mercoledì 30 marzo 2011


l’Unità 30.3.11
Parla Pietro Ingrao I novantasei anni del leader che fu direttore de «l’Unità» dal 1947 al 1957
La guerra, la pace, l’idea di patria e l’urgenza di un soggetto politico della sinistra italiana ed europea
«Quel Gheddafi è un mascalzone e bisognava pur fermarlo...»
Oggi è il compleanno di Pietro Ingrao. 96 anni. Una vita che ne comprende tantissime altre, non solo quelle dei suoi coetanei. L’abbiamo incontrato: guerra, idea di patria e la sinistra gli argomenti della conversazione.
di Bruno Gravagnuolo

Compleanno di Ingrao. Con tutto il rispetto per una vita ben altrimenti straordinaria, è un po’ come se fosse anche il nostro. E infatti, per questo suo novantaseiesimo anno, siamo di nuovo da lui a festeggiare, e a «ragionare». Assieme.
La marionetta di Charlot è sempre là, con gli Omiccioli, i Vespignani, i disegni di Guttuso, le foto, i piccoli cimeli. E quella morbida luce meridiana, fattasi vespertina, che di solito accompagna i nostri incontri. Preliminari. Pietro compare inatteso, lieve. Mentre il nipote, Giovanni Lombardo Radice, ci racconta che a tennis Ingrao perdeva spesso con suo padre Lucio Lombardo Radice.... E noi scherzando glielo ripetiamo... «Mica vero dice Pietro, materializzatosi d’incanto in soggiorno Vincevo io! E poi che fai? Arrivi e mi prendi subito in giro?». «No, Pietro replichiamo lo so che eri bravo e che invece con Aldo Natoli vincevi tu...». «No, Natoli era forte, con lui perdevo...».
LA LIBIA...
E allora cominciamola anche noi questa partita-intervista. A tratti ostica. Con Ingrao che gioca di rimessa e non di rado contrattacca disarmante, mettendoti in imbarazzo: «Ma perché mi fai questa domanda? Mi sembra un po’ ovvia...». E noi a cercare un’altra strada, forzando il ritmo dei suoi dubbi. Chiacchierata fatta di tre «games: la guerra, l’idea di patria e la sinistra. Quanto al primo punto, Ingrao ci «spiazza» subito: non è affatto un pacifista radicale e assoluto. Come tanti lo descrivono. E dice: «certo la guerra è sempre un male, e tutto il mio secolo è stato un secolo di guerra. A me la pace non è stata consentita, benché la agognassi. Ora esplode l’Africa, e io sono contro le soluzioni belliche, però...». Però... Pietro? «Se sei costretto da nemici feroci e infami, allora combatti. Ci sono guerre e guerre, e io ho combattuto contro il nazifascismo...».
Scusami Pietro, se insisto: si può consentire interventi umanitari a difesa degli inermi, fuori di casa tua? «Guarda, non sono mai stato a guardare, ma voglio capire, ogni volta, di che si tratta. Personalmente ho sempre agito da resistente e da cospiratore. Mi chiedi della Libia, no? E ti rispondo: era giusto intervenire, non si può restare indifferenti. E questo è stato sempre il mio atteggiamento, fin dal 1936 anno della mia presa di coscienza antifranchista e antifascista. Perciò non dico “no alla guerra sempre”. Anche se si tratta di vedere, di volta in volta, se sia giusto intervenire, oppure no».
Tuttavia caro Pietro, questa guerra, e di bel nuovo, divide la sinistra, e pure la destra al governo. Sicché, non ci vuole almeno un criterio generale, per dirimere il dilemma «intervento/non intervento»? E poi, all’estrema sinistra, c’è chi come Gino Strada dissente comunque dall’intervento autorizzato dall’Onu in Libia... Insomma tu che dici? «Dico che tu sai bene quello che è stata la mia vita, e che sta lì il mio criterio di scelta. Ora è difficile parlare della guerra in astratto, “guerra giusta o non giusta”... ma se mi chiedi di Gheddafi, posso dirti: è un mascalzone. E perciò un modo per far fronte a uno come lui lo si doveva pur trovare. Con tutti i dubbi sui rischi imperiali euroccidentali che un intervento del genere può implicare in quell’area». Cambiamo argomento: la patria. Ingrao, la destra suole dire oggi alla sinistra: “siamo noi che vi abbiamo convertito alla patria e al tricolore”! Ma fa rabbia, non credi? «È totalmente falso! In Italia la guerra al nazifascismo è stata anche una guerra patriottica, vissuta, anche dal Pci, con un legame profondo con la nostra patria. Scusa, e metti nome e cognome: ma chi dice il contrario?». Elenco lungo, caro Pietro: Vespa, La Russa, Ostellino, Della Loggia...«Non mi irrita più di tanto, sentire certe cose, sono posizioni diverse dalle nostre, ristrette. E i nomi che fai non mi impressionano granché...Per me certe cose sono assodate. In Europa e in Asia si sono condotte nel 900 grandi lotte nazionali, gigantesche lotte di emancipazione sociali e nazionali. Se poi mi chiedi del Pci e della sua funzione nazionale, certe accuse ce le facevano i fascisti, e sono state confutate dal ruolo del Pci nella Resistenza. Nonché da ciò che i comunisti hanno fatto nel dopoguerra in Italia. Io poi la mia risposta a riguardo, materialmente, l’ho data nei fatti...».
L’OPPOSIZIONE...
E infine terzo «game»: la sinistra, l’opposizione. Prima di tutto, Ingrao, come percepisci quest’opposizione e il Pd? Confusa, divisa, ancora imbambolata, o che altro? «Troppo frantumata, nel suo insieme. Laddove invece si dovrebbe operare per compattarla. E te lo dico così: si dovrebbe lavorare per costruire un soggetto collettivo. Un’azione collettiva fatta di diversi attori in campo. Uniti, per dare forma e carattere a una linea condivisa. Cosicché, se scoppia un conflitto in Africa, ci sia un soggetto italiano e magari europeo, che sappia intervenire in modo coerente, sullo scenario africano e internazionale. È proprio quello che manca in un momento così drammatico...». Scusa Pietro, ma in molti si chiedono: come mai, malgrado la crisi di credibilità civile di questa destra, Berlusconi ancora tiene? E tiene, nonostante le divisioni del suo blocco... « Ti rispondo sempre allo stesso modo: siamo ancora divisi, persino nella lotta contro Berlusconi, e continuiamo a spaccarci anche nella quotidianità. Dobbiamo mettere insieme tutti i pezzi: sinistra, centrosinistra, antiberlusconiani e via di seguito». Però scusa, un conto è la sinistra e non tutto il Pd si definirebbe tale altro è l’opposizione nel suo insieme, che include anche il centro. Che tipo di alleanza vedi tu? «Prima di tutto, io dico, uniamo la sinistra, il soggetto potenziale. E insieme, anche quelle forze centriste che possono essere coinvolte in un processo di resistenza al berlusconismo. Bersani, Vendola e gli altri più a sinistra, da soli non possono farcela...».
UNA SINISTRA DI MASSA
Restiamo alla sinistra in quanto tale: di che è fatta la «tua» sinistra? È ancora possibile una sinistra di massa, coesa, con una sua identità sociale riconoscibile? «Torno a dirtelo: si può costruire in Italia un unico soggetto collettivo, di massa, fatto di posizioni più moderate o più radicali. O almeno lo spero, e per quanto posso ci lavoro anche, con quello che faccio e che scrivo». Molti però, a cominciare da settori del Pd, non pensano che sia più possibile questa «sinistra di massa», espressione del riscatto degli sfruttati e dei senza potere. Una sinistra del lavoro e della sua liberazione. Tu cosa replichi? «E lo chiedi proprio a me? Io dico: ricominciamo! Ma da un soggetto collettivo che torni a spingere avanti tutto il quadro politico. Non basta lamentarsi e non basta indignarsi, come ho titolato il mio ultimo libro...».
È il controtitolo di un libro di successo francese, Indignatevi! Ma tu che intendi? Ce l’hai col moralismo antipolitico? «Voglio dire che costruire un attore politico è ben diverso dal puro indignarsi. E che per combattere l’avversario, quell’attore ci vuole! Non solo per combatterlo, ma per dividerlo. Per dividere il suo blocco sociale, e costruirne uno proprio, vincente». 

Il libro
La presentazione oggi a Roma
Indignarsi non basta di Pietro Ingrao pagine 64 euro 4,90 Aliberti editore
Il libro-intervista raccoglie una serie di conversazioni intrattenute con Pietro Ingrao da Maria Luisa Boccia e Adriano Olivetti a partire dal dicembre 2009. «Indignarsi non basta» verrà presentato oggi a Roma (Sala Di Liegro di Palazzo Valentini, ore 18). Ingrao sarà in collegamento video. Tra gli altri interverranno Furio Colombo e Nichi Vendola.

Chi è
Vita e opere del comunista che voleva fare il cineasta
Pietro Ingrao nasce a Lenola il 30 marzo 1915. Antenati garibaldini in Sicilia e famiglia rurale piccolo borghese. All’inizio ambizioni poetiche e cinematografiche. Poi nel 1936, dopo una partecipazione ai Littorali («con brutti versi», ama ripetere) passa all’antifascismo. Nel 1944 sposa Laura Lombardo Radice, dalla quale avrà cinque figli. Direttore de «l’Unità» dal 1947 al 1957. Deputato Pci dal 1948 al 1992. Dal 1976 al 1979 è presidente della Camera. Ha diretto il Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato dal 1975 al 1992. Contrario alla svolta Pci-Pds nel 1989, ne esce nel 1992. Tra i suoi scritti «Masse e Potere» (Editori Riuniti, 1997); «Tradizione e Progetto» (De Donato, 1982); «Il dubbio dei vincitori» (Mondadori, 1986); «Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia» (Editori Riuniti, 1990); «L’Alta febbre del fare» (Mondadori, 1994); «Appuntamenti di fine secolo», con Rossana Rossanda (Manifestolibri, 1995); «Variazioni serali» (Il Saggiatore, 2000); «Una lettera di Pietro Ingrao. Con una risposta di Goffredo Bettini» (Cadmo, 2005); «Mi sono molto divertito. Scritti sul Cinema» (Centro Sp. cin. 2006); «Volevo la Luna» (Einaudi, 2006); «La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri» (Manni, 2007).

l’Unità 30.3.11
Il grande sogno di impastare la politica con le verità dell’arte

Si intitola Indignarsi non basta l’ultimo libro di Pietro Ingrao, scritto con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, docente di filosofia politica la prima, di estetica il secondo. Preliminare di altro libro ingraiano, a metà tra biografia e riflessione politica, in corso di gestazione e con i medesimi coautori. In realtà, quanto al volume presentato oggi a Roma, il titolo non dice tutto. Allude in negativo al fortunato libro francese di Stéphane Hessel, Indignez-vous! E cioè, dice Ingrao: dobbiamo ricostruire le basi di massa della sinistra, la sinistra come soggetto sociale e politico, non solo radicalizzare la sensibilità civica individuale. Ma la «sorpresa» del volume è un’altra: sono le radici esistenziali ed etiche della politica ingraiana. Il nesso tra «impolitico» e politica in Ingrao. Quella politica che in Ingrao, secondo le sue parole, nasce dal «poter alleviare insieme ad altri quella sorta di nausea psichica che mi pesa addosso». Un «moto interiore» di vitalità e di solidarietà, che nel dirigente politico è divenne ricerca, pausa, dubbio. Poi arte, poesia e ricerca di un senso «con gli altri e assieme agli altri». Infine, politica: «Quel moto interiore si è espresso in un’adesione al movimento comunista». Il tutto, nel cuore delle bufere del 900, secolo di tragedie e liberazioni, che hanno «sviato» il destino del giovane intellettuale nato tra i Monti Aurunci e la pianura di Fondi . Insomma è un libro a tre voci, esistenziale e anche filosofico, con al centro la «verità» di Ingrao, che si chiede : «Sono dunque scisso, tra l’essere dentro la politica in tutti i suoi aspetti, e il consapevole rifiuto di accettarne la misura, la logica? Forse». Modestia, passione, autocritiche amare, sconfitte. Suggellate da una accettazione del limite: «Perciò siate gentili con la mia vecchiaia...».B.G.

La Stampa 30.3.11
Ingrao, anti-Hessel a sinistra “No, indignarsi non basta”
96 anni e nuovo libro: “Col semplice moralismo non si fa politica”
di Jacopo Icoboni

SENZA NOMINARE LE ESCORT «Vedo tante critiche etiche alla degenerazione dei partiti Condivido, ma serve altro»
SUI PACIFISTI INTEGRALI «Mai stato. Per me l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi»

Dalla Francia un grande vecchio della Resistenza ci ha appena intimato, con pamphlet smilzo e perentorio nei toni, «indignatevi!». Dall’Italia un grande vecchio della Resistenza ci suggerisce adesso, con libro-intervista smilzo e quasi sommesso nei modi, «indignarsi non basta». La differenza di stile tra Stéphane Hessel e Pietro Ingrao non potrebbe risultare più lampante. E, per diverse ragioni, impressionante.
La riflessione sui limiti dell’indignazione in servizio permanente effettivo era finora stata condotta in Italia da destra, un genere letterario col pilota automatico, ormai. Prevedibile, scontata, roba da sonno alla terza riga. Che venga infine sviluppata dall’ultimo grande vecchio della sinistra italiana è diverso. « Indignarsi non basta », spiega Pietro Ingrao, che compie 96 anni, consegna oggi un libro che ha esattamente quel titolo, e entra nel vivo della polemica politico-culturale centrando in pieno uno dei nervi (non il solo, peraltro) sui quali s’è arenata la sinistra. Se ci fissiamo sull’indignazione, osserva Ingrao, non è che autorizziamo derive moralistiche e giacobine (come bofonchiano i professionisti dell’immoralismo); semplicemente, contribuiamo all’abdicazione della politica. E questo per la sinistra della sua generazione - la sinistra che s’avviò alla politica con la rivolta anti-franchista - sarebbe stato impensabile. Quella generazione ebbe numerosi limiti, coltivò insopportabili silenzi, toppò di brutto quando doveva prendere posizione (proprio Ingrao altrove ha ricordato non gli errori, ma l’Errore della vita: il fondo col quale, da direttore dell’ Unità , non condannò i carri armati sovietici a Budapest). Eppure per noi, riflette Ingrao, indignarsi era tutt’uno con l’impegnarsi. Facevano politica, loro.
Se il rombante invito all’indignazione proveniva da un seducente ex resistente di origini berlinesi, naturalizzato francese, diplomatico, politico, scrittore, uno così figo da ispirare François Truffaut per Jules e Jim (Hessel, appunto), il sommesso invito a non fermarsi all’indignazione arriva da un militante che s’è sempre considerato «uno del popolo», un intellettuale anche lui, certo, ma di Lenola, campagnola provincia laziale, nato con le lotte dei braccianti e cresciuto per strada. Se Hessel teorizza la non violenza integrale da enoteca parigina, Ingrao dice: «Non sono mai stato per il pacifismo integrale. Sono stato e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi». Non Gandhi, l’articolo 11 della Costituzione.
È così che il vecchio spacca in due l’attualità - pensate alla Libia, o ai dibattiti sul Cavaliere - meglio di moltissimi altri, nonostante i tanti «egemonia», «reificazione» e «alienazione» di cui abbonda il suo eloquio. Non per caso oggi il libro è spunto di una discussione attuale con Nichi Vendola (vi parteciperanno i due intervistatori, Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti), e viene pubblicato da Aliberti, particolare non trascurabile, trattandosi di uno degli editori del Fatto . Lo storico capo della sinistra interna del Pci si toglie lo sfizio di predicare in partibus infidelium.
«Il giorno in cui Francisco Franco varca lo stretto di Gibilterra, beh, quel giorno mi sono indignato», ammette ora. «Mi sono interrogato su quello che io stavo facendo e su quello che accadeva nel mondo. Che dovevo fare io?». Indignarsi parve troppo poco, bisognava «costruire una relazione condivisa, attiva. Poi la puoi chiamare “movimento” o “partito” o in altro modo». Per Hessel «il motore della Resistenza era l’indignazione», sentimento primario da trasmettere ai giovani. Ingrao sussurra invece a un giovane: «Pratica il dubbio ogni volta che l’agire collettivo contrasta col tuo sforzo di essere libero». Detto da un comunista di quell’epoca, fa impressione. E ancora, alla sinistra: «Vedo prevalere una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo del ceto politico. Ne condivido le ragioni e l’asprezza. Ma l’indignazione non dà conto delle modificazioni sostanziali. La mera denuncia, in qualche modo, le occulta».
Le parole di Ingrao non nominano escort, notti di Arcore e re del bunga bunga. Bisogna pur andare avanti e immaginare qualcos’altro, il paradosso è che ce lo ricorda uno di 96 anni.

