domenica 6 marzo 2011

l’Unità 6.3.11
Le firme anti-premier portate a Palazzo Chigi dalle donne del Pd
L’8 marzo sul palco anche la leader dei Democratici tunisini Letta: «Tentano di delegittimarci ma con noi milioni di italiani» Bersani vuole proseguire la mobilitazione fino alle amministrative
di Simone Collini


Berlusconi? Ben Ali gli fa un baffo». Pier Luigi Bersani l’aveva detto, a fine gennaio, giusto nelle stesse ore in cui annunciava che il Pd avrebbe raccolto dieci milioni di firme per chiedere al premier di farsi da parte. E l’8 marzo, quando Rosy Bindi, la portavoce delle Democratiche Roberta Agostini e le altre donne della segreteria entreranno a Palazzo Chigi per portare una parte degli scatoloni contenenti le sottoscrizioni alla petizione «Berlusconi dimettiti», dal palco che sarà allestito nella vicina Piazza di Pietra parlerà anche Maja Jribi: non tanto perché donna, ma in quanto segretario del Pdp (Parti dèmocratique progressiste) che muovendosi in sintonia con la società civile tunisina ha costretto all’esilio Ben Ali.
Bersani parlerà dopo di lei, sfidando ad andare al voto un presidente del Consiglio che «è giudicato un grave impedimento per il Paese dalla maggioranza degli italiani». Il leader del Pd sa che il capo del governo ora può contare in Parlamento su una maggioranza che gli consente di evitare le elezioni anticipate, ma è anche convito che le amministrative di maggio possono dare una scossa di cui dovrà tener conto.
La mobilitazione per le firme anti-premier è la prima parte di questa campagna elettorale, che Bersani vuole giocare sul doppio valore del voto: «Per le città e per il Paese». E a poco servirà, nel suo ragionamento, l’attacco all’iniziativa portato dai vertici del Pdl e da quotidiani come “Libero” e “il Giornale”. Le firme false inserite on-line? Dice il vicesegretario del Pd Enrico Letta: «La sostanza è che ci sono milioni e milioni di firme di cittadini italiani determinati a mandare a casa Berlusconi nonostante l’azione di alcuni, che hanno cercato di delegittimare questa operazione». Se poi ci sono dubbi espressi da dirigenti del Pd, come il vicepresidente del partito Ivan Scalfarotto («raccogliere 10 milioni di firme non può essere l’unico modo che abbiamo per rappresentare l’indignazione degli italiani») o il sindaco di Bari Michele Emiliano («Berlusconi se ne frega delle nostre firme»), una risposta arriva dal capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini: «C’è un’opposizione in Parlamento, che stiamo facendo in modo determinato e propositivo, ma c’è anche una mobilitazione della società civile che deve far sentire la propria voce e deve dimostrare che l’Italia è ancora capace di indignarsi e di reagire».
La raccolta delle firme andrà avanti anche dopo che «le prime milionate» (Bersani dixit) saranno recapitate a Palazzo Chigi perché «dobbiamo continuare a dare agli elettori la possibilità di manifestare la propria volontà dice il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo che è la cosa che più ha fatto impazzire Berlusconi e i suoi accoliti». L’altra occasione che avranno sarà a metà maggio, quando andranno alle urne 13 milioni di italiani.

l’Unità 6.3.11
Sotto la pioggia Tutti intorno al monumento simbolo: un atto d’amore per i beni del Paese
Sul palco Susanna Camusso, Concita De Gregorio, Roberto Natale, archeologi e tecnici
Abbracciati al Colosseo per riprenderci la cultura
«Un atto d’amore per la cultura» lo ha definito Susanna Camusso, ieri a Roma per l’abbraccio al Colosseo. Sul palco, oltre alla segretaria di Cgil, Concita De Gregorio, Roberto Natale e tecnici dei beni culturali.
di Luca Del Frà


«La difesa della cultura è una battaglia per la libertà», taglia corto dal palco montato davanti l’arco di Costantino il segretario della Cgil Susanna Camusso. Di fronte a lei, al centro del Foro romano ci sono oltre un migliaio di persone che ieri nella capitale hanno sfidato la pioggia per partecipare all’iniziativa «Abbracciamo la cultura». Una distesa di ombrelli e giustacuori arancioni con sopra stampato il simbolo della manifestazione che ha poi «abbracciato» il Colosseo con una lunga catena umana. Una manifestazione di affetto per la cultura e di rabbia per lo sfacelo che le politiche culturali del Governo Berlusconi, un mix di tagli e demagogia, stanno portando a uno dei beni più importanti del nostro paese.
«Non ci ferma nessuno», aveva esordito poco prima aprendo gli interventi dal palco Concita De Gregorio, di fronte alle centinaia di persone intervenute malgrado il maltempo: al direttore de l’Unità il compito di tessere la tela degli interventi tra loro all’apparenza molto eterogenei perché «Abbracciamo la cultura» nasce dall’iniziativa di una coalizione che ha visto in prima fila la Cgil, l’Arci, Legambiente, Wwf, Assotecnici, Associazione nazionale archeologi e a cui hanno aderito circa un centinaio di associazioni tra cui la Fnsi e Movem09. Mentre anche a Padova, Siracusa, Matera, Selinunte altri simboli della cultura venivano abbracciati, nella capitale l’attrice Benedetta Buccellato parlava di regime senza mezzi termini: «Se il fascismo è durato vent’anni, il regime non di Berlusconi, ma del berlusconismo va avanti da trenta». I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ha spiegato Roberto Natale della Federazione Nazionale della stampa: «Che le ragazze dell’Olgettina siano le stesse che la televisione ci presentava nei talk show è il segno di come si voglia imporre una “cultura”. Oltre ai tagli all’editoria siamo di fronte alla surreale situazione che il primo aprile il presidente del consiglio Berlusconi potrà decidere se la sua azienda di famiglia, Mediaset, potrà comprarsi o no il Corriere della sera». Sul binomio tra cultura e informazione ha insistito anche Camusso: «C’è una cosa che lega le tante piazze del Paese in cui oggi si manifesta per la cultura: la politica del governo è orientata a tagliare gli strumenti che permettono di avere un’opinione propria. Difendere la cultura è dire che vogliamo un paese libero, democratico, in cui si possa partecipare».
Tra la folla Giovanna Melandri, Matteo Orfini e Vincenzo Vita del Pd, che rilancia una legge con il governo: «Per trovare subito i fondi sufficienti a evitare il collasso delle istituzioni culturali italiane, grandi e piccole». Oltre a Giulia Rodano, IdV, Cecilia D’Elia, assessore alla cultura della provincia di Roma.
Dal palco hanno parlato anche archeologi, tecnici del restauro e della manutenzione dei beni architettonici, davanti a una folla che non sembrava spaventata dalla pioggia. In mezzo a loro, con uno striscione pulito e ordinato come vorremmo fossero i nostri musei e siti archeologici ci sono gli «Idonei del Ministero dei Beni Culturali». Spiega una di loro: «Abbiamo vinto un concorso, dovremmo essere assunti per tutelare e illustrare al pubblico i nostri siti e i nostri musei. Ma oggi il ministero non fa assunzioni ed esternalizza tutto».
Non ha dubbi Concita De Gregorio: «Le piazze che si riempiono sono il segno che la gente si è ripresa la delega alla politica, è una responsabilità che è bene si tenga stretta prima che qualcosa cambi nel paese. Le manifestazioni che punteggiano il mese di marzo sono qui a dimostrarlo». La folla si avvia ad abbracciare il Colosseo: i finti centurioni e legionari romani che stazionano davanti all’anfiteatro sono perplessi, poi fanno il tifo anche loro. «Questo è un atto d’amore verso il nostro paese-cosìCamusso-echinonèin grado di capirlo deve andare a casa».

