lunedì 14 marzo 2011

Repubblica 14.3.11
Anna Finocchiaro: la riforma è figlia del risentimento, ci riporterà allo Statuto albertino
"È propaganda, il Pd non ci cadrà vogliono l´arbitrio dell´esecutivo"
La piazza di sabato è stata bellissima. Grazie a Ciampi per la riscoperta del Tricolore
di Giovanna Casadio


ROMA - «Questa riforma della giustizia è semplicemente inaccettabile. È frutto del risentimento personale di Berlusconi. Altro che innovazione, è una restaurazione». Anna Finocchiaro è la presidente dei senatori del Pd, però parla con una competenza in più, essendo stata magistrato.
Senatrice Finocchiaro, l´offerta di dialogo di Alfano sul processo breve come la giudica?
«Quello che il Guardasigilli dice non è la verità. Il processo breve, a cui Alfano pensa, è una tagliola: serve al premier, non a dare celerità e efficienza alla giustizia. Sarebbe efficace se inserito in una riforma complessiva del processo penale e se, solo come norma conclusiva, fosse introdotta la prescrizione».
Il suo partito è accusato di voler restare sull´Aventino, benché una riforma della giustizia sia necessaria.
«Il Pd sa con molta chiarezza che ci sarebbe bisogno di una profonda riforma per fare in modo che la giustizia italiana funzioni. E noi non ci siamo mai sottratti, anche rispetto a una riforma costituzionale. Un passo indietro va fatto, anche per sfatare molte delle sciocchezze che sento dire. La Bicamerale aveva l´idea forte della giurisdizione unica e cioè dell´autonomia e dell´indipendenza di tutte le magistrature non solo di quella ordinaria; nessuna separazione delle carriere; la disciplinare affidata a un organismo esterno composto con gli stessi criteri con cui si scelgono i giudici della Consulta. Un quadro avanzato».
Il testo varato dal governo non ha proprio nulla che la convinca?
«Con la riforma berlusconiana torniamo allo Statuto albertino. Ricordo anche il protocollo di Copenhagen del 1993, con il quale l´Europa stabilì l´indipendenza della magistratura tra i requisiti che si chiedevano ai paesi dell´est per l´ingresso nell´Unione: anche in questo modo si "testavano" quei paesi. E ora è l´Italia ad arretrare. Se questo stravolgimento della Costituzione entrasse in vigore, il pm sarebbe ridotto a un ufficio regolato da leggi ordinarie, non dalla Carta. Ecco perché la riforma è inaccettabile».
Ma il Pd, come dice Casini, non fa un "errore politico" ad arroccarsi?
«Casini la pensi come vuole, noi non siamo arroccati, non stiamo salendo sull´Aventino. Presenteremo il nostro piano e le nostre proposte. Ma una riforma costituzionale figlia di un risentimento personale, come può essere presa in considerazione seriamente? Tenuto conto che sposta le lancette dell´orologio indietro di più di 150 anni. Si tratta di una manovra politica e propagandistica. È un rischio per la democrazia. Bombarda innanzitutto il principio della tripartizione dei poteri, del loro equilibrio e della loro separazione. Quando il ministro Alfano parla di arbitrio dei magistrati, dimentica che l´arbitrio sta diventando la misura dell´agire del potere esecutivo. Che è appunto arbitrario nel momento in cui rifiuta di essere controllato dal Parlamento, dalla Consulta, dal presidente della Repubblica, dalla magistratura».
Rifiuto di ogni dialogo, quindi?
«Non disertiamo certo le aule parlamentari, lasciando che le cose si facciano nella nostra assenza. Noi saremo lì, in Parlamento per adottare norme sensate e utili».
La Costituzione va difesa in ogni modo, anche scendendo in piazza?
«La mobilitazione di sabato è stata bellissima, con i Tricolori a sventolare. A Ciampi, che si è battuto per restituire al Tricolore il suo valore di simbolo dell´unità nazionale, dobbiamo dire un grande grazie. I cittadini inoltre devono sapere che se, malauguratamente, questa riforma fosse approvata noi tutti saremmo meno liberi, meno garantiti e meno uguali».

Repubblica 14.3.11
L'indignazione necessaria per salvare la democrazia
di Guido Crainz


La riforma della giustizia è stata presentata da Berlusconi come una dichiarazione di guerra alla magistratura. L´indifferenza può essere il suo più grande alleato

