Agi 18.3.11
Alla Fiera di Lipsia Istinto di morte e conoscenza in tedesco
(AGI) - Roma, 18 mar. - Domani sara' presentato alla Fiera del Libro di Lipsia e il giorno seguente sara' in libreria 'Todestrieb und Erkenntnis', la versione tedesca di 'Istinto di Morte e Conoscenza', il libro della 'teoria della nascita' scritto dallo psichiatra Massimo Fagioli quarant'anni fa, nel 1970. Lo si legge in una nota della casa editrice 'L'Asino d'oro' che di 'Istinto di Morte e Conoscenza' ha pubblicato nel 2010 una nuova edizione. 'Todestrieb und Erkennis', edito dallo storico marchio tedesco 'Stroemfeld Verlarg', e' stato curato da Anna Homberg, Cecilia Iannaco e Antonio Marinelli che domani, alla Fiera del Libro di Lipsia (17-20 marzo), la citta' che ha dato i natali a Nietzsche, Wagner, Bach e Leibniz, lo presenteranno insieme all'autore, lo psichiatra dell'Analisi Collettiva. Secondo uno dei traduttori, la psichiatra tedesca Homberg, il testo tedesco offrira' risposte ai tanti che in Germania fanno ancora i conti con l'orrendo fenomeno del nazismo: "le radici pulsionali dell'anaffettivita' scoperte da Fagioli potrebbero dare una risposta estremamente importante e innovativa alla loro domanda "come e' potuto accadere", evitando pero' ogni pessimismo su una natura umana sempre pensata come necessariamente malvagia ed aggressiva". E aggiunge, "in questi tempi in cui all'estero gli eventi italiani spesso suscitano stupore e ilarita', mi pare particolarmente indicato ricordare ai lettori della mia patria che in Italia si fanno anche ricerche scientifiche importantissime di cui questo libro coraggioso e' espressione fondamentale". (AGI) Red/Pat
l’Unità 18.3.11
«Resisteremo al raìs nemico della sua gente»
Parla un membro del Consiglio di transizione che riunisce le opposizioni: al mondo chiediamo solo di togliere al Colonnello la supremazia aerea
di U. D. G.
Messaggio da Bengasi assediata: «Li stiamo aspettando e non molliamo, stiamo cercando con tutti i mezzi a nostra disposizione di impedire il sorvolo basso dei bombardieri...Siamo già riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi...». A parlare è Ibrahim Al Agha, membro del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l'organismo che riunisce tutte le forze libiche anti-Gheddafi. Riusciamo a entrare in contatto telefonico con Al Agha dopo che la tv di Stato libica aveva annunciato la conquista di Misurata da parte delle forze lealiste. Al Agha invita a diffidare dei proclami della propaganda del regime: «Non vi meravigliate di sentire fra poco che le truppe del Colonnello hanno occupato Parigi e Londra, questi sono professionisti della menzogna». «Cos'altro aspetta la Comunità internazionale, gli Stati Uniti, l'Europa per impedire che gli aerei di Gheddafi continuino a bombardare e a spostare nel Paese armi e mercenari? dice a l'Unità Al Agha -. Noi resisteremo fino all'ultimo uomo, non ci arrenderemo mai al criminale che ha dichiarato guerra al popolo. Ma Gheddafi ha ordinato ai suoi miliziani di eliminare tutti quelli che ritengono essere “complici” degli insorti, anche se i “complici” sono donne e bambini... Al mondo ripetiamo: non saranno le parole a fermare un criminale di guerra di nome Muammar Gheddafi».
La tv di Stato ha appena annunciato la conquista di Misurata e l'attacco finale a Bengasi: in 48 ore tutto sarà finito, ha proclamato il figlio di Gheddafi, Saif al Islam...