Repubblica 30.3.11
"Odio gli indifferenti" è il primo volume della nuova collana Chiarelettere di classici
Ribellatevi all'apatia Gramsci diventa "instant"
di Nadia Urbinati

classici sono nostri compagni. Non ci chiedono una fedeltà che piega la nostra autonomia di giudizio mentre ci aiutano ad affilare la lama della critica facendola più coraggiosa. Si porgono a noi con umiltà senza imporsi. Inoltre ci sono utili. Averli sotto mano quando si scorre un giornale, quando si discute con amici, si legge e si scrive è un bene del quale tutti dovrebbero poter disporre e godere. I classici non servono a legittimare quel che pensiamo perché non scalzano l´autorità della ragione e della logica, né cancellano il contesto storico. Essi servono d´ausilio alla nostra analisi e alla nostra conoscenza. 
La rivoluzione elettronica ha in questo un grande pregio perché ha annullato la nostra distanza fisica dai classici. Ce li squaderna tutti a costo zero, ogni minuto del giorno e della notte. In aggiunta, ha cambiato le abitudini editoriali, costringendo il libro stampato a svolgere anche una funzione di guida tematica. Gli studiosi inorridiscono (spesso con buone ragioni) di fronte a questa pratica dello scampolo. Ma i cittadini ordinari ne hanno un grande guadagno e bisogno. Non è forse utile e bello che un pendolare possa leggere in un´andata e ritorno una selezione di classici? Già l´editore Donzelli aveva iniziato due anni fa a stampare essenziali di testi esemplari con un´introduzione illustrativa. Ora la casa editrice Chiarelettere lancia un´intrapresa simile ma con un target ancora più specifico: libri pensati per chi legge i giornali, o chi usa la rete per informarsi ma non conosce che cosa la rete ha nei suoi scaffali. Libri-pamphlet assemblati da curatori perspicaci per fare dei classici i nostri compagni di viaggio.
Il primo volume della collana Instant Book di Chiarelettere è Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci, introdotto da David Bidussa. "Indifferenti" era il titolo di un articolo scritto da Gramsci nel 1917. Le prime parole sono tutte per noi: «Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare». Cittadino come partigiano della sua dignità e quindi della legge. A chi, sbagliando, pensa che il morbo della nostra società sia l´antipolitica, Gramsci spiega che l´indifferenza come l´apatia e il fatalismo è una forma caratteristica di una sensibilità politica molto spiccata: quella che lascia fare, che ci fa curare dei nostri interessi personali e famigliari, abbandonando, scriveva Alexis de Tocqueville, la "larga società" nell´illusione che, così, saremo più liberi e felici.È il costume politico ancora oggi più in voga. 
Il volumetto intero è uno spaccato della politica dell´indifferenza. Si chiude, molto opportunamente, con alcuni stralci del discorso di Gramsci alla Camera dei Deputati, nel maggio 1925, cinque mesi dopo che Benito Mussolini mise una pietra tombale sulle indagini della magistratura sulle responsabilità sue e delle sue squadracce nell´assassinio dell´onorevole Giacomo Matteotti e sullo stato di diritto. La giustizia, allora come oggi, è lo scoglio sul quale il governo della legge può rovinosamente incagliarsi. Le parole di Gramsci (coraggiose di fronte a un Parlamento di pusillanimi ottusi, incapaci di sentire la gravità del momento) rendono il senso di quella tragedia: «Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler "conquistare lo Stato"». Leggere il discorso è come vedere un film: ogni parola di Gramsci è interrotta da Mussolini e dai suoi uomini. Non lasciar parlare, urlare le proprie ragioni e offendere per togliere ossigeno alla critica. Una strategia che non conosce invecchiamento. 
Odio gli indifferenti parla del "paese Italia" (paese, non nazione, specifica Gramsci). L´attualità fotografica sbigottisce. Il cittadino indifferente è il free rider, colui che pensa che poiché milioni di altri fanno la loro parte (pagano le tasse o votano), è inutile che egli faccia la sua, tanto nulla cambierà, né in peggio né in meglio; senza pensare che, come in un coro, ogni voce in democrazia è determinante. Ma quando e se le cose vanno a rotoli, e lo Stato si riempie di lestofanti che svuotano l´erario per foraggiare alleati e amici, allora gli indifferenti «piagnucolano pietosamente» oppure «bestemmiano oscenamente» - dopo, però. L´indifferenza è una forza politica che annulla la responsabilità e la volontà, salvo poi accusare di tutto il destino. 
La raccolta gramsciana è un´illustrazione dell´indifferenza in tutte le sue pieghe, alimentata per esempio da un morboso bisogno di letteratura scandalistica. Era il 1917, l´anno in cui adolescenti di tutte le regioni italiane vennero mandati al macello a Caporetto, e il pubblico dei lettori era alla ricerca di notizie piccanti. «A leggere questi libri pare che l´Italia sia un immenso serraglio di mandrilli in fregola che si atteggiano a sentimentali, quando il sentimentalismo sia la via più facile per raggiungere la meta agognata. Tutte le altre attività della vita, che non siano l´attività amorosa, sembra che non esistano». Cambiano i musicanti, ma la musica è la sempre stessa.

l’Unità 30.3.11
Immigrati
I due soliti pesi: o ci servono o ci fanno paura
È già accaduto in America, in Germania, in Svizzera: l’immigrazione tende a trasformarsi in stanziale con buona pace degli ariani nostrani. Che però usano «gli stranieri»
di Andrea Salvini

L’incapacità del governo di gestire i flussi che arrivano dall’Africa non è solo un problema legato all’emergenza. C’è che è miope e sbagliata tutta la politica migratoria
Mi ricordo di una singolare polemica, poco meno di due anni fa, tra Forza Nuova e la Lega nord. Siccome le camicie verdi volevano la sanatoria per colf e badanti, i neofascisti li accusavano di incoerenza: quando uno era contro gli immigrati, infatti, doveva esserlo fino in fondo e non a seconda delle convenienze economiche. Dal suo folle punto di vista, Forza Nuova aveva ragione: le obiezioni di Roberto Fiore mettevano il dito nelle contraddizioni della destra, che per uscire dall’angolo si è inventata la favola dell’immigrazione circolare. È vero che gli immigrati ci servono – ammettono ad esempio i neocon della fondazione Magna Charta, il think tank di Gaetano Quagliariello – ma oggi vanno e vengono: stanno qui giusto il tempo di mettere da parte un po’ di soldi e poi se ne tornano a casa loro. Investire sulla cittadinanza, insomma, è una perdita di tempo.
La teoria dei neocon nostrani, in realtà, non è particolarmente innovativa: è la stessa che guidò il governo americano una settantina d’anni fa, quando i maschi in età da lavoro erano tutti partiti per la guerra e non c’era nessuno che raccogliesse pomodori. Si misero d’accordo con il Messico per un’importazione di manodopera a tempo determinato: oggi gli hispanics sono il 15% della popolazione statunitense e nel 2050 saranno il 30%. Lo stesso fece la Germania, quando aveva bisogno di manodopera per la ricostruzione post-bellica e chiamò i gastarbeiter, i lavoratori ospiti: l’idea era quella di farli restare il meno possibile e di rimandarli rapidamente a casa loro, ma basta rileggere la formazione della Nazionale tedesca agli ultimi mondiali di calcio – composta per metà da figli di immigrati – per capire che le cose andarono diversamente. Per tutti valgono le parole di Max Frisch, riferite all’immigrazione italiana in Svizzera: “Volevamo braccia, sono arrivate persone”.
Stati Uniti, Germania e Svizzera non rappresentano l’eccezione, ma la regola: al di là degli obiettivi di partenza, nessun Paese è riuscito finora ad impedire che l’immigrazione temporanea si trasformasse in stanziale. Un po’ perché nella patria d’origine si sta peggio, un po’ perché magari nel frattempo sono nati dei figli, gli stessi migranti tendono in stragrande maggioranza a fermarsi lì dove erano arrivati a cercare fortuna: che piaccia o meno ai nostalgici della razza ariana, questo è un dato di fatto anche in Italia, testimoniato dal numero crescente di bambini stranieri che ogni giorno vengono alla luce nei nostri ospedali. Ne nascono circa 78 mila l’anno: più di 200 al giorno, più di 8 all’ora, più di 2 ogni quarto d’ora. I minori stranieri nati e cresciuti in Italia sono oggi 570 mila (una città più grande di Firenze e di Bologna); se ci aggiungiamo quelli arrivati qui da piccoli, che hanno studiato nelle nostre scuole, sfioriamo il milione: se abitassero tutti insieme, sarebbero la quarta città italiana, a pari merito con Torino. Ma è una città invisibile, popolata da fantasmi, che la politica fa finta di non vedere.
Eppure, tutti gli altri li vedono benissimo: li vedono le ostetriche, le maestre d’asilo, gli insegnanti delle elementari, gli allenatori del minibasket, le suore del catechismo (perché spesso sono di famiglie cristiane, anche se la propaganda vigente preferisce puntare sull’invasione islamica), i professori delle medie e quelli del liceo. Li senti parlare con l’accento milanese o napoletano, li vedi tifare ai mondiali per la Nazionale, e non ti sfiora neanche il dubbio che siano stranieri... perché in realtà non lo sono, tranne che per la legge. Una legge scritta 19 anni fa, in un’altra era geologica, e che appariva già vecchia nel 1997, quando la Convenzione europea chiedeva agli Stati di facilitare l’acquisto della cittadinanza per “le persone nate sul territorio e ivi domiciliate legalmente ed abitualmente”. Potrebbe apparire una questione di principio, ma in realtà è molto di più. C’è innanzitutto un lato psicologico della vicenda, perché per un adolescente è importante sapere chi c’è dall’altra parte dello specchio. Ma ce n’è soprattutto uno pratico: fino a quando l’iter per l’acquisizione della cittadinanza non si completa, e normalmente ciò non accade molto prima dei trent’anni, i nuovi italiani sono di fatto dei cittadini di serie B. “Fin tanto che le leggi non cambiano – mi scrisse su Facebook il mio amico Jaska, 26 anni, arrivato dal Punjab a Città di Castello quando ne aveva 6 – non potremo essere gli Obama italiani, ma nemmeno insegnanti, avvocati, magistrati, impiegati e dirigenti pubblici, ingegneri, architetti, notai, vigili del fuoco, poliziotti, militari, bidelli, autoferrotranvieri e qualsiasi altra attività che preveda l’accesso mediante concorso pubblico”. Di più: se finisci l’università e non trovi immediatamente lavoro, ti arriva un foglio di via che ti rispedisce immediatamente a casa. Anche se casa tua è sempre stata questa, anche se non puoi concepire una patria diversa, anche se l’unica lingua che parli – perfino con i tuoi genitori – è quella che hai imparato a scuola e per strada, da piccolo, giocando con i tuoi amici. È un po’ singolare questa regressione culturale sul senso della patria, proprio nel 150esimo dell’unità d’Italia, perché basterebbe la mescolanza di arabi e normanni in Sicilia a ricordarci come tra le nostre caratteristiche non ci sia mai stata la purezza della razza. Se mai, da noi è storicamente vero il contrario: ciò che distingue la civiltà romana da tutte le altre è la capacità di distinguere la gens, ossia il cerchio familiare strettamente basato sul sangue, dalla civitas, ovvero la comunità basata su un patto condiviso e su un sentimento di appartenenza. Per carità, non fu sempre facile: l’imperatore Claudio, ad esempio, arrivò a litigare con il Senato per estendere i diritti civili ai Galli. Ma poi la storia gli diede ragione, come racconta Tacito negli Annales: “La pace si consolidò all’interno quando i Transpadani furono accolti nella cittadinanza. I loro discendenti rimangono con noi e nell’amore verso questa patria non sono a noi inferiori”. Molto meglio dei padani di casa nostra, che non cantano neppure l’inno.

il Fatto 30.3.11
L’Europa ci ha già condannati: vietato respingere i migranti
di Alessandro Cisilin

La tentazione dell’espulsione di massa aleggia nell’odierno Consiglio dei ministri. Lasciar “esplodere” Lampedusa serviva anche a questo, e gli stessi vertici leghisti lo hanno fatto trapelare: l’emergenza può tornare utile, se non altro per abbassare il livello di guardia dell’opinione pubblica in materia di diritti essenziali dei migranti, e più ancora dei profughi. Il problema per il governo è che quei diritti godono, almeno sulla carta, di una protezione internazionale e la loro violazione porterebbe il paese all’ennesimo schiaffo europeo.
   IL QUADRO giuridico è chiaro, quantomeno verso gli abusi più gravi, e a esso l’Italia è vincolata sin dall’articolo 10 della Costituzione. L’architrave è il principio globale di “non refoulement”, formalizzato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che vieta il trasferimento forzato di qualsiasi persona verso un paese in cui risultasse a rischio per motivi razziali, religiosi, nazionali, sociali o politici. L’Unione europea, per la verità, ha coniugato tale principio in modo piuttosto blando, oltre che tardivo (con le direttive del 2004 e del 2008), sulla spinta di governi e di un Europarlamento tuttora a maggioranza di centrodestra. Ma perfino in tale contesto l’Italia ha passato il segno, specie sugli “allontanamenti collettivi”, che negano al migrante il diritto a un esame individuale.
   QUELLI attuati da Lampedusa verso la Libia subirono la condanna dell’Assemblea di Bruxelles già nel 2005. Concetto ribadito due mesi fa quando i deputati dissero no ad accordi con Tripoli (come quello siglato dall’Italia) per l’assenza di garanzie sui diritti umani. A deplorare il nostro governo per i respingimenti in mare è intervenuto l’aprile scorso anche il Consiglio d’Europa. Ma il peggio per il nostro paese, sul piano monetario, potrebbe arrivare dalle procedure d’infrazione della Commissione e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A giugno è prevista la decisione di quest’ultima sulle espulsioni collettive denunciate nel 2009.

il Fatto 30.3.11
Clandestini globali
di Pierfranco Pellizzetti

   La parola “clandestino” rimbalza freneticamente nel dibattito pubblico italiano, in bilico tra l’aspirazione di cancellarne la presenza in quanto non-persona e l’oscuro senso di minaccia incombente di un altro-da-sé ignoto; automaticamente collegato all’illegalità, alla criminalità.
   Il clandestino – in senso stretto “chi viaggia senza documenti” – è il tormentone della nostra società sempre più accartocciata su se stessa e anche il segno della sua cattiva coscienza. Quella cattiva coscienza per cui l’unico problema è quello di respingere l’arrivo del migrante, con le buone o le cattive: con la carota di una mancia alla disperazione (2 mila euro) o il bastone dell’uso della forza.
   In un mondo che si vuole globale, dove le merci e i capitali circolano senza frontiere, si intensificano controlli alla frontiera per immigrati e rifugiati. Non è sempre stato così. Agli albori dell’età moderna avveniva esattamente l’opposto: era l’espatrio a essere considerato reato e in Francia Colbert lo puniva con la pena di morte, mentre l’Inghilterra ne regolamentava i flussi in chiave restrittiva. Viceversa, almeno a partire dalla fine delle guerre di religione, i governi si ingegnavano per attirare gli arrivi dall’esterno di donne e uomini in fuga dalla madre patria. Nel 1685 Federico Guglielmo favorisce l’insediamento in Prussia degli ugonotti cacciati dalla Francia, dopo la revoca dell’Editto di Nantes. Nello stesso tempo Ginevra incentiva l’arrivo di orologiai francesi, all’origine di una specializzazione di territorio che si è conservata fino ai nostri giorni (nel 1515, quando si guastò l’orologio della chiesa di Saint Pierre, nella città lemana non c’era un solo artigiano capace di ripararlo; verso il 1600 funzionavano già trenta botteghe di orologeria). Persino la Russia di Pietro e Caterina incentivava l’insediamento di migranti con agevolazioni per l’acquisto di terre. Insomma, l’immigrazione era considerata un vantaggio, una formidabile risorsa per lo sviluppo.
   Oggi si pensa il contrario.
   Al di là delle pur prevalenti considerazioni d’ordine umanitario, la tesi che qui si vuole sostenere è la mutata percezione del valore rappresentato dall’immigrazione; ciò che apporta e quanto – invece – sottrae. Appunto, il valore economico. Forse la spiegazione ce la fornisce una battuta di Hans Magnus Enzensberger: “Dove il conto in banca è a posto, l’odio per gli stranieri svanisce come per miracolo”. Eppure – parlando di casa nostra – senza gli immigrati (sovente “clandestini”) in Italia si fermerebbero interi settori produttivi. Per citarne i meno noti, come la vetroresina, in cui la prevalente manovalanza specializzata è senegalese, o il restauro urbano, le cui antiche tradizioni locali sono ormai praticate esclusivamente da maestri artigiani maghrebini. L’assistenza agli anziani viene assicurata da badanti spesso provenienti dall’Ecuador, in una sorta di surrogazione del welfare pubblico con il fai-da-te casereccio. Tutto questo non ha valore? Dipende dai criteri adottati. Se il problema è la creazione di nuova ricchezza, il fattore umano diventa prezioso e determinante. Ma se prevale la difesa della rendita, allora l’irruzione di flussi umani esterni si trasforma in una pericolosa turbativa.
   In effetti le nostre società sono diventate sempre più vecchie e impaurite, egoiste e statiche. Per questo hanno successo politiche basate sulla diffusione del panico, affiancate alla generica promessa di soluzioni che blindino l’esistente. Una immunizzazione psichica che aggrava il problema. Ma il problema è insito nella psicologia collettiva sclerotizzata della società. Cui farebbe bene importare forze giovani, magari i ragazzi e le ragazze internet-alfabetizzati dell’altra sponda del Mediterraneo. Quei giovani egiziani e tunisini che hanno osato ribellarsi contro l’oscurantismo e l’oppressione di regimi decrepiti. Il migliore antidoto contro il fondamentalismo, compreso quello delle comunità chiuse a difesa del proprio precario benessere.

