Presso le antiche cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944 si consuma l’eccidio di 335 civili e militari italiani per mano nazista.Ad organizzare ed eseguire la strage sono l’ufficiale delle SS Herbert Kappler all’epoca anche comandante della polizia tedesca a Roma, il capitano Erich Priebke e Albert Kesselring.
L’eccidio matura come rappresaglia per vendicare 33 militari tedeschi morti in un attentato partigiano a via Rasella il 23 marzo. I tedeschi, dietro ordine diretto di Hitler, applicano alla lettera il principio di fucilare 10 ostaggi italiani per ogni tedesco ucciso. Vengono per errore inseriti 5 nomi in più alla lista.
L’esecuzione, che avviene con un colpo alla nuca, è di proporzioni enormi tanto che gli stessi comandi nazisti la rendono pubblica, insieme all’attentato partigiano, solo a cose fatte e dopo aver fatto saltare le cave con delle mine per rendere più difficoltoso il ritrovamento dei corpi.
www.anpi.it
l’Unità 24.3.11
Pierluigi Bersani, Pd «Abbiamo toccato il fondo davanti alla dignità degli italiani»
Ruby «costa» un ministero Saverio Romano all’Agricoltura. Indagato per mafia, è stato tra i pochi a opporsi al carcere duro per i mafiosi
l’Unità 24.3.11
Intervento «legale» e «necessario» I Democratici ritrovano l’unione
Visto il testo “leghista” della maggioranza sulla Libia, il Pd de- cide di chiamarsi fuori. Bersani: non copriremo le loro miserie. Rientra il dissenso dei “pacifisti”, ma sfuma l’intesa con Idv e Terzo polo.
di A. C.
L’idea di un approccio bipartisan sul- la questione libica svanisce di primo mattino. E non per la pattuglia di par- lamentari Pd intenzionati a porre una questione di coscienza sull’uso delle armi. A Bersani e agli altri big, riuniti in mattinata al Nazareno, basta intui- re il tono della mozione partorita nel- le stesse ore da Pdl e Lega per capire che su quel testo non ci può essere convergenza. La prima a farsi avanti è Rosy Bindi: «Dobbiamo votare una nostra risoluzione, dal momento che i pasticci della maggioranza con la Le- ga sono pericolosi». Bersani spiega: «Non siamo interessati ad argomenta- zioni e correzioni di documenti che servano a coprire le miserie di una maggioranza e di un governo non so- no in grado di esprimere una posizio- ne univoca e hanno mostrato al mon- do di essere in stato confusionale». La linea ormai è decisa, così come, du- rante il coordinamento, rientrano i di- stinguo del gruppo, composto soprat- tutto da ex popolari, che esprimeva dubbi di coscienza. A ora di pranzo inizia la riunione- fiume dei gruppi parlamentari, che ratifica la decisio- ne presa. Solo Enrico Gasbarra si dice pronto a non votare la mozione. Resta anche una pattuglia di senatori incerti, gli stessi che nei mesi scorsi non avevano mai partecipato ai voti sul rifinanziamento delle missioni, guidati da Roberto Di Giovan Paolo e dalla sinistra di Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. Un gruppo che ha raccolto anche firme di deputati (c’è anche Giovanna Melandri) e che da- rà vita a una iniziativa pubblica a Ro- ma dal titolo «L’Italia responsabile dalla pace». Ma la linea è condivisa a larghissima maggioranza (rientra anche il dissenso dell’area Marino): e fa perno su due parole, l’interven- to in Libia è «legale» e «necessario». E l’idea di votare solo la propria mo- zione, e non quella del governo, con- tribuisce a far rientrare i distinguo. Sfuma però l’ipotesi di una mozione comune con le altre opposizioni: il Terzo Polo e l’Idv decidono di pre- sentare testi propri.