Neppure l´oppositore più prevenuto avrebbe potuto attribuire a Berlusconi le parole che ha realmente pronunciato presentando il suo progetto sulla giustizia: con questa legge - ha detto - non vi sarebbero mai state le indagini di Mani pulite. In altri termini, non sarebbe mai stato rivelato ai cittadini il degrado etico-politico che ha portato all´agonia e al tracollo della "Prima Repubblica". Il premier ha aggiunto: desidero questa legge dal 1994.
Cioè dal momento in cui il suo populismo antipolitico ha potuto affermarsi sulle macerie di un sistema partitico minato dalla corruzione e incapace di rinnovarsi.
Perché Berlusconi ha voluto e potuto proclamare ad altissima voce opinioni e propositi che anni fa sarebbero stati vissuti dal sentire comune del Paese come un vero e indecente vulnus?
Perché, anche, ha fatto una dichiarazione di guerra così aperta alla magistratura e alla Costituzione proprio alla vigilia di processi che ha tentato di evitare in tutti i modi e con tutti i lodi possibili, entrando in ripetuto conflitto con la Corte Costituzionale e con la Presidenza della Repubblica (con Ciampi prima, e con Napolitano poi)?
Si tratta di una vera prova di forza - favorita dal dissolversi di una possibile "destra diversa" e dall´ormai cronico stato di confusione del centrosinistra - o è l´escalation di una pericolosissima debolezza?
Il progetto proposto è senza dubbio una "contro-riforma incostituzionale", come ha scritto Massimo Giannini, basata sul predominio del potere politico sul potere giudiziario, in dispregio di quell´equilibrio fra poteri che è alla base di ogni Costituzione democratica.
Se avesse una maggior dimestichezza con la storia patria Berlusconi forse evocherebbe, nelle sue ville e nelle sue feste, quell´articolo dello Statuto Albertino secondo cui "la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch´Egli istituisce".
In questo scenario la riabilitazione della corruzione politica degli anni Ottanta - di questo si tratta - ha il senso di un atto simbolico interamente proiettato sul presente e sul futuro. E ha trovato, al solito, incauti ed entusiasti seguaci.
L´entusiasmo ha reso un pessimo servizio al direttore de "Il Giornale", che ha iniziato un suo editoriale di damnatio della magistratura evocando addirittura il 1974 ed attaccando frontalmente l´allora magistrato Luciano Violante, reo d´aver incriminato per tentato golpe Edgardo Sogno. "Una bufala", scrive elegantemente Sallusti. Peccato che lo stesso Sogno poco prima di morire abbia ammesso che l´accusa era pienamente fondata, e abbia affidato la sua testimonianza a un libro scritto con Aldo Cazzullo (è stato pubblicato dieci anni fa dalla Mondadori e ristampato di recente: il direttore del "Giornale" non dovrebbe avere difficoltà a procurarselo).
In quello stesso 1974 alcuni giovani pretori portavano alla luce le tangenti petrolifere e documentavano in modo inoppugnabile un salto di qualità decisivo della corruzione: non più somma di episodi ma metodo, con percentuali concordate e procedure sempre più "istituzionalizzate".
Scavò qui la talpa del degrado - non della rivoluzione, come avrebbe voluto il vecchio Marx - che portò alla crisi del "sistema dei partiti", e gli anni Ottanta furono il decennio della sua escalation. Una escalation che era sembrata allora tanto evidente quanto inarrestabile, ampiamente documentata dai processi che progressivamente si allargarono alle più differenti parti del Paese.
Era il 1984 quando un vicepresidente della Camera, di solida appartenenza democristiana, dichiarava: "Hanno reso fiorente la cultura della tangente tanto da farne la ragione di ogni attività politica". E negli anni successivi i principali quotidiani, con parole sempre più attonite e convergenti, ebbero a segnalare appunto l´affermarsi della tangente come "taglia permanente, tassa di cittadinanza", o di un potere "che incombe come fardello imposto alla società sotto forma di lottizzazioni e tangenti". O, ancora, l´"incrociarsi della corruzione dall´alto e di quella dal basso".
Di fronte alla realtà che le indagini rivelavano, Norberto Bobbio scrisse che una fine così miseranda della "Prima Repubblica" era l´espressione del fallimento di tutta una nazione. Non del solo ceto politico: dell´intero Paese.
L´incapacità di interrogarsi su quel nodo, la volontà di autoassolversi (un tratto non effimero della nostra storia) favorirono una rimozione profonda, e grazie ad essa fece progressivamente le sue fortune il progetto berlusconiano di imporre nuove e più solide forme di impunità. Un progetto sempre più esplicito e sempre più condiviso all´interno del centrodestra, i cui esponenti hanno dichiarato a più riprese nell´ultimo periodo: Berlusconi non farà la fine di Craxi perché, a differenza del Psi, il Pdl farà muro. Hanno cioè dichiarato: la salvezza del premier non risiede nella sua innocenza ma nella salda omertà di un partito in cui le "cricche" sono diventate cemento e ragion d´essere.
Su un punto il premier ha ragione: il rovesciamento incostituzionale che oggi vuol portare a termine è stato preparato in un lunghissimo scorrere di anni. E non sarebbe stato possibile senza gravissimi errori compiuti dal centrosinistra negli anni stessi in cui ha governato.
Non fu rimosso allora il conflitto di interessi, destinato così a ingigantirsi, e - ancor di più - vi furono vistosi cedimenti di fronte ad una offensiva che si basava sugli stessi cardini del disegno di legge attuale: l´attacco alla obbligatorietà dell´azione penale e la subordinazione della magistratura al potere politico. Fu questa offensiva ad avere troppo larghi spazi nella Commissione Bicamerale, favorita dalla insipiente illusione del centrosinistra di "normalizzare" Berlusconi (e il berlusconismo).
Nel momento stesso in cui affossava la Commissione il Cavaliere andò a dire a un convegno dei giovani industriali: fino a quando il potere politico non diventerà il "dominus" dell´azione giudiziaria non si potranno fare riforme in Italia (lo sottolineava con chiarezza su questo giornale Eugenio Scalfari: era il 1998).
Il progetto oggi giunge a termine, e anche oggi intreccia obiettivi concreti e atti altamente simbolici: atti destinati comunque a lasciare il segno, a scavare a fondo in un terreno che è diventato sempre più friabile, perlomeno nelle stanze della politica. E il vero bersaglio, come nei recenti (o recentemente reiterati) attacchi alla scuola pubblica, è l´essenza stessa della Costituzione.
Alcuni anni fa Christoper Lash osservava che nel mondo contemporaneo la democrazia corre seri rischi non tanto per intolleranza quanto per indifferenza. In Italia, oggi, non è più solo così: intolleranza e arroganza del potere non sembrano avere limiti, e solo la fine dell´indifferenza potrà porvi rimedio. Solo la difesa intransigente di principi e valori irrinunciabili.

Repubblica 14.3.11
Muti: io, ribelle del podio un urlo per salvare la cultura
I direttori d´orchestra non devono parlare ma era necessario: la nazione che perde la propria cultura perde l´identità
di Ernesto Assante


