Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
mercoledì 16 marzo 2011
l’Unità 16.3.11
Bersani al governo: «Da irresponsabili andare avanti senza aprire una riflessione»
Oggi interrogazione al ministro Prestigiacomo e mozioni per rinnovabili ed election day
«L’atomo è un’avventura senza senso. Fermatevi»
Oggi interrogazione al governo e mozione per sospendere il blocco degli incentivi sulle energie da fonti rinnovabili. Sul nucleare si divide il fronte dell’opposizione: Pd con Sel e Idv, Udc e Fli a favore dell’atomo.
di Simone Collini
Prima l’intervista all’Unità in cui Pier Luigi Bersani ha annunciato che il Pd sosterrà il referendum per abrogare la legge sul ritorno del nucleare in Italia, poi una nota della segreteria per chiedere al governo di «sospendere l’esame dei decreti per la localizzazione dei siti ove collocare le nuove centrali», per proseguire oggi con un’interrogazione che presenterà il capogruppo alla Camera Dario Franceschini e a cui dovrà rispondere il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Il Pd va all’offensiva sul nucleare, perché ritiene sbagliato il piano per il ritorno dell’atomo e perché è convinto che su questo fronte si può assestare un colpo non da poco al governo (e personalmente al premier, visto che insieme si voterà un quesito sul legittimo impedimento). «Di fronte al dramma del Giappone è veramente insensato che non ci sia da parte del governo un accenno alla riflessione, è un atteggiamento inaudito», dice Bersani conversando con i cronisti alla Camera. «L’opinione pubblica pretende, giustamente, almeno un momento di riflessione. Noi sosterremo il referendum perché il piano del governo è sbagliato, perché è una tecnologia non nostra ed economicamente non sostenibile, inoltre sulle scorie e sulla sicurezza restano interrogativi a cui bisogna prestare attenzione. In Italia quella del nucleare sarebbe un’avventura senza senso, perciò dico al governo: fermatevi e riflettete».
GOVERNO IRRESPONSABILE
Se al question time di oggi il ministro per l’Ambiente ribadirà quanto sostenuto ieri da quello per lo Sviluppo economico («È inimmaginabile che l’Italia torni indietro rispetto alla decisione di incamminarsi nel nucleare», ha detto Paolo Romani al termine della riunione sulla crisi nucleare in Giappone convocata dal commissario europeo per l’Energia Gunter Oettinger), il Pd andrà a testa bassa contro una scelta «da irresponsabili», come hanno scritto Bersani e gli altri membri della segreteria al termine della riunione di ieri. I Democratici contano sul fatto che i loro possibili alleati nel fronte antinuclearista vanno al di là dei soli Idv e Sel, che sono i promotori dell’iniziativa referendaria. Se questa battaglia avrà inevitabilmente delle ripercussioni nella strategia delle alleanze, visto che sia l’Udc che Fli sostengono sia un errore opporsi al ritorno dell’atomo, il Pd conta di incassare un risultato grazie anche alla netta contrarietà o alle profonde perplessità presenti tanto nell’elettorato quanto negli amministratori locali di centrodestra. Non c’è solo il sindaco di Roma Gianni Alemanno a chiedere «una riflessione molto seria» o il governatore del Veneto Luca Zaia a mandare un messaggio al governo («finché ci sarò io questa Regione non ospiterà centrali»).
Dal punto di vista dell’appartenenza politica, all’interno del Carroccio c’è un filone molto attento alla tutela del territorio e non a caso Daniele Marantelli, deputato Pd che vanta buoni rapporti con la galassia leghista, ha cominciato a sondare il terreno e ha confermato ai vertici del suo partito che molti sindaci “padani” sono pronti a schierarsi contro l’atomo; dal punto di vista degli enti locali poi, nessuna regione si è detta disponibile ad accogliere centrali. Questo, mentre il governo continua a rinviare l’esame del decreto che definisce i criteri per l’avvio delle centrali (ieri è saltata la seduta in Commissione Attività produttive e ambiente per assenza di esponenti dell’esecutivo).
Se poi il governo dovesse contare sul sostegno del mondo imprenditoriale per far fallire il referendum, è il ragionamento che si fa nel Pd, dopo il blocco degl incentivi sulle energie da fonti rinnovabili (decisione che colpisce molte aziende attive sia al Sud che al Nord) rischia di avere più di una delusione. Sarà proprio sulle rinnovabili che oggi Pd e Idv presenteranno una mozione, chiedendo di sospendere il decreto che colpisce i finanziamenti e puntando a mandare sotto l’esecutivo. L’altra mozione che verrà presentata è sull’election day, visto che accorpare amministrative e referendum renderebbe più facile raggiungere il quorum.
La Stampa 16.3.11
I “liquidatori” di Cernobil 600 mila eroi dimenticati che continuano a morire
Nell’aprile 1986 affrontarono il disastro quasi a mani nude
di Anna Zafesova
Il loro monumento funebre, uno per tutti, è a Mitino, maxicimitero alla periferia di Mosca: un «fungo» atomico con all’interno la statua di una figura umana che allarga le braccia, in un gesto disperato, quasi a voler fermare a mani nude il disastro. Sotto, ci sono 28 lapidi, e sotto ancora, a diversi metri di profondità, sotto una lastra di cemento, 28 bare di piombo. I tecnici e i pompieri che sono stati convocati a Cernobil la notte del 26 aprile 1986, per «spegnere un incendio», sono stati sepolti tutti insieme, in uno spazio isolato del cimitero: perfino i loro corpi erano radioattivi. Sono morti in pochi giorni, in un’agonia atroce, blindati in un’ospedale speciale di Mosca che, dopo la loro morte, è stato completamente ristrutturato. E mentre venivano sepolti, nella centrale nucleare devastata venivano inviati, da tutta l’Unione Sovietica, decine di migliaia di soccorritori: militari, operai, piloti, minatori, un po’ reclutati a forza ma molti volontari, per chiudere la voragine radioattiva che si era aperta nel sistema sovietico.
Sono stati in totale circa 600 mila, e 25 anni dopo portano il loro titolo di «likvidator», liquidatore, con un misto di orgoglio e rabbia. Hanno salvato migliaia di vite, senza pensare, e spesso nemmeno senza conoscere i rischi che correvano. I soldati di leva che spalavano il bitume radioattivo dal tetto della centrale protetti solo da mascherine di garza. I piloti di elicotteri che portavano il loro carico di cemento esattamente sopra la voragine del reattore esploso, per blindarlo. I minatori che scavavano i tunnel per impedire che le acque contaminate finissero nel bacino del Dniepr. Quelli che nei villaggi spiegavano alla gente che quel sole splendente di una primavera come non se ne erano viste da tempo, era mortale, e che dovevano andarsene subito, solo con quello che avevano addosso. Quelli che in una lotta contro il tempo costruivano il «sarcofago», il super-coperchio che avrebbe dovuto coprire il reattore esploso insieme con le scorie che produceva.
I tentativi di usare le macchine fallivano: troppe radiazioni, mentre gli esseri umani andavano avanti. I contatori Geiger che portavano addosso andavano in tilt dopo poche ore, e qualcuno li resettava: teoricamente, raggiunto un certo livello di radiazioni accumulate, i «liquidatori» avrebbero dovuto venire rispediti a casa, ma c’era ancora del lavoro da fare. Molti «likvidator» si erano arruolati a Cernobil per soldi, altri per l’avventura, ma il museo della centrale espone decine di lettere di persone che chiedevano di venire inviate volontarie «perché il Paese ha bisogno di me», «perché voglio essere utile».
Nessuno era consapevole dei rischi, né i liquidatori, né chi li mandava nell’inferno della «Zona» di 30 km intorno al reattore. Secondo l’«Unione Cernobil», l’organizzazione che cerca di tenerli uniti, 60 mila liquidatori, uno su dieci, oggi sono morti. Ma le autorità attribuiscono soltanto un paio di centinaia di questi decessi alle conseguenze delle radiazioni assorbite. La battaglia dei liquidatori per ottenere cure, pensioni, medicine, è arrivata fino alla Corte Europea di Strasburgo. E ora hanno contro anche l’Onu, che in un rapporto del 2005 ha quantificato in 57 le morti totali attribuibili al disastro di Cernobil (secondo Greenpeace, sono almeno 200 mila) e sostenuto che in Ucraina, Russia e Bielorussia «non esiste evidenza scientifica di aumento di mortalità dovuta agli effetti di radiazione».
l’Unità 16.3.11
Il naufragio. Parlano i sopravvissuti: «Nel nostro Paese abbiamo visto morire fratelli e sorelle»
2629 i migranti ora a Lampedusa. Ma il centro d’accoglienza non può ospitarne più di 800
«Il mare è pericoloso ma non c’è scelta: in Libia sparano... »
I cadaveri che riaffioreranno nei prossimi giorni saranno raccolti dai pescatori. «Ma alcuni li rigettano in mare sussurra un anziano se li dichiari rischi di stare fermo al porto per giorni e giorni... ».
di Manuela Modica
È di nuovo emergenza. Gli sbarchi di lunedì fanno precipitare Lampedusa nel caos. L’isola più a sud d’Italia, così vicina al nord Africa, accoglie più migranti di quanto non riesca a contenerne. Sono 2629, e il centro di accoglienza ha una capienza di solo 800 unità. Così che «siamo di nuovo punto e daccapo», dice Giusi Nicolini che offre i locali dell’Area marina protetta, per ospitarne 150, come aveva già fatto nei primi giorni di questa nuova ondata di migrazione quando il Cpsa era ancora chiuso. Un locale predisposto per convegni e mostre, con bagni da “ristorazione”. Lì dove gli albergatori, riuniti nel comitato spontaneo “Porta d’Europa”, si riunivano giovedì scorso per chiedere che i migranti non fossero più trasferiti sull’isola. Ne sono arrivati, invece, molti di più ad alimentare la paura di gente di mare che vive di turismo ma non riceve più prenotazioni, nonostante la stagione estiva sia ormai alle porte.
