. Da allora mentire è divenuto possibile, fino alle escrescenze odierne. Da allora la democrazia ha smesso di essere discussione e separazione dei poteri, intrisa com´è di paure, ricatti, silenzi inauditi. La macchina non ha funzionato, ma resta l´illusoria speranza in un audace, che infranga le leggi e permetta agli uomini deboli, inermi, di consegnargli la loro libertà in cambio di favole e favori.
 

il Fatto 19.4.11
I sondaggi: governo in caduta libera
La curva discendente è ormai inesorabile. E c’è il sorpasso del centrosinistra
di Wanda Marra


Fiducia in Silvio Berlusconi e nel suo governo in caduta libera. E sorpasso del centrosinistra sul centrodestra. È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Ipr Marketing per Repubblica.it  . L’ultima di una lunga serie di rilevazioni che vanno tutte nella stessa direzione: il Caimano sembra ormai inesorabilmente sul viale del tramonto. Nel dettaglio. Secondo il sondaggio realizzato tra il 14 ed il 16 aprile intervistando un campione rappresentativo di 1000 italiani, Berlusconi si attesta al 31% (2 punti in meno del sondaggio realizzato dallo stesso istituto solo un mese fa). E ben 21 in meno rispetto a inizio legislatura (maggio 2008), quando il premier aveva il 53%. Il governo arriva addirittura al 23% (3 punti in meno di un mese fa). A inizio legislatura (maggio 2008) era al 49%, cioè 26 punti sopra l’attuale livello. In questi quasi tre anni la fiducia nel governo si è dunque più che dimezzata. Accanto alla curva discendente del centrodestra, il sondaggio certifica il sorpasso del centrosinistra, che sarebbe al 41,5%. Mentre il centro-destra si fermerebbe al 41%. Il13,5% va al Terzo Polo.
Male anche il risultato dei singoli ministri. Solo in 4 superano quota 50%. Si tratta di Angelino Alfano, che comunque in un solo mese ha perso il 3%, evidentemente per effetto dei suoi discutibili interventi sulla giustizia. E Sacconi, Tremonti e Maroni. Quest’ ultimo però vista l’approssimativa gestione dell’immigrazione perde il 6%. Da segnalare che il pessimo modo in cui sono state affrontate le crisi internazionali ha inciso pesantemente: La Russa è passato dal 35 al 30%, Frattini dal 24 al 20%. Peggior gradimento per Michela Brambilla, Raffaele Fitto, Paolo Romani (18%). Ultimo, la new entry Francesco Saverio Romano, con il 10%.
Quello di Ipr Marketing è solo l’ultimo dei sondaggi a fotografare la ormai costante discesa di Silvio Berlusconi. Secondo le ultime rilevazioni effettuate dalla Lorien Consulting (l’istituto di Antonio Valente) su un campione rappresentativo di 1000 cittadini, tra l’8 e l’11 aprile 2011, la fiducia nel governo sarebbe addirittura al 19,9% e quella in Berlusconi al 23,3%. E il Pdl, peraltro, si attesterebbe al 24,9%. Dice Nicola Piepoli che, seppure il calo sostanzioso è realistico, il sorpasso ancora non ci sarebbe (“c'è un lieve margine di vantaggio del centrodestra sul centrosinistra, 41% a 40%”), ma che in realtà il vero test sono le amministrative. E si dichiara convinto che in realtà Berlusconi sia ancora in vantaggio. Poi si allarga su un discorso più generale: “Questo è un bel governo, ci sono delle belle persone. Come era un bel governo il Prodi I. Gli italiani dovrebbero puntare a esecutivi così”. Non spreca troppe parole Renato Mannheimer: “È tanto che non ho dei dati miei”. Ma questi? “Sono un po’ bassi, ma realistici”, dice. Senza esitazioni.

l’Unità 19.4.11
Bersani: «Serve un concorso di forze ampie. C’è il rischio di vedere Berlusconi al Quirinale»
«Napolitano ha ragione. Io sono sicuro che la Milano democratica saprà rispondere»
Il Pd rilancia: «Un’alleanza tra moderati e progressisti»
«Il tramonto di Berlusconi sarà drammatico». Bersani definisce «sacrosante» le parole di Napolitano. Alle opposizioni: «Serve un’alleanza tra le forze progressiste e moderate per sconfiggere il berlusconismo».
di Maria Zegarelli