Corriere della Sera 30.3.11
Finalmente li chiamiamo migranti
di Beppe Severgnini

Migrante, participio presente. Una persona, un gruppo o un popolo che migra. Si sposta verso luoghi nuovi, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Lampedusa è piena di participi presenti, provvisori e contraddittori. Migranti che non migrano. Non vogliono tornare indietro, non possono andare avanti. Stanno là. Un tempo c’erano immigranti ed emigranti. Moto a luogo e moto da luogo, secondo il punto di vista di chi guarda. In Italia andava forte il secondo termine: per un secolo (1860-1960) la gente è partita in cerca di lavoro. Arrivavano in pochi, benestanti e inclassificabili. Nessuno chiamava «immigrante» la signora inglese innamorata di un cipresso della Toscana. Quando emigranti e immigranti diventavano stanziali, ottenevano il cambio di residenza e di tempo del verbo. Da participi presenti a participi passati: da emigranti a emigrati, da immigranti a immigrati. Una tregua linguistica durata vent’anni. Poi l’Italia ha cominciato a esportare professionisti e importare manodopera. Era opportuno aggiornare il vocabolario. Per l’emigrazione è stato facile. Globalizzazione! abbiamo gridato in coro per giustificare la fuga dei cervelli. Peccato che molti ne uscissero e pochi ne entrassero (globo a senso unico: un’eccezione tra i solidi di rotazione). Per l’immigrazione s’è rivelato più complicato. Il 6 agosto 1991 il mercantile Vlora, partito da Durazzo, entrava nel porto di Bari con 12 mila albanesi — un’immagine drammatica e potente, un maremoto umano. Le parole usate sui giornali in quei giorni: disperati, profughi, rifugiati, fuggitivi, boat-people. Migrazione, immigrazione ed emigrazione non erano contemplate. Era un fenomeno nuovo e cercavamo — illusi — di disinnescarlo con parole nuove. La più popolare, negli anni Novanta, è stata «extracomunitario» . Sorvolando sull’imprecisione — e la perplessità di svizzeri e statunitensi— volevamo essere politicamente corretti. Come se chiamare africano un senegalese non fosse più preciso, e non lo riempisse d’orgoglio. Poi è venuto il turno di «clandestino» (clam +dies =nascosto al giorno). Il termine non s’è rivelato duttile come il francese sans papiers (senza documenti) ed è finito nelle fauci della politica: sbranato in poco tempo. Oggi la parola magica è «migrante» . Un participio presente che s’adatta alle nostre incertezze (politiche, morali, sociali, belliche). Esprime un’azione che non è chiusa, e trasmette la sensazione — la speranza? — che queste persone siano in transito, non tocchino terra, non abbiano un luogo di provenienza né una destinazione. Rondini umane, cose che capitano in primavera. Migranti è un vocabolo ecumenico, prudente, un po’ ipocrita, generico quanto basta. Lo possono usare tutti senza addentrarsi nelle distinzioni tra rifugiati (non i tunisini!, spiegano Maroni e Frattini), profughi (termine caro ai duellanti Formigoni e Vendola), finti profughi (scrive la Padania), invasori (dicono leghisti vari). Nel 2008 l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi), su invito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, hanno sottoscritto la Carta di Roma e si sono impegnati a utilizzare termini appropriati per ogni tipologia: il richiedente asilo, il rifugiato, il beneficiario di protezione umanitaria, la vittima della tratta. C’è anche il migrante, «colui che può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza» . Ammesso che ce l’abbia ancora, una casa; e che voglia tornarci. Per ora i migranti sono lì, come color che stan sospesi. Un’incertezza che, oggi, pesa sugli abitanti di Lampedusa. Su di loro Italia ed Europa hanno scaricato il futuro di migliaia di participi presenti. Non sembra corretto: politicamente, umanamente, grammaticalmente.

il Fatto 30.3.11
“Siamo sempre di più, la scissione del Pd si allarga”
Emanuela Baio Dossi, uscita dal Pd ora nell’Api. Sogna il grande centro
di Wanda Marra

   “La parola scissione a proposito del Pd mi sembra eccessiva? No, perché è un processo già in atto”. Parola della senatrice Emanuela Baio Dossi, ulivista della prima ora, provenienza prima Popolari e poi Margherita, passato remoto nella Dc. Tra i “fondatori” del Pd, secondo la sua stessa definizione, il 14 febbraio ha lasciato i Democratici ed è entrata nell’Api di Rutelli. Una tra i tanti parlamentari (in tutto sono 21) che hanno abbandonato il partito da inizio legislatura. Molti in nome di Dio. O meglio, dei valori cattolici. La Baio Dossi, stava nei cosiddetti Teodem. Per intenderci, la corrente ultra-cattolica che faceva capo alla Binetti. Anche lei uscita dal Pd, ma finita nell’Udc. Insieme a Enzo Carra, Renzo Lusetti e Dorina Bianchi. Oltre ad Achille Serra. Mentre nell’Api, fondato da un transfuga democratico di calibro, Rutelli, oltre alla Baio sono entrati Linda Lanzillotta, Donato Mosella, Marco Calgaro, Gianni Vernetti, Riccardo Milana. E l’ultimo fuoriuscito, Claudio Molinari. Un esodo verso il centro di tutto rispetto. E molti altri sarebbero in arrivo.
   Senatrice, perché ha scelto di uscire dal Pd?
   Ci sono ragioni importanti di carattere politico. E poi c’è stata una goccia che ha fatto traboccare il vaso.
   Quale?
   L’elezione del segretario generale del Senato, Elisabetta Sera-fin. Il Pd non ha votato, e io ho votato a favore.
   Perché?
   Si trattava di una donna, valida e capace. E poi, per i ruoli istituzionali è giusto che ci sia una convergenza tra maggioranza e opposizione.
   Anche se la maggioranza non ha un grande rispetto delle istituzioni?
   Ritengo quello che ho detto. Ma questa è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
   Quali sono dunque le motivazioni reali?
   Il progetto politico del Pd è fallito. Non è stato capace di coniugare culture diverse.
   Per esempio?
   Prendiamo il lavoro. Il partito non ha una posizione chiara. L’epilogo è stato il referendum a Mirafiori. Io ero per il sì.
   Quindi con Marchionne?
   Con i sindacati che l’hanno votato.
   Quali sono gli altri temi su cui si è trovata in contrapposizione con il Pd?
   La famiglia. Prevale una visione individualistica della società, non una che mette al centro la famiglia, come la mia.
   E poi?
   Il Pd è soffocato da una politica vecchia e inadeguata. Ho riscontrato che molte persone a livello territoriale la pensano come me.
   Ma l’Api rappresenta una politica nuova? E qual è il vostro progetto?
   L’Api è una forza moderata. E vogliamo costruire una grande forza moderata di centro.
   Volete rifare la Dc?
   La storia non torna mai: e dunque questo non è possibile.
   Per il grande centro, guardate anche a Fli?
   Sta a loro decidere che cosa vogliono essere. Sicuramente guardiamo all’Udc.
   Anche lei ha deciso di entrare in Verso Nord, il movimento di Cacciari che vuole mettere insieme transfughi del Pd e del Pdl?
   No, anche se stimo molto Cacciari. Elettoralmente però non si può parlare di questo paese senza Nord.
   A un certo punto Bersani ha anche invitato la Lega a fare il federalismo insieme...
   Vogliamo perdere le elezioni per la seconda volta? Questo succede se andiamo dietro alla Lega, e contemporaneamente alle forze rivoluzionarie di sinistra, l’Idv e Vendola...
   La sua scelta di uscire dal Pd è chiaramente in opposizione a Bersani?
   Non voglio esprimere una critica personale, ma la linea della segreteria si è rivelata incapace. Lei mi sa spiegare qual è la linea del Pd?
   Si parla di molti parlamentari sulla porta. I senatori Pertoldi e Viola. I deputati Benamati, Pepe, Farinone. Le risulta?
   Posso dire che ci sarà presto una fuoriuscita massiccia di parlamentari. Si devono scomporre sia il Pd che il Pdl e dar vita a una grande forza di centro. E per quanto mi è dato sapere anche in base ai miei rapporti personali è una cosa che avverrà.
   Lei preferiva la segreteria Veltroni?
   Sì. Abbiamo lavorato bene insieme.
   Pensa che Fioroni e Gentiloni ci starebbero a prendere la guida politica del vostro progetto?
   Sicuramente esprimono continuamente il loro malcontento.

l’Unità 30.3.11
Tre lavoratori su quattro? Precari
Ormai l’allarme sociale è altissimo e investe soprattutto i giovani Il fallimento del governo è totale. Ora bisogna voltare pagina
di Cesare Damiano

Meno lavoro e sempre più precario. Le conseguenze sul piano occupazionale della grande crisi di questi anni diventano di giorno in giorno più allarmanti e rischiano di condizionare in modo pesante il futuro del nostro paese. Nel biennio 2009-2010 oltre il 76 per cento delle assunzioni è stato fatto con contratti a termine. Tradotto, significa che ogni quattro lavoratori tre sono precari. Con tutte le conseguenze del caso, sul piano economico, sociale e umano.
L’ultima conferma in ordine di tempo è data da uno studio presentato nel secondo «Rapporto UIL sulle comunicazioni obbligatorie», basato non su sondaggi ma sui dati concreti delle assunzioni e delle cessazioni dei rapporti di lavoro. Nei due anni presi in considerazione, dei 14,3 milioni di rapporti di lavoro instaurati 11 milioni sono precari. Il 66,3 per cento è costituito da contratti a termine, l’8,6 per cento da contratti di collaborazione a progetto.
I cosiddetti contratti standard – cioè i rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato – sono stati solo il 20,8 per cento del totale, mentre il restante 3,1 per cento è stato instaurato con contratti di apprendistato.
Come se non bastasse, a rendere il quadro ancora più nero, soltanto il 18,4 per cento dei contratti di lavoro cessati nel biennio preso in considerazione è durato più di un anno. Mentre il tasso di disoccupazione giovanile è passato, in dieci anni, dal 23 al 30 per cento. Tradotto, significa che – soprattutto per i giovani, ma non solo il lavoro è poco e quel poco è quasi sempre precario.
Davanti a una situazione del genere e alle possibili, devastanti conseguenze sul piano sociale, è difficile continuare a sostenere che il grande male dell’economia italiana sia la rigidità del mercato del lavoro. Semmai è vero il contrario. Un’economia forte non necessita solo di un mercato del lavoro efficiente (che non abbiamo). Ha bisogno anche e soprattutto di una società coesa, nella quale il grado di precarietà sia ridotto ai minimi. E ha bisogno di lavoratori altrettanto forti, nella loro professionalità, nei loro diritti e nelle loro certezze.
Per questo è necessario tornare a una politica che miri alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro. L’opposto di quanto ha fatto, con le sue scelte, il centrodestra. Il governo Prodi, con il protocollo sul Welfare del 2007, si era incamminato con decisione su questa strada cancellando il lavoro a chiamata, lo staff leasing, regolando le dimissioni in bianco e favorendo, con incentivi mirati, la «buona» occupazione. È il momento di rivalutare queste scelte e fare un confronto critico tra le diverse politiche del lavoro dei due ultimi governi.
I dati certificano il fallimento totale e senza possibilità di appello del governo Berlusconi. È responsabilità del centrosinistra voltare pagina per ridare la speranza di un futuro soprattutto alle giovani generazioni.

Corriere della Sera 30.3.11
Il ministero e i ricorsi da evitare «Vanno assunti 65 mila precari»
Tutti in ruolo entro il 2015. Si attende il via libera del Tesoro
di  Lorenzo Salvia

ROMA — I conti sono stati rifatti un’altra volta. E alla fine i tecnici del ministero dell’Istruzione hanno scoperto che la situazione è meno pesante del previsto. Sarebbero 65 mila e non 150 mila, come stimato finora, gli insegnanti precari con almeno tre contratti annuali di fila. E che quindi potrebbero presentare un ricorso simile a quello vinto a Genova da 15 docenti che, in primo grado, si sono visti riconoscere un risarcimento di 30 mila euro a testa. Il costo totale dei risarcimenti, dunque, sarebbe di 2,5/3 miliardi di euro al massimo. Comunque una batosta ma meno pesante di quella cifra (6 miliardi) che aveva fatto preoccupare Giulio Tremonti per la tenuta dei conti pubblici. Della questione si sarebbe parlato anche nel corso del vertice di ieri sera dedicato all’emergenza Lampedusa. I nuovi calcoli fanno aumentare le quotazioni della soluzione che già lunedì i tecnici suggerivano e che sindacati ed opposizione prospettano da tempo: l’assunzione per gradi dei precari coprendo quelle cattedre che ogni anno vengono assegnate stabilmente proprio con contratti a termine. Posti che non rimangono scoperti all’improvviso per una malattia lunga o una maternità ma che sono vuoti fin dall’estate per un distacco di un sindacalista o di un politico o perché ci sono spezzoni di orario che non si incastrano fra loro. I posti disponibili seguendo questa strada sono circa 50 mila e quindi sarebbe possibile coprire quasi l’intera platea dei ricorrenti. Il sondaggio fatto con il ministero dell’Economia non ha ancora avuto una risposta ma il costo dell’operazione sarebbe limitato, visto che per quei posti lo Stato uno stipendio lo paga già. E altre sentenze hanno riconosciuto ai precari quei diritti già previsti per i loro colleghi a tempo indeterminato, come gli scatti di anzianità ed il pagamento dello stipendio durante la pausa estiva. Ma oltre al problema economico c’è il problema politico. Non viene nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di un’assunzione in blocco, anche per l’effetto mediatico che avrebbe dopo tre anni di tagli agli organici. L’ipotesi allo studio prevede l’immissione in ruolo di questi 65 mila precari in quattro tappe, cinque al massimo, chiudendo il percorso nel 2015. Non siamo ancora alla decisione finale, però. Quella di Genova è solo la sentenza di primo grado e, scontato l’appello da parte del ministero, ci vorrà ancora tempo prima di del verdetto definitivo. Per questo non è ancora esclusa un’ipotesi alternativa, quella di un disegno di legge che vada contro la direttiva comunitaria che obbliga ogni Stato membro a limitare l’uso dei contratti a termine e che il tribunale di Genova ha usato come appiglio giuridico per la sentenza della settimana scorsa. Un ddl che, in sostanza, dovrebbe motivare la scelta dell’Italia di non applicare la direttiva in tutte le sue parti. Una strada possibile ma difficile sia dal punto di vista politico, sia per le possibili conseguenze in caso di nuova bocciatura. Anche per questo la bilancia sembra pendere verso il piatto delle assunzioni. Con la possibilità di una valanga di ricorsi che potrebbe arrivare a giudizio nei prossimi anni. L’associazione dei consumatori Codacons ha lanciato un class action che potrebbe valere per tutte le persone che si trovano nelle stesse condizioni. E che riguarda i precari non solo della scuola ma anche delle università. 