Durante la riunione dei gruppi Pd, alcuni parlamentari hanno chie- sto conto a D’Alema del trattato di amicizia con la Libia che fu avviato quando lui guidava la Farnesina. «Il trattato serviva a riparare ai guasti prodotti da Mussolini, che ha fatto più male ai libici di quanto ne abbia fatto lo stesso Gheddafi», ha replica- to D’Alema, che ha ricordato le tan- te differenze tra l’impostazione del trattato e la traduzione operata da Berlusconi. D’Alema ha anche boc- ciato la proposta di Vendola di una forza di interposizione. «In Libano si potè fare perchè si era ottenuto il “cessate il fuoco”. In Libia la guerra era già in corso, Gheddafi stava ucci- dendo migliaia di persone».
il Riformista 24.3.11
«Oggi la sinistra non può sottrarsi alle responsabilità»
Silvio Pons. Lo storico, direttore dell’Istituto Antonio Gramsci è felice che i pacifisti integrali siano solo «un drappello marginale e sparuto di irriducibili»
di Edoardo Petti
qui
http://www.scribd.com/doc/51443724/il-Riformista-24-3-11-stralci
l’Unità 24.3.11
Gli esorcisti e la Chiesa
di Mario Pulimanti
«Demoniache presenze» all'Ateneo pon- tificio Regina Apostolorum, è di scena il diavolo: dal 28 marzo sino al 2 aprile, si svolgerà a Roma il sesto corso per impa- rare a difendersi da Satana. Il corso vuol essere un aiuto ad approfondire la real- tà del ministero dell'esorcismo nelle sue implicazioni teoriche e pratiche e un au- silio per i vescovi nella preparazione dei sacerdoti che saranno chiamati a tale ministero. Il corso del Regina Apostolo- rum tratterà anche l'allarme destato dall'irruzione del satanismo nel mondo dei giovani. E ci saranno pure approfon- dimenti anche sugli aspetti teologici del fenomeno. Esperti affronteranno an- che la questione dal punto di vista crimi- nologico e non mancheranno le testimo- nianze offerte dagli esorcisti. L'obietti- vo è quello di offrire ai sacerdoti stru- menti per il loro lavoro pastorale, di in- formazione e di sostegno per le fami- glie colpite dal fenomeno del satanismo giovanile.
l’Unità 24.3.11
Dario Fo «85 anni senza smettere di raccontare il potere»
Ribelli senza tempo L’Italia, Voltaire, la morte, il Sessantotto, i ventenni di oggi, la Libia... intervista a 360 gradi al maestro e premio Nobel per il suo compleanno
di Toni Jop
Mi vien da ridere; c’è gente che con entusiasmo mi stringe la mano e dice “caro Fo, questa cosa qui, bellissima, la facciamo tra dieci an- ni”. Io ci sto, ma ottantacinque più dieci fa novantacinque, e non so perché ma mi vien da ridere...»: questo è il fatto, incredibile ma ve- ro Dario compie ottantacinque an- ni, e se li mette in tasca come fosse- ro caramelle che gli spettano, tanto è uguale. Non c’è niente di normale in quel che dice e nemmeno in quel che ha fatto, tuttavia....
Dario sarebbe bello intanto sapere come va, come stai, insomma fisica- mente... «Sto benissimo, grazie, anzi me la godo e lavoro molto, per esempio adesso ho tirato fuori dal cassetto una mia cosa iniziata tanti anni fa, una cosa su Moro, su quella trage- dia italiana...»
Fermati: questo è un chek-up, non una intervista. Quindi, veniamo alla seconda questione: come va con la paura della morte?
«Aaaaahhh beh! C’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Certo è che uno non se la inventa all’ultimo momento, se ci fa i conti vuol dire che ci ha con- vissuto e non c’è niente di male, an- zi a volte educa».
Per quanto ti riguarda?
«Per quanto mi riguarda, finché la salute mi sostiene, mi diverto a fare quel cazzo che voglio...» E cioè irriti: hai irritato quando facevi teatro politico, quando ti sei imposto come il giullare più ganzo della terra, quando ti hanno assegnato il Nobel, irriti anche adesso che ti metti a ri- spolverare la storia atroce di Aldo Moro...
«Ciascuno ha la sua strada. Io, la mia la sto percorrendo con soddi- sfazione e grande energia...» Vero o no che sei un personaggio di successo? E lo sei in un tempo in cui per avere successo devi dormire all’Olgettina, non sempre ma spesso, non è normale... Mi ricordi un gran bel film che si intitolava «L’impossibi- lità di essere normale»...