Così che il passaggio di Marine Le Pen, lunedì mattina, sembra aver aperto una settimana di “passione”, di nuovi disagi per gli abitanti dell’isola: «Come un oscuro presagio, commenta la Nicolini non sappiamo più cosa pensare: sembra studiato a tavolino. Così sarà difficile contenere la paura: è una situazione molto grave». Tanto grave che riapre ai migranti anche la "Casa della fraternità" della parrocchia di Lampedusa, che ne ospiterà 200, di nuovo. Situazione complicata anche dal meteo che blocca la nave per i trasferimenti della Siremar a Porto Empedocle lasciando lo ”svuotamento” dell’isola ai soli mezzi aerei. Pochi voli giornalieri, che possono trasportare un numero irrisorio: «Solo 270 oggi (ieri, ndr). È una situazione traumatica», spiega anche Cono Galipò amministratore del centro di accoglienza, i cui operatori sono ora a lavoro su tre centri contemporaneamente.
LE TRAVERSATE DELLA MORTE
Sono giorni difficili per gli abitanti dell’isola siciliana. Ma sono giorni drammatici ancora più per i tunisini che perdono nella traversata “fratelli” in mare proprio sotto i loro occhi. Navigano per giorni sfidando la morte, e perdendo. La “mano del mare”, l’altra notte, ne ha risucchiati 45 almeno. Sotto gli occhi di compagni di viaggio imbarcati su un altro mezzo. «Sono morti, morti», raccontano arrivati al molo Favaloro, dove si fermano per aspettarli, per capire se qualcuno di loro è stato tratto in salvo. Hanno fatto quel che potevano, hanno salvato chi di loro sapeva nuotare ed è arrivato vicino alla loro imbarcazione. Mani tese ad aiutarli, corpi bagnati. Sopravvivenza per i più fortunati. Per gli altri, il fondo del mare. Saranno forse riportati un giorno alla luce dai pescatori siciliani.
Così, infatti, accade a qualcuno. Al centro per anziani, nella via principale del paese, dove molti pescatori giocano a briscola raccontano: «Sì, a qualcuno di noi è capitato, ma capita di più ai pescatori di Pantelleria. E quelli magari li ributtano a mare. A dichiararli, finisce che stanno fermi al porto per giorni e giorni, per i controlli della guardia costiera. Così viene meglio ributtarli in mare, ha capito?».
Uno scenario macabro, dissonante dalle spiagge caraibiche dell’isola, dalla luce che abbraccia senza respiro questa piattaforma sul mare che sembra poter concedere solo vita, solo ristoro. Solo speranza a chi ha la morte anche alle spalle: «Abbiamo visto morire fratelli e sorelle. E ne muoiono ancora. Sparano, senza una ragione. Il viaggio fin qui è rischioso, ma restare lì lo è di più», Xavier, è sull’isola da 7 giorni, e dà voce a frasi che stonano con la giovane età: ha solo 22 anni. Quando arriva sull’isola è fatto d’acqua. Sul molo riceve la prima assitenza, una sorta di coperta – ricorda il domopack - d’oro che lo avvolge, che lo riscalderà in un istante. Lui non sfugge ai fotoreporter, alle telecamere, guarda dritto nell’obiettivo, si mostra così, con l’acqua in fronte, l’oro dello strano, miracoloso, involucro, che lo avvolge. Mostra così le sue traversie, senza imbarazzo, ma con espressione atona. Ai piedi non ha scarpe. E così sale sul pullman che con gli altri lo trasporterà al Cpsa. Alza la mano, mentre va via, in segno di vittoria. Per loro è una lotta vinta. Così entrano al centro di prima accoglienza, intonando un coro da stadio, interrotto dalle perquisizioni. Poi viene consegnata a questi vittoriosi di vita, una borsa con vestiti, dalle scarpe ai maglioni, più una ricarica di 5 euro per chiamare casa, e avvertire che sono vivi: ce l’hanno fatta. Sono nelle mani dell’Italia adesso, che però non sa che farne: «Dalla prefettura ci fanno capire che non sanno in realtà dove mandarli», racconta la Nicolini.
l’Unità 16.3.11
Intervista a Ibrahim Dabbashi
«Il raìs farà di Bengasi una nuova Srebrenica. Il mondo deve fermarlo»
L’ex diplomatico passato con gli insorti: «All’Onu bisogna battersi per linea dura di Parigi e Londra. All’Italia chiediamo più coraggio»
di U.D.G.
All’Italia chiediamo più coraggio, più determinazione. Chiediamo fatti e non parole. Perché sui fatti che sarà valutata dal popolo libico che si è rivoltato contro la dittatura di Muammar Gheddafi. Se il governo italiano non assumerà un atteggiamento più intransigente, ci saranno in futuro serie ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi, perché il popolo libico si libererà di Gheddafi. L’Italia deve cambiare atteggiamento».
A sostenerlo è uno dei diplomatici di primo piano che è passato dalla parte degli insorti: l'ambasciatore Ibrahim Dabbashi, numero due della delegazione libica alle Nazioni Unite. «Gli aiuti umanitari sono importanti ma non bastano. All’Italia – afferma Dabbashi – chiediamo di essere dalla parte di Francia e Gran Bretagna nel sostenere l’istituzione di una “no fly zone” sulla Libia. Procrastinare questa decisione, o osteggiarla nei fatti, significa fare il gioco di Gheddafi. Esserne complici». «Non abbiamo bisogno di aiuti militari, non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese – ribadisce l’ambasciatore Dabbashi il popolo libico saprà sconfiggere il regime di Gheddafi da solo. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una ‘no fly zone’, per evitare bombardamenti. Su questo chiediamo l’aiuto dei Paesi amici del popolo libico per bloccare il regime di Gheddafi dall’usare lo spazio aereo libico contro il suo popolo». Nella Comunità internazionale, come dimostra lo stesso vertice di Parigi dei ministri degli Esteri del G8, permangono divisioni in merito alla creazione di una “no fly zone” sulla Libia. «Divisioni e incertezze fanno il gioco del regime. Di questo occorre avere coscienza e di questo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Le parole non fermano gli aerei di Gheddafi. Con i suoi aerei, Gheddafi bombarda le città libiche, sposta armamenti pesanti e mercenari. Agli incerti in buona fede chiedo: ma come pensate di fermare quegli aerei? E come intendete fermare la mano di un dittatore che non ha esitato a far sparare contro chiunque è sceso in piazza per rivendicare diritti e libertà? Noi non chiediamo l’intervento militare di alcun Paese. Il popolo libico saprà sconfiggere il tiranno. Ma certamente abbiamo bisogno di aiuto per quanto riguarda il rispetto di una “no fly zone”, per evitare bombardamenti. E abbiamo bisogno di questo aiuto subito. Cosa altro si vuole che accada: un immane massacro a Bengasi? Si vuole che Gheddafi faccia di Bengasi la nuova Srebrenica?».
In questo scenario, cosa chiedete alla’Italia? «Più coraggio, più determinazione. Più fatti e meno parole. Gli aiuti umanitari sono importanti ma non è questa la priorità. All’Italia chiediamo di schierarsi con Francia e Gran Bretagna nel sostenere la “no fly zone”. A chiederlo è anche la Lega Araba».
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, rimanda ogni decisione in merito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite...
«Intanto dica chiaramente se l’Italia intende sostenere la “no fly zone” e appoggiare i Paesi che nel Consiglio di Sicurezza se ne fanno sostenitori. Non basta dire che nella Libia di domani non c’è posto per Gheddafi. Perché Gheddafi non se ne andrà mai di sua spontanea volontà, e si illude chi pensa che il problema sia garantirgli un salvacondotto e l’impunità per i crimini che ha commesso. Gheddafi è animato da uno spirito di vendetta. È accecato dall’odio. Parlare di un suo coinvolgimento per una transizione ordinata è un insulto alla ragione».
Gheddafi ha minacciato di allearsi con Al Qaeda... «Prima ha agitato lo spauracchio di Al Qaeda ora minaccia di allearsi con Osama Bin Laden...La logica è sempre la stessa: quella del ricatto. Gheddafi è abile in questo: ricatta o compra. Sta al mondo libero dimostrare di non voler subire ricatti e di non essere in vendita».
Ambasciatore Dabbashi, Lei insiste molto sul fattore tempo... «Mentre stiamo parlando, mentre la Comunità internazionale si arrovella attorno sul sì o il no alla “no fly zone”, gli aerei di Gheddafi continuano a colpire, a spostare armi e mercenari, a seminare morte e terrore. Pensino a questo coloro che frenano sulla “no fly zone».
il Fatto 16.3.11
Noi e la Libia
Siamo ancora in tempo per agire
di Paolo Flores d’Arcais
Gheddafi massacra gli abitanti della Libia e l’Occidente chiacchiera. Gheddafi sta riportando l’intero paese sotto la sua mostruosa dittatura grazie soprattutto al controllo totale dello spazio aereo, come hanno rilevato tutti gli osservatori. Sarebbe bastato bombardare gli aeroporti di cui il sanguinario dittatore si serve come base operativa. Il presidente francese Sarkozy ha buttato lì una frase, tanto per fare la notizia d’apertura nei tg, ma si è ben guardato dal fare sul serio. Chiacchiere, appunto. Il resto d’Europa nemmeno quelle, mentre Obama continua a lambiccarsi su “essere o non essere?” della “no-fly zone” e i ribelli ad essere mitragliati dal cielo. È quasi un mese che l’insurrezione è cominciata, l’Europa avrebbe potuto riconoscere ufficialmente almeno da due settimane il gruppo dirigente dei rivoltosi a Bengasi come unico legittimo interlocutore, unico rappresentante della Libia, e fornire ad esso gli armamenti e le strutture logistiche e informative necessari per fare fronte all’immancabile controffensiva del colonnello. Ogni giorno di traccheggio in più era oro incenso e mirra per il dittatore di Tripoli, questo lo capiva anche un bambino. L’Italia del trapiantato di Arcore è stata ignominiosamente all’avanguardia in questa riedizione di Ponzio Pilato, ignominia del resto ovvia visto che i due sono compagni di sontuosissime merende. I ribelli sono stati lasciati soli, e se continua così finirà in un bagno di sangue e nel ritorno ancora più spietato del tallone di ferro.