Corriere della Sera 6.3.11
«Spallata fallita»: pressing su Bersani perché cambi strategia
di Maria Teresa Meli


ROMA — No, la spallata, no! Nel Partito democratico ormai sono in molti (da Walter Veltroni a Massimo D’Alema) a non voler più sentire nominare questa parola che di certo non ha portato bene all’opposizione. E sono sempre di più quelli che vorrebbero che il Pd scendesse dal treno del movimentismo spinto (piazza, raccolta di firme e ancora piazza) per ricalibrare la propria strategia. Ma Pier Luigi Bersani non vuole fermare il convoglio in corsa. L’altra mattina, in un’atmosfera di gran riservatezza, l’ufficio di presidenza del gruppo al Senato si è riunito con il segretario. In quella sede Stefano Ceccanti (veltroniano doc) e Paolo Giaretta (Modem in quota Fioroni) hanno spiegato al leader che non si può continuare su questa strada, visto che le elezioni anticipate non sembrano più all’ordine del giorno. Ma anche il vicepresidente del gruppo, Nicola Latorre, ha espresso tutte le sue perplessità: «Così non andiamo da nessuna parte» . Bersani, però, è stato irremovibile: «Non darò nessun contrordine, intanto ora ci sono le amministrative e quindi l’impostazione non cambia» . Avanti tutta, dunque. Anche se persino D’Alema, che ha sempre appoggiato la linea del segretario, non sembra più tanto convinto: il Pd deve ripensare la sua strategia, è il ritornello che i parlamentari a lui vicini gli sentono ripetere sempre più spesso. Anche perché se non si ferma il treno il rischio è che poi si arrivi in qualche modo ad appoggiare i referendum. Con il risultato di regalare un’altra vittoria a Berlusconi, perché, come spiega Ceccanti, «il quorum non è raggiungibile e non lo sarebbe stato nemmeno con l’election day, e, comunque, dopo la sentenza della Corte il quesito referendario sul legittimo impedimento è inutile» . Senza contare che sul referendum il Pd potrebbe facilmente spaccarsi. Comunque, adesso che nel partito è stata appena siglata la tregua interna per le amministrative, nessuno dei leader affonderà più di tanto il coltello nella piaga. Ciò non toglie che le preoccupazioni siano molte. E che sia grande la spinta di chi vorrebbe che si ponessero da parte la piazza e i «no» pregiudiziali e che il partito andasse al confronto in Parlamento anche sulla giustizia, portando le proprie proposte. Per Veltroni il clima da «referendum contro Berlusconi va evitato» e il Pd deve «riscoprire la sua vocazione maggioritaria, la sua funzione di casa comune dei riformisti» , attraverso «un lavoro serio di innovazione culturale e politica» . Per l’ex leader molto probabilmente alle prossime elezioni Berlusconi non ci sarà più ed è quindi necessario rivedere la strategia. Ne è più che convinto un altro dei leader dei Modem, Beppe Fioroni: «Se continuiamo a fare solo dell’antiberlusconismo, finiremo sotto le macerie di Berlusconi. Dobbiamo rinnovare la strategia per dimostrare che siamo un’alternativa di governo. È inutile parlare ancora di spallata se poi Berlusconi non si dimette: diventa controproducente» . Come, del resto, rischiano di tramutarsi in un boomerang le firme raccolte, che martedì prossimo Rosi Bindi porterà a Palazzo Chigi. Dice il sindaco di Bari Michele Emiliano, che pure ha sottoscritto l’appello alle dimissioni sponsorizzato dal Pd: «Mi sento un po’ patetico perché Berlusconi se ne frega delle nostre firme» . E Ivan Scalfarotto, vicepresidente del partito: «Raccogliere le firme non può essere l’unico modo di rappresentare gli italiani indignati» . Più che perplesso Mario Barbi, deputato di rito parisiano: «Tutti i tentativi di spallata sono falliti: una riflessione su questa linea la dovremo pur fare» . Con conseguente cambio di leadership, lasciano intendere al Foglio i veltroniani Morando e Tonini. Ma anche un esponente della maggioranza del Pd, Francesco Boccia, braccio destro di Enrico Letta, ha qualche dubbio sulla linea e l’altro giorno confidava: «Finita la storia delle firme dovremo ricominciare a fare politica» . Il clima è tale da far riemergere lo spettro della scissione. Nei Modem gli ex rutelliani ci stanno pensando seriamente: aspettano le amministrative per decidere. E gli ex ppi della minoranza guardano all’Udc. Bersani, però, tira dritto: «Il frutto politico delle firme lo raccoglieremo alle amministrative» . Già, ma come, si chiede il direttore di Europa Stefano Menichini, che osserva: «Si può vincere a Milano e a Napoli?» . La domanda è retorica, la risposta ovvia.

il Riformista 6.3.11
Quesiti, firme, alleanze
Tregua rotta nel Pd veltroniani all’attacco
di Ettore Colombo

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il Riformista 6.3.11
«Fermiamoci, è più facile vincere all’Enalotto che ai referendum»


l’Unità 6.3.11
Intervista a Farhad Khosrokhavar
«No ai dittatori. Il vento democratico soffia anche in Libia»
Il sociologo franco-iraniano: «Il filo comune che lega le rivolte nel mondo musulmano è il rifiuto del potere autoritario. Non sarà risparmiato il regime di Teheran»
di Anna Tito