Riccardo Muti in prima fila contro i tagli alla cultura. Contro "la riduzione al nulla" della nostra cultura. La serata di sabato, per la prima di Nabucco all´Opera di Roma, si è trasformata in una straordinaria manifestazione sulle note del "Va pensiero".
Maestro Muti, una serata davvero speciale...
«Veramente fuori dalla norma, non preparata, ci tengo molto a dirlo. Io penso che i direttori d´orchestra non dovrebbero parlare dal podio, ma ieri, dopo l´intervento del sindaco di Roma, era necessario, importante, che anche il musicista prendesse la parola. Per un musicista come me che poi ha la fortuna di girare il mondo e vedere la realtà italiana dalle altre nazioni, e quindi soffrire per la situazione. Era doveroso parlare. Ma pensavo di aver terminato lì, dopo aver detto: "Il 9 marzo del 1842 Nabucco debuttava come opera patriottica tesa all´unità ed all´identità dell´Italia. Oggi, 12 marzo 2011 non vorrei che Nabucco fosse il canto funebre della cultura e della musica". Perché una nazione che perde la propria cultura perde la propria identità».
Cos´è accaduto allora?
«E´ chiaro che il "Va pensiero", al di la delle assurdità che si dicono dell´inno nazionale, è un canto che esprime in maniera intensa l´animo degli italiani, una nostalgia, un senso di preghiera, una profondità mediterranea che Verdi attribuisce al popolo degli ebrei schiavi ma che gli italiani hanno scelto come bandiera del loro Risorgimento. E quando l´ho diretto la prima volta ho sentito, quando il coro ha cantato "oh mia patria si bella e perduta", che quel momento fosse carico della situazione drammatica non solo per le istituzioni ma anche per la vita delle persone chiamate a studiare nei conservatori, nelle accademie, nelle università. Ho sentito che quel grido veniva dal profondo dell´animo, un grido vero da parte di chi sta vivendo questo dramma, uomini e donne che producono cultura nel nostro Paese. E lo fanno nel disinteresse sempre più grande da parte di chi deve preservare la cultura, non solo per rispetto del paese ma anche per il rispetto del mondo verso l´Italia. Il mondo non guarda a noi per le tecnologie, facciamo cose importanti ma quando si pensa all´Italia si pensa ai poeti, ai pittori, ai musicisti, ai nostri musei e teatri, a ciò che l´Italia rappresenta. È pieno di italiani - ricercatori, studiosi, medici - che sono nelle grandi università, come quelle americane, e fanno ben parlare di sé. Giovani che si fanno stimare fuori dall´Italia, perché da noi trovano difficoltà. Noi non possiamo vedere questa barca affondare, sabato sentivo che il "Va pensiero" era questo grido».
E ha deciso di sorprendere tutti
«Dovevo decidere: faccio il bis richiesto come viene chiesto, una ripetizione consolidata nell´abitudine, oppure offro a questa ripetizione un carattere nuovo, aderente alla situazione? ho pensato, il coro ha cantato, "Oh mia patria, si bella e perduta" e sicuramente se perdiamo al cultura andiamo in questa direzione, facciamo che questo grido sia contro questa operazione di riduzione al nulla della nostra cultura. Allora ho invitato, dato che il discorso doveva essere globale, tutti a cantare. Non mi aspettavo che l´intero teatro si unisse, tutti sapevano il testo. Poi, come in una situazione surreale, dal podio ho visto le persone alzarsi a piccoli gruppi, per cui tutto il teatro alla fine era in piedi, fino alle ultime gradinate. Era una specie di coralità straziata e straziante, un grido che invocava il ritorno alla luce della cultura che è la colonna portante dell´Italia, sono le nostre radici».
E il pubblico si è commosso.
«Si, ho visto nelle prime file diverse persone con le lacrime agli occhi. E´ la dimostrazione di un popolo che si sente fortemente unito, al di la dei proclami. E della straordinaria attualità di Verdi, valido anche per il futuro, con la sua grande universalità. Verdi parla all´uomo dell´uomo e resterà sempre collegato alla nostra realtà, sempre assolutamente attuale».

Repubblica 14.3.11
Potremo ancora ascoltare un concerto di Mozart?
di Mario Pirani


Oggi il presidente di Santa Cecilia, Bruno Cagli, presenterà le sue dimissioni ai 70 accademici e al consiglio di amministrazione di una delle più antiche e prestigiose istituzioni musicali del mondo (fu fondata da Sisto V nel 1585). Nel 2008 l´Orchestra permanente ha compiuto il primo secolo, in un periodo che l´ha vista risorgere a nuova vita per l´incrociarsi di due eventi, l´assunzione (2005) a direttore musicale del maestro Antonio Pappano, rivelatosi una bacchetta di livello mondiale, coincidente con lo straordinario e insperato successo del Parco della Musica, concepito da Renzo Piano, il contenitore che da sessant´anni i melomani della Capitale attendevano. La rinomanza internazionale è risultata di tale rilevanza che quest´anno l´orchestra è stata invitata a prodursi in sessanta concerti in alcune delle principali metropoli. Per esemplificare, poi, il successo basti dire che il concerto di sabato, oggi e domani (Verdi, Liszt e Mahler) ha registrato un "tutto esaurito" dei 2800 posti dell´Auditorium. Le dimissioni di Cagli vogliono essere un gesto angosciato di protesta e, comunque, l´annunciato rifiuto di gestire il catatrofico declino di uno dei punti più alti della cultura italiana, se da parte del governo non verrà un segno di resipiscenza.
"Repubblica" (11/3), a firma di Michele Serra e Roberto Mania, ha dedicato un´ampia inchiesta al dimezzamento del Fondo Unico per lo Spettacolo (da 501 a 258 milioni) per cui mi limito al caso singolo ma clamoroso di Santa Cecilia. Premesso che ben comprendo l´obbligo di seri risparmi nel bilancio pubblico, a condizione che non siano alla cieca, privi di ogni intelligenza sugli effetti perversi che possono avere e, infine, non avvengano sotto l´impulso delle beceraggini pseudo culturali di cui non pochi ministri e lo stesso premier pubblicamente si vantano. Se paragoniamo l´enormità dei tagli alla cultura rispetto ad altri settori, la spiegazione più convincente risale all´astio dichiarato da Berlusconi verso gli intellettuali, considerati inutili orpelli del "comunismo", odiati al pari dei magistrati, ma, a differenza di questi, riducibili al silenzio da un paio di forbici. Così, nel caso della musica, con prosopopea, ignoranza o malafede li si invita a decurtare spese e spettacoli. Solo due enti, difesi dalla Lega, la Scala e l´Arena di Verona si sono salvati. Santa Cecilia (i cui finanziamenti pubblici sono scesi da 13 milioni nel 2009 a 9, 7 nel 2010, a poco più di 6 nel 2011) dovrebbe ridurre drasticamente la produzione concertistica e gli standard di qualità (come prenotare con 3-5 anni d´anticipo un grande direttore?), chiudere la Bibliomediatica e il museo degli strumenti musicali, sciogliere la Juniorchestra che forma 600 bambini e adolescenti e il Coro di voci bianche. Con il risultato di aumentare le perdite in relazione alla spesa, visto che sia il personale tecnico che la massa orchestrale, come pubblici dipendenti, verrebbero egualmente pagati anche senza suonare. E, quindi, con perdita della biglietteria e di molte sponsorizzazioni che coprono più del 50% del bilancio. Senza calcolare che nel 2009 Santa Cecilia ha ricevuto dallo Stato 9,7 milioni e gliene ha riversati 6,5 di Irpef, Iva e Irap.
Infine va ricordato un principio che ogni studente di economia conosce, basato sul "teorema di Baumol", dal nome del suo scopritore: gli spettacoli dal vivo non incamerano produttività e un quartetto di Mozart impegnava nel ´700 quattro orchestrali per altrettanto tempo di oggi. Ma un lavoratore industriale di allora produce oggi, nello stesso tempo, cento volte di più. Così il suo salario è salito grazie alla produttività mentre quello dell´arpeggista lo ha seguito per trascinamento, senza alcuna produttività. Altrettanto il costo di un concerto. Ne deriva che solo se i cittadini decidono di finanziare la differenza attraverso le imposte essi possono permettersi di ascoltare ancora un concerto di musica classica dal vivo.