«Sì (ride) sono forse un personaggio di successo. Senza Olgettina e senza tv. E sai qual è il laboratorio che mi ha dato forza, intelligenza e senso della smarcatura? Il Sessan- totto, insomma quel tempo lì, quel- la crisi di laggiù, il vocabolario di quella fatica meravigliosa. Questa roba è la mia zattera e mi porta do- ve voglio, anche sotto le finestre di quella ministra senza fama che si chiama Gelmini per la quale il Ses- santotto è un buco nero nella sto- ria. Io non sono normale ma lei non sa nemmeno di stare al mondo...» Togliti da quella finestra, perdi solo tempo...
«Va bene. Però, non mi spiego di- versamente il fatto che più di ogni altro mi riempie di gioia ogni volta che si apre un sipario e sto lì a bear- mi davanti a un pubblico che è fatto di tantissimi ragazzi: vorrà dire che sono stato nel mio tempo ma che il mio tempo è lungo quanto si vuole, vasto quanto serve per parlare ai ra- gazzi di cose che a loro appartengo- no...»
Mettila così: sei forse il solo in Italia che sul palco non ha mai smesso di parlare direttamente del potere e del- la sua natura, lo metti a nudo, sei un pornografo sessantottino...
«Vero, non ho smesso un attimo di raccontare il potere, fin dagli esor- di, fin da quando ho salutato le sale dei teatri e sono sceso nelle strade, nelle piazze, nei palasport, nelle ca- se del popolo, nelle chiese sconsa- crate...»
Che vita, che bella vita, che uomo for- tunato, mi sembri uno dei Beatles, il quinto, davanti a Tina Pica... «E basta! Stavamo parlando della morte. Allora senti questa: “quand ghe n’è più, Gesù Gesù”, vuol dire che quando ti pare che tutto sia fini- to, ecco che ti aggrappi ai santi e alle madonne. Io questa cosa qui non la capisco, non capisco quelli che, giunti secondo loro al giro di boa definitivo, si convertono, e pre- gano e vanno nelle chiese e si fanno riflessivi e prudenti, si prepara- no...»
Eccolo, il figlio del Sessantotto è nipo- te di Voltaire... «Giusto Voltaire. In chiusura del Candide, scrive, più o meno: non ci resta che andare a curare il nostro orticello. E tanti ad andargli dietro proni, come se Voltaire avesse det- to questa battuta mosso da serena rassegnazione; capito niente. Lo diceva e lo scriveva come un insulto, come una zaffata di vetriolo lancia- ta sulla conformità: almeno quan- do sei agli sgoccioli, non rompere le balle al sistema, al potere, non creare difficoltà, statti buono». Qualcuno dice: se te ne stai buono ad un certo punto, vuol dire che te ne sei rimasto buono anche prima, que- sta vecchia psico-massima è servita nel tempo per capire chi abbandona- va il Movimento e si diceva: chi molla ora vuol dire che non c’è mai stato dentro...
«Corretto! Allo stesso modo serve per rintracciare una vera e forte continuità tra il Sessantotto e il Mo- vimento di questi anni e mesi recen- ti. Che gran consolazione! Vedere come milioni di ragazzi non ceda- no alla disperazione, alla tristezza, alla rassegnazione, alla compostez- za di sistema e scendano in piazza e lottino, con gioia, con intelligenza. Metti questa consolazione assieme a quella della mia platea di ventenni: avevi ragione, sono un uomo for- tunato perché sento e so che an- dranno avanti, che faranno cose bellissime, che non tradiranno per- ché non possono farlo, perché si tra- disce solo ciò in cui, in fondo, non si crede e mi fermo qui, non vorrei tromboneggiare...»
Che si fa con la Libia?
«Discorso terribile, difficile maneg- giare senza ferirsi. Ma se non c’era la Francia che partiva in quarta, c’era una strage e staremmo qui a piangere anche sulle nostre respon- sabilità. Dovevamo accettare il mas- sacro? Magari con la scusa che i luo- ghi in cui intervenire per difendere la libertà sarebbero troppi e quindi meglio niente? Meglio fermi e sot- toterra? Non credo, io sto con l’Onu. Certo, bisognava intervenire prima, dare forza e valore alle paro- le, alla trattativa e ancora questa è la strada da battere ma...Ora ci vor- rebbe un controllo meticoloso del- le operazioni, una lucidità che tut- tavia la guerra, o il potere, nega sempre. Poi penso a Berlusconi, ai suoi amici. È un collezionista di fi- gli di puttana, appena ne vede uno gli corre incontro e gli bacerebbe anche i piedi, non solo l’anello, è fat- to così».