SPIACE che anche la voce delle piazze democratiche si sia sentita poco o niente, quasi che il destino di dittatura o di liberazione dell’intera Africa mediterranea sia esotismo che non ci riguarda. Perché è evidente che la soluzione in Libia eserciterà enorme influenza sugli equilibri ancora incertissimi in Egitto e Tunisia tra forze democratiche e forze del gattopardo, e su quanto accadrà o meno in Marocco e in Algeria. La democrazia non si esporta con l’invasione militare, ripetono con penosa sintonia bipartisan governi e opposizioni (e non è sempre vero, Hitler probabilmente sarebbe morto di vecchiaia nel Reichstag), ma da questo a non aiutare un’insurrezione popolare in atto, con armamenti e un minimo di supporto aereo, ce ne corre. La differenza si chiama viltà. La tragedia non si è ancora compiuta, l’Europa e l’Occidente possono ancora sostenere rivolte che coinvolgono strati giovanili e intellettuali anche fortemente laici. Non si meraviglino se, in assenza, la prossima insurrezione sarà più che mai fondamentalista.
il Fatto 16.3.11
Riformano i magistrati, non la giustizia
di Gian Carlo Caselli
La sedicente riforma della Giustizia ideata dal governo, non è un’operazione indolore per la sicurezza dei cittadini. Le ripercussioni negative sul versante delle indagini saranno tante. Anche per le inchieste di mafia. Chi studia l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori bancari, amministratori e uomini delle istituzioni (la cosiddetta “borghesia mafiosa”). Sempre più si infittiscono gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei colletti bianchi. I transiti di denaro sporco nell’economia illegale si intensificano. Spesso le istituzioni criminali e quelle legali si contrastano, ma senza volontà di annientarsi, nel senso che sono piuttosto alla ricerca di equilibri. Diventa sempre più difficile – allora – stabilire la linea di confine fra lecito e illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie e produttive. Per impedire che risuonino ancora oggi le parole di Giovanni Falcone circa il timore che “non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”, è necessario allora che le indagini di mafia siano condotte da una magistratura assolutamente autonoma e indipendente, nonché dotata di strumenti capaci di esplorare in profondità anche il lato oscuro e segreto delle mafie. Proprio il contrario di quel che risulta obiettivamente ricollegabile alla pseudo-riforma della Giustizia voluta dal governo. Una riforma che quand’anche abbia – come scopo di partenza – “solo” quello di vendicarsi dei magistrati, alla fine potrebbe causare risultati obiettivamente devastanti. Quanto meno finché la politica italiana continuerà a discostarsi massiccia-mente dagli standard europei con conseguenze da trarre – doverosamente – in caso di accertato coinvolgimento in comportamenti illeciti.
Una “spia” dei veri obiettivi della riforma si può trovare nel fatto che le novità si collocano tutte all’interno del titolo 4° della parte seconda della Costituzione. Questo titolo, che oggi è denominato “La magistratura”, nella riforma diventa “La giustizia”. Come volevasi dimostrare: si tratta di riformare i magistrati, non la giustizia. E non basta cambiare l’etichetta della bottiglia perché uno sciroppo diventi barolo. Ma torniamo agli effetti oggettivi della riforma. Possiamo prendere singolarmente – una per una – le modifiche in programma, oppure l’intiero pacchetto.
Le indagini in mano alla politica
SEMPRE avremo lo stesso identico risultato: il trasferimento del “rubinetto” delle indagini (cioè dei controlli di legalità) dalle mani della magistratura a quelle del potere politico, governo e/o Parlamento. Con conseguente riduzione degli spazi d’intervento autonomo della magistratura e quindi dei controlli indipendenti sulle violazioni di legge commesse dai potenti. Con il rischio anzi che tali controlli causino al magistrato coraggioso guai non di poco conto, dalle ispezioni ministeriali (addirittura elevate al rango costituzionale), alle bufere scatenate da quanti vorranno strumentalmente approfittare delle nuove norme sulla responsabilità dei magistrati.
L’analisi di alcuni punti della sedicente riforma offre decisive conferme, anche per le inchieste di mafia.
Il Csm riformato – la riforma prevede lo sdoppiamento del Csm, la riduzione del numero dei membri “togati”, la loro nomina col fantozziano sistema dell’estrazione a sorte (una grottesca lotteria che rappresenta anche una discriminazione mortificante, posto che i membri “laici” continueranno a essere eletti dal Parlamento in seduta comune), il divieto di adottare atti di indirizzo politico (cioè pratiche a tutela dei magistrati vilipesi perché scomodi). Viene di fatto azzerata la stessa ragion d’essere del Csm: governo autonomo della magistratura e tutela della sua indipendenza. Il magistrato che debba scegliere tra diverse opzioni, egualmente possibili nel perimetro dell’interpretazione della legge, non sentendosi più tutelato da un Csm ridotto ad organo di semplice amministrazione, ci penserà ben bene prima di esporsi alle rappresaglie impunite del potente di turno. Figuriamoci quale impulso potrà derivare alle indagini su quella vischiosa zona grigia che consente agli affaridi mafia di prosperare!
1) AZIONE PENALE E POLIZIA GIUDIZIARIA NELLE MANI DELLA POLITICA L’azione penale a parole resta obbligatoria, ma dovrà essere esercitata “secondo i criteri stabiliti dalla legge” , vale a dire che sarà la politica a stabilire chi indagare e chi no: ed è improbabile che essa mostrerà particolare zelo per gli intrecci tra pezzi del suo mondo e la mafia . Quali che siano tali criteri, poi, resta il fatto che non sarà più direttamente la magistratura a disporre della polizia giudiziaria, che pertanto prenderà ordini dal governo (ministero degli interni per la polizia di stato; difesa per i carabinieri; economiaperlaGdF).Lapolitica,in sostanza, avrà in mano il rubinetto delle indagini e potrà regolarlo col contagocce tutte le volte che ci sia il rischio di scoprire qualcosa di troppo degli “inquietanti misteri” di cui parlava Falcone.
2) ASSOLTI PER SEMPRE Con clamorosa violazione della “parità delle armi” tra accusa e difesa, mentre l’imputato condannato potrà sempre ricorrere in appello, il pm non lo potrà fare in caso di assoluzione dell’imputato, salvo che “nei casi previsti dalla legge”. Ora, sarà impossibile (per non perdere la faccia) che tra questi casi non rientrino i delitti di mafia, ma che ne sarà del cosiddetto “concorso esterno”? Senza questa figura è impensabile che si possano colpire anche le collusioni con la mafia, ma poiché il delitto non esiste (lo sostiene il presidente Berlusconi!), si può scommettere che sarà fortemente a rischio la possibilità per il pm di appellare le assoluzioni per “concorso esterno”: la linea di demarcazione fra lecito e illecito tenderà sempre più allo sfumato evanescente e per la cosiddetta “borghesia mafiosa” ci sarà da brindare.
3) L’INDIPENDENZA DEL PM “ABROGATA” PER LEGGE A spazzare definitivamente ogni possibile dubbio circa le effettive conseguenze della riforma provvede infine il nuovo – se approvato – art. 104 della Costituzione (quello che non a caso introdurrebbe la separazione delle carriere...), laddove stabilisce “che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza”. In sostanza, autonomia e indipendenza del pm non sono più valori di rango costituzionale tutelati dalla Carta fondamentale, ma optional rimessi alla legge ordinaria, che pertanto la politica potrà cambiare a suo piacimento senza neanche il fastidio delle procedure e delle maggioranze qualificate previste per le norme costituzionali. Vale a dire che la politica non avrà in mano soltanto il “rubinetto” delle indagini, ma avrà in sua balia direttamente il pm. Per cui è difficile pensare che vorrà orientarlo verso inchieste che potrebbero scoprire segreti inquietanti di colletti bianchi e/o politici per favori scambiati con la mafia o affari fatti insieme. Ed è persino superfluo notare che tutto ciò che colpisce in prima battuta il pm avrà inevitabilmente un effetto domino sui giudici: perché se al pm non è consentito indagare su certe materie, esse non arriveranno mai sul tavolo del magistrato giudicante.
Un pericolo che non si può correre
COME si vede, gli scenari futuri sono cupi e se si vuole che la lotta alle mafie non rischi di diventare un esercizio di facciata, ma sia un’azione incisiva, la riforma costituzionale in cantiere dovrebbe essere riconsiderata: perché le conseguenze negative che ne potrebbero obiettivamente derivare (obiettivamente: anche a prescindere dall’orientamento di questa o quella maggioranza politica contingente) costituiscono un pericolo da non correre. A Potenza, nella XVI Giornata antimafia della memoria e dell’impegno, organizzata da Libera per il 19 marzo, si discuterà anche di questo.
Corriere della Sera 16.3.11
Italia da Terzo Mondo? Duello Terragni-Bonino
di Maria Luisa Agnese
Emma Bonino, unica italiana inserita nella freschissima lista di Newsweek delle 150 donne che hanno scosso il pianeta, va a New York invitata al summit Women in the World 2011, e scuote le donne italiane. Perché ha l’ardire di dire in quell’internazionale consesso che dopo le grandi battaglie degli anni Settanta le donne italiane si sono sedute e come ripiegate, ricacciate nel privato: «Dopo quel periodo fantastico è cominciato un lungo sonno, e l’immagine della donna è stata rimodellata su valori tradizionali: da una parte madre e moglie perfetta che pulisce; bella fanciulla dall’altra» ha detto Bonino. Subito rimbrottata da Marina Terragni, giornalista e femminista, impegno a sinistra ma mente libera che ha scritto sabato sul Foglio: «Sono furibonda perché Bonino, celebrata da Newsweek nella categoria donne combattenti nel Terzo Mondo — tra cui l’Italia— ha onorato il riconoscimento concionando di oppressione femminile assieme a un’egiziana, un’iraniana e una saudita, tutte oppresse a pari merito» . Oltremodo infastidita, Terragni, da quell’aria giudicante che spesso all’estero inalberano quando si tratta di noi, si dice tentata da una class action versus Bonino che avrebbe commesso una leggerezza accettando una diminutio così plateale e planetaria del nostro Paese. Insomma: non è esagerato metterci fra i Paesi del Terzo Mondo riconoscendo un’emergenza Italia pari a quella del Ruanda? E difatti parlando con il Corriere Terragni aggiunge: «Bonino non è un’opinionista ma la vicepresidente del Senato: è giusto andare a rappresentare in questo modo il Paese che si governa? E poi è in politica da decenni, dovrebbe assumersi la sua parte di responsabilità» . Sconcertata dall’attacco, Bonino dice di non capirne la sostanza: «Non è chiaro se Terragni vuol dire che è possibile criticare la situazione delle donne in Italia, ma non all’estero, o se invece addirittura ritiene perfetta la situazione delle donne in Italia» . Cui contrappone la forza dei numeri che vogliono l’Italia in fondo alle classifiche mondiali, e ricorda che pure Hillary Clinton nel suo discorso ha detto che anche nei Paesi avanzati c’è ancora molto da fare, e dirlo non è affatto vergognoso.