Repubblica 14.3.11
Declassati i nostri centri all´estero, dal Brasile agli Stati Uniti
Gli Istituti di cultura restano senza fondi
A rischio le sedi di San Francisco e Chicago, la città di Obama dove ha lavorato Piano


NEW YORK. Meno cultura italiana in Brasile; meno cultura italiana in Australia. E´ l´ora della ritirata per noi anche da Chicago, la città di Barack Obama che ai talenti italiani come Riccardo Muti e Renzo Piano ha spalancato le braccia. Domenica 6 marzo Repubblica aveva rivelato la vicenda dell´addio alla Silicon Valley: la scelta del governo italiano di "sparire" dalla culla dell´hi-tech californiana, eliminando l´unico addetto scientifico di tutta l´area (a fronte dei quattro attaché francesi, due inglesi, 13 svizzeri, quattro olandesi). Ora emerge un altro capitolo di questo smantellamento della presenza istituzionale all´estero. Lo stesso consolato italiano di San Francisco, già privato dell´unico addetto scientifico, è condannato a un´altra "amputazione". L´istituto culturale italiano di San Francisco – la città di Francis Ford Coppola e di Lawrence Ferlinghetti, che ha nella sua sfera due centri universitari come Berkeley e Stanford – è stato messo da Roma su una lista di candidati alla chisura. In subordine, se non chiuso verrà declassato a "sezione" di un´altra sede, probabilmente quella di Los Angeles. Questo significa meno risorse, meno iniziative. Si rimpicciolisce la presenza culturale dell´Italia, già ridotta ai minimi termini rispetto al dinamismo dispiegato dai concorrenti come l´Alliance Française, il Goethe Institut tedesco, lo stesso istituto Cervantes spagnolo, solo per confrontarci con i nostri simili. Questo accade in una delle aree culturalmente più importanti del mondo, oltre cheun bacino di turismo di qualità: la California ha un Pil superiorealla Francia. Un destino analogo è stato programmato anche per l´istituto italiano di Chicago, proprio mentre Obama ha "investito" nella sua città con l´elezione a sindaco del suo ex capo di gabinetto Rahm Emanuel. Eppure Chicago, una delle più vaste metropoli degli Stati Uniti, è in piena fioritura culturale: lo dimostra anche la sua capacità di valorizzare grandi nomi della creatività italiana come Riccardo Muti, chiamato a dirigere la sua orchestra sinfonica; e Renzo Piano che ha "firmato" la nuovo ala del prestigioso museo cittadino d´arte moderna. In fatto d´italianità, Chicago è anche il cuore del Midwest dove la vicina Detroit sta diventando l´altro polo del gruppo Fiat-Chrysler. Ma neanche questo basta ad arrestare la scelta di impoverire le istituzioni che dovrebbero promuovere l´immagine della cultura italiana. Altrettanto singolare è la scelta degli altri istituti di cultura condannati a regredire come "sezioni", appendici di località lontane. Rio de Janeiro? E´ il cuore di una nazione di 200 milioni di abitanti – tra cui una robusta componente di origini italiane – che è diventata la "prima lettera" di un acronimo celebre: il Brasile evoca i Bric, con Russia India e Cina il gigante sudamericano forma il club delle nuove potenze. Ed è a Rio che va Obama, in un viaggio cruciale in cui vuole prendere le misure del nuovo rivale nell´emisfero Sud. E Sidney? E´ nel cuore dell´area Asia-Pacifico, nuovo baricentro verso cui si riorganizzano i flussi di commerci e di idee del pianeta. Dietro i tagli, sembra esserci quasi una strategia scientifica di auto-emarginazione dailuoghi che contano. Sono nazioni dinamiche, destinate ad avere un peso crescente nei nuovi equilibri mondiali, sono aree ricche di tutto fuorché di una cosa: quelle tradizioni artistiche, quel patrimonio culturale che ancora segna l´immagine dell´Italia all´estero.

Corriere della Sera 14.3.11
La cultura lancia un grido
I tagli sono la nuova censura

di Armando Torno

Le parole di Riccardo Muti, sul podio del Nabucco a Roma, dedicate alla «ignominiosa scure che si è abbattuta sulla cultura», dovrebbero indurre a un’ulteriore riflessione i signori del Palazzo. Si uniscono a quelle di Daniel Barenboim, pronunciate alla prima di Sant’Ambrogio alla Scala e rivolte al presidente Napolitano, ma anche a quanto ha proferito l’attore e regista Tata Russo in coda alla recita di venerdì scorso de Il fu Mattia Pascal al Teatro di Varese (presente in sala il ministro Maroni): «... altri 27 milioni al Fondo dello spettacolo... ma perché non potevate tagliare le auto blu?» . E Sergio Escobar, direttore del Piccolo di Milano, parla di «situazione tragica» , sottolinea l’ipocrisia «di maggioranza e opposizione» , ricorda che si discetta sulle fondazioni liriche ma che il teatro sta peggio ed è ormai al collasso, tanto che «per il solo Piccolo negli ultimi tre anni il taglio supera il 60 per cento» . Non sono che esempi di un disagio ben diffuso, al quale i politici hanno risposto come potevano, nella maggior parte dei casi facendo spallucce. Se ne sono sentite di tutti i colori dopo l’annuncio dei tagli, compresa l’assiomatica dichiarazione che non si mangia con la cultura; e nel battibecco che ha caratterizzato l’amputazione delle risorse si è capita una sola cosa: la tanto osannata cultura in questa Italia in crisi — e sprecona al tempo stesso— non potrà più essere considerata valore o investimento. E allora cos’è? — in verità non lo sappiamo, o meglio: non lo sappiamo più. Se il mondo dei colti ci stima per il nostro Rinascimento o per i miracoli della musica dei quali il Belpaese è stato per secoli la culla, chi tiene le redini risponde credendo che l’Italia sia altro. Ma non è così, e le parole di Muti e di tutti gli altri lo dimostrano. C’è insomma un popolo che ripete come nel Risorgimento in faccia all’occhiuto gendarme: «Viva Verdi!» . Non intende invocare l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele e la cacciata dello straniero, ma soltanto dire che la nuova censura sono i tagli.