«Sacrosante e precise», le parole di Giorgio Napolitano, reale il rischio «di pericolose degenerazioni» evocate dal Capo dello Stato, perché «siamo dentro a questa degenerazione, certamente». Pier Luigi Bersani commenta così il duro monito del presidente delle Repubblica e definisce «vergognoso» l’episodio dei manifesti contro i magistrati a Milano, «le destre stanno seminando mentalità barbarica e anticostituzionale» aggiunge parlando ad una iniziativa elettorale a Civitanova Marche. È alla luce di questo che secondo il segretario dei democratici è necessaria una coalizione elettorale fra le forze progressiste e moderate del Paese, «non sante alleanze», ma un cartello forte e unito «perché se ci si divide, con un solo voto in più Berlusconi può fare il presidente della Repubblica il prossimo giro». Il Berlusconismo non si esaurirà con l’uscita da palazzo Chigi di Berlusconi, il suo «tramonto sarà drammatico, noi non abbiamo il cronometro ragiona Bersani -, non abbiamo il calendario ma sappiamo che sarà drammatico e ci sarà bisogno di una fase di ricostruzione, con un pacchetto di riforme per la democrazia e per un nuovo patto sociale, per dare un po’ di lavoro e di crescita economica». Forze progressiste e moderate per «un’operazione di ricostruzione» del Paese e per scongiurare l’ascesa al Colle di Silvio Berlusconi che non ha mai fatto mistero delle sue alte aspirazioni.
Che poi la condizione per tornare a parlare ed affrontare i problemi del paese sia quella di voltare pagina passando attraverso il voto anticipato, per Bersani, come per D’Alema, come per il resto dell’opposizione da Casini a Di Pietro e Fini, è ormai fuori di ogni dubbio. Superato il tempo dei governi tecnici, le urne restano l’unica soluzione all’attuale grave crisi politico-istituzionale in cui il centrodestra ha gettato il paese. Dai problemi della giustizia alle riforme, tutto passa in secondo piano davanti alle questioni personali e giudiziarie del premier. «Siamo al problema solito dice il leader Pd -: Berlusconi ha interesse a non risolvere i problemi e ad acuirli per poi poter sbandierare una guerra contro la magistratura. Questa è certamente una china pericolosa».
Ringraziano il presidente della Repubblica per «l’equilibrio e il senso di reponsabilità» tutti i leader democratici da Rosy Bindi a Anna Finocchiaro, Marina Sereni a Alessandro Maran che però denunciano il rischio di una pericolosa deriva dello scontro istituzionale sollevato da Palazzo Chigi. Nessuno tira per la giacca il Capo dello Stato ma è chiaro che ormai tutti guardano al Colle.

l’Unità 19.4.11
Lacrime e bandiere Gaza dà l’ultimo saluto a Vittorio «l’amico italiano»
Poche centinaia di ragazzi palestinesi con bandiere e slogan per l’ultimo saluto a Vittori Arrigoni a Gaza. Stasera la camera ardente al Cairo, poi la salma rientrerà in Italia per i funerali nel paese di Bulciago, in Brianza.
di U.D.G.


Una bara di compensato coperta da una bandiera italiana e una palestinese, gli slogan, e il pianto degli amici, onori funebri solenni, ma non di massa. Si è consumato così, ieri, l'ultimo viaggio di Vittorio Arrigoni nella Striscia di Gaza: lembo estremo di terra palestinese nel quale il volontario italiano aveva scelto di vivere, in nome dell'adesione senza riserve alla causa di un popolo, e dove per tragico paradosso ha incontrato alla fine, a 36 anni, un'atroce morte per strangolamento. Una morte che le indagini sembrano ricondurre alla mano di una cellula di ultra integralisti salafiti collocati su posizioni ancor più radicali di Hamas (il movimento islamico al potere nella Striscia): su tre dei quali pende adesso una taglia. Sviluppo rimasto sullo sfondo del corteo che ha seguito l'addio a Vik, come amava farsi chiamare. Alcune centinaia di persone in tutto, radunatesi dal mattino dinanzi all'ospedale di Shifa a Gaza City, da dove il feretro è uscito a metà giornata portato a spalla da due file di poliziotti con i baschi rossi. E da dove, cosparso di petali, è stato poi caricato su un'ambulanza (una di quelle su cui Arrigoni accompagnava i feriti durante l'offensiva israeliana “Piombo Fuso”) diretta con una coda di torpedoni e vetture private verso il valico di Rafah, al confine egiziano. Il percorso si completerà con l'arrivo al Cairo (dove per oggi è stata allestita una camera ardente), con il volo verso Milano e quindi con i funerali di Bulciago, il comune in provincia di Lecco da cui Vik era partito e dove, nella doppia veste di sindaco e madre, Egidia Beretta lo accoglierà. Per i funerali la madre ha chiesto agli amici e sostenitori di Vittorio di non mandare fiori ma casomai donazioni al conto a lei intestato presso la filiale di Bulciago della Banca popolare di Bergamo (Iban IT16Y0542851000000000000791 ). La famiglia valuterà in seguito a chi destinare i fondi raccolti. A Gaza gli attivisti dei diritti umani amici di Arrigoni hanno deciso di varare una lancia per il monitoraggio dei diritti per la spiaggia di Gaza. La barca, che proseguirà l’impegno di Vik a favore dei pescherecci gazawi sarà battezzata, come lui voleva, «Oliva».

La Stampa 19.4.11
Arrigoni, funerali di Stato a Gaza
L’attivista italiano, dichiarato “martire”, è stato trasferito in Egitto
di Aldo Baquis