Corriere della Sera 16.3.11
Sorelle Mai La famiglia Bellocchio sul set: una trama tutta da «inventare»
Figli, zie e attori veri in una non-storia con molti spunti
di Paolo Mereghetti
Non è da tutti trasformare un’esercitazione scolastica in un film d’autore. Marco Bellocchio c’è riuscito, con i rischi che un’operazione di questo tipo comporta, e il risultato è adesso sotto gli occhi di tutti, dopo un primo assaggio alla Festa di Roma del 2006 e la proiezione fuori concorso a Venezia 2010. Work in progress, dunque. E non è detto che non debba assumere altre forme negli anni a venire, visto che all’origine c’è il lavoro fatto ogni estate con gli allievi del corso «Fare cinema» che il regista tiene a Bobbio, «terra natale» della famiglia Bellocchio che proprio qui ha una casa di proprietà già utilizzata per I pugni in tasca. Le puntualizzazioni sono importanti per sgombrare il campo da alcune possibili aspettative: Sorelle Mai (con la maiuscola: Mai non è avverbio ma cognome, anche se con inevitabili sfumature contenutistiche) non è un tradizionale film di finzione. Racconta sì una «storia» — quello che accade durante alcune estati nella casa avita di Bobbio— ma lo fa con una libertà che potrebbe anche disorientare lo spettatore che si aspetta la tradizionale struttura di un film. Alla fine non ci sono risposte certe. Così come all’inizio non si hanno domande chiare. Tutto è solo accennato, fatto intuire, suggerito. A complicare le cose, poi, contribuisce anche il coinvolgimento in prima persona dei familiari, che non solo si prestano a recitare ma portano anche una parte di sé nella definizione dei propri ruoli. Che cosa fa davvero Giorgio interpretato da Pier Giorgio Bellocchio (il primogenito del regista)? L’aspirante attore? L’eterno fidanzato che vorrebbe mettere la testa a posto? L’attore affermato, come si direbbe dallo spezzone della Balia che si vede (realmente interpretato da Pier Giorgio)? O lo scavezzacollo che cerca soldi in prestito? O il regista, come lascia intuire l’ultima scena? La presenza nel film dell’altra figlia del regista, Elena (che interpreta la figlia di Sara, affidata a Donatella Finocchiaro) aiuta a scandire il passare del tempo con le sue trasformazioni da bambina ad adolescente, in parallelo con lo scorrere delle estati a Bobbio (il film utilizza le riprese effettuate per il corso del 1999 e poi quelle fatte dal 2004 al 2008). Ma già la presenza delle due autentiche sorelle di Marco, Letizia e Maria Luisa Bellocchio, assume valenze più sfumate. Perché se da una parte il regista affida loro un ruolo a metà tra l’autobiografico (i ricordi dell’infanzia, della madre) e l’ironico (le gag sulla cappella del cimitero), dall’altra le usa come «materia viva» per ripensare al suo film d’esordio, montando in parallelo le pratiche quotidiane della famiglia (la preghiera al cimitero, la preparazione della tavola) e la loro reinvenzione per il film. E anche l’utilizzo di attori professionisti, come la Finocchiaro o Alba Rohrwacher, nei panni di una professoressa divisa tra dovere professionale e dolori sentimentali (nella scena di uno scrutinio dove il preside è interpretato da un altro Bellocchio, il fratello Alberto), finisce per complicare la struttura del film piuttosto che semplificarla. Ogni personaggio apre nuove possibilità di svolgimento a una storia complessa e «multipla» , e nello stesso tempo funzionale alla sua origine «didattica» . Perché ogni personaggio, ogni situazione, ogni singola scena sono tutti possibili spunti di lavoro per un ipotetico «fare cinema» (come appunto si chiamano i corsi estivi); sono idee di storie e di caratteri che un film più tradizionale avrebbe tesaurizzato e sviluppato e che invece Bellocchio regala e «disperde» , offrendoli alla fantasia dello spettatore. Come se ognuno dovesse costruirsi la propria trama e la propria storia, privilegiando ora questa ora quella situazione. Un’ipotesi di lavoro, questa, che il misterioso finale con Gianni Schicchi Gabrieli (un altro volto noto della filmografia bellocchiana, a metà tra l’amico di famiglia e l’attore) non fa che confermare e rilanciare.
il Riformista 16.3.11
Bellocchio-Bertolucci Sarà la mostra anti B?
Laguna. Müller vuole la coppia di cineasti per premio alla carriera e pre- sidenza della giuria. Ma i nomi dei maestri del cinema, considerati icone aSnti-berlusconiane, non sono ancora stati ufficializzati. Garbo verso Bondi?
di Michele Anselmi
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Corriere della Sera 16.3.11
Professor Tremonti, ci ripensi (forse così può salvare la cultura)
di Ernesto Galli della Loggia
C onfesso di nutrire simpatia per il ministro Tremonti. In un Paese di «piacioni» e di politici falsamente alla mano, il suo atteggiamento sempre un po’ ironico, quando addirittura non sprezzante, la sua incontenibile propensione a infischiarsene del bon ton democratico, e viceversa a salire in cattedra (impartendo lezioni di solito tutt’altro che stupide), sono cose apprezzabili. Insomma, oltre che simpatia ho anche stima del professor Tremonti. Proprio per questo mi riesce difficile capire come sia possibile che una persona della sua qualità non si renda conto che il modo in cui sta sottraendo risorse alle attività e ai beni culturali porta virtualmente l’Italia alla rovina. Non è un’espressione esagerata, questa. Almeno quella parte antica o antichissima del Paese che ci viene dal nostro passato (gli edifici, il patrimonio delle biblioteche e dei musei, le aree archeologiche) sta infatti andando letteralmente a pezzi o precipitando in un’incuria che finirà ineluttabilmente per cancellarla. Così come si sta restringendo progressivamente la nostra possibilità di fare musica, teatro, cinema. Non si tratta di ambiti separati. Alla fine la cultura— vale a dire ciò che fa l’uomo più umano— è infatti una cosa sola. Tra gli Uffizi e Cinecittà, tra la Scala e un museo di strumenti musicali, tra la Biblioteca Marciana e il Teatro greco di Taormina, esiste una corrispondenza misteriosa, un dialogo segreto attraverso i secoli che, allacciatisi in queste contrade, hanno prodotto risultati ineguagliati. E che noi, italiani di questa generazione, dobbiamo sentire la responsabilità di non interrompere. Invece— come ha detto Andrea Carandini annunciando l’altro ieri le sue dimissioni dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali— «una parte del Paese sta affondando se stessa» . Sono sicuro che Giulio Tremonti tutte queste cose le sa bene. Ed è la ragione che mi spinge a vincere quel timore di apparire patetico da cui si è irresistibilmente presi quando si parla di certe cose ad un politico italiano. «Sai che ci capisce e che gliene importa» , uno pensa subito. Invece credo che Tremonti capisca, e che in un modo e in una misura che non conosco gliene importi anche. Ma i numeri sono contro di lui: a cominciare dagli ulteriori 77 milioni (27 allo spettacolo, 50 a tutto il resto) tolti negli ultimi giorni alla dotazione del ministero dei Beni culturali. Cifre inquietanti a cui ne aggiungo solo pochissime altre, rimandando al libro dei nostri Stella e Rizzo, Vandali, chi volesse avere un panorama più completo e agghiacciante del disastro. Basti dire, dunque, che i fondi attualmente a disposizione del suddetto ministero ammontano appena allo 0,21 per cento dell’intero bilancio dello Stato (erano lo 0,34 solo pochi anni fa). Per la tutela dell’intero patrimonio storico-archeologico-artistico il nostro Paese stanzia la cifra ridicola di 50 milioni di euro (il Louvre da solo ne impegna 227!). Siamo arrivati al punto che sempre a scopo di tutela l’amministrazione italiana è ridotta a impiegare un archeologo ogni 34 kmq di terreno archeologico (per i circa 50 ettari di Pompei c’è un solo archeologo), e uno storico dell’arte o un architetto ogni 57 edifici tutelati. In complesso, a causa del mancato rimpiazzo, l’amministrazione dei Beni culturali vede oramai il proprio personale tecnico, amministrativo e di sorveglianza diminuire ogni anno di circa 800 unità. Chiedo a Tremonti: dobbiamo proprio rassegnarci a questa situazione? Come italiano, lui si rassegna? Gli pare ammissibile? Glielo chiedo in tutta sincerità, non retoricamente. E glielo chiedo immaginando bene, tra l’altro, tutte le ragioni di fastidio o addirittura di cordiale antipatia che uno come lui può nutrire per il mondo che gravita intorno alla cultura: è perlopiù, infatti, un mondo popolato di gente quasi tutta di sinistra — spesso, per giunta, di quella più conformista, ipocrita e doppiopesista che ci sia; è un mondo abituato a spendere infischiandosene disinvoltamente della risposta del pubblico e della tenuta dei conti; è un mondo, infine, pervaso da un bieco corporativismo sindacale. Tutto vero (almeno in parte. E almeno secondo me). Ma proprio per questo mi viene da dire: gli faccia un dispetto, professor Tremonti, a questo mondo. Gli faccia vedere che anche il ministro di un governo di destra può avere a cuore le sorti del cinema, dei musei, delle biblioteche. Cerchi di fare qualcosa. Dopotutto, le assicuro, ci sono anche gli italiani non di sinistra, i quali proprio tutti analfabeti non sono. E poi alla fine, se proprio non bastasse, c’è l’Italia: il cui interesse, se ben ricordo, lei dovrebbe aver giurato di difendere.
il Fatto 16.3.11
Nella terra di papi non c’è posto per papà
Nel libro “Cosa resta del padre?” Massimo Recalcati racconta la scomparsa di colui che sa unire. E non opporre la legge al desiderio
di Elisabetta Ambrosi
Da “Padre” a “papi”. Questo semplice passaggio lessicale (provate a pronunciare le due parole a voce alta notando la differenza di solennità nel suono) racconta un cambiamento epocale. Quello che va “dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso”, nelle parole di Massimo Recalcati. Nel nuovo libro Cosa resta del padre? la paternità nell’epoca ipermoderna, lo psicoanalista lacaniano utilizza con originalità categorie analitiche per leggere la società. E sostiene che la vicenda delle papi-girls riassume in forma pura i valori oggi imperanti: “Il denaro elargito come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di sé senza rinuncia, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili, l’opposizione ostentata nei confronti della Legge, il rifiuto di ogni limite e l’assenza di pudore”.