Repubblica 30.3.11
Scuola, class action per cinquantamila precari

ROMA - «É partita la più grande class action pubblica mai avviata in Italia. Al centro il mondo dell´istruzione, rappresentato dai precari della scuola e dai professori universitari a contratto, che dichiarano guerra allo stato italiano allo scopo di far valere i propri diritti». Lo ha annunciato il Codacons spiegando che «il primo passo di tale mega-azione collettiva, è stata la notifica di una diffida al ministro della Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, e a quello della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, con la quale 40mila precari della scuola chiedono la stabilizzazione della propria posizione lavorativa, e 30mila euro ciascuno di risarcimento per le mancate retribuzioni corrisposte e per i danni subiti».
Analoga diffida «è stata presentata per conto di circa 12mila professori universitari a contratto, operanti nelle facoltà di tutta Italia». La class action, spiega il Codacons, «poggia le sue basi sulle leggi comunitarie in materia di contratti a termine, da anni disapplicate dallo stato italiano, ed è avvalorata da numerose sentenze dei tribunali di tutta Italia, che riconoscono i diritti degli insegnanti. L´ultima la sentenza del tribunale di Genova che ha condannato il ministero dell´istruzione a risarcire 15 docenti precari».

La Stampa 30.3.11
Amos Oz «La pace si fa col nemico»
Il mio libro a Barghouti la pace si fa col nemico
L’autore di Una storia d’amore e di tenebra spiega il gesto che scandalizza Israele
intervista di Elena Loewenthal

Lo scrittore israeliano racconta perché ha mandato il suo libro al leader dell’Intifada

IL DESTINATARIO Il palestinese condannato all’ergastolo per aver guidato la seconda Intifada
LA MOTIVAZIONE «So che questo romanzo ha aiutato molti arabi a capire le nostre ragioni»
L’ESITO «In verità non so neppure se l’abbia ricevuto e se abbia potuto leggerlo»

Intervista. Quando, qualche giorno fa, ha spedito una copia dedicata del suo romanzo Una storia di amore e di tenebra a Marwan Barghouti, detenuto in un carcere israeliano per svariate condanne all’ergastolo, non pensava certo di suscitare quel gran polverone che ne è venuto. Da allora, Amos Oz si è trincerato dietro il silenzio. Ora per la prima volta prende la parola. Ed è una parola dosata, più parca che mai: se l’ebraico non ammette sbrodolamenti, lo scrittore quest’oggi soppesa le frasi con una prudenza che avvolge lo sconcerto.
Amos Oz, poteva prevedere che il suo gesto avesse un’eco del genere?
«No. Ne è venuto fuori uno scandalo. Ci sono state reazioni indignate. Io volevo che Marwan Barghouti leggesse Una storia di amore e di tenebra perché so che questo libro ha aiutato molti arabi a capire Israele. E perché sono sicuro che un giorno o l’altro noi parleremo con lui. Per “noi” intendo lo Stato d’Israele. Un giorno o l’altro Israele si troverà a parlare con Barghouti anche se lui è stato il mandante della seconda Intifada e ha sulla coscienza un gran numero di attentati suicidi e tante più vittime di quegli attacchi terroristici. Il mio romanzo (tradotto in italiano da Feltrinelli editore, nda) è una storia profondamente individuale e familiare, ma è anche e forse soprattutto l’epopea del sionismo vista dall’interno, con le sue ragioni e le sue radici».
Lei ha spedito a Barhouti una copia della traduzione in arabo del suo romanzo. Che ha una storia tutta particolare, tragica e bella, a suo modo.
«Sì. Una storia di amore e di tenebra è stato tradotto in quasi venti lingue. Nel 2007 un editore di Beirut ha pubblicato la versione in arabo. Che è stata finanziata da un avvocato arabo di Gerusalemme, appartenente a una grande famiglia della città. Suo figlio Georges è stato ucciso nel 2004 da un fanatico mentre faceva jogging nel campus universitario del Monte Scopus, dove studiava giurisprudenza: il terrorista l’aveva scambiato per ebreo. Il padre decise così di fare tradurre il mio libro in arabo per favorire la comprensione fra le parti. Un gesto coraggioso, che si racconta nella prefazione alla traduzione».
Ha un’idea di come Barghouti abbia accolto il libro?
«A dire la verità, non so neppure se l’abbia ricevuto, se gli sia stato consegnato in cella. Pensare che davvero volevo che lo leggesse. Ci tenevo a farglielo avere, lo avrebbe aiutato a capire le nostre ragioni, le ragioni di Israele, così come è stato per altri lettori. Non era un gesto simbolico, il mio, ma di sostanza».
Ritiene che questa levata di reazioni al suo gesto, all’idea che il detenuto Barghouti ricevesse da lei un libro, abbia qualche cosa a che fare con ciò che sta avvenendo in questi giorni nel mondo arabo?
«La reazione al mio gesto rientra nell’ambito dell’isteria. In questi giorni ero invitato a tenere una conferenza presso un ospedale, che mi è stata annullata per queste ragioni. Non me le spiego, e non posso pensare altro che tali reazioni siano dettate da un impulso emotivo di quel genere, riconducibile all’isteria. Quanto a ciò che sta avvenendo nel mondo arabo, siamo nel campo della storia. Sono eventi di portata storica».
Ci spieghi. Come vede dal suo punto di vista questi movimenti, queste rivoluzioni che sembrano non escludere nessun Paese arabo, in un rapido effetto domino?
«Come dicevo, si tratta di eventi d’ordine storico, di grande rilevanza. Ma attenzione. Quel che avviene in Libia non c’entra nulla con ciò che accade in Siria, o in Egitto o in Tunisia. Ogni Paese ha la sua storia, il suo presente. Evitiamo le generalizzazioni. E prima di giudicare o poter fare un bilancio, ci vorrà del tempo. Al momento non è possibile, almeno secondo me. Infine, vorrei dire ai lettori della Stampa ancora qualcosa in merito alla vicenda della copia del mio libro Una storia di amore e di tenebra che ho spedito con dedica a Marwan Barghouti. L’ho fatto con piena coscienza. Armato soprattutto di una certezza che non guasta ricordare: e cioè che la pace si fa con i nemici. Con gli amici non si fa la pace, con i nemici sì. Non è forse vero?».

Corriere della Sera 30.3.11
Oz, McEwan e altre 1.500 firme per salvare il libraio di Gerusalemme
di  Francesco Battistini

Gli spiace per Ian McEwan. «Due mesi fa era in città a ricevere il Jerusalem Prize. È venuto. Ha trovato chiuso: era il turno di riposo» . McEwan non ha potuto conoscere il libraio del Colony, ma non se l’è presa. Anzi: quando gli hanno raccontato la faccenda— pure lui, nell’America di Bush, si vide rifiutare un permesso di lavoro—, il romanziere inglese ha firmato la petizione. Assieme ad Amos Oz e a David Grossman. A Eric Hobsbawm e a Helena Kennedy. A John Berger e ad Adriano Sofri. Millecinquecento scrittori, accademici, politici. Per chiedere al governo israeliano di non espellere Munther Fahmi, il libraio palestinese dell’hotel American Colony. Per proteggere il suo negozio e la più aggiornata memoria cartacea che si possa trovare, a Gerusalemme e in gran parte del Medioriente, sulla storia del conflitto arabo-israeliano. Salvate il libraio Munther. Arrivando qui, bisogna mettere in conto qualche lettura che non sia (solo) la Lonely Planet. E al bookshop del Colony, ebrei e musulmani, cristiani e agnostici, sono quasi vent’anni che passano un po’ tutti. Munther è figlio d’un preside di scuola: nato nella zona Est quand’era ancora Giordania, e lì maggiorenne quand’era già occupata dagl’israeliani, è vissuto vent’anni negli Usa. Tornò a Gerusalemme nel ’ 93. Perché tirava aria di pace e perché gli piaceva respirarla, nello storico albergo che ospitava i negoziatori di Oslo. Da allora, al libraio è capitato di consigliare titoli a Carter e a Blair, alla Ashton e a Wolfensohn. «Una volta è entrato un signore che ha comprato chili di libri. Gli ho detto: sono pesanti da portare in volo, glieli spedisco... Mi ha risposto: grazie, ma ho l’aereo personale. Era Wenner, l’editore di Rolling Stone» . Se qualcuno ha visto Miral, il film di Julian Schhnabel ambientata nella scuola di fianco alla libreria, in qualche scena ricorderà Munther: «Faccio l’avvocato di Freida Pinto. 200 dollari di paga e sono finito anche a Hollywood...» . Laurea a New York, passaporto americano, il libraio ha lavorato fino a 56 anni senza cittadinanza israeliana. Era un semplice residente con permessi turistici, come molti palestinesi di Gerusalemme. Ora però che la legge è cambiata e c’è stato un giro di vite della destra di governo, per evitare che tornino molti arabi della diaspora, anche Munther, considerato un cittadino straniero con troppo passato all’estero, ha perso il diritto di vivere dov’è nato. Oggi o domani, ogni giorno è buono: avrà un mese di tempo per chiudere bottega e smammare. In Cisgiordania o all’estero. «Quando tornai, mi dissero che i documenti non erano validi. Non era vero, ma non lo sapevo. Pur di restare, accettai il visto turistico. Adesso, non basta più» . Munther ha fatto ricorso. C’è una commissione che può andare oltre la legge, esaminare i casi eccezionali. Lui non ci spera granché. Amos Oz, sì: «Munther e la sua libreria sono monumenti. Un patrimonio della città. Non so quali ragioni burocratiche ci siano di mezzo. Non m’interessano. Se il libraio del Colony dovrà andarsene, Gerusalemme diventerà un luogo più povero» .

La Stampa TuttoScienze 30.3.11
Herzog: la mia grotta dei sogni perduti
Film-documentario in 3D sulle pitture “invisibili” di Chauvet
di Gabriele Beccaria

Vedremo il sogno a occhi aperti di un bambino tramutato in spettacolo tridimensionale. Werner Herzog - l’ha raccontato lui stesso - era piccolo e senza un marco, quando la sua attenzione fu catturata da un libro illustrato sulle pitture rupestri. Lavorò sei mesi come raccattapalle prima di entrare con il cuore in gola in libreria e conquistare l’oggetto del desiderio. Era un esplicito segno del destino, che si è compiuto mezzo secolo dopo con il suo film. Presentato al Toronto Film Festival l’anno scorso, «Cave of forgotten dreams» sarà finalmente distribuito a fine aprile, tra l’attesa dei fans, ma anche di tanti che non si sono mai entusiasmati per le performances visive del regista di «Fitzcarraldo».
Le grotte di Chauvet vanno oltre qualunque lampo di fantasia, infantile e adulto: sono la più antica espressione pittorica dell’umanità e un capolavoro senza tempo, anche se datano 32 mila anni fa. Nessuno può vedere dal vivo le scene dinamiche e multistrato, che qualcuno ha associato a rappresentazioni in stile futurista. I cavalli al galoppo, i rinoceronti all’attacco, i bisonti impegnati in combattimento e i mammuth a otto zampe che sembrano dei Boccioni ante-litteram sono un privilegio per pochi specialisti (e anche le impronte delle mani degli autori). Nessun altro può goderseli, perché si temono i danni inferti dal respiro dei turisti, come è successo a Lascaux. Così, finora ci si era dovuti accontentare di foto e racconti, finché è arrivato Herzog. Il governo francese gli ha dato un permesso speciale per entrare e filmare, purché rispettasse regole ferree: quattro ore d’accesso per sei giorni, troupe ridotta a quattro persone e l’obbligo di non abbandonare il percorso prestabilito. E l’utilizzo di lampade che non sviluppassero calore.
Prigioniero di ambienti claustrofobici e privato della libertà di manovra per scegliere i punti di vista migliori, Herzog ha fatto ugualmente il miracolo. La sua mini-telecamera si è trasformata negli sguardi degli antenati che, alla luce delle torce, si spingevano nei labirinti sotterranei, ricreando l’impatto quotidiano con le forze della natura. Quell’arcaico teatro di emozioni e di riti riprende l’energia primigenia. «Non appena osservi i dipinti della grotta - ha spiegato Herzog - ti rendi conto che non può che essere filmata in 3D». E così è stato. La tecnologia snobbata come un mezzuccio da filmone natalizio si è rivelata lo strumento migliore per riportare in vita ciò che è stato consegnato alle superfici tormentate della pietra. «Non l’ho mai usata nei miei 58 films e non ho intenzione di rifarlo in futuro, ma è stata molto importante per tentare di catturare le intenzioni di chi ha dipinto. Con tutte quelle nicchie e quelle sporgenze e le rocce sospese è ovvio che le riprese dovessero essere tridimensionali».
Il viaggio dura 90 minuti e l’eccitazione è contagiosa. Ha colpito anche alcuni tra i ricercatori intervistati da Herzog che sembrano sperimentare bizzarre forme di regressione. Wulf Hein, per esempio, si presenta vestito di pelli da ultima età glaciale e, in un altro cortocircuito temporale, intona l’inno americano con la riedizione di un flauto primitivo, mentre Maurice Maurin, ex «naso» al servizio di celebri profumieri, spiega le sue esplorazioni olfattive: cerca nell’aria qualche mini-spiffero che indichi un’altra grotta, un’altra Chauvet delle meraviglie.

La Stampa TuttoScienze 30.3.11
Il tesoro dei signori del ferro
Archeologia/1. Riemerge dalle tombe lo sfarzo di una comunità villanoviana di 2800 anni fa Migliaia di reperti testimoniano un’intensa rete di scambi, anche di ambra dal Mar Baltico
di Franco Giubilei

Da questo sperone roccioso che si erge a meno di 20 chilometri da Rimini, gli antichi abitanti di Verucchio potevano controllare la costa adriatica da Ravenna fino ad Ancona, oltre alla principale via per l’Etruria che correva lungo la Val Marecchia. Una posizione strategica anche per il commercio dell’ambra proveniente dal Mar Baltico, la stessa ambra che impreziosisce fibule e altri oggetti rinvenuti nelle sorprendenti necropoli del piccolo Comune romagnolo.
Duemila 800 anni fa qui prosperava una comunità dall’artigianato raffinatissimo, la cui aristocrazia ha voluto lasciare tracce ben riconoscibili del proprio passaggio: «Questi aristocratici, uomini e donne, che dominavano Verucchio fra il IX e il VII secolo avanti Cristo, consolidavano il proprio potere e fornivano una precisa immagine di sé attraverso i riti funebri e i corredi deposti nelle tombe», spiega Patrizia von Eles, archeologa della Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Emilia Romagna e direttore scientifico degli scavi e del Museo civico archeologico di Verucchio.
Gli scavi condotti fra il 1969 e il 1972, ripresi poi nel 2005 con mezzi più moderni e proseguiti fino a oggi, hanno portato alla luce 600 sepolture distribuite fra quattro sepolcreti, e con questi migliaia di reperti in bronzo, ambra, ferro, legno e vimini. Il convegno internazionale «Immagini di uomini e donne dalle necropoli villanoviane di Verucchio», in programma dal 20 al 22 aprile, farà il punto sui ritrovamenti e sugli studi interdisciplinari compiuti su tutti questi straordinari oggetti. Come quelli ritrovati nella tomba 12/2005 della necropoli «Lippi», che saranno esposti durante il convegno.
«C’è una cassetta di legno con centinaia di oggetti di bronzo e ferro, spaccati intenzionalmente, messi sul rogo e poi risistemati nella tomba con un significato rituale aggiunge l’archeologa -: attraverso la disposizione degli oggetti si interpreta il senso dei messaggi alla comunità. E’ un sistema di regole e simboli legati all’identità del defunto».
Perle per guerrieri Nelle tombe maschili sono state rinvenute armi, parti di carro, fibule in bronzo e ambra, oltre a ganci di cintura e tessuti per rivestire i cinerari. Ma è stata fatta anche un’altra scoperta: si pensava che le perle appartenessero solo ad abiti femminili, invece ce n’erano pure nelle tombe dei maschi, ma soltanto in quelle dei guerrieri.
Se l’urna cineraria rappresentava simbolicamente il defunto e veniva rivestita con abiti ricamati e addobbati con gioielli, il contenuto rivela invece altri elementi: «Lo studio di quanto è stato bruciato sul rogo restituisce ciò che il defunto rappresentava al momento della morte – racconta la Von Eles –. Un esempio è la deposizione contemporanea o molto vicina nel tempo di due bambini, la cui immagine è ricostruita con un’armatura da futuri guerrieri: entrambi non avevano armi tra gli oggetti che realmente appartenevano loro e che sono stati bruciati, segno che sono morti prima di assumere quello che sarebbe stato il loro ruolo destinato dalle logiche ereditarie».
Ascesa e declino Ne esce un patrimonio ricchissimo, che documenta ascesa, splendore e declino della comunità villanoviana arroccata sui contrafforti riminesi. «La scelta del luogo, che risale alla fine dell’età del bronzo, è legata al controllo della costa e della via per l’Etruria, oltre che dei traffici di ambra dal Mare del Nord. Per molti anni Verucchio si è approvvigionata di ambra, sviluppando teniche artigianali di grande raffinatezza». Il locale museo archeologico, inserito tra i 10 migliori d’Europa, svela reperti eccezionali che si sono conservati grazie alle particolari qualità del terreno: non solo ambra, ma abiti interi, sia maschili che femminili, insieme con oggetti in vimini e legno.
Poi, nel breve volgere di qualche decennio, ecco la decadenza. «Alla fine del VII secolo a.C. tutto finisce rapidamente in appena un cinquantennio – conclude Von Eles -. Forse per ragioni interne, forse perché la capacità della classe degli artigiani di essere all’avanguardia nella lavorazione del ferro, dell’ambra e dei tessuti è entrata in conflitto con la struttura sociale aristocratica in un momento in cui l’Adriatico si sta aprendo al commercio greco. L’impresa riesce a Bologna, che diventa una città, ma non a Verucchio, arroccata sul suo sperone».
Molti oggetti vennero deposti sulle pire funebri e seppelliti accanto al defunto