Auguri, Dario, dalla curva dell’Unità.
Corriere della Sera 24.3.11
La Francia svela la cultura cinese
Capolavori, manuali, trattati di 25 secoli proposti con testo a fronte
di Armando Torno
La letteratura cinese è in gran parte sconosciuta. È un continente vastissimo e non molto esplorato dall’Occidente. Con la comparsa della scrittura sotto la dinastia Shang, nel XIII secolo prima di Cristo, questo mondo entra nella storia, così come intendiamo oggi codesta dimensione di fatti e d’idee. I libri cinesi, dall’inizio del II secolo, sono scritti sulla carta e nell’VIII comincia per essi la stampa a blocchi litografici. Poco dopo l’XI secolo appaiono i caratteri mobili, che si diffonderanno più tardi. Al pari dell’Occidente la Cina ha conosciuto censure e repressioni, come prova l’imperatore Shih huang della dinastia Ch’in, che nel 213 a. C. ordina di confiscare e bruciare tutti i libri, ad eccezione degli Annali, delle opere di medicina, agricoltura e geomanzia. Di questo universo conosciamo anche testi remoti, come I-ching, ovvero il Libro dei mutamenti (fa parte delle più antiche raccolte letterarie apparse tra L 800 e il 600 a. C.); ci sono traduzioni di Confucio e dei suoi immediati discepoli, o quelle dei sommi taoisti, Lao Tzu e Chuang Tzu (vissero nei secoli in cui fiorì anche la grande filosofia greca). Ma il più è ancora da fare. Del resto, la nostra conoscenza della cultura cinese cominciò con il gesuita Matteo Ricci, morto a Pechino nel 1610, del quale Voltaire diceva che andò a spiegare Aristotele al celeste impero, e quel che manca non ce lo immaginiamo nemmeno. La sinologia moderna, d’altra parte, è cominciata nei primi decenni del XX secolo. Per questo e per numerosi altri motivi è nata la prima «Biblioteca cinese» con il testo a fronte, presso la prestigiosa casa editrice Les Belles Lettres di Parigi (la medesima che pubblica la «Collection Budé» , ovvero una tra le prime collane al mondo per i classici greci e latini) e sta per cominciare qualcosa di analogo all’Università di Yale. Abbiamo incontrato i direttori dell’iniziativa, Anne Cheng (titolare della cattedra di Storia intellettuale della Cina al Collège de France) e Marc Kalinowski, tra i cui incarichi — sul biglietto da visita ha scritto «homo sapiens» — figura quello di «directeur d’études» all’École Pratique des Hautes Études. «L’Occidente conosce un’infima parte — sottolinea Kalinowski — delle opere cinesi, ma ci sono milioni di libri che attendono una traduzione. Siamo dinanzi alla più grande letteratura dell’umanità e, per esempio, il canone buddhista conta almeno cinquemila libri e noi ne leggiamo tradotto qualcuno, mentre quello taoista ne ha circa millecinquecento e da noi ne circolano un paio» . Anne Cheng si propone, con questa nuova collana, di «far conoscere meglio, in una buona traduzione e con l’originale a fronte, la letteratura della Cina, la sua mistica, i trattati, le leggi, la poesia, ma anche opere storiche, politiche, militari, nonché i libri di medicina, astronomia, matematica» . Con un ritmo di tre, quattro volumi l’anno — sei sono già usciti e due vedranno la luce in autunno — si desidera mettere a disposizione, come sottolinea ancora madame Cheng, «un patrimonio