Repubblica 14.3.11
Qualche settimana fa il corpo di un giovane è stato trovato in una baita della Valle d´Aosta. Era sparito 9 anni fa. Molti fanno come lui
Quei ragazzi che sognano una vita "Into the wild"
di Fabrizio Ravelli


Racconta un sacerdote: in tanti cercano Dio e per qualcuno di loro diventa ossessione
Il loro esempio è il personaggio raccontato nel film diretto dal regista e attore Sean Penn

PONT SAINT-MARTIN La notizia è passata inosservata ai più. In una baita abbandonata, nella frazione di Ivery, si sono trovati i resti di Andrea Giardino. Era sparito nel 2002, quando aveva 27 anni. Qui in montagna aveva vissuto per tre settimane, girovagando solo, con uno zaino e una tenda, digiunando e pregando, silenzioso e gentile. Qualcuno ha pensato al protagonista di Into The Wild, il romanzo di Jon Krakauer e il film di Sean Penn. Raccontavano la storia vera del ragazzo americano che lasciava tutto - famiglia, studi, denaro, amici - per cercare l´assoluto della natura, e moriva sperso in Alaska. Andrea Giardino cercava Dio, interrogandosi su cosa fossero il Bene e il Male, e vedendo nero nella sorte del mondo. Era la sua Quaresima, la purificazione dai dubbi e dalle sofferenze. Lo fanno in tanti, di andare a cercare una verità divina salendo in alto, sulle montagne più vicine al Padreterno. C´è chi prenota soggiorni regolari, e chi semplicemente si incammina.
Ora, si può anche dedicare un solo pensiero fuggevole a quel povero ragazzo sventato che morì per il freddo e il digiuno. Una storia minima, forse. Non certo per Corrado e Giuliana, fratello e sorella, quel che restava della sua famiglia, che per nove anni l´hanno cercato, hanno sperato che fosse missionario in qualche paese lontano, hanno scrutato i volti di ogni senzatetto incontrato per strada o buttato sotto un portico. Ma poi: chi di noi non ha mai pensato, magari solo per qualche sbrigativo momento, a scappare dal frastuono del mondo? Non serve una crisi mistica per desiderarlo. Oppure si crede in Dio, e si cerca un luogo per avvicinarlo. Sulle montagne della Val d´Aosta sono molti, questi luoghi. «C´è chi semplicemente reagisce alla vita che si vive nelle grandi città», dice padre Paolo, della Casa Ospitaliera del Gran San Bernardo, a Saint-Oyen.
Andrea si sentiva un po´ eremita, anche se a tempo: non voleva morire, e sarebbe tornato. Eremiti, su queste montagne, non ce ne sono più. Ma sono migliaia quelli che vanno a cercare silenzio e meditazione nelle molte comunità religiose della Valle. Si sale più in alto, ascesi e ascensione hanno qualcosa in comune. Andrea con la montagna non aveva familiarità, era pugliese. Ma quando ha scelto un luogo per la sua personale Quaresima solitaria, ha preso zaino e tenda ed è salito fin qua. Allora, nove anni fa quand´è scomparso, l´hanno cercato dappertutto. Non così accuratamente, forse.
Corrado, il fratello, dice: «Quando sono salito allora lassù, con una troupe televisiva, siamo finiti in una baita dove un religioso, che era anche psicologo, mi disse come molti giovani di passaggio venissero da loro accolti e accuditi, senza fare troppe domande. Ricordo che la cosa mi diede conforto, perché mi fece pensare che la sorte di Andrea era parte di una cosa più ampia». Andrea però era già morto, e il fratello racconta come l´hanno trovato: «S´era sistemato in quella baita con un certo ordine. La cartella coi suoi scritti appoggiata su un davanzale. La tenda smontata era dentro la mangiatoia. C´erano lo zaino e la pentola. Lui era steso sul materassino gonfiabile. Addosso aveva tutti i suoi vestiti, per difendersi dal freddo: una maglia di lana, due maglioni, la giacca a vento appoggiata sopra, e sopra ancora il sacco a pelo aperto. Aveva appeso al muro un quadretto sacro: Gesù Bambino che tiene in braccio un agnello, la scritta Ecce Agnus Dei. Andrea aveva la testa voltata da quella parte. S´è addormentato guardando quell´immagine, e io voglio pensare che non abbia sofferto».
Piegato dal freddo e dal digiuno. Solo qualche pezzo di pane ogni tanto. Qualche castagna raccolta e fatta bollire. La gente del posto ormai lo conosceva. Silenzioso, non si fermava a parlare, rispondeva a monosillabi. Gentile, però. Sempre più magro, e affaticato: non reggeva più di pochi passi in salita». «Al telefono, qualche giorno prima che partisse, mi aveva detto: "Andrò dove mi porta Dio, e se Dio vuole che mangi, mangerò», racconta la sorella Giuliana. Le sue carte sono fitte di appunti dalle Scritture. Ci sono le minute di tre lettere. Andrea rimuginava rancori per la sua vocazione religiosa frustrata. L´avevano allontanato dal noviziato, giudicando che la sua spinta mistica fosse viziata e ossessiva.
«Ci sono molti giovani che fanno esperienze simili, di raccoglimento e di preghiera - dice Franco Lovignana, vicario generale della Diocesi di Aosta - Ne vediamo tanti. Ma sempre in forme organizzate, presso comunità della Valle». Quella di Andrea era disorganizzata e sì, piena di ossessioni silenziose. «Scrisse - dice il fratello - che il mondo stava andando verso la rovina. Che la crisi avrebbe provocato paure e guerre sanguinose». Andrea, dicono Corrado e Giuliana, era un ragazzo giocoso e allegro, un bravo figlio solitario imprigionato nella sua ricerca del Padre. E che questa sia una storia minima, può anche darsi.