Enunciati giorni fa sul «Nouvel Observateur», per Farhad Khosrokhavar sono ben nove i pilastri dei movimenti democratici che fanno tremare il mondo musulmano, e non solo: il carattere secolarizzato delle rivolte: componente religiosa inesistente o marginale; la rivendicazione della dignità del cittadino, non più sacrificata sull’altare dell’Islam; il rifiuto dell’anti-occidentalismo assoluto; una maggiore accettazione della parità dei sessi, grazie alla partecipazione delle donne, in quanto cittadine, alle rivolte in corso; l’emergere delle nuove classi medie, impoverite per via delle politiche liberali a partire dagli anni ’70; l’assenza di una leadership vera e propria; il ricorso alle nuove tecnologie della comunicazione, che ha permesso ai contestatori di comunicare con un pubblico allargato e globalizzato; un nuovo panarabismo: non più antisraeliano, antidemocratico, antimperialista e terzomondista, ma ormai riconciliato con l’esigenza di democrazia; la rivendicazione della giustizia sociale: la «rivolta della fame» all’origine della richiesta di un prezzo calmierato del pane e dei generi di rima necessità.
Argomentando i nove pilastri delle rivolte arabe, lei faceva riferimento in particolare alle rivoluzioni allora in corso, quella egiziana e tunisina. Li ritiene validi anche per Paesi quali Bahrein e Yemen, dove si sono registrati scontri, e per la Libia che in questi giorni tiene il mondo con il fiato sospeso?
«Sì, anche se a livelli diversi. Mi sembra però importante che almeno vi compaiano gli elementi essenziali: la richiesta di democrazia, ovvero l’esigenza di un governo rappresentativo del popolo. In Bahrein ci si oppone alla dinastia sunnita al-Khalifa, che governa da più di trent’anni e detiene il potere in maniera del tutto arbitraria. Anche in Libia riscontriamo l’esistenza della dimensione essenziale, ovvero il rifiuto del potere autoritario, autocratico, nonché la rivendicazione democratica. Sia in Bahrein, sia nello Yemen e in Libia, il cambiamento di regime, ammesso che avvenga, non sarà immediato. I regimi autoritari, vista l’esperienza della Tunisia e dell’Egitto, si sono adesso organizzati per difendersi».
Lei ha anche affermato che una delle caratteristiche è la dimensione laica dei movimenti.
«Certamente, ed è presente in larga misura, poiché sia i libici, sia gli sciiti di Bahrein, sia gli algerini non si appellano alla religione, all’instaurarsi della shaaria, ma chiedono un potere che sia rappresentativo di tutti e soprattutto non corrotto. Anche nello Yemen, Paese fra i più poveri del mondo arabo, emerge una nuova tendenza, che definirei ‘post-islamica’».
Sono il più delle volte i giovani, spesso istruiti e non violenti, a dare il via alle rivolte, o rivoluzioni, sempre laiche, attualmente in corso. Lei che ha scritto libri quali L’Islam des Jeunes e Avoir vingt ans au Pays des ayatollah, cosa ritiene che sia cambiato nella loro percezione del potere e della religione?
«Negli anni ’80-’90 e anche 2000 i movimenti radicali si sono diffusi in nome della rivoluzione islamica, che prometteva di ristabilire il paradiso in terra, la giustizia sociale, la moralità. Ora ci troviamo in una fase nuova, quella del superamento dell’islamismo radicale, a cui le nuove giovani generazioni non fanno più riferimento nelle loro rivolte. I principi dell’Islam hanno lasciato spazio alla società civile e alla democrazia, valori che in passato potevano apparire imposti dall’Occidente, e che provengono adesso dall’interno delle società musulmane. Si contestano le vecchie dittature, ora rimesse in causa dalle nuove generazioni, anche con una tecnologia nuova, quella di twitter, grazie alla quale i regimi non riescono più a reprimere la comunicazione e l’informazione, come avveniva in passato. Anche questo aspetto mi appare di estrema importanza». Crede che il movimento in atto nel mondo arabo possa paragonarsi alla caduta del Muro di Berlino?
«Vi intravedo almeno due elementi di confronto: la ribellione ai regimi autoritari e la rivendicazione di rappresentazione popolare. Ma vanno considerate anche due differenze fondamentali: nel 1989 si combatteva l’Impero, quello sovietico, mentre nel mondo arabo non esiste un Impero ma Paesi governati da regimi autoritari; l’Occidente vedeva con favore il crollo dell’Impero sovietico, mentre ha sostenuto fino a oggi – o almeno visto con benevolenza i governi dei Paesi arabi, spesso vecchi e tarlati, come quelli di Mubarak e di Gheddafi».
In Libia, dove la repressione ha provocato migliaia di vittime, i manifestanti sono in grado di far durare il conflitto? È così difficile strutturare un’opposizione con un regime molto ‘sclerotizzato’?
«Proprio perché i movimenti non hanno un leader, il potere ha difficoltà a reprimerli; un dirigente politico lo si può ‘neutralizzare’, come è avvenuto in Iran. Dove non esistono leader, invece, ciò è pressoché impossibile, e i movimenti riescono a dilagare; ma una volta che questi hanno la meglio – e pensiamo all’Egitto e alla Tunisia va edificata l’intera struttura politica, ricorrendo inevitabilmente sia a quanti supportavano il vecchio regime, sia agli oppositori. Il passaggio risulta pertanto molto più delicato e difficile. Constatiamo che ormai la gran parte dei libici non vuol più saperne di Gheddafi, ormai del tutto ‘disconnesso’ dal suo popolo, anche se va affermando che da più decenni è quest’ultimo che comanda, ma conserva il potere in alcune città, grazie alla sua forza militare. L’opposizione resiste e va strutturandosi, nonostante il regime che tenta di strumentalizzare la contrapposizione fra sciiti e sunniti per sopravvivere, senza concedere nulla, di fatto; lo stesso avviene nello Yemen, con la divisione nord/sud».
Quindi questi regimi sono destinati a sopravvivere, anche se con difficoltà? «Per il momento sì, ma non a lungo termine: sono ormai in una condizione di estrema fragilità, non più credibili, delegittimati. Il mondo arabo si muove, e anche per i regimi che appaiono stabili al momento, quali il Marocco e l’Arabia Saudita, il vento prima o poi soffierà. Vedo l’avvicinarsi la fine delle dittature, inclusa quella iraniana».

Sociologo franco-iraniano (nato a Teheran nel 1948), insegna a Parigi all’Ecole des Hautes Eudes en Scienxes Sociales (Ehess), ed è autore di diversi saggi sul mondo islamico. I suoi interessi di ricerca si orientano verso la sociologia politica e delle religioni.

il Fatto 6.3.11
Il tesoro di Gheddafi non si tocca, governo italiano irremovibile
Per B. il pacchetto Unicredit (2,5 miliardi di euro) è del “popolo libico” Però chiede all’Europa un piano Marshall da 10 miliardi per aiutarli
di Giorgio Meletti