«Non date retta ai professionisti della menzogna...A Misurata si continua a combattere mentre qui a Bengasi il morale è alto...Li stiamo aspettando e non molliamo. Non è vero che le truppe governative sono alle porte di Bengasi. Si trovano ancora nei pressi di Ajdabiya, a 200 chilometri da qui. E ad Ajdabiya la resistenza è accanita».
Sempre la tv di Stato ha annunciato bombardamenti aerei sull'aeroporto di Bengasi. Può confermarlo? «Ci sono stati alcuni raid a cui abbiamo risposto con la contraerea...Siamo riusciti ad abbattere due aerei di Gheddafi. Al figlio del tiranno dico: vieni a prenderci se ne hai il coraggio...».
Mentre parliamo, il Consiglio di Sicurezza deve ancora decidere sulla «no fly zone». Cè ottimismo sul via libera...
«Da giorni chiediamo un'azione internazionale che indebolisca la forza militare, soprattutto aerea, di Gheddafi. La gente che si è ribellata al regime si sente abbandonata, tradita...Soprattutto da chi ha la forza per agire e sin qui non lo ha fatto...». A chi si riferisce in particolare?
«Al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Lui ha giustamente esaltato le masse che in Tunisia ed Egitto si sono rivoltate contro regimi dispotici e corrotti, rivendicando libertà e diritti. Ed è quello che chiediamo anche noi: libertà e diritti; è per realizzarli che stiamo combattendo. Obama ha usato parole durissime contro Gheddafi. Ma non saranno le parole a fermare i bombardamenti, a impedire altri massacri. Noi non vogliamo soldati stranieri in Libia. Saranno i libici a sconfiggere il dittatore. Chiediamo che gli sia impedito di avere la supremazia aerea. A Obama, come ai leader europei, al mondo libero chiediamo di essere coerenti con quanto affermato. Non c'è altro tempo da perdere. Se vince Gheddafi non solo saranno cancellate nel sangue le speranze di fare della Libia un Paese libero, democratico, pluralista, ma ad essere rafforzati saranno tutti quei dittatori che nel mondo, non solo in quello arabo, si sentiranno incoraggiati a seguire la strada di Gheddafi nel reprimere nel sangue ogni rivolta. Questa è la posta in gioco. Libertà o dittatura. Noi abbiamo scelto. Non lasciateci soli. Gheddafi è una minaccia per tutti. Anche per l’Italia».
l’Unità 18.3.11
Sorelle Mai
Verità e finzione di famiglia
di Alberto Crespi
Può non apparire evidente, guardando i film, ma è dai tempi dei Pugni in tasca il suo clamoroso esordio, nel 1965 che Marco Bellocchio usa il cinema per raccontarci in filigrana la propria vita. Non si tratta di un’autobiografia diretta: è troppo esperto di psicologia, Bellocchio, per non sapere che la verità si nasconde sempre dietro molteplici filtri. Per altro il tempo ha fatto bene a questo artista, che da diversi anni attraversa una fase creativa particolarmente felice: pensate a L’ora di religione, a Buongiorno notte, a quel capolavoro indiscusso che è Vincere. Quindi anche l’autobiografia, per quanto indiretta, ha raggiunto toni sereni e ironici che ai tempi dei Pugni in tasca sarebbero stati impensabili. Sorelle Mai ne è la prova.
Il «Mai» scritto con la maiuscola non è un refuso. Nel film Mai è il cognome della famiglia che vive, fra alti e bassi economici e psicologici, nel vecchio palazzo dove già Bellocchio girò I pugni in tasca (che giustamente viene, a un certo punto, evocato). Ma le due sorelle Mai, anziane zie della protagonista Sara, hanno il volto e la voce di Letizia e Maria Luisa Bellocchio, autentiche sorelle dell’autore che da anni compaiono con piccoli ruoli nei suoi film. Crediamo che su di loro nessuno potrebbe parlare meglio, e con maggior cognizione, dello stesso Bellocchio: «Nella mia storia giovanile c’è stata la ribellione e il coraggio del distacco, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l’inevitabile confronto tra il mio destino e quelle delle mie sorelle che sono rimaste in paese. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma (nel senso che sono sempre state scoraggiate ad averla), sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell’Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cechoviano». Trasformarle, nel film, da sorelle Bellocchio in sorelle Mai è anche un sottile gioco di parole che sembra confermare in modo «soft», a distanza di 45 anni, il rifiuto radicale della famiglia borghese sul quale era costruito I pugni in tasca. Ma c’è anche tanto affetto.