La Stampa TuttoScienze 30.3.11
Il grande abbaglio dei negazionisti della depressione
Depressione: ecco le prove che esiste
di Filippo Bogetto e Maurilio Orbecchi, Università di Torino

LA GRANDE QUESTIONE «Vogliamo capire come si forma l’esperienza individuale»

Negli ultimi decenni le neuroscienze hanno vissuto un'epoca di splendore, con un fiorire di ricerche e di acquisizioni che hanno radicalmente cambiato la visione dell'uomo di se stesso. Si è trattato di una rivoluzione scientifica che ha portato a conoscenze imprescindibili non solo per un neuroscienziato, ma per una persona di cultura. La prima di queste è che ogni processo mentale si correla con un processo neurale, ossia che non esiste una mente astratta separata dal cervello. Un processo mentale si svolge sempre nella biologia del cervello di un individuo, dal quale viene condizionato, anche quando le sue cause sono ambientali. Il corollario di questo principio è che le malattie e i disturbi mentali si esprimono attraverso una modificazione della normale anatomia e fisiologia cerebrale, anche quando la loro origine è socio-ambientale, non essendovi altra matrice della mente che il cervello.
Il cervello-mente è un organo di collegamento del corpo con il mondo, in continua trasformazione in relazione a ciò che riceve e a ciò che produce. Per comprendere l'importanza di questo fatto, basti pensare che la stessa psicoterapia modifica, attraverso l'apprendimento, le connessioni neurali e crea nuovi circuiti nervosi, che esprimono quanto si è imparato. Eric Kandel vinse il Nobel per la medicina dimostrando proprio queste tesi.
Gli strumenti di «imaging» permettono di osservare i luoghi attivi del cervello durante le funzioni sane o nei disturbi mentali, come le depressioni, associando gli aspetti mentali e cerebrali. La biologia è dunque il terreno su cui nasce la psiche e senza biochimica non esistono emozioni, sentimenti, pensieri; in breve non esistono mente, psicologia, senso dell'Io.
Questi dati sono patrimonio comune e sono a disposizione di qualsiasi ricercatore e persona interessata. Crea, pertanto, tristezza vedere come ci siano persone che si presentano come critici della depressione, della psichiatria, della correlazione mente-cervello, in breve delle neuroscienze, senza conoscere le più importanti ricerche. E’ il caso dello psicoterapeuta Gary Greenberg, autore di un libro sulla depressione, intervistato da «Tuttoscienze». Greenberg attacca la concezione della depressione come disturbo biochimico, presentando una scissione mente-cervello di cartesiana memoria, antistorica e sorpassata, senza offrire nulla a sostegno di questa affermazione. Nella sua analisi manca la distinzione elementare fra tristezza fisiologica e i quadri patologici dell'umore. La prima è un momento fondativo per la rielaborazione degli avvenimenti e la maturazione dell'individuo, la seconda uno stato drammatico di sofferenza per riconoscere la quale occorre una buona esperienza psichiatrica.
Riguardo alla terapia, la critica degli antidepressivi da parte di Greenberg confonde l'abuso e il cattivo uso degli stessi con l'uso corretto e adeguato. Un discorso che vale per tutti i metodi di cura. Per quanto riguarda i loro effetti, la medicina non funziona come la meccanica classica: le risposte sono sempre probabilistiche, mai deterministiche. Per questo motivo i risultati non possono essere sempre buoni. In ogni caso il trattamento antidepressivo, nei quadri clinici che lo richiedono, va instaurato per evitare gravi rischi al paziente. Non farlo è indice di ignoranza professionale e di comportamento non etico.
Ciò che lascia poi perplessi è il clima di cospirazionismo, per non dire di paranoia, che attraversa il libro: la depressione sarebbe una malattia inventata da un insieme di medici e case farmaceutiche per motivi di denaro. Se è vero che alcune case farmaceutiche hanno ottenuto grandi profitti per avere scoperto importanti antidepressivi, ciò non significa che la depressione sia stata inventata; come il fatto che le case farmaceutiche si siano arricchite con gli antibiotici, non sta a indicare l'inesistenza delle infezioni. Quest'accusa copre un'amara realtà: i movimenti antiscientifici e antipsichiatrici «vendono» prodotti che denunciano continui intrighi, cercando di acquisire consumatori in quello che è diventato un «mercato del complotto».
Tutto questo, però, non deve intimorire: non è così difficile distinguere tra un'operazione di mercato, come quella effettuata dagli antiscienziati, e il lavoro fecondo dei ricercatori e dei clinici, basato su risultati sperimentali, che porta al miglioramento delle conoscenze scientifiche e della salute dell'uomo.

La Stampa TuttoScienze 30.3.11
E’ il cervello a decidere prima che lo sappiamo
“In laboratorio possiamo predire che scelta farà un individuo Quanto sta diventando illusoria la nostra concezione di libertà?”
di Idan Segev, Hebrew University

Il progresso nella comprensione della base fisico-biologica del cervello e la costruzione di un modello computerizzato di attività permetteranno di arrivare a una nuova intuizione e comprensione sulla relazione tra «materia» e «spirito», sulla questione del «libero arbitrio», sulla coscienza e consapevolezza («consciousness») e su una serie di questioni che hanno a che fare con il significato dell'uomo e la sua unicità in natura. Nel XXI secolo il ricercatore sul cervello osa usare strumenti scientifici per porre domande che in passato erano appannaggio esclusivo dei filosofi.
Un forte legame tra ricercatore sul cervello e filosofo può essere veramente fruttuoso. Già oggi ci sono neuro-filosofi che combinano e integrano le due discipline e producono teorie molto interessanti. Una possibile questione è: le macchine che costruiamo (come nell'ambito del progetto «Blue Brain», che permetterà in un futuro non lontano di imitare l’attività di un intero cervello, o dei computer in generale) hanno una coscienza e consapevolezza? E da quale momento possiamo definire una macchina come pensante o consapevole?
Il moderno ricercatore sul cervello già tocca, non intenzionalmente, la questione del «libero arbitrio». Si chiede se una macchina fisica come il cervello possa scegliere in ogni momento e liberamente (non in modo casuale o probabilistico, e non nel modo prevedibile) tra un certo numero di opzioni differenti (girare a destra o a sinistra, continuare o non leggere quanto scritto qui). A questo riguardo, immaginiamo che si riesca a produrre, nel progetto «Blue Brain», un modello computerizzato di cervello completamente identico per capacità e modus operandi a un cervello vero. Tale computer comincerà ad agire con una volontà propria? Con una consapevolezza propria? È possibile che da un certo momento non sia più possibile predire come si comporterà?
Analisi ottiche o elettriche Le ricerche più avanzate sul cervello fanno sorgere molti punti interrogativi sulla questione dei limiti al nostro libero arbitrio. Apparentemente, le analisi ottiche o elettriche del cervello umano permettono al ricercatore che osserva l'attività cerebrale di predire con grande precisione ciò che farà la persona (quale pulsante premerà: il destro o il sinistro) alcuni secondi prima che la persona stessa sia consapevole (cioè in grado di dirlo) di quale sarà la sua stessa decisione. Per così dire, «il cervello» prende una certa decisione e «noi», i padroni del cervello, non ne siamo ancora consapevoli. Il ricercatore che osserva da fuori il processo decisionale può dire in anticipo quale sarà la decisione. Quindi, qual è il significato del nostro essere liberi di scegliere? E chi sceglie?
Tali ricerche suggeriscono che la sensazione di libertà di scelta che abbiamo sviluppato (che è molto importante per la sensazione del nostro «io») non è altro che una storia che il cervello si racconta post-factum, a posteriori, dopo che la decisione è già stata presa (il tutto per mezzo di una rete nervosa specifica responsabile per la sensazione soggettiva di «libero arbitrio»). I risultati di tali ricerche sono ancora sotto esame, discussione e dubbi; ma sin da adesso è chiaro che, se non siamo liberi di scegliere nel senso pieno della parola, ci saranno conseguenze profonde sulle questioni morali più pesanti come quella della responsabilità personale, dell'ordine sociale, della legge e della giustizia.
Come nella ricerca genetica, anche nella ricerca sul cervello ci sono questioni etiche e filosofiche nuove. Quali sono i limiti d'intervento in questa macchina che è «noi»? Pochi si oppongono all'intervento, quando la macchina si guasta, come nel Parkinson, per esempio. Tuttavia, saremmo d'accordo a intervenire chirurgicamente o chimicamente per ritoccarne il funzionamento e le capacità? E se sì, secondo quali parametri e con quali livelli d'intervento?
Di recente, una donna, durante una mia lezione, mi ha interpellato e mi ha raccontato che entrambi i suoi genitori erano molto creativi, mentre lei non lo è, il che le crea una grande sofferenza. Mi ha chiesto d'intervenire sul suo cervello, di cambiarle i collegamenti nelle reti neuroniche e di modificarle in questo modo le capacità creative. Un tale intervento scientifico in futuro non sarà fantascienza. Non capiamo ancora quale sia la base cerebro-biologica della creatività. Ma, quando la capiremo, sarà giusto migliorare il nostro cervello e farlo diventare, chirurgicamente o chimicamente, più creativo?
Lo studio di un computer che simuli un cervello ci permetterà anche di capire se sia possibile «leggere nel pensiero». Già oggi siamo in grado di leggere il «pensiero del movimento» di una scimmia, che muove la mano di un robot direttamente con il proprio cervello. Forse nel futuro sarà possibile sviluppare «poligrafi cerebrali» di fronte ai quali saremo come un libro aperto. La società - il filosofo, l'artista, il politico, lo scienziato, il giurista - avrà la responsabilità di verificare le conseguenze di tali ricerche sulla strada - particolarmente eccitante - che percorreranno le nostre vite in un futuro che si avvicina a noi a grande velocità.
La conoscenza sul cervello si estende e si approfondisce a un ritmo impressionante. Rimangono tuttavia le questioni fondamentali. Il mistero più grande, la questione più aperta di tutte, è come si traduce in fin dei conti l'attività nervosa del nostro cervello nell'esperienza individuale e specifica, vale a dire l'amore, l'odio, la sensazione di dolore, la gioia alla vista di un volto conosciuto, l'etica. Forse non c'è bisogno di sperare che la scienza moderna, pur così capace, spieghi in chiave scientifica tutto questo, nonostante sia possibile che anche il cervello, basato sul computer che costruiremo nel futuro, senta esattamente le stesse sensazioni. Anche allora la frase di Albert Einstein rimarrà valida: «Sarebbe possibile descrivere tutto in termini scientifici, ma non avrebbe senso e sarebbe insignificante come descrivere una sinfonia di Beethoven come variazioni d'onde di pressione».
Tratto da «La rivoluzione del cervello» a cura di Viviana Kasam e Giancarlo Comi, editrice San Raffaele

A Milano via al «Brainforum»
Idan Segev è uno degli ospiti del «BrainForum», la due giorni internazionale sul cervello che si terrà a Milano al Piccolo Teatro Grassi (4 aprile) e all'IRCCS San Raffaele (5 aprile).
L’evento è dedicato a due Nobel italiani: Rita Levi Montalcini, ispiratrice del BrainForum dalla prima edizione, e Camillo Golgi, che scoprì come colorare i neuroni. E’ da questa scoperta che si sono sviluppate le neuroscienze e che è nato all’università di Harvard un sofisticato sistema di colorazione, il «Brainbow»: crea immagini straordinarie dei circuiti neuronali e delle sinapsi. Una serie di foto saranno esposte «open air» in Corso Vittorio Emanuele, accostate a opere d'arte contemporanea.
«Siamo di fronte a una rivoluzione - spiega Viviana Kasam, ideatrice del “BrainForum” -: la possibilità di tenere in forma il cervello e di espanderne le capacità, e di curare le malattie neurodegenerative, è alla base del nostro benessere».

La Stampa TuttoScienze 30.3.11
Il cuore batte per Darwin
La rivoluzione dell’evoluzionismo è appena cominciata
di Giovanni Nucci

Verso la fine dell'Ottocento, in Texas, una ragazza di 11 anni, invece di studiare portamento, pianoforte, cucito e buone maniere, si avventura alla scoperta della natura, dei suoi misteri e dei suoi segreti. I suoi non è che avvallino molto questa propensione naturalistica, tutti tranne il nonno, personaggio aspro e burbero, che però sul più bello tira fuori dal settore «libri segreti» della sua biblioteca uno dei volumi più segreti: Charles Darwin, «L'origine delle specie».
È, in poche righe, la trama de «L'evoluzione di Calpurnia» (Salani) un promettente racconto d'avventura, un po' una via di mezzo tra «Pippi calzelunghe» e «Huckleberry Finn».
Oppure: il difficile percorso di liberazione di un ragazzo nei confronti del padre, puritano, moralista e del tutto incapace di dimostrare un qualsiasi tipo di affetto. L'antagonista contro cui il protagonista di questo splendido romanzo si muove è, tra l'altro, uno zoologo, che nell'Inghilterra vittoriana cerca disperatamente di contrastare l'idea scientifica che in quegli anni sta sconvolgendo il mondo occidentale: l'evoluzionismo. Il libro è «Padre e figlio» di Edmund Gosse (Adelphi).
Ci sono delle scoperte scientifiche che segnano la storia, accompagnandola nella più profonda quotidianità: cioè vengono antropologicamente assimilate dalla comunità, finendo per modificarne la percezione e l'elaborazione della realtà. Questo è certamente avvenuto con Galileo Galilei nel Cinquecento; o con Albert Einstein e la Relatività, Werner Heisenberg e l'indeterminazione nel Novecento; e sta probabilmente avvenendo anche oggi con le biotecnologie (tra l'altro il motivo per cui l'Accademia delle Biotecnologie della Merck Serono ha indetto il concorso «La Scienza Narrata» credo sia proprio voler assecondare questo processo di assimilazione antropologica del del progresso scientifico).
Sicuramente, vivere nell'Ottocento significava fare i conti con la teoria dell'evoluzione di Darwin: l'aria che si respirava era quella, sia prima della pubblicazione de «L'origine della specie» nel 1859, sia dopo: tutto il secolo è stato segnato dall'elaborazione di quella teoria. La posta in gioco era enorme, l'influenza religiosa, politica, sociale di ciò che Darwin stava definendo era altissima. Ora, saper raccontare come, all'epoca, veniva percepita una tale rivoluzione significa raccontare il vero peso e valore di quella scoperta scientifica. Sembra quasi che la scienza, in questo senso, abbia bisogno della letteratura, perché detiene il mezzo per poter produrre un resoconto, sottile e impalpabile, ma proprio per questo determinante, di ciò che ha prodotto.
Un'ultimo esempio: «Casa Darwin» di Randal Keynes (Einaudi): in cui si racconta la vita nella casa di Darwin e di sua moglie Emma Wedgwood in un paesino di Downe, nel Kent. Cioè i luoghi da dove il grande naturalista elaborò non solo la sua teoria scientifica, ma più in generale la sua interpretazione metafisica del mondo, l'interpretazione naturalistica del bene e del male, del posto che l'uomo ha nella natura: tutto ciò è venuto dai suoi studi e dalle sue ricerche, ma anche dalla sua vita privata che questo libro racconta.
Giovanni Nucci Scrittore RUOLO: È SCRITTORE ED EDITOR E HA LAVORATO NEL CAMPO DELLA LETTERATURA PER RAGAZZI IL LIBRO: «IL MARE COLOR DEL VINO» EDITORE E/O
[10 - Continua]

Repubblica 30.3.11
Tsunami, se al Cnr si crede nel disegno di Dio
risponde Corrado Augias

Gentile dottor Augias, il professor Roberto De Mattei, vicepresidente del Cnr già distintosi per anti-evoluzionismo, anti-relativismo e anti-encefalogramma piatto come criterio di morte, parlando a Radio Maria ha detto che lo tsunami in Giappone «è stata una "esigenza" della giustizia di Dio». A me sembra blasfemo.
Giovanni Moschini - giovanni.moschini4@tin.it

Caro Augias, non so molto di teologia, ma per quel poco so mi sembra che la posizione di De Mattei abbia quasi nulla a che vedere con la concezione cristiana del ruolo della divinità. Ho l'impressione che non si tratti di tradizionalismo bensì di animismo, o paganesimo. C'è il terremoto? Una qualche divinità, Poseidone o Giove, è stata offesa e ci punisce.
Guido Martinotti - guido.martinotti@unimib.it

Ho avuto varie lettere sulle parole di De Mattei. Stentavo a credere, ho dovuto riascoltare su Radio Maria l'intervento (9' 06"). De Mattei ha fatto suo un discorso di monsignor Mazzella (arcivescovo di Rossano Calabro) risalente al 1911. Non si capisce bene quando finisca la citazione e subentri l'opinione diretta del vicepresidente del Cnr. In ogni caso De Mattei fa sue quelle incredibili parole. Eccone un estratto: «Le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio. Ci richiamano al fine ultimo della nostra vita. Se la Terra non avesse pericoli e catastrofi eserciterebbe un fascino irresistibile e dimenticheremmo che siamo cittadini del cielo. Le catastrofi sono talora esigenza della giustizia di Dio della quale sono meritati castighi ? Nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi innocente. ? La catastrofe è stata introdotta da Dio nel piano della creazione per molteplici fini degni della sua bontà». Segue l'elenco dei possibili scopi divini dal Diluvio in poi. «La catastrofe colpisce il colpevole e l'innocente. Come si concilia ciò con la provvidenza? Dio non potrebbe fare in modo che la catastrofe colpisca il colpevole e risparmi l'innocente se non moltiplicando i miracoli, modificando il piano creativo ... Un giorno vedremo che per molte vittime, il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima; con quella morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perché Dio ha voluto risparmiargli un triste avvenire ? Forse proprio nei momenti terribili passati sotto le rovine è sceso su quelle anime il torrente di una speciale misericordia divina in forma di profonda contrizione e rassegnazione. Chi può dire che cosa è passato tra quelle anime e la misericordia di Dio negli ultimi momenti? ? Chi potrebbe scandagliare l'abisso di espiazione e di doni di Dio che in quelle anime il terremoto ha scavato?» Così ha parlato il vicepresidente del Cnr, lì collocato dall'allora ministro Moratti.