UNA TESI che nulla ha a che fare con la condanna moralistica. In realtà questo insieme di comportamenti produce in chi li pratica, a partire da Berlusconi, sicura angoscia e infelicità. Come guarire? La strada suggerita da Recalcati per tornare a desiderare sembra una cattiva notizia per il premier: la castrazione. Ma solo simbolica, ovviamente: nel senso della presenza di qualcuno che ponga confini e divieti alla possibilità di godere di tutto. In breve, papi, per essere felice, avrebbe bisogno di un Padre. Quel ruolo che non è riuscito pubblicamente ad incarnare, il Padre della nazione, rivestendo al massimo quello dello zio ricco e scapestrato che diseduca i figli altrui. Attenzione, però: secondo Recalcati Berlusconi rappresenta l’espressione più spudorata di una sceneggiatura che riguarda soprattutto noi, sul piano privato e pubblico. E che sarebbe bene rileggere con cura, perché scorrendola con attenzione noteremo che la scomparsa di uno dei principali protagonisti del passato, il Padre (e insieme a lui la Legge), – ucciso dai colpi inferti sia dalla sua estremizzazione mostruosa durante il nazifascismo, che lo ha reso una caricatura inutilizzabile, sia dalle grida studentesche del ’68 – è una sciagura.
I MOTIVI sono due: il primo è che la Legge, posta dal Padre, non costituisce una minaccia del desiderio, anzi ne rappresenta la condizione. Una tesi davvero fuori moda e pure un po’ ardita per chi, da psicoanalista, dovrebbe curare le ferite di precoci e insensati divieti. Eppure, come ormai gran parte della teoria clinica va dicendo, oggi gli individui (cittadini e pazienti), sono cambiati e i sintomi che causano loro sofferenza non sono più quelli che affliggevano l’austera borghesia viennese. Al contrario, le psicopatologie sono sempre più l’effetto della scomparsa di qualsiasi divieto, che autorizza al godimento artistico e seriale e conduce all’infelicità. Anche qui, il moralismo non c’entra nulla. Provate a immaginare visivamente, sembra suggerire l’autore, una terra senza alcun confine, senza alberi, fiumi, montagne, sentieri che conducono da un punto all’altro. Il risultato sarà uno smarrimento mortale, lo stesso che produce il consumismo: una “fede nell’oggetto come rimedio al dolore di esistere”, che invece ci restituisce quel dolore nella sua forma più acuta. Il secondo motivo per cui la scomparsa del Padre è un male è perché il Padre è colui che dovrebbe trasmettere al figlio la più preziosa delle eredità: la capacità di desiderare. Per spiegare in che modo possa riuscire nel compito, occorre rapidamente addentrarsi nella mitologia psicoanalitica: il Padre ha la funzione di proibire ciò che l’Edipo di Sofocle realizza, l’incesto con la Madre.
TRADOTTO per tutti, genitori e non: la sua funzione dovrebbe essere quella di aiutare il figlio alla dolorosa separazione dal paradiso terrestre rappresentato dalla fusione “emblema di un godimento assoluto e senza mancanze” che si realizza nella pancia e poi durante l’allattamento. “Non puoi ritornare da dove sei venuto!”, deve ricordare il Padre. Se questa operazione viene a mancare, perché la madre vuole anch’essa restare fusa con il figlio quest’ultimo sarà incapace di desiderare. Il desiderio comporta separazione, esodo, erranza e insieme l’esperienza che non tutto è a portata di mano, che l’oggetto del nostro amore sfugge al possesso.
Il Padre, dunque, è colui che sa unire e non opporre, la Legge al desiderio, ammansendo sia Kant che Sade. E proponendo una nuova alleanza tra i due, che impedisca sia che il desiderio degeneri “nell’inconsistenza dissipativa del godimento”, sia che si restauri “l’ordine della morale repressiva e patriarcale”. Certo, la parola del Padre inizialmente è un trauma, ma un trauma benefico, comunque necessario, perché oltre che condizione del desiderio, il divieto ci consente di accedere alla dimensione sociale, dove incestuosità, violenza, tracotanza sono vietati. Pena l’impossibilità a convivere.
Come può oggi il Padre trasmettere il desiderio? Per Recalcati oggi non resta che una possibilità, quella che finalmente ci autorizza a parlare di padre con la “p” minuscola: unicamente attraverso la propria testimonianza di vita, che non può avere valore universale né ideale, ma solo singolare. Non il Padre, ma i tanti padri. Che non sono necessariamente quelli biologici, ricorda lo psicoanalista contro ogni possibile uso ideologico della sua teoria. Chiunque infatti può essere padre (biologico e non, ma persino maschio o femmina ), a patto che sappia svolgere la funzione di cui la nostra società ha un bisogno disperato: interdire il desiderio, ponendo i confini; incarnare il desiderio nella propria esistenza; infine gestire con sapienza il conflitto che questo ruolo inevitabilmente comporta.
La Stampa TuttoScienze 16.3.11
Misteri
Ecco l’altro Tutankhamen E’ il “faraone d’argento”
“Nella sua tomba inviolata i segreti dell’Età oscura dell’Egitto”
Un grande re del Nilo
di Gabriele Beccaria
IL TEAM DI ARCHEOLOGI «Nonostante una grave malattia, governò per quasi mezzo secolo»
Momento sbagliato e pubbliche relazioni catastrofiche. E così nessuno ha mai sentito nominare Pierre Montet, mentre tutti hanno orecchiato almeno una volta l’avventura dell’irrequieta coppia Lord Carnavon-Howard Carter, e il faraone d’argento è stato eclissato dal faraone d’oro: 70 anni di oblio, che solo adesso cominciano a sgretolarsi: al Cairo c’è chi prepara una resurrezione e una serie di rivelazioni.
Quando l’archeologo francese penetrò nella tomba intatta di Psusennes I, a Tanis, nel delta del Nilo, era il 1940: la Seconda guerra mondiale stava travolgendo l’Europa e la notizia sensazionale di una scoperta pari solo a quella di Tutankhamen, che aveva tenuto con il fiato sospeso mezzo mondo nel 1922, precipitò in poche «brevi» di giornale. C’erano altre questioni a cui pensare e Montet raccolse in fretta e furia un tesoro di argento e lapislazzuli, lo portò al museo del Cairo e ritornò tristemente in patria. Le sue casse si richiusero sui reperti di una storia straordinaria appena riportata alla luce - come nel celebre finale di «Indiana Jones e l’Arca dell’Alleanza» - e sarebbero rimaste sigillate in un sotterraneo per decenni. Se è mai esistita una maledizione di Tutankhamen, questa dev’essersi abbattuta sul suo «collega» della XXI dinastia, un lontano successore di tre secoli più tardi: il faraone ragazzino sembra non aver tollerato l’idea di dividere la celebrità postuma e il record di unico signore dell’Egitto scampato alle razzie dei ladri.
Ancora oggi la sua maschera d’oro e il corredo funebre di statue e gioielli monopolizzano lo stupore dei turisti, mentre Psusennes I rimane relegato in una sala secondaria, come un alter ego a cui tutto sia andato storto: una tomba modesta invece di una attentamente scolpita e affrescata, al posto del sarcofago d’oro uno d’argento, niente mummia, ma solo lo scheletro e al posto degli «ushabti», le effigi in miniatura capaci di dare una mano nell’Aldilà, mucchi ormai scomposti di pietre preziose e metalli. Colpa delle offese inferte dal clima umido, opposto a quello secco che ha preservato le meraviglie della Valle dei Re, ed effetto di un’epoca ancora più turbolenta di quella in cui visse brevemente Tutankhamen, nota tra gli storici come «L’età oscura», segnata da una guerra civile che spaccò l’Egitto, segnato dalla rivalità tra sovrani e sacerdoti.
Ora, però, i misteri del vecchio re - il cui nome originale, Pasibkhanu, significava «La stella che appare nella città» - stanno finalmente svelandosi, come se il maleficio del rivale si fosse incrinato. La sua stella torna a lanciare un baluginio e il merito è di un gruppo di ricercatori - Salima Ikram, Fawzy Gaballah e Peter Lacovara - che ha ripreso in mano il «dossier» che si credeva perduto: studiando le ossa, analizzando le iscrizioni e i cartigli custoditi nella tomba e rimettendo insieme tante testimonianze sparse, hanno fatto una serie di scoperte (di sicuro non ancora finite). Psusennes era un tipo ben piantato a piuttosto alto per l’epoca, 1 metro e 66: per quanto piagato da una malattia reumatica e da una progressiva ossificazione dei legamenti, riuscì a sopravvivere anche al trauma della frattura della settima vertebra e, salito al trono nel 1047 prima di Cristo, regnò per un periodo che dev’essere apparso a lui e ai sudditi interminabile: 46 anni. Morì ottantenne, sebbene quasi completamente sdentato, quando la vita media non superava i 35 anni.
Non solo lungo, ma segnato da continui colpi di scena. Psusennes, oltre a combattere i nemici del Sud, a Tebe, si scatenò contro le forze della natura. Di fronte al declino della città diPi-Ramesse, realizzata un paio di secoli prima da una celebrità, Ramses II, e nell’XI secolo a.C. preda dell’insabbiamento di un ramo del Nilo, ordinò il trasferimento dei templi e dei palazzi a Tanis, in un’area più ospitale del Delta. Ancora più impegnativo fu contrastare i semi della rivolta che proprio il potente predecessore aveva seminato: alternando forza militare e reti di alleanze in stile tribale, fece sposare una figlia al sommo sacerdote di Karnak (che era il fratello del faraone stesso!) e a farsi attribuire il titolo di «Gran Sacerdote di Amon-Ra».