straordinario di cultura che va dall’epoca di Confucio (551-479 a. C.) al 1911, anno in cui cade il regime imperiale e comincia l’abbandono della lingua classica in ambito letterario» . Aggiunge Kalinowski: «Non si dimentichi che le élite di Giappone, Corea e Vietnam, sino al debutto del secolo XX, sapevano scrivere in cinese e ci hanno lasciato dei testi che in taluni casi meritano di essere conosciuti» . Insomma, è nata la prima collezione al mondo con ristampe garantite (così come si fa con la «Budé» per greci e latini), che potrà in un successivo momento mettere online testi sicuri: si propone di rivelarci opere sconosciute di quel continente chiamato Cina che giorno dopo giorno ci incute timori non soltanto economici. «Nella realizzazione — ricordano i curatori— sono coinvolti anche gli italiani: le scuole di orientalistica di Napoli e Venezia offrono studiosi di alto livello e di grande affidamento. Per esempio, Isabella Falaschi tradurrà il teatro del periodo mongolo, più o meno identificabile con il tempo di Dante» . Di più: «È in programma tra l’altro — confida Kalinowski — la prima traduzione degli Annali di Jin, Song, Qi, Liang, Chen e Sui, previsti in 21 tomi che permetteranno una conoscenza diversa e non approssimativa dell’antica storia cinese. Ci sarà la versione delle Memorie sui monasteri buddhisti di Luoyang, né mancherà il Libro della grande Pace di epoca Han, quei quattro secoli che sono a cavallo della nascita di Cristo» . Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Anne Cheng, tra l’altro, ricorda come tra i titoli appena usciti ci sia la Disputa sul sale e sul ferro, un testo anonimo scritto alcuni decenni prima della nostra era, che è testimonianza di prima mano sulle condizioni di vita concrete e sui costumi politici di un’epoca lontana, oltre che una riflessione senza tempo sull’arte di governare la società. Kalinowski aggiunge un’osservazione: «La collana che uscirà a Yale, alle quale contribuiranno i grandi sinologi americani, si occuperà soprattutto dei grandi testi classici; questa delle Belles Lettres porterà le ricerche anche in campi quasi inesplorati, tre discipline scientifiche, tecniche ed economiche» . Senza contare che Anne Cheng ha scritto una Storia del pensiero cinese (il suo saggio è stato pubblicato in due volumi da Einaudi nel 2000) ed è la miglior guida per farci scoprire autori e non pochi aspetti di una filosofia che è destinata a contare sempre più nella cultura mondiale. Poi, con Kalinowski, si corre nel tempo. Si pone una domanda e ci offre una risposta per chiarire la materia su cui sta lavorando: «La rivoluzione di Mao? Ha colpito una classe, una educazione, una cultura tradizionale (la rivoluzione del 1919 ha interdetto l’uso della lingua classica); nel 1949 si sarebbero voluti distruggere i caratteri cinesi e sostituirli con i latini, in realtà hanno soltanto semplificato la scrittura. Non pochi manoscritti sono stati bruciati nei villaggi, ma non nelle grandi città; ci sono state confische, dispersioni, le biblioteche sono rimaste ferme sino agli anni 70 del Novecento, poi le ricerche sono riprese» . E, infine, con un sorriso: «Oggi il carattere cinese fa vendere. Anche se pochissimi lo capiscono» .