Corriere della Sera 30.3.11
E Campanella sfidò la forza dei pregiudizi (come Colombo)
La città del Sole è una nuova America 
di Marco Rizzi

Più di ogni altro testo, La città del Sole merita la qualifica di pensiero libero. Tommaso Campanella la scrisse nel 1602 mentre era rinchiuso da tre anni in un carcere napoletano; torturato a più riprese, si era finto pazzo per sfuggire alla condanna a morte, commutata in prigione a vita. Nato in Calabria da una famiglia contadina nel 1568, si era fatto domenicano per mettere a frutto le spiccate doti intellettuali e sfuggire alla povertà. L’irrequieta vivacità intellettuale lo mise subito in contrasto con il dogmatico aristotelismo dei confratelli, per avvicinarlo alla filosofia empirica di Telesio. La prima opera (Philosophia sensibus demonstrata, 1591) gli valse una serie di condanne per eresia tra il 1591 e 1597. Il coinvolgimento in un fallito complotto antispagnolo determinò la reclusione a Napoli fino al 1626. Liberato, il nunzio papale lo fece trasferire a Roma, dove fu nuovamente incarcerato per tre anni. Nonostante la protezione in seguito accordatagli da Urbano VIII, rimase oggetto di continui sospetti, ecclesiali e politici, sino alla definitiva fuga in Francia nel 1634, dove venne accolto con tutti gli onori da Richelieu e da Luigi XIII. Morì a Parigi nel 1639, mentre curava la stampa dei suoi Opera omnia. Una vita trascorsa praticamente in carcere, infatti, non aveva impedito a Campanella di redigere imponenti scritti filosofici e teologici, di intrattenere rapporti con le figure più significative dell’epoca, quali Galileo, di muoversi in ogni ambito delle scienze di allora; tra queste, l’astronomia e l’astrologia occupavano un posto di rilievo, senza che i reciproci confini risultassero ben definiti. La città del Sole è la prima opera scritta in prigione, e contiene le ragioni profonde dell’impegno di Campanella nella fallita rivolta e al tempo stesso i semi dello sviluppo futuro del suo pensiero. Una prima lettura lascia certamente sconcertati; nella descrizione della città ideale colpiscono il comunismo dei beni e il rigido controllo esercitato sulla riproduzione dei suoi abitanti, accoppiati secondo l’esame delle caratteristiche che possono garantire la prole migliore e nel momento più opportuno determinato dai calcoli astronomici; e ancora il razionalismo esasperato e la minuziosa regolamentazione di ogni aspetto della vita individuale e collettiva, dalla più tenera età alla morte, dal cibo ai vestiti, dall’educazione all’organizzazione economica e militare, dal diritto alla religione. Sembrerebbe un confuso impasto di Medioevo e modernità, di Cattolicesimo retrivo (la coincidenza di potere religioso e politico) e di istanze di egualitarismo ed emancipazione, senza che si capisca appieno la reale posizione dell’autore. È però opportuna una diversa lettura. Nell’opera, la descrizione della città del Sole è affidata al nocchiero di Colombo: in questo modo, Campanella segnala che è venuto il tempo di liberare la creatività sociale e politica dell’umanità dai vincoli di autorità e tradizioni non più sopportabili, così come l’impresa del genovese aveva cambiato la percezione del mondo, aprendo orizzonti inimmaginati. Campanella tenta di forzare la sua epoca dall’interno, conservando ciò che non è possibile cancellare, il Cristianesimo anzitutto, ma spingendosi in direzioni inesplorate, dove la razionalità e la scienza costituiscano valori fondanti e il sapere non sia dominio di pochi, ma patrimonio di tutti (a questo fine viene genialmente piegato l’uso pedagogico delle immagini della tradizione cattolica: nella città del Sole i fanciulli imparano sin da piccoli dall’enciclopedia dei saperi dipinta sulle mura della città); dove il lavoro non sia fatica al servizio di classi parassitarie, bensì fattore di dignità; dove i ruoli sociali siano attribuiti secondo il merito e le conoscenze acquisite. La città del Sole rivela l’intento di aprire la società, ribadendo l’uguaglianza di tutti gli uomini e, al tempo stesso, la loro diversità in funzione delle attitudini e delle capacità, entrambe garantite dalla ragione e dall’istruzione. Quattro secoli dopo conserva intatto il suo fascino, depurato da quegli elementi ormai venuti meno proprio perché il mondo si è nel frattempo incamminato in questa direzione.

Corriere della Sera 30.3.11
L’eretico Newton allargò gli orizzonti del sapere umano
Dalla mela ai colori, un genio infinito
di Stefano Moriggi

«U n francese che giunga a Londra trova molti cambiamenti nella filosofia, come in tutto il resto» . Così avrebbe scritto Voltaire, esiliato in Inghilterra nel 1726. Si sentiva come chi, «lasciato il mondo pieno, lo trova vuoto» . Se infatti a Parigi— notava nelle Lettere filosofiche— «si vede l’Universo costituito da vortici di materia sottile; a Londra non si vede niente di tutto ciò» . Oltremanica una mela del Lincolnshire aveva cambiato tutto. Isaac Newton l’aveva vista staccarsi dal ramo e cadere a terra. Da quel momento una serie di interrogativi e intuizioni lo avrebbe portato a capire che «la mela attrae la Terra come la Terra attrae la mela» . Questo avrebbe detto un anziano sir Isaac a William Stukeley — l’amico archeologo che così ricorda il loro incontro a Kensington, nel 1725: «Dopo pranzo andammo in giardino a bere il tè all’ombra di alcuni meli. Mi disse che si trovava in una situazione analoga quando, tempo addietro, aveva concepito l’idea della gravitazione» . Alla formula definitiva, in realtà, sarebbe arrivato un ventennio dopo il leggendario episodio e la rese nota nei Principi matematici della filosofia naturale (1687). Complice anche l’aspra concorrenza con Robert Hooke il quale, negli anni Ottanta, aveva ipotizzato che le orbite ellittiche di Keplero si spiegassero con un’attrazione gravitazionale che diminuisce «in relazione quadrata alla distanza dal centro relativo» . Era sulla buona strada, ma continuava a sfuggirgli ciò che neppure il ventiquattrenne Newton, al tempo della mela, aveva compreso: ossia, che la gravitazione era una forza di attrazione reciproca, e non solo relativa alla massa dell’oggetto attratto dalla Terra. Ma quando quella mela cascò, Isaac aveva da poco conseguito il baccalaureato al Trinity College di Cambridge. E, in fuga dalla peste— che nell’estate del 1665 già infuriava a Londra — si era rintanato per qualche mese nella casa di famiglia, a Woolsthorpe. Quel periodo lontano dall’accademia sarebbe stato intenso e proficuo. «Ero nel fiore della creatività — ebbe a ricordare Newton — e mi dedicavo alla matematica e alla filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito» . E infatti, ben prima di succedere (1668) a Isaac Barrow sulla cattedra lucasiana di matematica, aveva già dimostrato il teorema del binomio e sviluppato quel metodo delle flussioni (oggi detto calcolo infinitesimale) — sul quale si sarebbe innescata la polemica con Leibniz per il primato della scoperta. Eppure, la comunità scientifica si sarebbe davvero accorta del suo genio solo nel 1671, quando Newton impressionò i membri della Royal Society con un telescopio a riflessione di sua costruzione. Nominato membro della prestigiosa istituzione, si convinse così di rendere pubblica la sua Nuova teoria sulla luce e sui colori: la luce solare non è pura e semplice, ma «consiste di raggi che differiscono per gradi indefiniti di rifrangibilità» , ciascuno dei quali è un colore. Quella che lui stesso definì «la più straordinaria, se non la più considerevole, rivelazione che sia stata compiuta finora nelle operazioni della natura» , gli assicurò inimicizie e livori, a partire da quel Robert Hooke che lo avrebbe poi costretto a rimettere mano ai suoi calcoli su mele e corpi celesti. Pur di non concedergli repliche, Newton decise di pubblicare l’Ottica solo dopo la morte del rivale, nel 1704. Nel frattempo si isolò a Cambridge, dove più che di orbite e corpuscoli luminosi, si sarebbe occupato di alchimia e in segreto di teologia. Era seguace di Ario, e il fatto di negare la Santissima Trinità non sarebbe stato gradito al Trinity College... Negli ultimi vent’anni di vita ricoprì cariche di rilievo: fu presidente della Royal Society, parlamentare e soprattutto, dal 1699, severo direttore della Zecca di Londra. Nel marzo del 1727, anche Voltaire era a Westminster Abbey per rendere omaggio al «grande distruttore del sistema cartesiano» che veniva «seppellito come un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi» . 

Corriere della Sera 30.3.11
Ordinamenti internazionali, filosofia e campi di battaglia
di Giuseppe Panissidi

Uomini, «enti del proprio genere» (K. Marx), il genere umano. Ciò che eticamente vale per noi: non ci sono che uomini, in fondo. Accende l’animo il tema della libertà. Delle libertà. Una leonina tirannide costruisce il Great Man-Made River e massacra un giovane popolo in lotta per una società più aperta. Bombe. Altro la violazione dei diritti e il turbamento della concordia tra le nazioni. Altro il crimine ferino contro l'umanità. L’ «anarchia della comunità internazionale» , incapace di comando giuridico, non (ci) esime sul coraggio della libertà. E però sfugge il senso «inaudito» della soggettività giuridica internazionale emersa dalla giustizia di Norimberga e di Tokyo, vera ri-configurazione dello ius gentium, fino alla la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Lo spazio proprio dei diritti e delle libertà naturali — «naturali» : un «non-senso sui trampoli» , secondo J. Bentham, prima di M. Weber— come diritti umani, ancorché talora confliggenti. Diritti di cittadinanza universale, non per l’individuo in quanto cittadino di uno Stato. Entro la scena planetaria affollata di Stati e di Organizzazioni, si espande il principio delle «leggi non scritte» di Antigone, la sfera dei diritti e degli obblighi degli individui, anche sul piano delle responsabilità internazionali e a tutela dei popoli dai crimini internazionali. Alle prime luci della modernità, il francescano Guglielmo di Ockham — Il nome della rosa— sosteneva che gli individui, non le comunità, sono gli elementi costitutivi del cosmo. E mentre in letteratura si controverte sul punto, nel diritto internazionale traluce la speranza, l’ultima dea. Alla «fine della Storia» e delle ideologie — fuori argomento la guerra «umanitaria» — dunque il diritto: Dio nel mondo, dopo la «morte di Dio» . L’ordinamento internazionale disciplina modalità di costituzione e riconoscimento di assetti statuali, ed assicura, deve assicurare tutela (Convenzione di Montevideo, Statuto Onu, etc). Non può limitarsi ad accertarne l’esistenza. A rigore concettualizziamo la pace come assenza di guerra, perché la guerra è una modalità della relazione interumana. Finché l’uomo rimarrà siffatto (Tucidide). E la sovranità un campo di battaglia. «Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince» (F. Guicciardini). A Bengasi, speriamo. Come a Lampedusa. E altrove. 

Corriere della Sera 30.3.11
Morin: ridare poesia all’esistenza
di Maria Serena Natale

Frequenta da sempre i sentieri annodati di un pensiero aporetico, che sopporta la fatica di tenere insieme elementi apparentemente inconciliabili. «Bisogna saper vedere tutte le contraddizioni che ci stanno davanti— dice levando lo sguardo al soffitto Edgar Morin (nella foto) — ma non lasciarsi paralizzare. Essere sempre vigili e insieme prudenti» . Il maestro francese interviene a Torino al convegno per i suoi novant’anni «La cultura della cultura. Il pensiero della complessità e le sfide del XXI secolo» , che si chiude oggi nell’aula magna del Rettorato. E di fronte a quella che definisce «l’onda della gioventù araba affamata di libertà e dignità» , all’irruzione dell’imprevedibile nella storia— «Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto sembravano stabili e permanenti com’era parsa l’Urss» —, il filosofo della complessità invoca un pensiero e una prassi politica che sappiano «collegare fenomeni e individuare un cammino nuovo» . Elementi al centro del suo percorso intellettuale, tra i più imponenti del Novecento, condensato in testi fondamentali come L’anno zero della Germania, Autocritica, Il metodo. Ultima opera tradotta in italiano, per i tipi di Erickson, la raccolta La mia sinistra. Nel confronto di ieri con il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, Morin ha riflettuto sulle sfide poste all’uomo contemporaneo da un sistema culturale globale fondato su «quel tipo di follia che gli antichi greci chiamavano hybris» e che si dà come obiettivo supremo uno sviluppo tecnico-scientifico fine a se stesso, alimentando «una riflessione politica incapace di nutrirsi di idee in conflitto, combinare realismo e utopia, restituire il senso dell’incredibile avventura umana e riformare l’ordine esistente» nel nome di un’umanità intesa come comunità che condivide un medesimo destino per cui nessuno si salva da solo. «Occorre un’etica che resista alla barbarie e ci metta in condizione di realizzare una vita poetica» , sola risposta allo scacco della morte. «È nella vita intensa, nel senso non del cieco vitalismo ma di un percorso improntato a solidarietà e responsabilità, che trovano posto, contro la notte e la nebbia, speranza e metamorfosi» . 