Il governo italiano non ha la minima intenzione di congelare i beni finanziari detenuti in Italia dal Colonnello Gheddafi. Una nuova riunione tenuta ieri dal Comitato presieduto dal direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, è servita solo a ribadire che tutti i guardiani del mercato finanziario (dalla Consob alla Banca d’Italia fino a tutti gli intermediari come la Borsa e le stesse banche) sono strenuamente impegnate nel cosiddetto monitoraggio.
 TUTTI CON il binocolo, stanno di vedetta per notare tempestivamente eventuali vendite di titoli Unicredit o Finmeccanica da parte del (rispettivamente) primo e terzo azionista, Gheddafi appunto.
Il comunicato pubblicato ieri sul sito del ministero dell’Economia è talmente chiaro (anche se solo in un certo senso) che val la pena riportarlo testualmente: “Il Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF) si è riunito oggi presso il ministero dell’Economia con l'obiettivo di verificare la corretta applicazione in Italia delle sanzioni decise dall’Unione europea della Decisione 2011 del 28 febbraio e rese operative a tutti gli effetti anche nel nostro paese con la pubblicazione del Regolamento 204 del 2 marzo scorso nel quale vengono indicati i nominativi delle persone per le quali sono congelati tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati (art. 5)”. Secondo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, quei quattro aggettivi usati nel regolamento europeo (appartenenti, posseduti, detenuti o controllati) non indicano la disponibilità a qualsiasi titolo dei beni nelle mani delle 26 persone indicate (Gheddafi, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori) ma semplicemente le proprietà personali. Il pacchetto di maggioranza relativa (7,5 per cento) dell’Unicredit, per esempio, è diviso tra i portafogli della Banca centrale libica e della Libyan Investment Authority (Lia), due istituzioni finanziarie che per le autorità italiane sono perfettamente autonome una dall’altra, quindi anche da Gheddafi, per cui non scatta il tetto del 5 per cento di azioni Unicredit che vale per ogni altro comune mortale.
Berlusconi ha dunque gioco facile a trincerarsi nella posizione dichiarata nella tarda serata di venerdì scorso a Helsinki: “Occorre distinguere bene sulle partecipazioni della Libia in quanto popolo libico e le partecipazioni che invece sono attinenti a una famiglia: quindi staremo molto attenti a una distinzione”.
LA POSIZIONE del governo italiano è di grande imbarazzo. C’è una ragione non dichiarata per la quale il congelamento delle partecipazioni azionarie in mano al regime di Gheddafi sembra addirittura impensabile. La distinzione tra beni personali e beni “del popolo libico” dev’essere apparsa risibile a tutti i capi di governo occidentali (dall’americano Barack Obama alla tedesca Angela Merkel) che già alcuni giorni fa hanno provveduto a congelare tutto il congelabile, comprese le azioni “del popolo libico” nella società Pearson che pubblica il Financial Times.
A rendere abbastanza incomprensibile la posizione del governo italiano è la proposta, avanzata con molta enfasi a Helsinki dallo stesso Berlusconi, di un “piano Marshall” per aiutare economicamente i Paesi del Nordafrica (Libia compresa) che stanno compiendo il difficile percorso verso la democrazia. Il premier italiano vorrebbe che l’Europa mettesse in campo 10 miliardi di euro.
Se per Egitto e Tunisia la cosa ha un senso, nel caso della Libia si prefigura uno scenario quantomeno contraddittorio. Le istituzioni finanziarie libiche (Lia, Banca centrale, Lafico) detengono azioni di società italiane per circa 4 miliardi di euro. La Lia ha in portafoglio partecipazioni per almeno 60 miliardi di euro. Se sono “beni del popolo libico”, come dice Berlusconi, il popolo libico non ha problemi economici: dispone di un teso-retto stimabile in una o due volte il suo prodotto interno lordo.
CONCLUSIONE: il 7,5 per cento in mano libica è decisivo per gli equilibri azionari di Unicredit, e se il “popolo libico” volesse vendere il pacchetto (2,5 miliardi di euro) per risolvere qualche problema a casa propria sarebbe un guaio per il potere finanziario italiano. Il rischio è che i contribuenti debbano pagare ulteriori aiuti alla Libia (senza bisogno) per non compromettere gli equilibri di potere in Unicredit.

l’Unità 6.3.11
L’esercito dei contractors
tra super potenze e grandi multinazionali
Le compagnie militari private non sono solo al servizio dei dittatori Clamoroso il caso Iraq: in 8 anni gli Usa hanno stipulato 3000 contratti
di Umberto De Giovannangeli


Non solo arruolati da satrapi sanguinari, al soldo di dittatori africani che pur di mantenersi al potere garantiscono paghe sontuose, diritto di saccheggio e impunità ai mercenari al loro servizio. Oggi i mercenari si chiamano «contractors» e operano attraverso agenzie utilizzate il più delle volte da multinazionali e super potenze, per le quali compiono i lavori «sporchi» sotto copertura. Per cogliere la portata del giro di affari è il caso di soffermarsi sul fronte che negli ultimi anni ha rappresentato il «pozzo senza fondo» di denaro per le agenzie di «contractors»: l’Iraq. Incirca8anni-dal1994al2002gli Usa hanno stipulato oltre 3000 contratti con società mercenarie americane (Private Military Companies), per un totale che ammonta a circa 100 miliardi di dollari all'anno. Nelle sole forze militari in Iraq, i mercenari hanno rappresentato la
seconda forza in campo dopo gli Stati Uniti, per numero di unità impiegate, addirittura superiore a quelle della Gran Bretagna. Sempre in Iraq, l’80% delle sparatorie sono state causate da soldati privati che per primi aprivano il fuoco. (Blackwater, ora Xe Services).
Due agenzie private americane (CACI and L-3), sono state responsabili delle torture nelle carceri di Abu Ghraib. Una serie di rapporti indicano che guardie di sicurezza private hanno avuto un ruolo fondamentale in importanti operazioni della Cia come la detenzione arbitraria e i raid clandestini contro gli insorti in Iraq ed Afghanistan. Il salario degli assassini di professione non è semplice da definire e varia in base a diversi fattori. Secondo John Pike, esperto in materia di sicurezza, Gheddafi «ha promesso almeno 1.000 dollari a ogni mercenario, con un bonus di arruolamento pagato in anticipo». Ma società americane come Xe che «noleggia» ex-soldati della marina e dell'esercito per lavori militari privati nota il magazine americano Slate durante la guerra in Iraq pagavano ai loro uomini di livello più alto stipendi che si aggiravano sui 200.000 dollari l'anno.
Sempre i «contractors» sono stati protagonisti dei colpi di stato avvenuti in Africa ed in America Latina come quello in Guinea Equatoriale o in Ecuador. E sempre gli appartenenti alle «Compagnie militari private» sono stati in prima fila nei massacri perpetrati in Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Cyad, Zimbabwe... Le Private Military Companies americane di sono vincolate per contratto al solo Dipartimento di Stato Usa: il codice militare non vale per loro, ma solo per i dipendenti del Pentagono. Ecco perché le indagini su massacri gestiti dai mercenari finiscono in nulla: i killer sono protetti dall’attenuante dell’autodifesa. «Non è possibile – rileva Emanuela De Marchi in un documentato articolo su Diritto di critica conoscere il contenuto dei contratti conclusi dai governi (con riferimento particolare al Governo statunitense) e le compagnie private.
Gli scopi ed i tipi di contratti rimangono spesso sconosciuti. Non ci sono mai state sanzioni contro queste agenzie di sicurezza nonostante le prove esistenti circa la loro partecipazione diretta a gravi violazioni dei diritti umani. È come se fossero giustificate perché si tratta di “business”».
«Tra i silenzi di Washington accusa PeaceReporter il maggiore riguarda forse proprio la famigerata Blackwater, oggi ribattezzata Xe Services: è stato appena archiviato il caso di Andrew Moonen, ex mercenario in forza all’azienda, accusato di aver ucciso nel 2006 Raheem Khalif, guardia del corpo dell’allora vicepresidente iracheno Adel Abdul Mahdi. Moonen era già stato licenziato per «aver violato il regolamento sull’alcool e le armi da fuoco», ma ciò non ha impedito a Combat Support Associates, un’altra società alle dipendenze del Pentagono, di assoldare l’uomo per una missione in Kuwait. Per i mercenari, una sorta di immunità giudiziaria: che secondo il professor Andrew Leipold dell’Università dell’Illinois « rende difficile la perseguibilità di chi compie azioni criminose».
Solo in Afghanistan nel maggio 2010, erano presenti 26mila contractors, la maggior parte dei quali operavano al di fuori del controllo di qualsiasi governo. Anche se uccide civili innocenti, la Blackwater non paga. Anzi, viene pagata. E non è tutto: un rapporto di Jeremy Scahill su The Nation ha rivelato che l’agenzia mercenaria ha «venduto servizi d’intelligence clandestini alla multinazionale Monsanto». Lo riferisce Silvia Ribeiro su La Jordana, in un servizio ripreso da Megacgip, secondo cui la Blackwater, che resta    il maggiore appaltatore privato dei «servizi di sicurezza» di Washington, «pratica il terrorismo di Stato dando al governo l’opportunità di negarlo». Dietro le quinte, militari ed ex funzionari Cia «lavorano per Blackwater o società collegate create per sviare l’attenzione dalla propria cattiva reputazione». Alti profitti al riparo dell’agenzia: non solo per operazioni belliche, ma anche per servizi a beneficio di governi, banche e multinazionali: «Informazione e spionaggio, infiltrazione e lobbying politico». Altre compagnie di PMC (Private Military Company) sono nate negli anni Novanta e continuano ad operare. Tra di esse: la Sandline International (che ufficialmente annuncia la cessazione delle attività nel 2004), la Lifeguard, la Saracen, l'AirScan e molte altre. Pronti ad agire ovunque vi sia da condurre una «sporca guerra».