Corriere della Sera 24.3.11
Quei numeri che non tornano nel patrimonio artistico italiano
di Gian Antonio Stella
Per favore, si mettano d’accordo: ha ragione Berlusconi a dire nel nuovo spot che l’Italia «ha regalato al mondo il 50%dei beni artistici tutelati dall’Unesco» o la Brambilla che sostiene che possiede il 70%? E non è assurdo che affermino due cose diverse sullo stesso sito ufficiale del Turismo? L’opposizione, va da sé, attacca: «Proprio in un momento in cui l’immagine del presidente del Consiglio è compromessa a causa dei festini a luci rosse ad Arcore è bene pensare con attenzione se è il caso di utilizzare o meno il premier in spot finalizzati alla promozione del turismo» , dice in una nota l’udc Deodato Scanderebech. «Parole soltanto parole, cantavano Alberto Lupo e Mina» , ride il responsabile del Turismo pd Armando Cirillo. Il tormentone intorno al patrimonio, in realtà, è vecchio come il cucco. Il repubblicano Giovanni Spadolini, primo ministro dei Beni Culturali, diceva che «in Italia c’è il 50%dei beni storici e culturali dell’intera Europa» . Il socialista Franco Carraro, ministro del Turismo negli Anni 80, diceva che «l’Italia sfiora il 40%dell’intero patrimonio mondiale» . Il ministro della Pubblica istruzione diessino Tullio De Mauro che «in Italia c’è il 75%del patrimonio artistico internazionale» . Il pidiellino Vittorio Sgarbi si spinse più in là: «l’ 80%del patrimonio mondiale» ! Finché, annota divertito Salvatore Settis, un assessore regionale toscano ha teorizzato che il 30%del patrimonio mondiale sarebbe in Toscana e il vicesindaco di Roma Mauro Cutrufo che l’Urbe, da sola, «ha il 30-40%dei beni culturali del mondo» . Conclusione: sommando «queste e simili vanterie (...) avremo un bel risultato: l’Italia da sola supera di gran lunga il 100%dei beni culturali del pianeta. Intorno a noi, il deserto» . La verità è che nessuno è mai stato in grado di censirlo, questo patrimonio. L’unica cosa certa è il numero di siti Unesco: l’Italia è prima al mondo con 45 su 911. Il 5%. La frase del Cavaliere (che nello spot aggiunge che abbiamo «più di 100 mila chiese e monumenti, 40 mila dimore storiche, 3500 musei, 2500 siti archeologici e più di mille teatri) è dunque uno strafalcione vanesio da matita blu. Ma il peggio, come dicevamo, è che nella versione cinese (yidalinihao. com) dello stesso sito, Michela Vittoria Brambilla spara: 70%! Allora, come la mettiamo? Non sarebbe più opportuno, invece che dare numeri così come vengono, metterci dei soldi, sui beni culturali tagliati di oltre la metà negli ultimi dieci anni? ©
Corriere della Sera 24.3.11
Picasso Miró, Dalí. Intrecci geniali
La gioventù arrabbiata di tre pittori che segnarono la nascita della modernità
di Francesca Bonazzoli
Dopo il successo della mostra sul Bronzino, trionfante nella natia Firenze, la Fondazione Palazzo Strozzi gioca la carta internazionale con tre spagnoli dirompenti, Pablo Picasso, Joan Miró e Salvador Dalí, protagonisti del gran Novecento parigino. Già dal titolo, «Giovani e arrabbiati: la nascita della modernità» , l’esposizione mette in rilievo le qualità «giovanili» , «di rottura» delle rispettive produzioni, in una movimentata epoca, lunga oltre venti anni, vissuta in maniera autonoma dai tre artisti, diversi per età e formazione, e però legati dal filo dell’amore ambizioso per la libertà. Il percorso è dunque un incontro, un intreccio di genialità autonome, segnate dall’aspirazione al nuovo, alla giovanile potenza. Curata da Eugenio Carmona dell’Università di Malaga e da Christoph Vitali, consulente dei grandi musei svizzeri, la rassegna vuole esplorare i percorsi dei tre pittori, cresciuti in Catalogna, ma legati dagli incontri determinanti con la insostituibile, fertile Parigi dei primi decenni del Novecento. La visione delle opere va a ritroso nel tempo, «come un film importante, emozionante» , dice Carmona. Infatti la prima delle cinque sezioni parla del tempo più vicino a noi. Sulle pareti, alcune scritte, come la frase di un audace Dalí che incontra — siamo nel 1926 — Picasso e lo omaggia. Dice: «Maestro, son venuto da lei prima di andare al Louvre» . E si sente rispondere un secco: «Molto bene» . Poi, libero