Con una cerimonia solenne al valico di Rafah (fra Gaza e l'Egitto) la popolazione della Striscia e i dirigenti dell'esecutivo di Hamas hanno salutato ieri Vittorio Arrigoni, il volontario italiano ucciso venerdì da una cellula di integralisti islamici che con il suo sequestro speravano di liberare un loro dirigente recluso da febbraio in una prigione di Gaza.
Trovatosi in condizioni di difficoltà per l’aperta sfida dei terroristi salafiti, Hamas ha qualificato Arrigoni come «un martire della causa» e ha presentato alla stampa locale come «funerali di Stato» la cerimonia di commiato a Rafah. Nella tarda mattinata il feretro dell’attivista è stato infine issato in spalla da otto uomini di Hamas in alta uniforme ed è uscito dall'ospedale Shifa, avvolto per metà in un vessillo palestinese e per metà in una bandiera italiana. Da ore, sotto il sole, lo attendevano centinaia di amici, sostenitori nonché funzionari ufficiali e rappresentanti di istituzioni locali. Alcuni esponevano immagini di Arrigoni al suo arrivo a Gaza nel 2008 con la flottiglia umanitaria «Free Gaza», mentre altri hanno urlato a gran voce: «Fuori i terroristi da Gaza».
Il corteo funebre, guidato dal viceministro degli Esteri di Hamas Ghazi Hammad, ha lentamente percorso poi i 30 chilometri di tragitto fino al valico di Rafah. La decisione di trasferire la salma via Egitto è stata presa dai familiari della vittima, alla luce della forte animosità che Arrigoni provava verso Israele.
Al valico i dirigenti di Hamas hanno reso ancora una volta omaggio alla figura del volontario, hanno espresso condoglianze alla famiglia e al popolo italiano e hanno assicurato che condurranno una lotta serrata per catturare chiunque abbia partecipato al sequestro e alla uccisione. La salma tornerà in Italia domani, da stabilire la data delle esequie a Bulciago, il paese della famiglia in provincia di Lecco.
Il «ricercato numero uno», conferma adesso la direzione di Hamas, è un jihadista giordano penetrato a Gaza molti mesi fa e da allora attivo nel reclutamento di sostenitori. È lui, secondo gli investigatori, il cervello dell’operazione. Fonti locali aggiungono che questi conosceva personalmente Arrigoni, e che dunque poteva seguirne i movimenti con facilità. Il suo nome è Abdul Rahman al Breizat, noto anche come «il Giordano», o ancora come Muhammed Hisani. Le foto segnaletiche lo mostrano a braccetto con un amico, pure ricercato, e poi anche a bordo di una motocicletta. Sulla sua testa c'è una taglia di entità imprecisata. «Chiunque ci fornirà informazioni sarà ricompensato» ha detto ieri un portavoce del ministero degli Interni. Sempre ieri quel ministero ha pubblicato le foto e i nomi di altri ricercati (Muhammed al Breizat, Billal al Omari, Nimer Salfiti). I servizi segreti di Hamas setacciano a tappeto gli ambienti dei salafiti, e compiono decine di fermi. Di interrogatorio in interrogatorio cresce la sensazione che nel delitto siano implicate forze esterne: integralisti giordani, ad esempio, o anche egiziani che speravano - con la cattura di Arrigoni - di liberare Abu el Walid al Maqdesi, il leader salafita protagonista di una serie di attentati nel Sinai.
Finora sono state arrestate due persone (quattro, secondo altre fonti), direttamente coinvolte nel rapimento. I servizi di sicurezza di Hamas - che pure sono specializzati nel contrabbando di armi dal Sinai verso Gaza - hanno adesso rafforzato i controlli lungo il confine per impedire la fuga dei ricercati nel senso inverso, da Gaza verso il Sinai.

l’Unità 19.4.11
Il congresso del Pcc chiede svecchiamento, ma i mandati pubblici restano di dieci anni
Lobbisti del turismo Sono loro i veri padroni dell’agenda politica nell’Isla Bonita
Cuba, tutto come prima Ma si taglia sul welfare

Vento cinese su Cuba o vento fermo, gattopardesco. È il dilemma su cui si chiude oggi il sipario del 6 ̊ congresso del Partito comunista cubano, il primo senza Fidel e con Raul che promette un ricambio ma pensa all’economia.
di Leonardo Sacchetti