Corriere della Sera 6.3.11
Quando la legge decide della vita
di Ernesto Galli della Loggia


Per quanti sforzi facciano non riescono ad essere convincenti, i difensori dell’attuale progetto di legge sul «trattamento di fine vita» approntato dal governo, che domani arriva in Aula alla Camera. Sono principalmente due gli argomenti cui essi ricorrono per non riconoscere un valore vincolante né all’anticipata dichiarazione di volontà circa il trattamento sanitario a cui essere sottoposti quando non si è più in grado d’intendere e di volere (la cosiddetta Dat), né all’opinione di un «fiduciario» (che termine orribile! Non ce n’era un altro?) eventualmente indicato per quella drammatica circostanza; e quindi per lasciare l’ultima parola a un medico o, come dice adesso il testo emendato, a un collegio paramedico. Il primo argomento suona a un dipresso così: «Chi può davvero stabilire in anticipo, nel momento magari in cui sta ancora bene, quale sarà la sua volontà in un contesto ben diverso, quando per esempio dovesse trovarsi in agonia?» . C’è del vero in questa obiezione. Mi chiedo però a mia volta: chi mai, allora, appare più verosimilmente idoneo a decidere in sua vece? Il suo «fiduciario» , la persona da lui ben conosciuta, alla quale probabilmente lo legano affetto e amicizia, e alla quale egli si è comunque volontariamente affidato, ovvero un medico sconosciuto e che molto probabilmente nulla sa di lui, della sua personalità, del suo animo? Già, ma in questo modo— ecco il secondo argomento dei difensori del disegno di legge — privandolo di ogni diritto d’intervento autonomo si lede in misura inaccettabile il prestigio e la professionalità del medico. Devo dire la verità? Mi sembra un argomento risibile. Con lo stesso criterio, infatti, si dovrebbe allora proibire, ad esempio, il ritiro del mandato dato a qualunque professionista — avvocato, architetto, o chiunque altro— perché egualmente ciò lederebbe in misura insopportabile la sua professionalità. Andiamo! Il sospetto è che in realtà a «suggerire» al governo di legiferare nel senso ora detto siano state le autorità ecclesiastiche, preoccupate che il libero corso dato all’autodeterminazione dei singoli potesse celare il ricorso a questa o quella pratica eutanasica (preoccupazione perfettamente legittima e sulla quale personalmente concordo: purché però non diventi un’ossessione!), e invece convinte, sulla base dell’esperienza, di riuscire a influenzare con una certa facilità decisioni e comportamenti della classe medica. In realtà, se davvero la preoccupazione della Chiesa cattolica circa le Dat è quella che ho ora detto, mi pare che ci sia un mezzo assai semplice per tagliare la testa al toro: stabilire per legge che le Dat stesse non possano contenere alcuna disposizione in positivo, e cioè a fare checchessia, ma solo in negativo, a non fare. Se l’eutanasia è «ciò che pone alla vita un termine artificiale, che fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale» (Buttiglione), allora mi sembra indiscutibile che lasciare per la propria fine la disposizione di non fare, equivalga per l’appunto a lasciare che la vita «giunga al suo termine naturale» . Il che tra l’altro avrebbe anche il vantaggio di non urtare in alcun modo la suscettibilità di alcun medico perché a questi non verrebbe imposta di fatto alcuna scelta terapeutica.
Del tutto diverso appare il problema dell’idratazione e alimentazione artificiali a soggetti non coscienti. In questo caso l’intervento del legislatore, come si sa, si è reso necessario per evitare il ripetersi della pazzesca sentenza sul caso Englaro da parte della Corte di Cassazione, che si arrogò per l’occasione il compito di istanza legiferatrice autorizzando la morte della ragazza. Il disegno di legge prescrive che l’idratazione e l’alimentazione artificiali siano in ogni caso obbligatori considerandoli non già terapie ma «forme di sostegno vitale» , e vietando altresì che la dichiarazione anticipata ne possa in alcun modo disporre. Salvo però aggiungere in un emendamento: «Ad eccezione del caso in cui le medesime (idratazione e alimentazione) risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo» . Ma chi giudica dell’eccezione? E soprattutto— fa notare uno studioso di vaglia di questa materia come il professor Paolo Becchi— in base a quali criteri o esami clinici si può accertare che «idratazione e alimentazione siano ancora efficaci nel fornire al paziente i fattori indispensabili alla sua sopravvivenza? Efficaci sembrerebbero proprio esserlo dal momento che altrimenti il paziente sarebbe già morto!» . Non solo: ma il medico che sospendesse idratazione e alimentazione non violerebbe con ciò stesso quel «divieto di qualunque forma di eutanasia» (compresa dunque anche l’eutanasia cosiddetta «passiva» ) che il disegno di legge solennemente proclama? Un disegno di legge, in conclusione, da rimeditare da cima a fondo per molti aspetti. Ad esempio ammettendo, come suggerisce sempre Becchi, che in certi casi pure idratazione e alimentazione artificiali possono divenire una forma di trattamento sproporzionato, e dunque configurare un inammissibile accanimento terapeutico. Da interrompere una buona volta, da interrompere anch’essi, dunque, per lasciarci finalmente in pace di fronte alla speranza e al mistero nell’ora della nostra morte.

il Fatto 6.3.11
Promesse di Santa Lucia
Ospedale a rischio chiusura dopo la cura Polverini Disperate le mamme di 180 piccoli pazienti
di Silvia D’Onghia