e felice, si getta nella sua creatività. Il suo «Nudo nell’acqua» verrà donato, nel tempo, a García Lorca! Seguono la sala del «Neucentisme» (siamo tra il 1915 e il 1925) in cui Miró e Dalí esaltano gli scenari della Catalogna in uno scenario artistico che reagisce agli eccessi del Modernismo; e poi quella del rapporto tra Miró e Picasso, con un incontro mancato a Barcellona nel 1917 all’epoca della rappresentazione dei Ballets Russes e uno avvenuto a Parigi nel 1920: qui Miró viene convinto da Picasso della necessità di vivere nella capitale francese per essere un artista libero, eppure resta incapace di staccarsi dalla sua profumata regione natia. Infine, in questo viaggio all’indietro si arriva ad analizzare quel percorso creativo di Picasso (tra il 1895 e il 1907) che segna la nascita della modernità. Con una chicca che Carmona suggerisce come una specie di guida spirituale, cioè i ben ottantasette schizzi del «Cahier 7» . Una guida del gusto, dell’istinto creatore, insomma, portato direttamente dalla casa natale di Malaga. Un’esperienza visiva senza paragoni. Si può supporre, senza nulla togliere agli altri due autori, che il nome destinato a eccitare in partenza lo slancio del pubblico sia ovviamente quello di Pablo Picasso; e infatti non a caso i «Pensieri» , che distinguono le sezioni, rimandano tutti alle date degli incontri parigini con colui che nessuno si azzarda a considerare «par inter pares» . Appare, amato e temuto protagonista, quel Picasso nato nel 1881 (mentre Miró è del 1893 e Dalí del 1904) e inaugura la sua vita parigina, la sua ribellione politica, la sua avversione «anarchica» per l’arte borghese, proprio agli inizi del secolo. Il visitatore troverà tra l’altro, proveniente da Mosca, il famoso «I due saltimbanchi» assieme alla «Danzatrice spagnola» , che viene da New York, «Le peonie» (da Washington) e anche il quadro dedicato nel 1937 alla «Donna che piange» , assai più vicino al proverbiale stile di «Guernica» . I disegni del «Cahier 7» rivelano la chiara origine delle famose «Demoiselles d’Avignon» , che segnano l’inizio del Cubismo. Wanda Lattes
Corriere della Sera 24.3.11
Uniti (e divisi) da un punto esclamativo
Accomunati da esordi prudenti, approderanno poi a differenti rivoluzioni artistiche
di Vincenzo Trione
Il punto esclamativo, ha osservato Antonio Franchini in un bel testo di qualche anno fa, è il segno di interpunzione della giovinezza. Evoca stupore ed entusiasmo. In una frase, potrebbe essere facilmente omesso, senza traumi. È pura sottolineatura: indica la meraviglia, l’essere fuori dalle righe: dichiara gioie o dolori dell’anima. Viene usato soprattutto dai ragazzi, che lo disegnano nei quaderni, nei diari, nei graffiti: per annotare le loro stenografie sentimentali. Questa stessa veemenza, spesso, si può ritrovare anche nei primi esercizi degli scrittori e dei poeti, che sono caratterizzati da esuberanza e da slancio. In arte, invece, assistiamo a una sorta di inattesa inversione. Nella maggior parte dei casi, pittori e scultori ricorrono a una sintassi sfrontata— idealmente fatta di punti esclamativi— solo dopo aver imparato a dipingere e scolpire in maniera rigorosa, omogenea: talvolta, secondo modalità classiciste. Insomma, nascono accademici; diventano avanguardisti; per farsi nuovamente accademici (con una maggiore consapevolezza). Dopo aver innalzato edifici poetici compatti, cercano di decostruire quegli stessi edifici. Si pensi a Pablo Picasso, a Salvador Dalí e a Joan Miró. Ad accomunarli è la Spagna. Una terra dominata, come ha ricordato Gertrude Stein, da un’architettura che taglia sempre le linee sinuose dell’ambiente naturale. «Il paesaggio e le case non vanno d’accordo, il tondo si oppone al cubo, il movimento del terreno va contro il movimento delle case: ma le case non si muovono, perché è il terreno a muoversi» . Profondamente radicati in questo Paese attraversato da continue interruzioni, i tre enfants terribles hanno esordi che rivelano molte consonanze. Dapprima, riferendosi a modelli tradizionali, essi dispongono le loro intuizioni in sistemi lineari. Solo in seguito arrivano a destrutturare quella medesima linearità. Il punto esclamativo, per