Può la burocrazia sburocratizzarsi? Possono i geronto-dirigenti del Partito comunista cubano (Pcc) avviare il processo di svecchiamento anagrafico e di ringiovanimento politico? Sono questi i dilemmi che circondano la conclusione del sesto Congresso del partito dei fratelli Castro, con Fidel chiuso in casa e costretto a «scusarsi» per la sua assenza e Raul sul palco, indeciso se premere il tasto «riavvia» o cambiare direttamente pc.
Messa così, la discussione che si sta concludendo in queste ore a L'Avana appare quasi kafkiana. Ma è la realtà di Cuba tutta a rientrare in queste domande. Sono i dirigenti del Pcc a chiederselo: alcuni impauriti per l'avvicinarsi di un'ennesima purga, come quella che nel 2009 ha fatto piazza pulita dei “giovani talebani” come l'ex ministro degli Esteri, Felipe Pérez Roque, o l'ex vicepresidente, Carlos Lage. Spariti dalle prime pagine del quotidiano ufficiale Granma e, di conseguenza, spariti dal dibattito nazionale. Altri dirigenti, invece, non sembrano aver paura.
«Niente cambierà», è il refrain cubano del momento, parafrasando il Gattopardo. Due soli mandati come dirigenti per forzare un rinnovamento che, al momento, appare difficile.
Solo oggi, con la chiusura del congresso e con la votazione del documento finale, dopo 24 ore passate dai delegati a porte chiuse, sapremo cosa Raul vorrà fare dell'eredità di Fidel.
Intanto, fin dalla settimana scorsa, il dubbio kafkiano di questo sesto congresso ha ridato slancio alla critica e alla dissidenza cubana, ridotta ai minimi termini da questi ultimi mesi di stretta su Internet e di nuove misure detentive. «Il congres-
so che alcuni immaginavano di rifondazione, è arrivato con troppo ritardo e ha perso per strada moltre delle speranze che ha suscitato» è il giudizio senza appello della blogger Yoani Sanchez. «È il sorriso che ci salverà», conclude quasi a voler chiudere il prima possibile il capitolo congressuale e tornare a concentrarsi sulla realtà di una società sempre più giovane, sempre più preparata e sempre meno occupata.
BRACCIA PER I CAMPI
Non è un caso che proprio i pilastri della propaganda cubana – la sanità e il sistema educativo – vengano messi all'indice da una parte di quella nuova dirigenza che, parole di Raul, ha già fallito ma che tarda
a rendersene conto. Per rilanciare un'economia ormai vicina al blocco, il Pcc potrebbe infatti tagliare in questi due settori, nel tentativo di costringere i giovani a tornare all'agricoltura (il sogno dei geronto-dirigenti) o ad emigrare.
Perché l'economia dell'isola caraibica è ormai legata quasi totalmente al turismo (vera bussola ideologica, se è vero che ancora oggi chi controlla i pacchetti-vacanza degli stranieri controlla l'andamento dei congressi del Pcc) e alla rimesse provenienti dagli Usa. Rimesse anche di qualità: 1.600 medici cubani andati in Venezuela o in Africa per il programma internazionalista “petrolio in cambio di medici” hanno accettato le offerte del governo di Washington. L'Avana proibisce loro il ritorno sull'isola e anche i viaggi per tutta la loro famiglia. I lavoratori cubani, secondo il governo, sono oltre 5milioni (di cui 4,3 milioni occupati nel settore pubblico), con solo 157mila lavoratori «in proprio». Numeri che hanno spinto Raul a riprendere in mano l'opzione “agricola”, visto che almeno mezzo milione di persone, nel corso di questo 2011, perderanno il lavoro a causa dei tagli ventilati.

Repubblica 19.4.11
Psicofarmaci
Diagnosi "facili" e tante pillole così cambia la cura
Secondo l´Organizzazione mondiale della sanità l´efficacia degli antidepressivi si ferma al 60 per cento dei pazienti
Ti arrabbi? "Disregolazione del temperamento". Sei preoccupato se un familiare tarda? "Depressione ansiosa". Sogni troppo? "Rischio psicosi". Così il nuovo manuale psichiatrico rischia di medicalizzare tutto. A vantaggio delle "pasticche della felicità"
di Elena Dusi


Ma ci resterà qualcuno di normale?: è la reazione di Til Wykes, psichiatra del King´s College London, alla lettura delle bozze del nuovo "manuale della psichiatria", quel Dsm-V che detterà ai medici di tutto il mondo i criteri per le diagnosi e il trattamento dei loro pazienti. La quinta versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm-V appunto) è attesa per il 2013. «Ma osservando i lavori preparatori, già si capisce che i criteri per diagnosticare le malattie mentali saranno ulteriormente allargati, dando modo ai medici di prescrivere ancora più farmaci», commenta Paolo Cioni, ex responsabile del servizio di salute mentale nella Asl di Firenze, attuale docente della scuola di specializzazione in Psichiatria dell´università del capoluogo toscano e autore di Neuroschiavi (Macro Edizioni).
Le preoccupazioni di Cioni si concentrano sulla prescrizione di farmaci antidepressivi: «Negli Usa i casi trattati tra il 1987 e il 1997 sono triplicati. Ormai dal lettino non passa quasi più nessuno. È molto più semplice prescrivere un farmaco; ci sono anche meno rischi per i medici». Il National Center for Health Statistics americano racconta che negli Usa undici persone su cento seguono una terapia con farmaci antidepressivi (le donne sono quasi il triplo degli uomini). In Italia i dati (Rapporto Osmed 2010) sul consumo di medicinali segnalano che per ogni mille abitanti si consumano 27,2 pillole "della felicità". Il loro uso è triplicato tra il 1988 e il 2000 (Osservasalute 2010, università Cattolica) e la maggior parte delle prescrizioni arriva dai medici di famiglia. Ma che questi farmaci restituiscano la gioia perduta è vero solo a metà: secondo l´Organizzazione mondiale della sanità l´efficacia degli antidepressivi si ferma al 60 per cento dei pazienti che li assumono regolarmente.
«Il consumo di questi farmaci diventerà sempre più facile» prevede Cioni. «Il nuovo Dsm, che viene redatto dall´American Psychiatrical Association ma è adottato anche negli altri paesi, crea molta confusione sui sintomi. La normale demoralizzazione destinata a passare da sé non viene più distinta dalla depressione maggiore che invece va trattata dal medico. Nelle versioni precedenti, l´aver subito un lutto era considerato un criterio di esclusione per la diagnosi di depressione. Non c´è nulla di strano infatti nell´essere tristi dopo aver perso una persona cara. Ora invece il lutto stesso è diventato una causa di depressione». Le bozze della nuova versione del Dsm in effetti hanno una malattia per tutti. Basta un´arrabbiatura per cadere nel "disordine da disregolazione del temperamento". Un familiare non torna a casa per l´ora di cena e ci si trova affetti da "moderata depressione ansiosa". Sognando troppo si rischia una diagnosi di "sindrome da rischio psicosi". La "pandemia" delle malattie mentali ha una causa di fondo: la mancanza di criteri oggettivi per la diagnosi. Ma per Cioni, che ha parlato recentemente al convegno "Ai confini della mente e oltre", la neurofisiologia può venire incontro ai medici. «Esistono indicatori fisiologici che possono essere usati, come la misurazione dell´attività elettrodermica, che è ridotta nella depressione, le alterazioni del ritmo cardiaco e del tono simpatico, l´alterazione dell´elettroencefalogramma nel sonno o il fenomeno per cui, osservando scene spiacevoli, gli individui depressi non hanno reazioni normali come il trasalimento, che si misura tra l´altro con l´aumento del battito delle palpebre. Questi criteri vanno sicuramente approfonditi prima di essere considerati validi in assoluto. Ma hanno il vantaggio di togliere al medico la piena discrezionalità della diagnosi».
Il rischio è che la depressione finisca ancora di più negli ingranaggi del marketing delle aziende farmaceutiche. Nel libro Storia segreta del male oscuro (ne parliamo nell´articolo accanto, ndr), lo psicoterapeuta Gary Greenberg cita un esperimento del 2005 di Richard Kravitz, psichiatra dell´università della California. Kravitz prese alcuni attori e li mandò da 300 medici con l´obiettivo di simulare i sintomi di una depressione e farsi prescrivere un farmaco. Missione compiuta per il 53% di chi aveva domandato un prodotto ben preciso e per il 76% di chi si era limitato a chiedere un antidepressivo qualsiasi.