Grazie alla pace, o all’armistizio, Psusennes I rimpinguò le casse statali e potè dedicarsi al compito più importante: una sepoltura adeguata per il viaggio nell’aldilà. Raccolse grandi quantità di oro, pietre e lapislazzuli (fatti arrivare dall’attuale Afghanistan) e si fece preparare un sarcofago-capolavoro, ma di argento massiccio e non d’oro, com’era tradizione. Perché? Ecco la risposta degli studiosi: vista la difficoltà di lavorazione, voleva dimostrare agli dei il suo potere tentacolare su uomini e cose. Oggi sappiamo che la missione è stata compiuta e il biglietto per l’immortalità conquistato.
Le nuove ricerche Dopo la clamorosa scoperta nel 1940, i reperti di Psusennes I sono stati dimenticati per 70 anni
La Stampa 16.3.11
BHL, la prevalenza del philosophe
Dal gossip alla politica estera, in Francia ovunque ti giri c’è Bernard-Henri Lévy. E ora approda anche al cinema
di Alberto Mattioli
Potere al pensiero. Come se fossimo ancora nel Settecento degli enciclopedisti, la Francia continua a idolatrare i suoi «philosophes», continuamente sollecitati da televisioni, giornali e riviste per opinioni prêt-à-penser su qualsiasi ramo dello scibile, dall’ultima teoria ermeneutica al nuovo reality show, dalla cultura alla cottura di un soufflé. Del resto, qui il Philosophie magazine vende come non venderebbe in nessun’altra parte del mondo: 50 mila copie al mese.
Ma il re dei «philosophes», il «philosophe» più «philosophe» di tutti, il «philosophe» al quadrato resta lui, anzi Lui: Bernard-Henri Lévy, per tutti BHL. È ovunque. Come ti giri, c’è. Deborda dalle pagine dei giornali seri, specie Le Point , dove la sua rubrica è la preghiera laica dei devoti «bhliani». Tracima in quelle dei settimanali gossippari, ghiotti della sua movimentata vita privata. E adesso approda anche al cinema, dove avrà i tratti spiegazzati di Bob Geldof, la popstar benefica che un po’ lo ricorda ma non può certo competere con la filosofica eleganza con la quale il pensatore ottimo massimo porta i suoi capelli brizzolati e le sue celebri camicie bianche, imitatissime benché inimitabili.
Il film nasce dal terzo romanzo, assai autobiografico, della figlia di BHL, la scrittrice Justine Lévy. In Mauvaise fille (Figlia cattiva), Justine parla del padre, riconoscibilissimo sotto l’identità fittizia della popstar George, e della lunga agonia della madre, la modella Isabelle Doutreluigne, prima moglie di BHL, che nel film sarà Carole Bouquet: primo ciak il 4 aprile a Parigi. Doveva diventare un film, ma poi non se n’è fatto niente, anche il precedente libro di Justine, il bestseller Rien de grave (Niente di grave), nel quale la figlia di BHL raccontava il suo difficile rapporto con il primo marito, il filosofo Raphaël Enthoven, che non voleva figli e la convinse ad abortire. Il matrimonio finì quando Raphaël scappò con Carla Bruni non ancora Sarkozy, all’epoca fidanzata del padre di lui, Jean-Paul Enthoven, a sua volta miglior amico di BHL. Enthoven junior ebbe poi con Carlà quel figlio, Aurélien, che non aveva voluto dalla moglie. Da qui i commenti piuttosto piccati della Lévy sulla Bruni, che in Rien de grave viene definita «Terminator».
Anche il padre, nonostante i 62 anni che ovviamente porta benissimo, non accenna a calmarsi. BHL ha infatti appena messo fine al suo terzo matrimonio, con l’attrice Arielle Dombasle, che ha lasciato per la nuova musa Daphne Guinness, ereditiera dell’omonima birra ed eroina dei due mondi (furoreggia tanto nei salotti di Parigi quanto in quelli di New York), formando così una nuova coppia dal glamour quasi insostenibile. 1991-2000 2001-08
Liquidata la crisi matrimoniale, il sua figlia) e a convincerlo a riconosceNostro si è subito tuffato in quella li- re gli insorti anti-Gheddafi come lebica, dove sta giocando uno strano gittimi rappresentanti del popolo libiruolo di ministro degli Esteri ombra, co. Cosa che Sarkò ha fatto spiazzaninedito per la Francia dove lo Stato è do completamente il ministro degli ancora una cosa seria. A Bengasi per Esteri vero Alain Juppé che ha appreun reportage, è stato lui a telefonare so la notizia dalle agenzie e, ovviaa Sarkozy (cioè l’attuale marito della mente, non ha gradito. Tanto più che donna con la quale scappò quello di i partner della Francia a tutti i livelli (Ue, Nato e Onu) si sono ben guardati dal seguirne l’esempio.
Poco male: un giorno sì e l’altro pure, preso da furore interventista (sembra D’Annunzio nel maggio radioso), BHL inveisce contro Gheddafi chiedendo embarghi e bombardamenti. Ieri, parlando in un inglese molto personale (i francesi detestano che si maltratti la loro lingua, ma massacrano tranquillamente quelle altrui), si è fatto intervistare da Al Jazeera sull’inevitabile sfondo della Torre Eiffel. E, vantando l’azione di BHL per interposta Francia, gli è scappata un’espressione molto lontana dal suo consueto linguaggio fiorito: «D’ora in avanti per i governi europei sarà molto difficile fare dei “blow-jobs” ai dittatori arabi» (serve tradurre? Beh, allora diciamo che «blow-job» significa «fellatio»). Inutile dire che l’esilarante sequenza è subito diventata una delle più cliccate del web. E così adesso BHL dilaga anche su Internet.
Corriere della Sera 16.3.11
Opponetevi ai tiranni L’appello coerente di Benjamin Constant
Quarant’anni in difesa della libertà
di Mauro Barberis
C’era una volta il liberalismo «puro» , la sua Bibbia era La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, e il suo profeta era Benjamin Constant. Da vecchio, Benjamin aveva rivendicato di aver «difeso per quarant’anni lo stesso principio: libertà in tutto, in religione, filosofia, letteratura, economia, politica» ; e ancora all’inizio degli anni Ottanta Louis Girard poteva chiedere al sottoscritto: c’è ancora qualcosa da dire su Constant? Il giorno dopo iniziavo la lettura dei manoscritti repubblicani conservati alla Bibliothèque Nazionale di Parigi, riscoperti mezzo secolo fa e dai quali è tratta anche la famosa conferenza del 1819: ma bastarono poche ore per accorgersi di quanto ancora ci fosse da dire. Quando pronuncia la conferenza, nel febbraio 1819, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche di marzo che lo avrebbero portato alla Camera, Constant aveva già un grande avvenire dietro le spalle. Era ancora il protestante svizzero che all’indomani del Terrore aveva scelto di stabilirsi nella Francia rivoluzionaria, di difendere la fragile repubblica direttoriale e di combattere il regime napoleonico, pagando con l’esilio; ed era già una delle teste pensanti dell’opposizione ai Borboni restaurati. Detto altrimenti, 25 anni di sconfitte e di vorticoso cambiamento dei regimi politici non gli avevano fatto cambiare idea: i suoi avversari erano sempre gli ultras monarchici e i notabili opportunisti. Lui stesso, del resto, non era affatto un estremista; benché da posizioni di minoranza, si era sempre rivolto al pubblico moderato e non aveva mai disperato della ragione. La stessa conferenza, del resto, si sviluppa in tre mosse quasi obbligate, per chi conosca l’autore e il contesto. Prima mossa: in piena Restaurazione, l’oratore rende omaggio alla «nostra felice Rivoluzione» ; la Rivoluzione francese, naturalmente, e quale se no? Seconda mossa: il conferenziere esalta la libertà dei moderni, o civile, che Isaiah Berlin, oltre un secolo dopo, chiamerà negativa. È la libertà liberale, distinta tanto dalla libertà costituzionale, à la Montesquieu, quanto dalla libertà «positiva» o democratica, à la Tocqueville. Del resto, ne aveva già parlato il maestro politico di Constant, il rivoluzionario Sieyès: presso i moderni, che popolano nazioni estese e praticano il commercio, la democrazia diretta è destinata a essere sostituita dalla democrazia rappresentativa, e gli individui a essere difesi dal cerchio magico dei diritti. Ma la sorpresa, per chi crede nel luogo comune del liberalismo puro, viene dopo, nella terza mossa, come si legge nella bella traduzione di Giovanni Paoletti: «La libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è di conseguenza indispensabile» . Di qui in poi, si trova solo l’esaltazione della libertà politica, «il mezzo più possente e il più energico di perfezionamento che il cielo ci abbia dato» ; soprattutto, di qui in avanti l’unico pericolo denunciato non sono più i vecchi spauracchi giacobino e monarchico, ma un nuovo dispotismo fatto di «pregiudizi per spaventare gli uomini, egoismo per corromperli, frivolezze per stordirli, rozzi piaceri per degradarli» : rispetto a oggi, manca solo la televisione. Liberalismo puro? Ma già don Benedetto (Croce)— senza aver potuto leggere né gli inediti, né i cinquanta volumi delle Oeuvres complètes in corso di pubblicazione presso l’editore tedesco Niemeyer— aveva capito benissimo dove la conferenza volesse condurre l’audience dell’epoca: non chiudetevi in casa, andate a votare contro il governo. La stessa lettura è poi divenuta non maggioritaria, ma pacifica dopo la pubblicazione degli inediti: basta leggersi i libri di Étienne Hofmann, Stephen Holmes, Lucien Jaume, Tzvetan Todorov nonché, in Italia, di Paoletti e del sottoscritto. Se si può trarre una morale da questa storia è che il liberalismo non è mai stato puro: si è sempre messo dalla parte degli individui e delle minoranze, contro qualsiasi potere. Come ha scritto Gaetano Salvemini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti» .