Andrea ci viene a chiamare mentre stiamo facendo la conoscenza di un’altra bambina, Stella: sette anni in carrozzina, gravissime difficoltà motorie e cognitive, di vista e di comunicazione. “Dov’è la giornalista?”, chiede Andrea alla dottoressa Morelli, che ci accompagna nel reparto pediatrico. La sua mamma vuole raccontarci la sua storia. Andrea è un bimbo di nove anni, che a causa di problemi di ossigenazione durante il parto ha difficoltà motorie. “Non cognitive, solo motorie”, racconta, appunto, sua madre Francesca: “Dalla nascita abbiamo cominciato a girare per l’Italia, siamo stati in cura da un professore di Bologna, poi siamo approdati al Bambin Gesù di Roma, ma ci siamo trovati malissimo. Una volta un medico mi disse: ‘Non si disperi, guardi in sala d’attesa quante mamme sono più sfortunate di lei. Come se io dovessi gioire del dolore degli altri’”. Da quattro anni Andrea viene seguito dall’equipe della Fondazione Santa Lucia, sempre a Roma, un centro di eccellenza nella riabilitazione neuromotoria.
 “SO CHE non guarirà – aggiunge Francesca – ma i miglioramenti nella deambulazione sono evidenti. Posso finalmente pensare a una vita normale. Ma se il Santa Lucia chiude mi dice cosa faremo?”.
Già, perché la Fondazione (che è anche un Ircss, Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) da un momento all’altro rischia di chiudere i battenti. E la colpa non è di una cattiva gestione. La colpa è della politica, delle scelte e dei ritardi dell’amministrazione Marrazzo prima, Polverini poi. L’ospedale, che conta 325 posti letto (stanze a due letti con bagno, 20 metri quadri per posto letto e due televisori, oltre a tutto ciò che è necessario ai pazienti in carrozzina), vanta un credito di oltre 90 milioni con la Regione Lazio, da ente accreditato. Nel 2010 sono stati ricoverati qui 1400 pazienti neurologici (la maggior parte dopo un ictus o un coma) e 250 pazienti ortopedici, oltre alle 900 persone curate in day hospital. Il tutto insieme a innumerevoli progetti di ricerca (373 pubblicazioni in un anno) e alla formazione di medici e infermieri. Vengono qui pazienti da tutta Italia. Una specializzazione che, se non si interviene subito , rischia di morire.
LA POLVERINI che in campagna elettorale aveva indossato la maglietta con la scritta “Salviamo il Santa Lucia” promettendo di sbloccare la situazione ha infatti assegnato, con un provvedimento poi sospeso dal Tar, solo 200 posti letto di alta specialità neuroriabilitativa in tutta la regione, 160 dei quali al Santa Lucia. Ha poi escluso dall’alta specialità pazienti colpiti da ictus, paratetraplegie acute, malattie come la Sla. C’è anche un problema di tariffe: il ministero della Salute ha ribadito nel 2006 quelle in vigore dal 1996 (come se i costi non fossero nel frattempo cresciuti), e la Regione non si è mai dotata di un proprio sistema tariffario. “L’ex commissario Guzzanti aveva previsto per il Santa Lucia un acconto mensile di tre milioni e 800 mi-la euro, che bastavano a mala pena a coprire le spese – commenta il direttore generale Luigi Amadio – la Polverini l’ha prima portato a tre milioni, poi a un milione e 700 mila euro. Il costo annuo della struttura è di 65 milioni. Faccia lei i conti”. La direzione ha già presentato 40 ricorsi al Tar e ha incontrato la giunta già una ventina di volte. Tavoli definiti “tecnici”, che non hanno portato a niente. E così da qualche tempo a ribellarsi sono i pazienti, che hanno creato un presidio fisso sotto la sede della Regione e che, con una cadenza settimanale, invadono le vie di Roma in carrozzina.
Perchè, al di là dei numeri, sono i volti del Santa Lucia a raccontare quello che accade qui. “Non facciamo miracoli – ci spiega la dottoressa Daniela Morelli, che coordina il servizio pediatrico –. Sono tecniche riabilitative a disposizione di tutti”. E allora perchè l’istituto è considerato meglio di altri? “Perchè non abbiamo mai smesso di crescere: il personale è motivato, l’azienda finanzia i nostri progetti, l’equipe (medici, terapisti, psicologi, logopedisti, terapisti occupazionali, terapisti respiratori) lavora insieme. L’unica cosa che non ci dà pace è la domanda: ho fatto tutto per quel bambino?”.
MA ALLORA perché questa ostilità da parte della Regione? I maligni potrebbero pensare che la chiusura del Santa Lucia farebbe comodo alle tante altre strutture riabilitative romane nella mani degli “amici”. La governatrice il 10 febbraio si è affrettata a dire che, avendo firmato un decreto nel giorno della manifestazione dei pazienti, i problemi erano tutti risolti . Nel frattempo, però, Equitalia, per conto dell’Inps, ha bloccato il finanziamento di 160 mila euro da parte del ministero per un progetto di ricerca.
Il direttore sanitario, Antonino Salvia, ci accompagna a vedere la piscina (semi-olimpionica) e il campo di basket, illustrandoci i successi delle squadre del Santa Lucia. Perchè la riabilitazione deve partire dalla testa di chi ha subito un trauma, occorre garantire alla persone l’idea di una vita “normale” anche dopo un incidente, come dice la mamma di Andrea. Ma si vede che questo tipo di normalità alla Polverini serve solo come propaganda.

La Stampa 6.3.11
L’assemblea del popolo preoccupata dalle rivolte di piazza
Il premier cinese “C’è scontentezza”
Pechino dichiara guerra all’inflazione: “Ci destabilizza”
di Ilaria Maria Sala


La Cina continuerà a crescere, ma dovrà guardarsi dall’inflazione che minaccia non solo i redditi ma anche la «stabilità sociale». È il premier Wen Jiabao dinanzi alla plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo a spiegare che l’economia correrà ancora (più 8% rispetto al previsto 7%). Ma che pure l’inflazione — che si aggira da più di un anno intorno al 5% ufficiale rischia di zavorrare i progressi di Pechino. Così Wen Jiabao quasi «ordina» che il tasso di inflazione nel 2011 non dovrà varcare il 4%. Il premier ha anche annunciato un programma più ampio che prevede investimenti nell’educazione, nella sanità e nelle abitazioni popolari.
«Siamo consapevoli ha detto Wen che il nostro sviluppo non è al momento ben bilanciato, coordinato o sostenibile». Per questo, uno degli obiettivi di quest’anno e del Dodicesimo Piano Quinquennale appena inaugurato è quello di stimolare i consumi e la domande interna, e ridurre il consumo di energia del 16%. Obiettivi e analisi non hanno presentato grosse novità, i Paesi vicini asiatici della Cina sono invece inquieti per il forte aumento previsto del budget militare: più 12,7%, ovvero 91,5 miliardi di dollari. Cifra ufficiale ma da pochi ritenuta credibile. Gli analisti ritengono infatti che la Cina pubblichi un bilancio militare parziale, e che gli investimenti nel settore siano molto più alti. Come ogni anno, del resto, alla presentazione del bilancio della Difesa sono seguite rassicurazioni governative che «la Cina non rappresenta un pericolo per nessuno», e che l’aumentare del budget non significa che il Paese si prepari a diventare aggressivo.
Spiegazioni insufficienti per i vicini. Dal Giappone che ha più volte annunciato una revisione della sua strategia (e investimenti) in campo della sicurezza, all’India che in settimana ha alzato le spese belliche del 11 per cento. Al centro delle preoccupazioni di Giappone, India, ma soprattutto di Taiwan e Filippine è l’ambizione cinese di voler controllare il traffico nel Pacifico e nel Mar Meridionale.
Quest’anno l’Assemblea del popolo si riunisce in un’atmosfera particolarmente tesa causata dai numerosi arresti legati alle manifestazioni per una «rivoluzione dei gelsomini» invocata nel tam tam su Internet.
Quella in corso sarà l’ultima assemblea plenaria con l’attuale leadership. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao l’anno prossimo lasceranno, dopo 10 anni, strada a una nuova generazione di leader. E per Hu e Wen è tempo di bilanci. Com’è tradizione per i leader cinesi, infatti, sia Hu che Wen al momento stanno affinando il modo in cui vogliono che la loro dirigenza sia iscritta negli annali cinesi: e se nel passato leader quali Mao Zedong o Deng Xiaoping avevano coniato slogan di ampio respiro ideologico o economico, il pensiero politico dell’attuale dirigenza si è accontentato di rispolverare il concetto di «società armoniosa», e di mantenere ad ogni costo la «stabilità sociale». Impresa non del tutto riuscita alla luce delle continue manifestazioni pro-riforme nelle città. Ma soprattutto Hu non è riuscito ad arrestare il crescente divario fra i ricchi e i poveri nel Paese.
“Aumento record del budget per le forze armate che toccherà 91,5 miliardi di dollari”