Repubblica 19.4.11
La provocazione di Greenberg: il male oscuro un’invenzione dei medici
Gli psicoterapeuti italiani "La chimica non basta"
di Luciana Sica


Un manifesto a favore del diritto ad essere infelici e una denuncia contro l´eccessiva medicalizzazione di ogni stato depressivo, la Storia segreta del male oscuro, un libro divulgativo e a tratti anche spiritoso. Lo ha scritto uno psicoterapeuta americano, Gary Greenberg, incline alla scrittura brillante che collabora con riviste come il New Yorker e Wired. La depressione - azzarda l´autore - altro non è che una "invenzione" dei medici, fondata sul mito che dipenda da un difetto biochimico e alimentata dall´incapacità generalizzata di reggere ogni vuoto melanconico. In una società fobica del dolore che ipotizza la vita come un eterno carnevale e la ricerca della felicità come il suo scopo principale, anche la tristezza diventa "depressione", una "malattia" da cancellare rapidamente, cosa c´è di meglio di uno psicofarmaco che restituisca almeno la possibilità di essere più "funzionali" e adeguati alla realtà?
Nel mirino del j´accuse di Greenberg sembrerebbero esserci i cognitivisti, per la loro fama di ricorrere spesso alle "medicine". Ma le cose stanno diversamente, a sentire un caposcuola del cognitivismo italiano come Giovanni Liotti: «La depressione al singolare non esiste, è un errore linguistico e concettuale. Ma ha ragione Greenberg: è vero che c´è un abuso di antidepressivi. Se non c´è niente che non sia genetico e niente che non sia "appreso", per dirla con Popper, bisognerebbe valutare il grado di inibizione del soggetto nella sfera professionale e affettiva, prima di prescrivere farmaci. Allo stato attuale delle ricerche, una combinazione tra una piccola dose di serotoninergico e una psicoterapia è comunque la via più sicura per arrivare a un sostanziale sollievo in tempi ragionevoli. Ma se una persona elabora l´esperienza depressiva senza l´aiuto del farmaco acquisterà senz´altro maggiore fiducia nelle proprie risorse».
Ancora più refrattari alle semplificazioni sono gli analisti, e in particolare Lucio Russo, "didatta" della Società psicoanalitica italiana. Anche la sua posizione potrà risultare sorprendente. «Non escludo l´uso degli psicofarmaci - dice - ma non delego mai esclusivamente a delle molecole chimiche la cura di chi sta male. Lo stato depressivo è affare nostro, della psicoanalisi. Serve una relazione transferale dove il paziente venga realmente "risostenuto". Non basta ricostruire il passato infantile, bisogna riviverlo nella cura e dare un senso alla propria storia. Noi analisti non lavoriamo per riadattare l´Io, per rieducare il pensiero e gli affetti: pensiamo che la nostra mente possa riparare i danni subiti laddove qualcosa si è interrotto o non è mai cominciato». E se il paziente è a rischio di suicidio? «Allora occorrono i farmaci, senza però che venga meno l´ascolto. La medicalizzazione, che denuncia Greenberg, è soprattutto una "difesa" dal farsi carico di una cura pesante, carica di diffidenza, di attacchi, di turbolenze emotive. Ma condannare un individuo a una carriera farmacologica è sempre una sconfitta per tutti».