Corriere della Sera 16.3.11
L’inquieto Orwell interroga ancora oggi il cinismo della storia
Una critica spietata del conformismo
di Sandro Modeo
A un primo impatto, molti degli scritti non narrativi di George Orwell (Nel ventre della balena e altri saggi, in edicola sabato con il «Corriere» ) sembrano dominati da una tonalità sgradevole, come se il loro scopo fosse di scardinare l’assetto, più o meno risolto, della nostra quotidianità: di mettere in discussione l’auto-indulgenza con cui siamo arrivati a una difficile mediazione con la vita. Ci chiediamo: a chi appartiene la voce insinuante di quegli scritti? A un moralista? O, al contrario, a uno scettico amorale? A uno psicoanalista che fruga non richiesto nelle nostre rimozioni? Poi, senza poter smettere la lettura, sentiamo quella sgradevolezza trasformarsi via via in un’occasione: nella possibilità di riesaminare le nostre illusioni e disillusioni, di «misurare» fino in fondo le ragioni della nostra speranza e del nostro cinismo. Il versante immediato di questo invito è politico. Da un lato, in coerenza sia con la sua narrativa (La fattoria degli animali e 1984, trasfigurazioni distopiche della dittatura sovietica), sia col suo memorabile reportage di guerra (l’Omaggio alla Catalogna, in cui denuncia, pur avendo combattuto coi repubblicani, le colpe degli stalinisti spagnoli), Orwell imputa alla sinistra europea di aver voluto essere, fin dal 1933, «antifascista senza essere antitotalitaria» . Dall’altro, in coerenza col suo credo tra liberale e social-democratico, attacca i cantori acritici del capitalismo: «Tra i motivi di fondo di Marx potevano ben esserci stati l’invidia e il disprezzo, ma ciò non prova che le sue ragioni fossero errate» . Allo sbocco di questo doppio disincanto (senza mai cedere al fatalismo, a un realismo che coincida con la resa), Orwell vede così come obiettivo del disegno socialista «non tanto quello di rendere il mondo perfetto, ma solo di migliorarlo» . La patologia politica di una società, però, per lui non è separabile da quella culturale. In particolare, tratteggia un sarcastico quadro «etologico» della società letteraria inglese, facilmente esportabile e di lunga veduta, specie se si pensa che molti di questi saggi risalgono ai secondi anni Quaranta, cioè a poco prima che Orwell morisse (di tubercolosi) a soli 46 anni. Presagendo una crisi della letteratura e del romanzo tra i nuovi media, Orwell toglie a ogni «attore» della scena il suo alibi prediletto: ai lettori quello del costo dei libri, esortandoli ad ammettere che la lettura è svago «meno eccitante» del cinema o del pub; ai critici quello di avere «moglie e figli» , esigenza che non giustifica l’emissione di «complimenti stucchevoli» a tanti libri mediocri, complimenti che hanno «lo stesso valore del sorriso di una prostituta» ; e ai politici, ai professori e ai giornalisti quello di un confortante conformismo, che li porta a usare una corriva vaghezza stilistica— gergo, enfasi, similitudini logore— «come fa la seppia col suo inchiostro» . Quanto agli scrittori, più che gli avvertimenti diretti (l’ironia sulle prime «scuole di letteratura» ), la vera lezione arriva dallo spietato auto-scavo (Perché scrivo) in cui Orwell vede la scrittura come una «dolorosa malattia» : una lotta inesauribile tra le ragioni dell’impegno civile e quelle dell’estetica, tra il desiderio di «cambiare l’idea altrui» e la soggezione al «piacere dell’impatto di un suono con un altro» , tra l’espressività e la precisione. Come si possa arrivare alla «quadratura» di una simile tensione lo mostra proprio questa raccolta, in cui troviamo complessi chiaroscuri critici (da Swift a Henry Miller), inaspettati abbandoni autobiografici (Giorni felici, penetrazione nel mondo «subacqueo» dell’infanzia) e un lotto di sconvolgenti racconti giovanili. Niente di più adeguato, come congedo, dell’Elogio del rospo, dello schiudersi dei suoi occhi dorati dopo il letargo. In realtà, è un elogio della primavera, descritta nel suo preannunciarsi per minimi rintocchi naturalistici («un azzurro più intenso tra due comignoli» ) come fossero un dono fantastico e inaspettato delle cadenze cosmiche; tanto più inaspettato dopo inverni particolarmente duri e prolungati. Più che una metafora, è un’apertura: l’invito a non rimuovere, insieme all’utopia, anche lo slancio della speranza, o almeno quello della possibilità.
il Fatto 16.3.11
Il nuovo portale Treccani.it
Online 60 anni di sapere
di Federico Mello
L’aveva già detto in altre occasioni, Giuliano Amato, presidente dell’Istituto Treccani: “Se Diderot vivesse oggi farebbe l’enciclopedia su Internet”. Non sappiamo se l’illuminista padre dell’enciclopedia sarebbe andato online nel-l’epoca di Wikipedia. Ma di certo oggi, a digitalizzare il sapere, ci sta provando seriamente l’Istituto Treccani che non a caso ha scelto la vigilia dell’anniversario dell’Unità per lanciare il suo nuovo por-tale Treccani.it , completamente ripensato e ridisegnato, online da ieri. Realizzato in collaborazione con Banzai Consulting, promette di essere una manna per studenti, cittadini, navigatori e studiosi affamati di cultura e conoscenza. A fare la differenza, innanzitutto, è il motore di ricerca interno, un motore semantico che ordina i risultati in base alla rilevanza dei risultati (un po’ come fa Google). Grande attenzione anche alle singole voci che hanno una nuova (e più chiara) formattazione e link interni. Dalla home page, si può cercare un lemma nell’enciclopedia (sono in tutto 150 mila), nel vocabolario (tra 127 mila voci) o nel dizionario biografico (sono 25 mila le biografie). Ma ci sono anche percorsi di navigazione arricchiti da foto e citazioni, e valorizzati da “tag” che raggruppano per argomenti le varie voci. Il sito, infine, contiene una sezione community per gli utenti, una sezione scuola, una web-tv, e una rassegna stampa quotidiana con gli articoli più significativi nel campo dell’arte, della cultura e dell’editoria. Tutto è gratis. E tutto è così bello da non sembrare vero. “Come sosterrete il sito?” hanno chiesto ieri i giornalisti in conferenza stampa. “In futuro potremmo implementare dei servizi a pagamento” ha risposto l’amministratore delegato Franco Tatò. In prospettiva, appare molto dispendiosa la mole di lavoro necessaria a mantenere su alti livelli un portale del genere. Ci si penserà in futuro (come succede sempre sul web). Ora gli inter-nauti tutti possono godersi questa sorella maggiore di Wikipedia e i 60 anni di sapere che porta online.
Corriere della Sera 16.3.11
Svolta della Treccani: tutta in Rete e gratis
Amato: oggi lo farebbe anche Diderot, vogliamo diffondere ancora più cultura
di Paolo Conti
ROMA — Per il 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia l’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani investe sulle nuove generazioni e presenta www. treccani. it, l’ «Enciclopedia degli italiani» , secondo la definizione dell’amministratore delegato Franco Tatò, interamente online. Non un semplice restyling del vecchio Portale ma una vera e propria rifondazione con uno storico e coraggioso passaggio dell’Enciclopedia Italiana in rete e gratuita: 150.000 lemmi, 127.000 voci del vocabolario, 25.000 biografie contenute nel Dizionario biografico degli italiani, monumentale opera che impegna da anni l’Istituto e a lungo ancora lo impegnerà. Tutto liberamente consultabile. Annuncia il presidente dell’Istituto, Giuliano Amato: «La nostra è una sfida che ci consente di diffondere ancora più cultura di quanto abbiamo fatto fino a oggi, un vero e proprio servizio a un numero sempre più vasto di utenti. Credo che se oggi un Diderot decidesse di creare la prima enciclopedia lo farebbe su Rete. La Treccani ha segnato la storia d’Italia per buona parte dei 150 anni che celebriamo. Ora entra nei 150 anni futuri e si rivolge alle generazioni che ne saranno protagoniste con l’immutata qualità del suo lavoro culturale» . Di fatto il sito (partner tecnologico e web è «Banzai Consulting» con «Liquida» e «Label formazione» ) si propone come un motore di ricerca di alto profilo culturale, inevitabilmente alternativo a quelli più utilizzati, il primo tra i quali è Wikipedia. Tatò nega ogni rivalità: «Non c’è alcun duello, noi stessi ospitiamo voci di Wikipedia laddove non arriviamo perché non possiamo proporre proprio "tutto"» . L’operazione ha richiesto tre anni di lavoro e un investimento di due milioni di euro. La vera novità sta nel sistema di consultazione che, sottolinea il direttore editoriale dell’Enciclopedia Massimo Bray, è insieme statistico e semantico: «Quello semantico usa la base-dati della lingua italiana Treccani e quindi offre risposte molto più pertinenti di un motore localizzato da una lingua straniera. Non aggrega solo per frequenza d’uso delle parole, e facendo quindi emergere i significati più utilizzati, ma presta attenzione al valore intrinseco della risposta, alla sua validità scientifica » . All’Enciclopedia assicurano che verrà garantito una sorta di «presidio della qualità» per preservare il marchio nonostante la gran mole di dati online. Altra novità sarà la web tv che permetterà agli utenti di formulare quesiti articolati in varie discipline e di ottenere una risposta articolata, qualche giorno dopo, con un intervento di un esperto. La navigazione sul Portale Treccani offrirà percorsi arricchiti da foto, citazioni, immagini e rinvii a voci collegate. Quindi continui suggerimenti operativi per possibili approfondimenti. Chiarisce Amato: «Ci saranno ancora opere che punteranno sulla carta, soprattutto quelle relative all’arte e specificatamente quelle di pregio. Proseguirà naturalmente il lavoro enciclopedico. Ma si possono e si devono raggiungere sempre più utenti, e questo sarà possibile solo online. In conclusione si procederà su un doppio binario, come già avviene col Dizionario biografico, i cui prodotti vengono messi subito in Rete appena pronti e poi pubblicati con il metodo tradizionale, seguendo il criterio alfabetico» .