l’Unità 6.3.11
Dal duce a Lenin, Angelica Balabanoff
Libertaria senza compromessi Così era la rivoluzionaria venuta dall’Ucraina che, in nome dei suoi principi, finì per mettersi al servizio dei despoti. Dal 1880 al 1965 una vita straordinaria. Una biografia ce la narra
di Bruno Gravagnuolo


Destino tragico e paradossale quello di Angelica Balabanov, la rivoluzionaria ucraina figlia di un ricco proprietario terriero ebreo, fuggita da Cernigov giovanissima alla ricerca di sé, e divenuta un’icona del socialismo rivoluzionario europeo a cavallo dei due secoli. Una vicenda che Amedeo La Mattina, giornalista de la Stampa ci racconta con rigore e minuzia esemplari nel suo Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff. La donna che ruppe con Mussolini e Lenin (Einaudi, pp. 314, euro 20). E il senso amaro di quel destino sta proprio in questo: aver creduto nei despoti nel segno di un’utopia libertaria e senza compromessi. Per poi restarne delusa e tradita, fino a consegnare quella sua utopia a ciò che da giovane massimamente detestava: il riformismo ministeriale (quello di Saragat). Maledicendo inerme e dimenticata quell’epilogo finale, pur senza nulla rinnegare delle sue scelte (a parte l’invocazione struggente in punto di morte alla madre dalla quale s’era strappata per vivere la sua vita).
DALL’OTTOBRE A SARAGAT
E però tra la sua nascita in Ucraina attorno al 1880 e la sua morte solitaria a Roma nel 1965 si consuma una vicenda straordinaria. Quella che ci racconta con finezza La Mattina. E dentro ci sono il socialismo nascente in Europa, le origini del fascismo, l’Ottobre 1917, e poi il fascismo la guerra, l’antifascismo. E un corteo di donne eccezionali che furono amiche di Angelica. L’anarchica Emma Goldmann, Rosa Luxemburg, Anna Kulisciov, Clara Zetkin. Fascino non secondario di queste pagine, filo d’Arianna tra le tragedie di un secolo.
Tra i pregi più importanti del libro ve ne è uno speciale: la capacità di illuminare il rapporto di Angelica coi despoti. E di raccontare la loro mente. Prima di tutto quella di Mussolini, che Angelica letteralmente tiene a battesimo a Zurigo attorno al 1902, tra emigrati e fuorusciti sovversivi d’Europa. A lei che già conosce i grandi del socialismo Turati, Labriola, Kautski Benito si presenta come un derelitto che si autocompiange. Spiantato senza arte né parte, rabbioso e disperato. Angelica non solo lo educa alla filosofia e al socialismo, ma lo persuade di valere qualcosa. E se ne innamora, divenendone presumibilmente l’amante. Potenziandone l’ego ferito. Vellicandone la mania di grandezza frustrata. Mussolini stesso lo riconoscerà parlandone da «Duce» con Yvonne De Begnac: «Senza la Balabanov sarei rimasto un piccolo fuzionario, un rivoluzionario della domenica». Angelica spinge via via Benito al successo. Alla vittoria massimalista nel congresso socialista di Reggio Emilia del 1912. E l’anno prima a un ruolo di primo piano contro la guerra in Libia. Fino alla direzione de l’Avanti! Ma nell’ottobre 1914 si consuma il tradimento: Mussolini passa alla «neutralità attiva» sulla guerra, e subito dopo all’interventismo. In più, nella vita di Benito, già sposato con Rachele, compare un’altra donna decisiva: Margherita Sarfatti. Altoborghese ebrea e «modernista»: sarà lei, a sua volta ripudiata dal Duce antisemita, a forgiare il Mussolini «novecentista» in arte, a fargli amare i futuristi e poi il «ritorno all’ordine» estetico. Sicché il risentito Benito può convertire l’irruenza plebea nel rivoluzionarismo conservatore e populista. Nel fascismo. Strana mescolanza di sovversivismo dall’alto e dal basso, per opera di un uomo marginale che ha di mira il potere, nella crisi dell’Italia liberale. Mussolini sommerso e salvato, fatto uomo e despota dalle donne. Potrebbe essere (anche) questa una delle chiavi del libro di Mattina sulla Balabanov, fonte più vera di tante altre sulla vera indole del Duce di Predappio: il trasformismo d’assalto e il mimetismo psicologico da zelig sovversivo.
IL RUSSOCENTRISMO
Quanto a Lenin, la vicenda è diversa. Angelica lo ammira e ne diffida: è probo, ascetico e tranquillamente feroce. Aderisce da socialista alla sue tesi comuniste, ma se ne dissocia nel 1921. Quando vede che quello bolscevico è un dispotismo russo-centrico, cinico e anche terroristico. Ostile ad ogni umanitarismo etico. Nondimeno Angelica resterà marxista e socialista, intransigente oltremisura (si oppone a Nenni e all’unità coi comunisti italiani). Assediata da spie di Mussolini (che ancora la temeva) emigra in America, e lì diviene testimone del socialismo libertario antiriformista. Al ritorno in Italia uscirà dal Psi per andare nel Psdi, da sinistra! Ennesima delusione e grande lezione «impolitica». Ma soprattutto grande testimonianza sulla scuola e la psicologia dei dittatori.