Repubblica 19.4.11
Circolo vizioso che colpisce la sessualità


Aumenta il ricorso agli psicofarmaci e questo ci racconta come lo stress e la paura siano oggi presenti nelle "persone normali". La paura, l´angoscia, le crisi di panico, la depressione sono oggetto di una costante informazione sui mass media e sono presenti in modo significativo nella narrazione clinica. Per quello che riferisce al sesso, sappiamo che molti farmaci hanno riflessi collaterali sul desiderio, ma l´urgenza di trovare risposte al dolore, all´inquietudine, portano a sopportare le deprivazioni sessuali che si possono verificare. Le stesse disfunzioni sessuali sono curate con psicofarmaci, innestando un circolo vizioso. Esiste un uso improprio delle parole, una confusione tra depressione e malinconia, tra dolore per una delusione amorosa e pensiero che non dovrebbe esistere. La difficoltà nel gestire l´insoddisfazione e l´ansia da prestazione sono molto forti perché c´è una continua idealizzazione degli obiettivi da raggiungere. Nella consultazione individuale e di coppia è necessario ripetere spesso che il lutto psichico per una perdita affettiva ha bisogno di tempo, che mantenere e far funzionare le relazioni richiede una fatica emotiva. La tendenza all´uso di sostanze e di alcol vanno di pari passo con l´azzardo: si vivono esperienze che sono rese possibili dall´attenuazione del controllo e nello stesso tempo si usano farmaci perché diventa difficile gestire il dopo e saperlo relazionare al progetto di vita, al carattere. Si è imparato a chiamare malattia quello che è fatica di vivere, difficoltà di adattamento, mancanza di identificazione delle proprie vere scelte. I tempi troppo brevi impediscono la rielaborazione delle emozioni e il ricorso facile ai farmaci, per dimagrire, dormire, sedare l´ansia, risolvere l´ansia da prestazione sessuale possono impedire la comprensione dei fatti.
www.irf sessuologia.org

Repubblica 19.4.11
Il gene delkla felicità
Così le teorie scientifiche diventano letteratura
Con la mappatura del genoma abbiamo cominciato a pensare di poter riscrivere il libro della vita
Lo scrittore americano spiega com´è nato "Generosity" il suo ultimo romanzo che esce adesso in Italia
di Richard Powers


Da quando oltre dieci anni fa è stata completata la prima bozza dell´intero genoma umano, la storia di ciò che significa essere uomini è stata oggetto di ininterrotte revisioni. Accanto alla ricerca dei presupposti genetici di alcune comuni malattie, sono apparsi infatti sempre più di frequente alcuni interessanti studi - di attendibilità variabile - sull´associazione dei geni. Nel corso degli ultimi anni hanno fatto notizia nei media di tutto il mondo il gene dell´alcolismo, il gene dell´omosessualità, il gene dell´aggressività, il gene della depressione, il gene della paura, il gene dello stress, il gene della xenofobia, il gene dell´istinto criminale e il gene delle fedeltà. Nel bene come nel male, abbiamo iniziato a leggere il libro della vita, pur avendo al contempo iniziato a credere di poterlo riscrivere a nostro piacimento.
Generosity racconta la storia di una giovane algerina, resa orfana dalla brutale e ininterrotta guerra civile di quel Paese, profuga in tre continenti, che finisce in una scuola d´arte di Chicago dove ha modo di apprendere a realizzare film d´animazione. Con grande stupore di tutti coloro che la conoscono, la giovane non evidenzia segno alcuno d´ansia, di depressione o di stress, normale in chiunque abbia vissuto analoghe esperienze devastanti. La giovane lascia trapelare al contrario un´esuberanza indefettibile. È semplicemente, tenacemente, luminosamente felice. Possiede quel genere di felicità che i figli dell´abbondanza, della sicurezza e del privilegio sono smaniosi di possedere. L´insegnante di un corso di scrittura creativa " non-fiction" al quale la giovane si iscrive, temendo che lei possa soffrire di qualche tipo di ossessione post-traumatica, contatta uno dei consulenti del college, che arriva alla conclusione che la ragazza sia affetta da una rara condizione sempre più comunemente definita "ipertimia", un´esagerazione prolungata dell´euforica sensazione di benessere generale, riservata a pochi fortunati.