Repubblica 14.3.11
Contrordine, lo stress fa bene ecco lo studio che smonta i falsi miti sulla longevità
Dallo sport al lavoro, le sorprendenti scoperte su stili di vita e salute
La mega-ricerca Usa è durata 90 anni: 1.500 bambini seguiti dalla culla alla morte
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Stressati di tutto il mondo rilassatevi. Non è vero che vivere sempre in tensione accorcia la vita. Anzi. La ricerca continua della condizione migliore - a costo appunto dello stress - è un toccasana per la salute.
Sì, il più completo studio mai eseguito sulla longevità fa piazza pulita dei luoghi comuni sull´elisir di lunga vita. Cancellando quello slogan diventato il simbolo del vivere serenamente: "Take it Easy" - non te la prendere. E chissà come la prenderanno, adesso, i profeti del sorriso a tutti i costi. Quelli che accontentati perché altrimenti la salute. Quelli che prendi moglie o marito e vedrai che passa. Quelli che a mio figlio lo mando a scuola un anno prima così parte in vantaggio - quando invece qui si dimostra che i bambini condannati alla "primina" sono stressati nella maniera peggiore: troppe aspettative da piccoli.
Per carità. "The Longevity Project" non è l´elogio della vita spericolata. Piuttosto la conclusione che solo un valore al di sopra degli altri ci può portare a vivere meglio: e si chiama consapevolezza. Sono le persone coscienziose quelle vivono più a lungo. Il motivo?
La ricerca firmata da Howard S. Friedman e Leslie Martin è il punto di arrivo di uno studio cominciato nel 1921 da un mago della psicologia: Lewis Terman. Che nella sua Stanford University si lanciò un secolo fa nel suo progetto più ambizioso: inseguire appunto il segreto della lunga vita esaminando le risposte di 1500 americani seguiti dalla scuola alla bara. «Le tradizionali ricette che vengono date a chi vuole migliorare la propria salute (relax, mangiare più vegetali, perdere peso, sposarsi) sono certamente funzionali per qualcuno ma non funzionano e sono economicamente controproducenti per altri», scrivono oggi i due ricercatori che hanno raccolto la staffetta in "The Longevity Project". Smontando uno dopo l´altro 12 falsi miti. Compreso quello attribuito al grande Woody Allen: "Se vuoi vivere come un centenario rinuncia a tutte le cose che ti fanno voler vivere fino a cent´anni".
Prendete, per esempio, il matrimonio. Avere matrimoni stabili è indice di longevità. Ma quando la vita di coppia è una prigione le donne che divorziano vivono meglio e più a lungo degli uomini (che invece soffrono la separazione). Non solo. Lo studio dimostrerebbe che l´addio dei genitori espone fatalmente i bambini a una vita meno lunga. Ma allora qual è questo elisir di lunga vita?
È una questione di misura: inutile dannarvi nello jogging e nello sport se poi vi rovinate la vita per starci dietro. Ma se una passeggiata con gli amici vi rilassa vale più di cento flessioni al giorno. «Ci sono tre ragioni perché la gente più coscienziosa vive più a lungo» scrivono i due studiosi. «La prima e più ovvia è che fa più cose per proteggersi: non fuma, beve meno, in auto non corre. La seconda è che sembra biologicamente predisposta ad avere questo tratto della personalità: e a essere quindi più sana. Ma la terza è la più intrigante". E cioè? «I più coscienziosi si trovano sempre in situazioni e relazioni sociali più sane".
Eccolo qui: è il "social health" - Il valore sociale della salute. I più coscienziosi sono quelli che hanno modo di trovare i matrimoni migliori. Le amicizie migliori. Perfino gli ambienti di lavoro più sani. Magari senza quel collega che a ogni lavata di capo del boss vi fa uscire ancora più dai gangheri: «Non te la prendere - Take it easy...».

Repubblica 14.3.11
Se vivere più a lungo diventa un'ossessione
Spesso confondiamo il prolungamento della nostra esistenza con la dilatazione della vecchiaia
di Umberto Galimberti


Ma cos´è questo desiderio di allungare il più possibile la vita? Un cascame della perduta fede nell´immortalità dell´anima o il terrore che ci assale quando pensiamo di doverci congedare da tutti i nostri affetti, e soprattutto dall´amore che ciascuno di noi nutre per sé? O ancora un riflesso di quella mentalità occidentale che non riesce a pensarsi se non in termini di "crescita", senza più nessun riferimento a quella saggia nozione greca che non disgiungeva la felicità dal concetto di limite e di giusta misura?
Probabilmente tutte queste cose. Ma è davvero la vita quella che la scienza medica ha già allungato e ancora promette di allungare di più, o non piuttosto la vecchiaia, quasi ci provasse gusto a farci assistere al decadimento del nostro corpo, allo svuotamento di ogni orizzonte progettuale, alla contemplazione prolungata oltre ogni limite di quell´unico traguardo che inesorabilmente ci attende, e che alla fin fine è pur sempre la morte?
Sarebbe a questo punto necessario che gli scienziati non confondessero la vita col semplice prolungamento del nostro quantitativo biologico, incorrendo nello stesso fraintendimento degli uomini di religione, i quali, a loro volta, confondono la vita con la semplice animazione di un organismo che, senza il soccorso della strumentazione tecnica, non riuscirebbe a vivere.
Riconsegniamo allora alla vita la sua dignità che non risiede nel suo prolungamento, perché, se anche l´organismo, grazie alle scoperte scientifiche che instancabilmente si succedono, dovesse prolungare di anni la sua sempre più malconcia esistenza, c´è pur sempre una psiche che, nel deserto di qualsiasi progettualità, costringe i vecchi ad assaporare ogni giorno la loro insignificanza sociale, in quella solitudine assistita da estranei, dove non sai mai quando un sentimento è sincero.
Ebbene questa psiche desidera che i giorni smettano di susseguirsi con quella monotonia e regolarità scandita da pratiche abituali, da gesti rituali, ogni giorno gli stessi, in cui ci si sente gettati fuori dal "tempo progettuale" di cui si alimenta la vita quando è vita, e ricacciati in quel "tempo ciclico", che non è propriamente dell´uomo, ma della natura che, per garantire la continuità della specie, non prevede l´immortalità degli individui e neppure una loro vita troppo prolungata, in quell´orizzonte opaco e buio dove è difficile reperire un senso, e non dico la gioia e neppure la felicità.

Repubblica 14.3.11
Le idee di Riccardo Cavallero, direttore generale del gruppo Mondadori
"Noi editori nell'era web saremo solo bibliotecari"
di Luciana Sica


Tra i suoi libri preferiti mette Gomorra. "Non venderemo qualcosa ma lo presteremo, ci saranno canali tematici e sarà il lettore ad avere il potere: deciderà anche il prezzo"