Repubblica 6.3.11
L’ultimo rogo delle donne
di Vittorio Zucconi


Era il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella camiceria "Triangle Shirtwaist", a New York. Dei centoquarantasei morti, centoventinove erano ragazze: siciliane, russe, ucraine Le fiamme divennero simbolo dello sfruttamento femminile e cambiarono la coscienza americana. Ma soltanto oggi gli ultimi corpi delle sarte sono stati identificati: tre erano italiane
Uno storico, Michael Hirsch, ha ricostruito le identità mancanti inseguendo la sua ossessione, la "vittima numero 85": Maria Giuseppina Lauletti, vent´anni
Fu la più grande carneficina prima dell´11 settembre 2001 Le autorità inasprirono le pene sul lavoro a cottimo e vennero introdotte le famose scale esterne

Fu lo spaventoso crogiolo dell´immigrazione, la fonderia umana nella quale si fusero per sempre i corpi, le identità e le nazionalità dai quali sarebbe nata la New York che conosciamo. Erano soprattutto donne, italiane e ucraine, russe e palestinesi, rumene e irlandesi, le cucitrici che furono consumate insieme un secolo fa esatto nel rogo della camiceria "Triangle Shirtwaist" del Village, negli appena diciotto minuti trascorsi fra il primo grido di «Al fuoco! Al fuoco!» e lo spegnimento. Alla fine furono centoquarantasei morti, tutti fra i sedici e i ventitré anni, piccole schiave incatenate alle macchine per cucire e ai tavoli per il taglio della tela ai quali furono trovate fuse insieme. New York avrebbe dovuto attendere novant´anni, fino all´11 settembre 2001, per subire una carneficina più orribile.
Fu il rogo che cambiò e sigillò il destino di una grande città e di chi ci avrebbe vissuto e lavorato dentro, secondo un canovaccio terribile e ripetuto tante volte nella storia americana periodicamente illuminata da immensi incendi, nella Chicago dei mattatoi industriali, nella San Francisco degli avventurieri, nella Atlanta sconfitta dalla Guerra civile, nella New York selvaggia del primo Novecento, come se il parto doloroso di questa grande nazione avesse bisogno di un falò, per ripartire. Ma di storia, di destini da Roma di Nerone, di crogioli che scuotessero anche le autorità giudiziarie e politiche dal loro comodo, e spesso corrotto, laissez faire, alle centoventinove camiciaie e ai loro diciassette colleghi maschi nell´East Village poco importava.
A Bessie la russa, a Peppina e Concetta le italiane, a Fannie l´ucraina, vittime identificate a fatica e alcune soltanto ora e finalmente sepolte con un nome nel cimitero immenso dei "Sempreverdi" fra Brooklyn e Queens, da un ricercatore ossessionato da quell´incendio, importava soltanto guadagnare quello che il capo reparto decideva di pagarle alla fine di ogni giorno. Non c´erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia.
Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l´urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell´allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l´ottavo e il decimo, e l´ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall´esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone.
Il secchio d´acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all´unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale. I racconti dei pochi superstiti, come Bernstein che testimoniò al processo contro i due soci proprietari della "Camiceria Triangolo" condannati per omicidio, sono pagine tratte dall´immaginario infernale da catechismo.
Sono scene di donne già in fiamme che correvano cercando di sfuggire al fuoco che stava bruciando le gonne e i capelli, tuffi silenziosi e senza grida di altre che si lanciavano dalle finestre scegliendo il suicidio, fotogrammi di ragazzine «semplicemente impietrite», disse Bernstein, incapaci di muoversi e di reagire. Immobili nell´attesa certa e rassegnata di diventare torce viventi o di cadere asfissiate dal fumo. I vigili del fuoco che, incredibilmente, riusciranno a spegnere un incendio all´ottavo piano in appena diciotto minuti, troveranno sartine fuse con la macchina per cucire alla quale morirono abbracciate, come se non avessero voluto separarsi da quell´utensile che aveva dato loro un mezzo per vivere nella città dove erano approdate.
Molte di loro non sarebbero state identificate per decenni, le ultime per un secolo, come Elizabeth Adler, rumena di ventiquattro anni, come Maximilian Florin, russo di ventitré anni, come la "morta numero 85", una caduta ignota sepolta per novantanove anni con questa lapide, e sarà colei dalle quale partirà, quasi per caso, il cammino di uno storico appassionato di genealogia, Michael Hirsch, ossessionato dall´incendio che cambiò New York. La "vittima numero 85" sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all´inizio del Novecento, avrebbe scalato l´albero della loro storia e trovato un nome, nell´elenco delle impiegate della "Camiceria Triangolo", una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent´anni.
Con lei, l´appello dei morti è stato completato. Sotto il monumento che ricorda quel giorno, sono stati scritti i nomi degli ultimi sei ignoti, Max Florin, Concetta Prestifilippo, Josephine Cammarata, Dora Evans and Fannie Rosen e un atto di pietà è stato scritto. Ma il vero memoriale al rogo delle cucitrici non è in quel cimitero. È nella carne viva della città, che la strage cambiò per sempre e che anche il più "casual" dei turisti può vedere, senza neppure saperlo. Il processo contro i due soci proprietari, che le autorità cittadine perseguirono con tutta la furia e la severità di chi sapeva di avere la coda di paglia politicamente infiammabile quanto quelle camicie, riscrisse e impose la normativa antincendio nella città cresciuta senza regole. Costruì e rese obbligatorie ovunque quelle scale esterne che oggi si vedono pendere dagli edifici più bassi e che ogni film poliziesco o di horror usa per gli incubi degli spettatori. Cominciò la bonifica dei tenement, quei termitai in affitto, come dice il nome, dove le onde umane dei nuovi immigrati si accatastavano una sull´altra facendo di New York all´inizio del secolo scorso la città più densamente popolata del mondo. I regolamenti per la bonifica dei tenement esistevano già da dieci anni, ma né il Comune, né la polizia, né la magistratura si erano mai dati la pena di farli rispettare, nel nome della crescita rapinosa e della generosità sottobanco dei signori dei termitai. E quelle ottantacinque ore di lavoro alla settimana che le ragazzine dell´ottavo piano dovevano subire apparvero, finalmente, intollerabili.
Gli scioperi degli altri schiavi delle macchine per cucire a Philadelphia, a Baltimora, nel Village e nel Garment District di Manhattan, che ancora esiste ma langue nella concorrenza impossibile dei nuovi schiavi che tagliano camice e abiti in Estremo Oriente, incontrarono l´appoggio di un pubblico che, fino a quel falò, preferiva schierarsi con chi offriva loro, a qualunque prezzo, un lavoro. Per anni, e invano, altri operai e operai dell´industria tessile avevano organizzato scioperi. E in un´altra fabbrica del sudore a New York, pochi anni prima, si sarebbe visto lo spettacolo inaudito e terrorizzante del primo sciopero indetto e organizzato interamente da donne. I ritocchi salariali e miglioramenti avevano appena sfiorato le ragazze della "Camiceria Triangolo", reclutate fra le più giovani, le più timide, le più docili immigrate dalla Sicilia, dai ghetti d´Ucraina e di Russia. Lo Asch Building è ancora lì dov´era nel pomeriggio del 25 marzo 1911, ribattezzato Brown Building e oggi parte della New York University alla quale fu donato. È un edificio poco interessante, nella banalità dello stile neo rinascimentale che disseminò di palazzi simili le città americane, e alle finestre dell´ottavo piano, oggi sede di rispettabili studenti e insegnanti di scienze, c´è qualche condizionatore d´aria. È un luogo un po´ freddino, poco trafficato, stranamente silenzioso nonostante la prossimità con Washington Square, il cuore del Village. Non entra in nessuna foto o videoclip ricordo del viaggio a New York. Si incrociano giovani, studenti, soprattutto studentesse, belle, serie, sorridenti, decise, occupate a vivere quel sogno che altre ragazze cucirono anche per loro, con la propria vita.

Terra 6.3.11
Sono solo un clochard
di Alessia Mazzenga

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Terra 6.3.11
Prometeo contemporaneo
a cura di Francesca Franco

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