La giovane algerina desta l´interesse di un ricercatore esperto di genetica che crede nel transumanesimo - la convinzione che la scienza della vita sia vicina ad affrancare la razza umana dai capricci dell´eredità genetica, offrendole libertà di scelta. Questo ricercatore genetico inserisce l´euforica giovane algerina nel suo studio sui collegamenti tra geni e benessere emotivo. È lei a inaugurare la curva massima, confermando l´intuizione del ricercatore che si basa sull´individuazione da parte del suo staff di un gruppo di geni responsabili in grandissima parte dell´indole affettiva - stimata in modo variabile tra il 50 e l´80 per cento - e che si eredita direttamente dai propri genitori. Quando i risultati della ricerca arrivano alla stampa, i giornalisti annunciano ciò che noi tutti sappiamo che comparirà presto negli aggregatori di notizie, in un qualsiasi momento dei prossimi mesi: il sistema a lungo cercato e a lungo inafferrabile dei geni della felicità. I blog si scatenano. Si propone di impiegare alcune tecnologie particolari quali lo screening e la selezione dei geni prima di effettuare un eventuale impianto. La razza umana pare vicina a fare della felicità un altro dei vantaggi che si crede possano ormai essere garantiti ai propri figli...
Anche se il romanzo è attualmente finalista al Premio britannico Arthur C. Clarke per la fantascienza, credo che sarebbe meglio considerarlo un´opera di scienza-verità (gioco di parole altrimenti intraducibile tra "science-fiction" = fantascienza e "science-faction", dove "faction" è contrazione di fact = verità e fiction = romanzo, ndt), una satira sociale su ciò che accade allorché la comprensione di una nuova scienza da parte dell´opinione pubblica è fuorviata da un settore biotech che fa l´impossibile per immettere sul mercato nuovi prodotti. In quanto tale, volevo che il libro fosse quanto più accurato possibile dal punto di vista scientifico. Pertanto, mentre scrivevo il romanzo, ho avuto la straordinaria occasione di poter diventare la nona persona al mondo a farsi sequenziare l´intero genoma. Ho preso un aereo per Boston, uno dei centri negli Stati Uniti nei quali è in corso la rivoluzione biotech. Lì mi hanno prelevato quattro fiale di sangue. Una volta concentrato e purificato, il mio sangue è stato spedito in Cina dove un centinaio di esperti tra scienziati e tecnici di laboratorio ha lavorato per quattro mesi consecutivi a produrre cinque sequenze complete dei sei miliardi di coppie di basi del mio Dna. Questo immenso volume - l´intero patrimonio genetico di - mi è tornato indietro su una funzionale memory card, esattamente identica a quelle che si utilizzano per conservare una copia di tutte le foto della propria famiglia.
Il mio navigatore genetico Usb mi permette di analizzare ogni paio di basi del mio Dna, di verificare la presenza o l´assenza di tutti i fattori di rischio genetici conosciuti, di collegarmi online alle ricerche più aggiornate riguardanti ogni variante che possiedo. Dalle sequenze del mio Dna risulta la presenza di oltre 51.000 varianti genetiche mai riscontrate finora nella letteratura scientifica, ma naturalmente il loro numero calerà rapidamente non appena altre persone si faranno sequenziare il proprio patrimonio genetico. Ho così scoperto di possedere il gene dell´originalità, che torna davvero molto utile a uno scrittore. Ho appreso che dovrei essere per alcuni aspetti resiliente allo stress e per altri aspetti soggetto alla depressione. Possiedo tre geni che risultano correlati a un´intelligenza notevole - fatto che mi risulta gratificante sapere, in modo alquanto stupido! Possiedo geni che fanno di me un candidato davvero poco ideale per l´assunzione di Coumadin (anticoagulante e fluidificante del sangue, ndt), e geni che aumentano il rischio di soffrire di propositi suicidi derivanti dall´assunzione dell´antidepressivo Citalopram.
Leggendo il mio genoma e scrivendo Generosity ho appreso parecchie cose. Ho avuto un´illuminazione riguardo a tutto ciò che dobbiamo ancora apprendere sulla misteriosa interazione tra patrimonio ereditario e ambiente. Ho avuto l´opportunità di vedere le antiche fantasie di previsione e verifica tuttora soggiacenti alla nostra idea dell´Io nell´era post-genetica. Abbiamo sempre desiderato "riscriverci". Generosity riguarda quel particolare momento nella lunga storia umana in cui per la prima volta abbiamo iniziato a capire come quel trucchetto possa riuscirci.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2011 Richard Powers