L´era Gutenberg non è finita, anzi è destinata a continuare, ma sarà la rivoluzione digitale di Internet a segnare il futuro dei libri. «Il potere passa dall´editore al lettore, è lui a decidere cosa vuole, quando lo vuole e a quale prezzo»: a dirlo, in un´intervista uscita ieri sul País, è Riccardo Cavallero, direttore generale dei Libri del gruppo Mondadori in Italia, Spagna e America latina (compresi dunque i marchi Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, oltre alla newyorchese Random House). Manager di segno cosmopolita, è nato 48 anni fa vicino a Torino, ha vissuto in America, poi in Spagna, e ora è a Milano. Tra le sue preferenze letterarie, indica anche Gomorra di Saviano.
A suo dire, intanto non è il libro on line a determinare quel cambiamento radicale nell´universo dell´editoria che paragona a una rivoluzione copernicana. Cavallero: «L´e-book in sé non vale niente. Nasce già vecchio. Quel che conta è la rivoluzione digitale. Come avvenne per i dinosauri, per sopravvivere bisognerà cambiare habitat, e invece molti editori non sono ancora pronti, non hanno la forza mentale per cambiare il proprio modo di lavorare, tenendo conto dei gusti di chi sta dall´altra parte. Finora siamo vissuti in una bolla di lusso dov´era possibile prescindere dal lettore: ora invece, per la prima volta, dovremo capirlo».
Più difficile da dire è come cambieranno gli editori, in che tempi, e soprattutto: che fine faranno i diritti d´autore? Azzarda Cavallero, un po´ ridendo: «L´editore diventerà un bibliotecario: non venderà qualcosa, ma lo presterà. Nel mondo digitale, avrà qualcosa di simile alla televisione a pagamento, con alcuni canali che vengono venduti a sottoscrizione... Inevitabilmente, si dovrà trovare anche una formula nuova per liquidare i diritti e non sarà più possibile farlo nel modo semplice di oggi: per ogni esemplare venduto. Il cambiamento avverrà tra una ventina d´anni, probabilmente, ma già ora il digitale fa nascere un mucchio di problemi agli avvocati che devono quantificare la somma destinata al pagamento dei diritti d´autore».
Ci sono anche dei rischi, però. I pirati sono lì che aspettano che diventi redditizio rubare libri. «Sì - dice Cavallero - ma i pirati sono gli unici a conoscere davvero i best seller. Per un autore, subire atti di pirateria informatica è quasi una soddisfazione perché significa che sta vendendo molto. Il pirata non sbaglia mai! Più seriamente, la pirateria è un problema molto doloroso, in alcuni Paesi più che in altri, ma non è la polizia che deve risolverlo. Bisogna trovare una soluzione economica a livello editoriale...».
Quale sarà la ricetta giusta? «Intanto dobbiamo cambiare la nostra mentalità e saper costruire una struttura economica all´altezza del cambiamento. Quando dico che perdiamo il potere, è proprio questo: non comandiamo più noi. Non possiamo più dire: "Questo te lo do, questo non te lo do". Perché ti dicono: "Se non me lo dai, lo troverò, c´è da qualche parte...". Si dovrà allora rispettare davvero il consumatore, dargli quello che vuole e al prezzo che vuole. Se non ne saremo capaci, non avremo meritato di continuare a fare gli editori. È la cosiddetta selezione naturale. Credo che Darwin continui a essere il mio faro!».
Nella lunga intervista al quotidiano spagnolo, tra le righe rimane sospeso un tema cruciale: la qualità dei libri nell´universo digitale. Ma Cavallero non elude la questione: «Attenzione. Come editori, vincerà la scommessa chi riuscirà a lavorare sul contenuto. Il mio obiettivo è vendere, e per questo non credo che scomparirà il libro di carta. Del resto, come per i giornali, penso che siamo all´alba del digitale... Dobbiamo però avere il coraggio di rinunciare ai privilegi che abbiamo raggiunto e che ci hanno permesso di avere una posizione leader finora. Come per tutti i momenti di cambiamento, può essere doloroso, scomodo, basti pensare che finora controllavi tutto, sapevi tutto del tuo mondo. Adesso invece bisogna assumersi dei rischi, avere una grande curiosità, sperimentare, e soprattutto essere pronti a sbagliare. Chi nei prossimi cinque anni non sbaglierà, e non sbaglierà in modo importante, non ci sarà più tra dieci anni».

Corriere della Sera 14.3.11
Lovecraft, i sogni anticipano la scienza
L’altro volto dello scrittore: un fine teorico del fantastico e dell’horror
di Giulio Giorello


Volete una definizione di quello che dovrebbe essere uno scrittore del fantastico? «È il creatore di un mondo che non è mai esistito e mai esisterà, e che pure abbiamo sempre conosciuto e bramato nei nostri sogni» . Così Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), il «solitario di Providence» che ha inventato un’intera mitologia con il dio Cthulhu e i suoi ancor più esecrabili colleghi. Ora il volume Teoria dell’orrore, che in Italia vede la luce grazie all’attenta cura di Gianfranco de Turris (Bietti, pagine 556, e 24), offre al lettore l’altro volto di Lovecraft, quello di teorico e di critico letterario. Streghe, lupi mannari, vampiri, fantasmi e demoni hanno «abitato» il folclore di tutti i popoli e di tutte le epoche, e c’è davvero da chiedersi se «l’età del disincanto» li abbia relegati tra i ferrivecchi della superstizione. Lovecraft rispondeva di no: «L’elemento spettrale nella letteratura» resta «una branca essenziale dell’espressività umana» di cui non sarà facile fare a meno, «il tema tenebroso» per eccellenza... Lovecraft era un sincero entusiasta del «materialismo» , che per lui equivaleva alla scienza, capace di individuare i meccanismi reali dei più diversi fenomeni, senza lasciare spazio ad alcuna illusione «metafisica» . Per esempio, è inutile rimpiangere qualsiasi «perduta immortalità» ; piuttosto, «un’intelligenza ben temprata non teme nulla e si appaga di prendere la vita per quello che è, e di servire la società nel miglior modo possibile» . D’altra parte, non si possono non riconoscere le motivazioni egoistiche di gran parte della civiltà. «Persino i movimenti religiosi più importanti hanno una loro storia segreta, e di natura quasi sempre materialistica» . Lovecraft interpretava l’evoluzionismo come aveva fatto non molti decenni prima un bizzarro lettore tedesco di Darwin. Con l’avvento della mentalità scientifica sbiadiscono i valori della tradizione, ma «se oggi siamo meno pii, significa anche che siamo meno ipocriti. Una dozzina di finti santi non fa un onesto Nietzsche» . Potremmo anche dire che è tutta questione di prospettiva: «Un uomo un giorno può sentire che esiste una divinità e un altro giorno sentire che non ne esiste alcuna» . E quando si tratta non di divinità bensì delle forze fondamentali della fisica o della struttura della cellula, non c’è più la libertà del sentimento ma il rigore della ragione. Lovecraft finiva così con l’imbattersi nell’obiezione che gli muovevano i suoi critici più sottili. Perché scrivi di mostri e spettri, se sai che non ci sono? E non fare la figuraccia del filosofo materialista Thomas Hobbes, di cui malignamente si sospettava che di giorno negasse l’esistenza di qualsiasi entità incorporea, mentre di notte tremava per il terrore che «le anime dei defunti venissero a tirarlo per i piedi» . Orfano di qualsiasi Dio clemente e misericordioso, Lovecraft invitava allora a guardare alla miseria della condizione umana: siamo animali fragili, circondati da un ambiente ostile, cui la salvezza del singolo individuo è indifferente. Scienza e tecnica rappresentano così il «guscio» che protegge ogni essere cosciente dal timore dell’ignoto; ma se le cose stanno così, non è tanto in gioco l’esistenza di questo o quel mostro, demone o vampiro che dir si voglia, ma il senso profondo di «un orrore latente nella stessa natura» . Con un’intuizione straordinaria, Lovecraft traccia la storia del genere fantastico e horror uscendo dai limiti di quello stesso genere letterario, che ora gli appare uno scandaglio per investigare il movente più autentico della formazione della società civile: la paura, come aveva dichiarato appunto Thomas Hobbes! La fisica penetra sempre più nei misteri dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, la biologia svela caratteristiche sorprendenti della vita, la psicologia chiarisce i meccanismi dell’inconscio e l’antropologia mette in luce gli aspetti più segreti delle culture che si sono succedute nella storia. Ogni progresso sposta di continuo il confine tra ciò che è noto e quel che non è ancora conosciuto e questo fa sì che il senso della meraviglia (che non è soltanto fascino del bello, ma pure rivelazione di ciò che fa «rizzare i capelli in testa» ) cambi nel tempo. In altre parole Lovecraft ci regala una concezione della letteratura fantastica come strumento che ci permette di intuire quel che il pensiero scientifico non ha ancora compreso, mentre questo a sua volta rimodella di continuo i modi dell’immaginazione. Mentre magistralmente analizzava i grandi affreschi dei cantori delle «anime dannate» — da Dante a Shakespeare— e le fantasie dei colleghi che mescolavano racconto «gotico» e fantascienza, Lovecraft percepiva, magari oscuramente, il potere sovversivo delle nuove concezioni della natura e della psiche (non a caso cominciava negli anni Trenta a dipanarsi il dialogo tra un fisico «luciferino» come Wolfgang Pauli e un analista del profondo come Carl Gustav Jung). E gli universi di sogno del grande erede di Edgar Allan Poe se da una parte ci possono ricordare gli archetipi della psicoanalisi, dall’altra aspiravano a essere delle rappresentazioni figurate di un caos primigenio che nessuna teoria scientifica avrebbe potuto domare per sempre. Chissà quale «battito di nere ali» immaginerebbe Lovecraft se vivesse oggi, all’epoca degli «infiniti universi» della nuova cosmologia o delle chimere promesse o temute dalle biotecnologie.