La Stampa 30.3.11
Alfieri: mamma mia sta cadendo la Bastiglia
Inviato molto speciale nei giorni caldi del luglio 1789: in una lettera da Parigi lo scrittore racconta i fatti di cui è testimone oculare
di Mario Baudino

DAPPRIMA PERPLESSO Era preoccupato per la sorte dei suoi libri in corso di stampa, minacciati dallo «scompiglio»
POI ENTUSIASTA In un’ode composta di lì a poco inneggiò alla fine della tirannia Salvo pentirsene nel Misogallo

“Carissima Signora Madre - scriveva Vittorio Alfieri da Parigi il 24 luglio 1789 -, abbiamo corsi dei gran pericoli, e viste in faccia molto da vicino tre somme disgrazie di cui basterebbe una sola ad empir di terrore: ed erano la fame, la guerra civile ed il total fallimento». Erano passati dieci giorni dalla presa della Bastiglia, l’evento simbolo della Rivoluzione, e lo scrittore non sembrava particolarmente eccitato. Di lì a poco avrebbe composto l’ode a Parigi sbastigliato , fremente d’entusiasmo per la fine della tirannide, e descritto il carcere espugnato con un’immagine dantesca («Loco è in Parigi che in Inferno avria / Pregio più assai: detto è Bastiglia; e dirsi / Me’ dovria Malebolge» - quell’orribile «Me’» sta per «meglio»); per il momento era abbastanza perplesso.
«La sola imprudenza del Re - prosegue infatti -, di avere inopportunamente smesso di carica il Sig. Necher, uomo che aveva tutte le fila del governo in mano, ha esposto questo regno a tutte le sopraccennate calamità». La lettera, due facciate in bellissima calligrafia, è un pezzo assai pregiato dell’asta Bolaffi di autografi e libri antichi che si tiene oggi a Milano. E, al di là del fascino particolare dell’oggetto, ci offre uno sguardo dall’interno del cratere della rivoluzione per qualche verso imprevisto. Il riferimento alla destituzione del «signor Necher», in realtà Jacques Necker, sarà per esempio corretto dall’ode, dove Alfieri si esprime in modo piuttosto trionfalistico: «Pria che in ciel la seconda alba sia sorta, / E che al confin sia giunto / L’esul ministro, è tirannia già morta».
Necker, banchiere svizzero, fu incaricato da Luigi XVI di rimettere ordine nelle finanze del regno per ben tre volte. Cacciato pochi giorni prima della presa della Bastiglia e richiamato subito dopo, abbandonò definitivamente la scena politica nel 1790. La «tirannia», mentre Alfieri scriveva, era comunque morta davvero. E il tragediografo poteva concedersi, sempre con la madre, la soddisfazione di aver visto giusto, e da tempo: «Ella sa benissimo che da due e più mesi sono adunati gli Stati generali per porre ordine ai tanti enormi abusi di questo governo e levare il popolo dalla orribile oppressione dei signori e dei ricchi, [...] ho visto questo spettacolo in tutta sicurezza: e sempre più ho lodato me stesso di non aver mai voluto in nessuna maniera di servire il re nostro, perché a quell’autorità abusiva, ed enorme dei re, non si può mai onestamente servire, senza essere colpevole, anche essendo innocente». Che è un concetto molto alfieriano, mutuato dai classici.
Su questi temi sarebbe tornato ancora, nel Misogallo , dove consumò l’addio al mito di una rivoluzione che stava divorando i suoi figli, ma anche nella Vita , dove annota a proposito delle sue opere che stava stampando a Parigi, «v’aggiunsi l’ode di Parigi sbastigliato , fatta per essermi trovato testimonio oculare del principio di quei torbidi». In fondo, era uno scrittore, ed era questa l’unica cosa che gli interessasse davvero. Sempre nella lettera, dice ancora alla madre: «Io del resto sto bene: lavoro indefessamente alla stampa; ma questo scompiglio ha sovvertito ogni cosa e appena si ricomincia a respirare». Sempre nella Vita , Alfieri confessa che quelli furono per lui giorni terribili. E per un motivo molto semplice: «Dall’aprile dell’anno 1789 in appresso, io era vissuto in molte angustie d’animo, temendo ogni giorno che un qualche di quei tanti tumulti che insorgevano ogni giorno in Parigi [...] non mi impedisse di terminare tutte quelle mie edizioni tratte quasi al fine».
Ragion per cui, aggiunge sconsolato, «mi affrettava quanto più poteva; ma così non facevano gli artefici della tipografia del Didot, che tutti travestitisi in politici e liberi uomini, le giornate intere si consumavano a leggere gazzette e far leggi, invece di comporre, correggere, e tirare le dovute stampe. Credei d’impazzarvi di rimbalzo». La rivoluzione sarà anche un’ottima cosa. Ma è meglio che i tipografi se ne astengano.

Repubblica 30.3.11
Parla Fukuyama "Avevo ragione io la Storia è finita"
"Così la Primavera araba conferma le mie tesi"

"Le persone si mobilitano perché non sopportano di vivere sotto il giogo delle dittature"
"Non credo al determinismo però penso che la prossima tappa sarà la Cina"
L´intervista/Lo studioso americano, che ha pubblicato un nuovo saggio, spiega: "Quello che sta succedendo oggi dimostra ciò che sostenevo dopo l´89, tutti aspirano a una democrazia liberale"

RAMPINID (PALO ALTO) "Quel che sta accadendo nel mondo arabo è la migliore conferma della mia tesi del 1989 su La fine della storia. Allora, quando osservai che la liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell´evoluzione delle società umane, tra le obiezioni che ricevetti c´era proprio quella di chi mi rinfacciava l´eccezione araba. Ecco, oggi vediamo che quell´eccezione non esiste. I popoli arabi non sono diversi da noi, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità". E´ il momento di un ritorno di gloria per Francis Fukuyama, il celebre e controverso studioso americano di scienze politiche. Esce in America un suo nuovo saggio, The Origins of Political Order, il primo volume di un´opera monumentale: l´analisi delle società umane e dei sistemi politici dalla preistoria ai tempi moderni, con un taglio interdisciplinare che prende in prestito anche le teorie evolutive della biogenetica.
E´ un saggio che fa notizia fin dalla dedica: è in memoria di Samuel Huntington, il teorico dello "scontro di civiltà" scomparso nel 2008, che fu al tempo stesso un maestro di Fukuyama e un suo fiero avversario intellettuale. Tante cose sono cambiate dal primo libro che lo proiettò nel dibattito mondiale. In seguito Fukuyama ha disertato i ranghi dei neoconservatori. Di recente si è trasferito dall´università Johns Hopkins di Washington a Stanford, un passaggio dalla East alla West Coast che ha significato anche una presa di distanza dall´attualità politica («a Washington fior d´intelligenze studiano quel che accade in Cina di ora in ora, ma pochi possono parlare in modo competente della dinastia Han»). Oggi però l´attualità lo insegue, riportando in auge la sua tesi più controversa, quella che lui lanciò all´epoca della caduta del Muro di Berlino. L´idea della "fine della storia" ebbe un successo immediato, parve catturare lo spirito di un´epoca: il momento unipolare, il trionfo dell´America con la caduta del comunismo. In seguito quella teoria cadde in disgrazia, via via che l´avanzata delle democrazie si scontrava con rovesci e delusioni: Fukuyama divenne il bersaglio ideale per accusare l´America di arroganza imperiale. Oggi paradossalmente, mentre lui assapora un ritorno di celebrità e di autorevolezza, è proprio sullo stato dell´America che il suo ottimismo s´incrina.
Professor Fukuyama, partiamo dagli eventi in Libia, Egitto, Tunisia, Siria, Giordania, Yemen. Siamo di fronte a un altro 1989, la caduta del Muro della "diversità" araba?
«Certo, rivediamo un fenomeno già accaduto in passato, sotto altri cieli e in altri contesti: vaste masse si mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel che vogliono non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale. E´ il trend di lunga durata che a suo tempo definii come la terza via o terza ondata delle democrazie: quella che ebbe inizio con le transizioni post-autoritarie di Spagna Portogallo e Grecia, poi si trasferì in America latina, infine nell´Europa dell´Est. In quei vent´anni in cui il numero delle democrazie triplicò, l´unica parte del mondo che sembrava isolata dal contagio era il mondo arabo. Ora abbiamo la prova che i valori della liberaldemocrazia non sono esclusivi, non appartengono a un solo tipo di cultura».
La sua nuova opera è un affresco storico di lunga durata. Che cosa ci può insegnare sulle convulsioni del mondo arabo di questi mesi?
«Nel mio lavoro storico guardo alle origini delle istituzioni che fondano la democrazia e lo Stato di diritto. Nessuna di queste istituzioni è scontata, non possiamo darle per acquisite, sono il frutto di un´evoluzione e di un lavoro paziente. Ricordo la delusione che ci fu quando dopo la caduta del Muro di Berlino arrivarono le cosiddette "rivoluzioni arancioni" nelle repubbliche ex-sovietiche (Georgia, Ucraina, Kazakhstan), e alcune finirono per rimettere al potere degli autocrati. Questo accadde perché i movimenti democratici non erano stati capaci di costruire istituzioni forti. Ebbene, oggi esiste lo stesso rischio in Egitto dove mancano istituzioni e le uniche forze in campo sono i militari e i Fratelli musulmani. Entro due anni potremmo avere delle enormi delusioni dalle rivoluzioni del mondo arabo».
Dunque il fatto che nelle "Origini dell´ordine politico" lei faccia uso di teorie evolutive come nella biogenetica, non significa riesumare un determinismo storico o un cammino ineluttabile verso il progresso, alla Hegel-Marx.
«No, la storia è piena di incidenti, imprevisti, è segnata anche dal ruolo o dall´assenza di leadership. E in quest´opera insisto sull´importanza decisiva delle istituzioni, per sottrarsi ai capricci umani. Inoltre, anche se la natura umana è una sola, universale, ogni comunità sviluppa le sue regole particolari e può rimanerne prigioniera a lungo. 22 secoli fa i cinesi inventarono quella che era di gran lunga la più efficiente e moderna burocrazia statale centralizzata. Quella è rimasta a lungo la forza della Cina, ma anche un suo limite».
La Cina resta il più importante modello alternativo all´Occidente. La recessione globale del 2008-2009 sembra perfino avere rafforzato quel capitalismo autoritario e dirigistico. Ma lei di recente ha preso spunto dalle rivolte arabe per fare una previsione: la prossima volta tocca ai cinesi. Ne è così sicuro?
«La Cina non è un´eccezione. Anche là c´è un risentimento contro i metodi di governo autoritari. La differenza è che la classe dirigente cinese è più efficace e intelligente, ha saputo generare crescita e occupazione. Non esiste in Cina il problema di una vasta gioventù istruita e disoccupata, come nel mondo arabo. Inoltre Pechino è più efficiente nel soffocare in anticipo ogni virgulto di protesta. Ma non esiste una differenza culturale di fondo tra i cinesi e il resto del mondo. Quel che conta è la storia, e la storia può imboccare dei percorsi con delle lunghe deviazioni».
Proprio mentre la voglia di democrazia fa crollare il Muro arabo, l´entusiasmo per questo sistema politico si è appannato proprio nella sua culla, qui negli Stati Uniti.
«L´America vive un´epoca molto difficile, e non solo per le sue debolezze economiche. L´intero sistema democratico sembra paralizzato dallo scontro fra i partiti, la polarizzazione è ai massimi, le intese bipartisan per risolvere la crisi di bilancio e fare le grandi riforme necessarie sembrano irraggiungibili. C´è il rischio che la situazione debba peggiorare ancora molto, precipitando fino a sbocchi drammatici, prima che vi sia un soprassalto nazionale. La soluzione può arrivare tardi, e con costi elevati. Non vi è neppure la certezza che questa soluzione arrivi. L´ho detto: non c´è un determinismo della storia. I popoli che vivono nelle democrazie devono essere molto vigilanti, perché dalla democrazia si può anche regredire».

l’Unità 30.3.11
Storia orale Il nuovo lavoro di Alessandro Portelli si svolge tutto ad Harlan County, Kentucky
Come un quilt Vite, amori, lavoro, battaglie: tante voci tessono un ritratto proletario del Paese
Viaggio nell’America profonda raccontata dai minatori
Esce oggi in libreria il nuovo, bellissimo, libro di Alessandro Portelli edito da Donzelli: «America profonda» : una storia degli Stati Uniti vista da un solo simbolico luogo, della quale vi proponiamo due brani.
di Alessandro Portelli

Harlan County immaginata è spesso un luogo cupo, complesso. In Poems Out of Harlan County, Vivian Shipley reimpasta le memorie di Harlan in tormentate poesie di malattia, maternità difficile, morte, incubi. Ricordando una zia che bruciava vecchie scarpe per tener lontani i serpenti e decapitava i copperheads che le si infilavano fra le travi della casa, aggiunge che il suo analista suggerisce di «trasformare i serpenti in poesie». In questo nuovo genere di snake handling, Harlan diventa una metafora del lato «selvaggio», sconosciuto della psiche davvero una «dark and bloody ground», una terra cupa e sanguinosa. D’altra parte, le sorelle McGarrigle, canadesi, immaginano Harlan come un luogo innocente di infanzia e natura, una sineddoche di un Sud sognato risonante di violini e ballate. E in Harlan Man di Steve Earle, una delle poche canzoni che non parlano di partire e tornare («Born in East Kentucky and here I’ll stay», nato in East Kentucky e qui resterò), le immagini delle miniere, del black lung, della religione e della famiglia compongono un monumento al proletario americano rappresentativo: «I’m a Harlan man/ Never catch me whinin’ ’cause I ain’t that kind», sono un uomo di Harlan, non mi sentirai mai compiangermi, perché non sono fatto così.
(...) Spesso, Harlan materiale e Harlan immaginata non si immaginano nemmeno fa loro.(...)
NON È UNA METAFORA
Lois Scott: «La mia prima figlia è morta di lupus a trent’anni. E penso che sia stata una delle ragioni per cui mi sono gettata in quel modo (nello sciopero di Brookside). Mia figlia stava per morire, e io vivevo con questa cosa ogni minuto del giorno. Ma se mi potevo coinvolgere fino in fondo in modo da non pensarci continuamente, allora potevo sopravvivere».
«Se pensi a come siamo cresciuti, veramente, è un miracolo che siamo sopravvissuti. Prima ancora che hai due anni, hai già vinto la scommessa della sopravvivenza» (Annie Napier). Fin dal mio primo giorno al Cranks Creek Survival Center ho capito che a Harlan «survival», sopravvivenza, non è una metafora «non è solo una parola», come mi confermò Annie Napier quando glielo feci notare.
«Quando i sindacati cominciavano a cercare di esistere, potremmo dire che era una lotta per sopravvivere» (Frederick Brown) e «tanti di loro non sopravvissero, credi a me» (Tillman Cadle). Jerry Johnson dà ai suoi figli «un’educazione per sopravvivere». Basil Collins si è guadagnato la stima anche dei suoi avversari perché è sopravvissuto alla marcia della morte a Bataan. Will Gent e Timothy Lewis sono sopravvissuti al Vietnam («Se sei sopravvissuto senza essere colpito, sei un veterano») e all’Iraq. «Sono sopravvissuta a tantissime cose», dice Tammy Haywood: all’assassinio del marito, al tumore al seno, alla fatica di crescere i figli da madre single: «Sì, sono una tosta. Ma credo che venga dal fatto che sono nata qui».
La sopravvivenza, comunque, può anche essere una metafora economica («Ci vuole un po’ di diversificazione economica qui; per sopravvivere», Johnny Woodward); politica («Stiamo ancora nella modalità di sopravvivenza», Daniel Howard); sociale («Si tratta di sopravvivere, riuscire a conservare la saluta mentale e la salute fisica», Carla Jo Barrett); culturale (a Cincinnati, «sono sopravvissuta a una cultura che non capivo», Charlene Dalton).
Portelli: «Perciò qui la parola chiave è sopravvivenza».
Marjorie Napier: «Esatto! Il tasso di cancro in questa contea è probabilmente più alto che in tutto il resto dello Stato. Non sappiamo perché; non riusciamo a far venire nessuno qui a fare uno studio. Siamo solo degli hillbillies tonti, non gliene importa niente se moriamo o no. Le donne hanno un tasso di tumori cervicali e al seno più alto che in tutto il resto dello Stato. Come mai? È qualcosa che c’è qui intorno? Sono le miniere? È perché usiamo sempre il carbone per riscaldarci? O viene dall’acqua che abbiamo contaminato così tanto?».
Dopo la chiusura dei coal camps, la maggior parte dei medici aziendali andò in pensione o andò via, per cui per un certo periodo «qui non ci fu nessun vero servizio sanitario» (J. D. Miller). Solo nel 1970, con il supporto della Appalachian Regional Commission e dell’Università del Kentucky, il dottor David Steinman fondò la Clover Fork Clinic a Evarts definita come una «clinica controllata dalla comunità», porta-
trice di «un approccio coordinato alla medicina sociale». «Io venni qui nel 1973, dopo che la clinica era già in funzione. Volevo lavorare in un’area sottoservita gli Stati Uniti sono pieni di dottori che si fanno concorrenza per i posti più lucrativi nelle metropoli, e io non avevo molta voglia di essere uno di quelli» (J. D. Miller).
Donna Warren: «La gente muore tantissimo. Anni fa come niente una donna aveva dieci o dodici figli e solo tre o quattro vivevano tanto da diventare adulti, e i genitori se non morivano in miniera morivano presto per le malattie e per la mancanza di cure mediche perché o non c’era un ospedale a portata di mano o non avevi i soldi per andarci, e tanta gente non si faceva curare perché era contro le sue convinzioni religiose».
Melody Donegan: «L’ospedale quaggiù, se non hai la tessera sanitaria o l’assicurazione o i soldi, non ti accettano. E se io e Johnny ci ammaliamo, non possiamo andare dal dottore perché non abbiamo né tessera sanitaria, né soldi, né assicurazione».
Tammy Haywood: «Siamo probabilmente il paese più ricco del mondo. Io non mi riesco a capacitare di come mai in questo paese ci sono bambini senza assistenza medica, perché in questo paese ci sono bambini che vanno a letto con la fame, perché ci sono persone che non si ’assistenza sanitaria. E non è un paese ricco. Mi fa dare di volta il cervello».
Molti dei medici attivi a Harlan vengono da paesi del Terzo mondo: per avere il visto e lavorare negli Stati Uniti, infatti, i medici sono tenuti a prestare servizio per due anni in una regione sottoservita, troppo povera per attrarre i medici americani. Parecchi residenti, pensano che i medici immigrati «forse non capiscono la nostra cultura» (Carla Jo Barrett). «Molti di questi medici venivano a Harlan, facevano i loro due anni, e se ne andavano. Però alcuni medici stranieri sono rimasti e sono benvoluti dalla gente del posto» (J. D. Miller). Il dottor Albino Nunes, nato nelle Filippine, lavora a Harlan dal 1971.