l’Unità 19.4.11
Luoghi & parole Il poeta che visse lunghi periodi a Chia, «il paesaggio più bello del mondo»
Il racconto di chi lo conobbe qui: «Ce l’ho scolpito nella mente... organizzò una partita di calcio»
Sulla torre di Pier Paolo Pasolini alla ricerca dei segreti perduti
Qui girò «Il Vangelo secondo Matteo», qui scrisse «Petrolio». Siamo andati a cercare la torre di Chia, vicino Bomarzo. La nipote Graziella: «Lui amava questo posto, che gli amici definivano un posto da lupi...»
di Sandra Petrignani

«Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, /che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,/ nel paesaggio più bello del mondo...» scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1967 nel finale del poema autobiografico Poeta delle Ceneri. La torre di Viterbo è in realtà la Torre di Chia, o castello di Colle Casale, vicino a Bomarzo, che Pasolini riuscì ad acquistare tre anni dopo. Dentro le mura del castello, risalente al 1200 e appartenuto, nel corso dei secoli, agli Orsini, ai Lante della Rovere, ai Borghese, il terreno era stato convertito a orti e pascolo. Il progetto di restauro, affidato all’amico scenografo Dante Ferretti, è un capolavoro di integrazione nel paesaggio, una casa di pietra e di vetro mimetizzata fra le rocce e nel verde di un dirupo.
Si vede quel paesaggio nel Vangelo secondo Matteo. Pasolini andò a girare nei dintorni di Chia, sulle rive dell’omonimo torrente, sotto il castello, la scena del battesimo di Gesù con lo scrittore Mario Socrate nei panni di Giovanni Battista. Era il 1963 e s’innamorò subito della terra dura e antica, del cielo turbinoso attraversato dalle cornacchie. Quegli uccellacci neri si appostavano sull’alta torre luogo di vedetta per soldati medievali rompendo i silenzi tenebrosi con il loro gracchiare rauco.
Il 19 marzo la casa è stata aperta a pochi amici, qualche autorità e al gruppo archeologico Roccaltìa, che molto s’impegna per rivalutare e scoprire i siti archeologici della zona, e vi è stato allestito un buffet di delizie locali. Si scopriva anche un busto dello scrittore e una lapide con incisi i suoi versi per Chia nella piazza centrale della cittadina e si festeggiava l’appena approvato Parco Letterario a lui intitolato. La casa-torre è appena fuori dal centro abitato, in mezzo a un bosco, bisogna camminare mezzo chilometro per raggiungerla dalla strada.
Qui stava scrivendo il romanzo rimasto incompiuto, Petrolio, quando venne assassinato all’idroscalo di Ostia. Vi passava lunghi periodi in solitudine, che però interrompeva volentieri partecipando alla vita del circondario o per ricevere gli amici. La nipote, Graziella Chiarcossi, ricorda di una volta che vennero alcuni ragazzi dei dintorni e gli raccontarono i loro sogni.
Fra un pasticcio di pasta e una polpettina Walter Veltroni, che più tardi presiederà all’inaugurazione del busto realizzato dallo scultore locale Gianluca Bagliani, ricorda com’era la casa trent’anni fa, quando venne a Chia, segretario della Fgci romana, insieme a Laura Betti, Bernardo Bertolucci, Ettore Scola e Maurizio Ponzi che dovevano realizzare per il cinema Il silenzio è complicità, ritratto del poeta. La casa allora somigliava di più al suo proprietario, ogni stanza affacciava direttamente sull’esterno attraverso una grande vetrata, la cucina era piccolissima tanto non gli interessava, non sapeva cucinarsi nemmeno un uovo, «era una casa emotiva, molto vicina alla sua poetica» la descrive Veltroni. Qualche cambiamento c’è stato, «per renderla più comoda, più abitabile» spiega Graziella. La famiglia è aumentata, i giovani hanno avuto figli e gli spazi pensati per un uomo sostanzialmente solo non bastano più. Mi guida su per una  scala a chiocciola che porta in cima alla torre a due piani fino al solaio dal tetto di vetro. Lei dormiva al primo piano perché le stanze accanto alla porta d’ingresso erano occupate una da Pasolini, che aveva camera e studio contigui, l’altra dalla madre Susanna, che nel Vangelo è una Maria dolorosissima.
Dei mobili originali è rimasto solo un comò in marmo e bambù; tutto il resto, preziosi arazzi portati dal Nepal, divani in pelle e reperti antichi, è stato rubato o distrutto con atti di vandalismo quando ancora era in vita Pasolini.
«Eppure lui amava questo posto, che gli amici definivano un luogo da lupi» dice ancora Graziella. Era a suo agio nella «bruma azzurra della grande pittura nordica rinascimentale» che avvolgeva Orte (e la non lontana Chia), come disse in una trasmissione televisiva dedicata alla forma delle città. Di Orte amava «la forma perfetta e assoluta» e dell’umile Chia si preoccupava di proteggere «il passato anonimo, popolare» perché è troppo facile, diceva, «difendere i monumenti e le opere d’arte». Anche nei restauri della Torre si preoccupò di «rispettare il confine naturale fra la forma della costruzione e la forma della natura circostante», era la sua poetica e la sua politica.
Era un solitario Pasolini («Ora io non sono più un letterato, /evito gli altri, non ho niente a che fare/ coi loro premi e le loro stampe» scriveva nel Poeta delle Ceneri), che amava coinvolgersi nella vita intorno, si preoccupava delle antiche pietre, degli alberi. Il sindaco di Chia, Domenico Tarantino, ricorda precisamente la prima volta che lo vide nel campo sportivo di Soriano. «Ce l’ho scolpito nella mente, anche se avevo solo otto anni. Pasolini aveva organizzato una partita di calcio e giocava senza risparmio. Era in gran forma fisica». E Terzo Canilli di anni ne aveva 13 quando faceva compagnia a suo zio, custode del castello, e incontrò quel regista magro e scavato che girava il Vangelo. Anni dopo, se lo ritrovò davanti che gli chiedeva di visitare il posto. «E io che non facevo passare nessuno, lo accompagnai in giro. Era così simpatico e gentile». E ricorda una volta che Pier Paolo arrivò carico di piante e le disseminò per il paese «per renderlo più bello», e una festa favolosa di Capodanno nella casa-torre, e «quando con una massa di gente lui venne a una festa di piazza e si misero tutti a ballare». E quando bandì, nel ’74, il concorso Case di Chia nel verde con tanto di premi in denaro per stimolare gli abitanti ad abbellire la cittadina riempiendola di lecci, allori, ulivi perché, come si legge nel bando, redatto di suo pugno con le correzioni a margine del foglio: «Chia è sorta disordinatamente... Bisogna urgentemente provvedere a un miglioramento estetico dell’abitato».
E ancora a Chia dedicò alcuni ultimi versi della Nuova gioventù: tornando sorprendentemente al dialetto friulano degli esordi, «Il soreli a indora Chia/ cui so roris rosa, / e i Apenìns a san di sabia cialda» (Il sole indora Chia con le sue querce rosa e gli Appennini sanno di sabbia calda). Ma i contadini di una volta non ci sono più, se ne sono andati – dice la poesia – «e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio».

il Riformista 19.4.11
La verità di Franzinelli sui falsi diari del duce
di Federico Fornaro

8

il Riformista 19.4.11
Habemus Solam. Il più brutto film del regista
Ma è Moretti o Don Matteo?
di Stefano Cappellini

http://www.scribd.com/doc/53321531

Terra 19.4.11
«Il Vaticano è ancora convinto di poter ignorare le leggi laiche»
di Federico Tulli

http://www.scribd.com/doc/53321588