Corriere della Sera 14.3.11
Alle radici del nostro pensiero la scossa che fermò l’Illuminismo
di Giuseppe Panissidi


Nel cuore pulsante della modernità, or sono due secoli e mezzo, un evento catastrofico innescò un movimento di pensiero e di coscienza che si situa alle radici vive della nostra contemporaneità: il terremoto di Lisbona del 1755. A causa della sua straordinaria potenza, pari al nono grado Richter, tra le devastazioni in Portogallo e nel Nord Africa, l’Europa tremò per sei interminabili minuti. E una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo. Quando migliaia di bambini muoiono sulla soglia della vita, gli uomini soffrono. E pensano. Il dibattito che si accese propone ancora domande di senso cui sarebbe difficile, oltre che insensato, sottrarsi. Classicamente, Jean-Jacques Rousseau non esita ad alzare la frusta contro la tracotanza e l’avidità degli uomini, i quali, da un lato, sfidano la natura attraverso un’ampia gamma di pratiche dissennate, come le costruzioni più ardite, destinate, presto o tardi, a rovinare su loro stessi; dall’altro, in caso di sisma, anziché cercare di mettersi subito in salvo, perdono tempo prezioso per salvare i loro averi. Eppure, secondo un emblema dell’eroismo e della gloria immortale, l’Achille omerico, «nulla vale (quanto) la vita» . Di converso, Voltaire coglie l’opportunità storica per esaltare la dignità dell’uomo, la sua speciale capacità di elevarsi con il pensiero al di sopra di se stesso e di ogni sciagura, fino ad abbracciare il cosmo intero. Ogni responsabilità, pertanto, ricade sulla natura, che gli uomini purtroppo non possono interrogare perché muta. Sicché, contrariamente all’assunto di Leibniz, non vi sono «ragioni» per ogni cosa — «il naso non esiste per appoggiarvi gli occhiali» — in un mondo che non è «il migliore di quelli possibili» . Né punizioni divine: Candide è solo di fronte al silenzio di Dio. Ed ecco la mossa spiazzante di Rousseau: una morte prematura e «ingiusta» non è di per sé un disvalore, non è il «male», poiché può preservare da mali peggiori, i mali causati dagli uomini, i più difficili da comprendere e sopportare. Su questo terreno incrocia il percorso di Voltaire. Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane «magnifiche sorti e progressive» e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà «pessimismo della forza» . Patente il rimando al sano e potente spirito vitale dei greci del V secolo, l’epoca delle tragedie, il cui «Sì!» alla Vita esprime la capacità di sostenere il pessimismo della tragedia, purificandosi — catarsi tragica— e attrezzandosi— pathei mathos: apprendimento mediante il dolore — di fronte alle  «prevedibili imprevedibilità» della natura e della vita. Da qui anche il richiamo leopardiano alla necessità di realizzare un’istanza cooperativa interumana, un contro-movimento laterale e solidale, rispetto alla possibilità e al rischio dello «spaesamento» . E dell’annientamento. Noi non abbiamo ancora l’esatta percezione della dimensione distruttiva del cataclisma in Giappone. E tuttavia le riflessioni meramente «tecniche» di queste ultime ore, impietosamente già tradiscono una radicale insufficienza e inadeguatezza: ri-scoperta della natura quale massima potenza, vulnerabilità della potenza tecnologica, analisi comparative condizionali (se fosse avvenuto da noi…), disquisizione sul tema della «prevedibilità» , controversia sul nucleare, «il terribile già accaduto» (Martin Heidegger), etc. Nell’oblio di un’elementare verità: credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di «deviarne» con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche. Se milioni di bambini nel mondo continuano a morire di stenti, ciò non è imputabile agli tsunami, ma a un legno storto che pretende di esibire le criticità del raddrizzamento come alibi per diventare sempre più marcio. Impunemente. Valga il vero: il marciume ci appartiene interamente, interpella e tradisce senza tregua la nostra tragica grandezza. Con specifico riferimento al nostro angolo di mondo, il presidente della Cei ha recentemente evocato l’immagine del «disastro antropologico » e certamente alludeva anche alla nota varietà di psicodrammi. Come, vedi caso, il conflitto politica-giustizia. Dove, se il Novecento ci ha opportunamente istruiti, la vittoria della prima sulla seconda non può che tradursi in una sconfitta generale, non di questo o quel magistrato più o meno solerte. Bensì della civiltà, e di ogni pratica del rispetto: dell’idea profonda— da Cicerone a Montesquieu — del diritto e della legge come «mente» del corpo sociale e garanzia degli equilibri istituzionali. Nonché dello scopo prioritario di sostenere una comunità di condivisione sull’interpretazione dell’interesse collettivo di lungo termine della comunità civile e politica. Non sembra il modo migliore per celebrare il centocinquantesimo dell’Unità. Dopo, se e quando avremo adempiuto i nostri umanissimi doveri individuali e collettivi, morali e civili, avremo anche il diritto di imprecare contro i sismi. Non ora, non ancora, quando «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» (George Orwell, 1984). Soltanto dopo.