L’Osservatore Romano 16.3.11
La spiritualità degli angeli e l'associazione Opus Sanctorum Angelorum
Quelli che vedono la faccia del Padre
Con data 2 ottobre 2010, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha inviato ai presidenti delle Conferenze episcopali una lettera circolare sull'associazione Opus Angelorum, lettera poi pubblicata ne "L'Osservatore Romano" del 5 novembre 2010, a pagina 5. In questa lettera, la Congregazione informa, in particolare, sull'approvazione dello Statuto dell'Opus Sanctorum Angelorum da parte della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e sull'approvazione della "formula di una consacrazione ai SS. Angeli per l'Opus Angelorum" da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sembra pertanto opportuno illustrare brevemente la spiritualità di quest'Opera dei santi Angeli, la quale, così come si presenta oggi, è "un'associazione pubblica della Chiesa in conformità con la dottrina tradizionale e le direttive della Suprema Autorità, diffonde la devozione nei riguardi dei SS. Angeli tra i fedeli, esorta alla preghiera per i sacerdoti, promuove l'amore per Cristo nella Sua passione e l'unione ad essa" (Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede).
Qual è dunque la spiritualità di quest'associazione? E qual è stato il suo cammino fino allo stato attuale cui si riferisce la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede? L'Opus Sanctorum Angelorum è nata a Innsbruck (Austria) nell'anno 1949. La signora Gabriele Bitterlich, sposa e madre di tre figli, è stata all'origine di questo movimento. Dall'anno 1949, ha sviluppato una coscienza personale sempre più chiara che il Signore Gesù Cristo voleva che i fedeli venerassero e invocassero di più i santi angeli e si aprissero al loro potente aiuto. Da autentica cristiana, però, sempre ha professato di sottomettersi in tutto all'autorità della Chiesa. In quegli anni, questa autorità era il vescovo di Innsbruck, monsignor Paulus Rusch, con il quale è rimasta sempre in contatto. A partire dall'anno 1961, l'Opus Angelorum si è esteso in diversi Paesi del mondo. Così, dall'anno 1977, è stata l'autorità suprema della Chiesa a esaminare le dottrine e pratiche particolari dell'Opus Angelorum.
Con l'approvazione del movimento, la Chiesa ha riconosciuto la fondamentale validità dell'intuizione fondatrice della signora Bitterlich, ma d'altra parte ha anche rilevato, nel considerevole insieme dei suoi scritti, diverse dottrine e, in particolare, "teorie... circa il mondo degli angeli, i loro nomi personali, i loro gruppi e funzioni", "estranee alla S. Scrittura e alla Tradizione", le quali "non possono servire da base alla spiritualità e all'attività di associazioni approvate dalla Chiesa" (cfr. decreto Litteris diei della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 giugno 1992). Poiché l'Opus Angelorum ha obbedito alla Chiesa abbandonando quelle dottrine e le loro conseguenze pratiche, essa si presenta oggi a pieno titolo come un movimento ecclesiale chiamato a collaborare, mediante il proprio carisma, alla missione evangelizzatrice e salvatrice della Chiesa.
La base della sua spiritualità è dunque la Parola di Dio, la quale si trova nella Sacra Scrittura e nella tradizione viva della Chiesa, che sono autenticamente interpretate dal magistero. Una sintesi della dottrina del magistero riguardo al mondo angelico si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (Ccc, cfr. pp. 328-336, 350-352).
Vi si legge, in primo luogo, che "l'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede" (Ccc, 328). "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che "vedono sempre la faccia del Padre... che è nei cieli" (Matteo 18,10 ), essi sono "potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola" (Salmo 103, 20)" (Ccc 329); "sono creature personali e immortali" (Ccc 330).
Gesù Cristo non è solamente il centro degli uomini, ma anche degli angeli: "Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono "i suoi angeli"... Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui... Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza" (Ccc 331). "Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio" (Ccc 332). Perciò, questo servizio si riferisce allo stesso Verbo incarnato e al suo Corpo sulla terra, la Chiesa. "Dall'Incarnazione all'Ascensione, la vita del Verbo incarnato è circondata dall'adorazione e dal servizio degli angeli... Essi proteggono l'infanzia di Gesù, servono Gesù nel deserto, lo confortano durante l'agonia, quando egli avrebbe potuto da loro essere salvato dalla mano dei nemici come un tempo Israele. Sono ancora gli angeli che "evangelizzano" (Luca 2,10) annunziando la Buona Novella dell'Incarnazione e della Risurrezione di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, saranno là, al servizio del suo giudizio" (Ccc 333).
"Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell'aiuto misterioso e potente degli angeli" (Ccc 334). "Nella Liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza ..., e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi)" (Ccc 335).
Così, "dal suo inizio fino all'ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. "Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita"". Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio" (Ccc 336). Con ragione quindi la "Chiesa venera gli angeli che l'aiutano nel suo pellegrinaggio terreno" (Ccc 352).
La particolarità dell'associazione Opus Sanctorum Angelorum consiste nel fatto che i suoi membri portano la devozione ai santi angeli a quello sviluppo pieno che si manifesta e si rende concreto in una "consacrazione ai santi Angeli", in modo simile a quello verificatosi nella storia della Chiesa nei riguardi della devozione al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore immacolato della Madonna (consacrazione al Cuore del Signore Gesù e di sua Madre).
Attraverso la consacrazione all'angelo custode si entra nell'Opera dei santi Angeli. La consacrazione ai santi Angeli è fatta da quei membri che vogliono impegnarsi di più per i fini spirituali del movimento. Questa consacrazione è intesa come un'alleanza del fedele con i santi angeli, e cioè, come un atto cosciente ed esplicito di riconoscere e prendere sul serio la loro missione e posizione nell'economia della salvezza. Come molte spiritualità hanno le loro espressioni tipiche, ad esempio il Totus tuus" di Giovanni Paolo II, così la spiritualità della consacrazione ai santi Angeli nell'Opus Angelorum potrebbe caratterizzarsi con le parole "cum sanctis angelis", cioè, "con i santi angeli" oppure "in comunione con i santi angeli".
Infatti, nella fede e nella carità teologale è possibile una "convivenza" dei fedeli con i santi angeli come veri amici (cfr. san Tommaso, Summa Theologiae II-II, q. 25. a. 10; q. 23, a. 1, ad 1.) e così anche una intima collaborazione spirituale con loro per i fini del disegno salvifico di Dio nei confronti di tutte le creature (cfr. Efesini 1,9-10; Colossesi 1,15-20; Giovanni 12,32; 17,21-23; Apocalisse 10,7; 19,6-9), giacché da parte loro è garantita la cooperazione per tutte le nostre opere buone (cfr. Ccc 350: "Ad omnia bona nostra cooperantur angeli, gli angeli cooperano ad ogni nostro bene (san Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 114, 3, ad 3)".
Questa convivenza e collaborazione spirituale dei fedeli con i santi angeli, in cui consiste proprio, secondo lo Statuto summenzionato, la "natura" dell'Opus Angelorum, richiede ovviamente non solamente la fede e l'amore ai santi angeli - in primo luogo al proprio angelo custode - ma anche l'applicazione prudente dei criteri di "discernimento degli spiriti". Qui viene a proposito la seguente spiegazione che si trova nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (pagina 162: commento ad un dipinto di Jan Van Eyck, riprodotto alla pagina precedente): "Come nella visione della scala di Giacobbe - "gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (cfr. Genesi 28,12) - gli angeli sono dinamici e instancabili messaggeri, che collegano il cielo alla terra. Tra Dio e l'umanità non c'è silenzio e incomunicabilità, ma dialogo continuo, comunicazione incessante. E gli uomini, destinatari di questa comunicazione, devono affinare questo orecchio spirituale, per ascoltare e comprendere questa lingua angelica, che suggerisce parole buone, sentimenti santi, azioni misericordiose, comportamenti caritatevoli, relazioni edificanti".
L'Opus Angelorum si fonda sulla prontezza incondizionata di servire Dio con l'aiuto dei santi angeli e ha come finalità il rinnovamento della vita spirituale nella Chiesa con il loro aiuto nelle cosiddette "direzioni (o dimensioni) fondamentali" di adorazione, contemplazione, espiazione e missione (apostolato).
L'aiuto degli angeli e l'unione degli uomini con essi permettono a quest'ultimi di vivere meglio la fede e anche di testimoniarla con più forza e convinzione. I santi angeli, infatti, contemplano continuamente la faccia di Dio (cfr. Matteo 18, 10) e vivono in costante adorazione. In modo particolarmente efficace possono quindi illuminare i fedeli che si aprono coscientemente alla loro azione, i quali fedeli sono da loro aiutati a contemplare nella fede i divini misteri: Dio stesso e le sue opere (theologia e oikonomia, cfr. Ccc 236), a crescere così nella conoscenza e nell'amore di Dio, a rimanere alla Sua presenza e realizzare un'adorazione particolarmente reverente e amorevole, dedicandosi alla maggiore glorificazione di Dio. L'adorazione, specialmente l'adorazione eucaristica, occupa, quindi, nell'Opus Angelorum il primo posto.
Come lo stesso Signore Gesù Cristo è stato fortificato dal Padre celeste attraverso un angelo per sopportare la passione redentrice (cfr. Luca 22,43), così i membri dell'Opus Angelorum confidano sull'aiuto dei santi angeli per seguire Cristo con carità espiatrice per la santificazione e salvezza delle anime, e particolarmente per i sacerdoti. Perciò, c'è nell'Opus Angelorum anche il pio esercizio della Passio Domini, cioè un tempo di preghiera settimanale (giovedì sera e venerdì pomeriggio), in cui i membri si uniscono spiritualmente al Redentore nel mistero della sua passione salvifica. Cristo crocifisso e risorto è, infatti, il centro tanto degli uomini quanto dei santi angeli.
Con l'approvazione dell'Opus Sanctorum Angelorum, la Chiesa ha dato la benedizione a un movimento che si caratterizza, certo, per una devozione peculiare ai santi angeli, ma anche ed essenzialmente - in conformità con le proprietà caratteristiche degli angeli - per un orientamento assoluto verso Dio e il suo servizio, verso Cristo Redentore, la croce, l'Eucaristia, a gloria di Dio e per la santificazione e salvezza delle anime. Davvero, la coscienza viva della presenza e dell'aiuto misterioso e potente dei santi angeli, servi e messaggeri di Dio, è atta a spingere i fedeli a dedicarsi con fiducia alla prima e sostanziale missione della Chiesa: la salvezza delle anime a gloria di Dio.