il Riformista 30.3.11
Bertolucci sogna “Novecento” in 3D nel regno di Nichi
di Giancarlo Mancini
qui
http://www.scribd.com/doc/51873330

Repubblica 30.3.11
Tutte le strade portano a Caravaggio
di Lea Mattarella

Apre domani a Roma la mostra itinerante che accompagna il visitatore sulle orme del grande artista lombardo durante il suo soggiorno capitolino. Indirizzi, personaggi e aneddoti documentati della tormentata vita del pittore
Restò nella Città Eterna poco più di dieci anni,un periodo breve ma che rivoluzionò per sempre la sua arte

Poco più di dieci anni: è questo il tempo di Caravaggio a Roma. Vi arriva probabilmente nel 1595 (e non precedentemente, come si credeva prima del ritrovamento dei documenti oggi esposti all´archivio di Stato in sant´Ivo alla Sapienza nella mostra Caravaggio, una vita dal vero) e ne fugge nel 1606. Un periodo breve. Che però gli basta a rivoluzionare per sempre la pittura, mettendo in scena senza esitazioni il contrasto di luci e tenebre in una ricerca spasmodica di verità. 
Roma per Caravaggio significa l´apprendistato da Lorenzo Carli e dal Cavalier d´Arpino dove esegue e si distingue per i suoi "frutta e fiori", ma anche la frequentazione di ambienti intellettuali e raffinati come quello intorno al suo primo protettore, il cardinal Del Monte, alla famiglia Colonna, al marchese Giustiniani. È qui che avviene il contatto con la corrente pauperistica degli Oratoriani di san Filippo Neri.
E ancora: è a Roma che affronta per la prima volta commissioni importanti, ricevendo ammirati consensi, ma anche clamorosi rifiuti. Sappiamo che esegue due versioni sia del San Matteo e l´angelo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi che della Crocifissione di san Pietro e della Conversione di San Paolo per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. E un capolavoro come La morte della Vergine è respinto dai Carmelitani della chiesa di Santa Maria della Scala con la solita accusa di una supposta "mancanza di decoro". Anche la Madonna dei Palafrenieri, dipinta per la basilica di San Pietro, viene rimossa dall´altare della cappella a cui era destinata. Ma in questo caso sembra che il responsabile dell´ennesimo no detto all´artista sia Scipione Borghese. Ansioso di possedere un Caravaggio, il potente cardinale sarebbe stato l´occulto regista del rifiuto. E infatti il dipinto rinnegato finisce dritto dritto nella sua raccolta. Si deve ancora alle sue smanie collezionistiche il sequestro dei beni del Cavalier d´Arpino: un modo per accaparrarsi il Ragazzo con la canestra di frutta e il Bacchino malato, ancora oggi tra le maggiori attrattive della galleria Borghese a Roma. 
Ma la Città Eterna per il Merisi è anche il confronto con l´altro Michelangelo, il Buonarroti. Come se nel suo nome fosse già contenuto un destino, è con l´uomo simbolo del Rinascimento che Caravaggio decide di gareggiare: il braccio abbandonato del Cristo della sua Deposizione arriva da quello della Pietà scolpita dal maestro fiorentino per San Pietro, e le pale di Santa Maria del Popolo citano senza riserve quelle michelangiolesche della cappella Paolina. E poi ci sono i vicoli in cui si imbatte nei suoi personaggi, che arrivano diretti dalla realtà. Come la bella Lena, la modella della Madonna dei Pellegrini e dei Palafrenieri, a causa della quale ferisce un rivale. La sua è anche una vita violenta. "Quando ha lavorato un paio di settimane se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all´altra, molto incline a duellare e a far baruffa": così lo descrivono le fonti. Un giorno il duello diventa tragedia: uccide Ranuccio Tomassoni e, condannato a morte, scappa da Roma. 
Negli anni successivi, vissuti da braccato, raggiunge Napoli, la Sicilia, Malta. La sua pittura è sempre più drammatica e il suo stile si diffonde come un virus. Dove passa lascia schiere di "caravaggeschi". Ma lui sogna sempre di tornare a casa. Sta per farlo nel 1610, quando il pontefice decide di concedergli la grazia. Ma la morte è più veloce. Anche a creare la leggenda del pittore. Maledetto e illuminato.

Repubblica 30.3.11
Due ore a passeggio fra i luoghi del genio
Amici, nemici e passioni fra osterie, botteghe e dimore importanti. Dall´arresto in piazza Navona alla casa di Lena
di Francesca Alliata Bronner

Dall´arresto in piazza Navona ai litigi in osteria vicino al Pantheon per un piatto di carciofi fino al soggiorno a palazzo Madama, dimora all´epoca del cardinal Del Monte, che lo toglie dalla strada e gli dà accoglienza e protezione. Tutti a spasso nella Roma dell´artista più amato di tutti i tempi proprio per quel suo lato oscuro e turbolento che lo ha reso oggi paragonabile a un idolo rock per popolarità. Con questo spirito inaugura domani, Roma. Sulle orme di Caravaggio, due ore di passeggiata guidata da storici dell´arte, attraverso sette tappe e una ventina di luoghi del centro storico capitolino che hanno visto il maestro lombardo amare, fuggire, pregare, litigare fino ad uccidere, ma anche realizzare i suoi più grandi capolavori. Un´idea di Rossella Vodret, soprintendente speciale del polo museale della città di Roma, studiosa e appassionata del maestro, che ha pensato e curato l´itinerario, organizzato e coordinato da Mondomostre. 
«All´indomani delle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Caravaggio, (avvenuta il 18 luglio 1610 a Porto Ercole ndr ) - spiega la Vodret - la voglia di conoscere sempre di più "colori" e sfumature della vita di Caravaggio non si arresta». Da qui l´idea di mostrare ai visitatori (massimo 25 a gruppo), luoghi e aneddoti spesso sconosciuti o poco noti, ricostruiti dai documenti d´archivio e dalle mappe del ´600, in una Roma che ritroviamo quasi immutata. «Novità dell´evento - racconta Rossella Vodret - è che questa volta non sono le opere d´arte a spostarsi ma le persone in una sorta di viaggio nel tempo (a piedi) che ripercorre la vita tormentata del grande maestro in quegli intensi dieci anni romani, i più creativi in assoluto, riscoprendone i capolavori, ma soprattutto i luoghi più significativi». 
L´itinerario, segnalato da grandi totem, parte da Sant´Ivo alla Sapienza, dove è in corso la mostra Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, e prosegue verso Palazzo Madama, residenza del cardinal Del Monte (e di Caravaggio nei suoi anni giovanili) che aprì al Merisi, garzone di bottega, il mondo di intellettuali e mecenati. Si raggiunge poi piazza Navona, teatro di numerosi aggressioni e arresti che lo vedono protagonista: qui infatti viene fermato dagli sbirri per detenzione d´armi (portava con sé due compassi) in luogo pubblico nel 1598 e aggredisce, qualche anno dopo, il notaio Pasqualoni in difesa di Lena Antognetti, la donna-cortigiana amata nella vita e nell´arte dal pittore (con ogni probabilità è la modella sia della Madonna dei Palafrenieri che della Madonna di Loreto). Tra via della Scrofa e dintorni, ecco le botteghe più frequentate dal Caravaggio: il barbiere, il sellaio, il pellaio, la bottega di Lorenzo Carli, primo vero riferimento romano per l´artista. Ma anche osterie (alcune ancora esistenti) "farcite" di aneddoti curiosi fino ai campi di pallacorda che diedero il nome alla via, dove il maestro uccise Ranuccio Tomassoni dopo un´accesa discussione per una partita. Si giunge, infine, in vicolo del Divino Amore per scoprire ancora intatta la casa dove Caravaggio abitò nel 1605. Un anno prima della condanna per omicidio e della fuga, solo e malato, da Roma, dove non tornò più.


Avvenire 30.3.11
Il Sessantotto ha perso il pensiero 
Della filosofia di quel periodo non è rimasto niente, anzi per la verità non è mai esistita...
di Segio Givone

Della filosofia sessantottesca non è rimasto niente. Semplicemente perché tale filosofia non è mai esistita.
«All’epoca l’ideologia prevaleva di gran lunga sulla critica, perciò a uscirne massacrati furono proprio gli autori che il movimento aveva scelto per guide»

Naturalmente esistevano scuole di pensiero e autori in cui il Sessantotto cercò il proprio supporto ideologico. Ma siccome l’ideologia prevaleva di gran lunga sulla critica, a uscirne massacrati furono proprio gli autori che il movimento aveva scelto per maestri, anzi (visto che i maestri erano respinti), per guide. Più che leggere, i sessantottini citavano: e citavano Marx, naturalmente, oltre che Lenin e Mao, per non parlare di trovate o scoperte quasi surreali, come l’apprezzamento delle teorie linguistiche di Stalin. Marx veniva letto, si fa per dire, attraverso Garaudy e Althusser, e il risultato era inevitabilmente un cerchio quadrato. Althusser sottolineava nell’opera marxiana quella che secondo lui era una rottura epistemologica a partire dalla quale s’imponeva un nuovo paradigma scientifico e cioè la scienza come unico modello di prassi e di comprensione del mondo. Invece Garaudy portava a fondo il carattere utopico, profetico e messianico del marxismo, facendolo coincidere con una sorta di misticismo che anziché precipitare l’assoluto nella storia, innalzava la storia all’assoluto.
Come potessero coesistere due letture tanto diverse e contraddittorie, resta un mistero. A meno che a tentare quei marxisti immaginari, come qualcuno poi li chiamò, non fosse proprio l’idea che mistica e scienza in fondo fossero la stessa cosa... Idea peregrina fin che si vuole, ma dura a morire, se si pensa ai successivi teorici della politica come prassi che rispecchia il movimento oggettivo della realtà, in una parola prassi scientifica. Sia come sia, nel volgere di pochi anni il marxismo tramonta, letteralmente sparisce.
Per qualche tempo essere o non essere marxisti rappresentò la principale discriminante filosofica. «Siamo o non siamo marxisti...», era la premessa un po’ minacciosa e ricattatoria che aveva uno sgradevole sapore di anatema. Poi, più nulla che avesse a che fare con Marx, quasi un ripudio tacitamente condiviso e quindi irrecusabile. Né a tutt’oggi il marxismo, salvo qualche pallida rievocazione, è tornato ad affacciarsi all’orizzonte. Il Sessantotto non fu né soggetto né oggetto di filosofia. Non ha prodotto un suo pensiero autonomo. E neppure è stato pensato come evento filosofico.
Questo vale sia per la prima fase del movimento, sia per la sua involuzione tetra e violenta.
Specialmente di fronte all’uovo malefico che non è figlio del movimento, ma dal movimento è stato fatto schiudere, il terrorismo, la riflessione filosofica è apparsa disarmata e impotente. Per capirci qualcosa bisognerà far ricorso a pensatori della generazione precedente, come Sartre, ad esempio, il quale non esiterà ad applicare al terrorismo l’idea del sacrificio, segnalando come l’uccisione rituale di un membro del gruppo da parte del gruppo esprima l’essenza del terrore, la sua necessità, la necessità della sua «ripresa» – cosa che sarà messa in pratica alla lettera ogniqualvolta il terrore ricadrà su se stesso e si mostrerà figlio della disperazione piuttosto che di una disperata speranza. O addirittura a scrittori che con largo anticipo avevano intuito come funzionasse la logica del terrore, primo fra tutti Dostoevskij. Nondimeno il Sessantotto contribuì a suo modo a mutare le coordinate culturali. Fu (anche) per via di questa azione se il pensiero filosofico dell’epoca tentò nuove strade, incrociando i percorsi, operando commistioni e non rinunciando a forzature. In Francia il marxismo, attraverso Foucault e la sua archeologia del sapere, versione aggiornata della marxiana critica dell’ideologia, si sposa con lo strutturalismo, che poi, in Derrida, si rovescia nel suo contrario e dà luogo a un’ontologia negativa della memoria e della traccia. In Germania la Scuola di Francoforte troverà in Habermas il suo epigono e il suo affossatore. In Italia ci sarà chi, come Vattimo (e dietro Vattimo, poi, una legione) piegherà Nietzsche e Heidegger a una riconsiderazione tutta in positivo del nichilismo, restia a scoprirne il risvolto ombroso e maligno. Va detto che nessuno di questi autori può essere definito un sessantottino. Anche se, se non ci fosse stato il Sessantotto, il loro pensiero non sarebbe stato quello che è stato. Quanto all’impulso che dette l’avvio al movimento, esso mostrò ben presto la corda. La tendenza libertaria e, perché no, libertina che fece esplodere il fenomeno e ne accompagnò l’evoluzione fu presto svuotata di forza e di significato. Perfino la libertà sessuale, che fu salutata allora come una conquista e che ancora oggi si vuol considerare come il battesimo di una svolta epocale, diventò presto una cosa misera: una specie di dovere, un obbligo scolastico, una sofferenza aggiuntiva. Le comuni, che dovevano essere luoghi di esperienze formative e liberanti, assunsero presto tratti grevi, se non concentrazionari, e quando pretesero di diventare comunità, fu anche peggio. Vi imperava una curiosa mescolanza di lassismo e di moralismo. Enunciazioni di principio e massime largamente progressiste si convertivano per lo più in un’etica rigidamente prescrittiva, come se la preoccupazione dominante fosse sorvegliare, giudicare, e soprattutto omologare i comportamenti. Quel che stava accadendo né mi respingeva né mi coinvolgeva. Anni dopo, guardando vecchi spezzoni televisivi, avrei provato un po’ di tenerezza. Come se vi ritrovassi un po’ di vita vissuta, che vissuta allora non avevo per niente. Figuriamoci: a me interessava l’arte, interessava la religione... Precisamente ciò che i sessantottini pretendevano di liquidare come inutili ed equivoche sovrastrutture. Al contrario, io vi cercavo quei contenuti che la filosofia non poteva certo produrre da sé, ma che rappresentavano la solo giustificazione di una seria riflessione filosofica. La religione è cosa viva. Viva come può esserlo una sopravvivenza più o meno arcaica di prospettive che la filosofia della storia avrebbe tradotto in chiave secolare, quasi si trattasse di trapiantare in un corpo nuovo gli organi di un defunto? No, o la religione è viva e necessaria, o non è. Viva in quanto necessaria.
Nel senso che ci parla di cose di cui non possiamo fare a meno, ma soprattutto cose di cui solo la religione è in grado di parlare. Lo stesso vale per l’arte. 

IL TESTO La retorica del ciclostile e la liturgia delle parole

«Nelle parole d’ordine e negli scritti prodotti a getto continuo in ciclostile, per tacere delle discussioni assembleari da cui regolarmente scappavo, non c’era l’ombra di una ri flessione autenticamente filosofica. Era una specie di retorica, a volte an che ben congegnata, più spesso no. Probabilmente era anche dell’altro: qualcosa che aveva a che fare con una laica (laica?) liturgia della parola – liturgia ossessiva e non priva di tratti paranoici – piuttosto che con la filosofia». È una stroncatura in piena regola, quella che Sergio Givone (nella foto) pro nuncia contro il ’68 nel suo ultimo libro-in tervista a cura di Francesca Nodari, Il bene di vivere (Morcelliana, pp. 134, euro 10). Anche nel brano che qui riportiamo, il professore di Estetica all’Università di Firenze, già allievo di Luigi Pareyson a Torino, giudica severamen te «quel non-pensiero», dal quale però non a vrebbe mai pensato che «potesse nascere un pensiero impazzito e capace di generare au tentiche mostruosità».