loro, non è origine, ma approdo (spesso provvisorio). Picasso muove dalla ritrattistica, adottando stratagemmi compositivi densi di riferimenti alla cultura museale. Dalí, nel riecheggiare strategie cubo-futuriste, allestisce scenari catalani ben definiti, netti nei loro contorni. Anche Miró non tradisce i riti del realismo: salda sapienza nella cura dei particolari e impennate espressioniste. Eppure, in questi inizi prudenti, abitano già i germi di tre cruciali rivoluzioni artistiche novecentesche: cubismo, surrealismo, astrattismo. Soffermiamoci su tre ritratti. Il primo: eseguito da Miró nel 1917. Vi appare l’amico Enric Cristofol Ricart. Come un Cristo laico. Il volto è fortemente marcato, secondo la lezione del Blaue Reiter. Le braccia, intrecciate. A destra, una minuta stampa giapponese. A sinistra, una tavolozza scarna. Ogni dettaglio è reso in maniera puntuale. Già si può cogliere il gusto per una narrazione visiva complessa. Ben presto, questo ordito subirà nette trasformazioni. I l piano de l l a riconoscibilità crollerà. Di quel lontano tentativo giovanile, resteranno: il fitto intreccio delle linee e il gusto per una geometria libera. Gli aspetti aneddotici spariranno. O meglio, tenderanno a dissolversi dentro ramificate cosmogonie astratte: agili riscritture degli universi interiori, tra simboli e alchimie impossibili da decodificare. La seconda opera è un autoritratto di Dalí (del 1920-21). Uno strano incrocio tra Rinascimento e fauvisme. In primo piano, l’artista, con il collo allungato e la testa lievemente girata in direzione dello spettatore: un omaggio a Raffaello. Questo attore è collocato in un teatro allucinato. È la distesa rocciosa e ancora arcaica dell’Alt Ampurdán, la zona che sta tra Barcellona e il confine spagnolo: è quasi liquida, prossima a sciogliersi. Assistiamo a un gioco di sovrapposizioni, in cui la faccia di Dalí viene inondata dai toni della natura. Questi trucchi verranno radicalizzati, sin dalla metà degli anni Venti: quando ci imbatteremo in mondi colti nell’attimo in cui stanno per liquefarsi: affreschi delle inesplorate regioni dell’inconscio. Infine, il grande cannibale: Picasso. Ecco l’autoritratto del 1906. Un quadro apparentemente «senza qualità» . La testa dell’artista è conficcata su un busto antico, muscoloso. I lineamenti — precubisti — sono contaminati da lievi sbavature di colore. L’espressione del personaggio è solitaria, attenta, indagatrice: dice perdita e attesa. Questa figura si staglia su un fondo monocromo, ma sembra protendersi oltre: verso l’immagine percepibile. Dinanzi a noi, è un Adamo moderno, che scruta il Paradiso. Una presenza che lotta per spingersi verso il visibile. In quel dipinto, è il destino del Michelangelo del XX secolo. Appena venticinquenne, egli, come ha scritto John Berger, ha già capito tutto: «Ciò che vedeva avrebbe potuto assumere una forma diversa (…), dietro la realtà visibile esistono in alternativa cento altre forme visibili» . Nel 1906, questa idea è ancora affidata a un’impaginazione classicista. Bisognerà attendere un anno per assistere allo scandalo de Le Demoiselles d’Avignon. Da quel momento in poi, Picasso inizia a cingere d’assedio il reale, rendendolo simile a un congegno a orologeria disponibile a subire infinite disarticolazioni. Non si limita a contemplare il vero, ma lo sottopone a incessanti ribaltamenti fisiognomici e prospettici. Con gioiosa maestria e strepitosa felicità, ridefinisce categorie e codici, piegando la lingua poetica alle necessità della sua veemente fantasia. Don Giovanni del Novecento, assume episodi, proponendo profanazioni, in cui irride e viola ogni tempio consolidato. Dunque, i primi passi dei tre talenti spagnoli: Picasso, Dalí, Miró. Storie di maestri che, solo dopo aver studiato le regole di una grammatica «antica» , hanno saputo misurarsi con l’ebbrezza dello stile eccessivo: lo stile del punto esclamativo.
I fondi non sono stati reintegrati, ma ricavati aumentando ancora le tasse che colpiscono tutti i cittadini
Terra 24.3.11
Vittoria della cultura. Reintegrati i fondi
di Alessia Mazzenga
Pedofilia nella Chiesa. Nasce la rete europea
di Federico Tulli
qui
http://www.scribd.com/doc/51443783