Fosse solo un ritratto di famiglia, Sorelle Mai sarebbe una cosa a metà fra un home-movie e un documentario. Ma la memoria personale si incrocia, nel film, con un’attività pubblica. Da anni Bellocchio dirige a Bobbio, il suo paese natale in provincia di Piacenza, il laboratorio di regia Fare Cinema. Nell’arco di una decina d’anni, con attori amici e complici, Bellocchio ha svolto un lavoro di sperimentazione drammaturgia che ha fatto felicemente confluire nel film. Ecco dunque che le «vere» sorelle interagiscono con personaggi di finzione: Sara, loro nipote (Donatella Finocchiaro), è un’aspirante attrice trasferitasi a Milano; sua figlia Elena, che nel film cresce da 4 a 14 anni, vive al paesello con le zie (è Elena Bellocchio, vera figlia di Marco); il fratello di Sara, Giorgio, va e viene, sempre incerto sul futuro proprio e della nipote (e qui l’attore è Pier Giorgio Bellocchio, il figlio più grande di Marco, figura ricorrente del suo cinema). Ospite nella casa avita c’è anche una giovane professoressa di liceo interpretata da Alba Rohrwacher. Il suo pezzo viene dai laboratori di Fare Cinema ed è come un piccolo film nel film, che sposta momentaneamente l’attenzione e lascia la voglia di saperne di più: come se Marco dovesse prima o poi farlo, un film sul mondo della scuola...
Forse vi siete persi, in questo labirinto di «vero o falso» nel quale Sorelle Mai trascina lo spettatore. Ma sappiate che al cinema non vi perderete. Ha del miracoloso il modo in cui Bellocchio mescola realtà e finzione, vita vissuta e vita ricostruita, scardinando definitivamente l’artificiale distinzione fra documentario e film narrativo. Lo aveva già fatto in Vincere, dove i filmati di repertorio diventavano il vero e proprio inconscio di Mussolini e degli altri personaggi. Qui si ripete in modo più discreto, meno «urlato», forse addirittura più affascinante. E altrettanto geniale.
Repubblica Bologna 18.3.11
"Racconto la prigionia delle mie Sorelle Mai"
Il regista questa sera al Rialto presenta il suo ultimo film con episodi molto autobiografici
di Emanuela Giampaoli
«Ho accettato l´idea di tenere il laboratorio di regia Fare Cinema, a Bobbio, nel piacentino, mettendo dentro all´esperienza qualcosa di personale che mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e personale divertimento. Si vede infatti nel film una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni».
Così il regista Marco Bellocchio che, questa sera alle 22.30 sarà al Rialto (alle 20 sarà invece al cinema D´Azeglio di Parma) per presentare «Sorelle Mai», da oggi nelle sale, spiega la genesi della sua ultima opera proiettata fuori concorso al Festival di Venezia 2010.
Una pellicola che, a metà strada tra finzione e documentario, tra saggio scolastico e sperimentazione, tra verità e messa in scena, nasce dai seminari che il regista di «Vincere» e de «I pugni in tasca» tiene tutte le estati da dieci anni ma poi diventa quasi un filmino familiare, anche se molto sui generis.
Sei gli episodi, fortemente autobiografici, girati tra il `99 e il 2008 intorno alla dimora dei Bellocchio nella campagna piacentina e alle due sorelle di Marco, Letizia e Marisa, che lì abitano da sempre.
«Mai è un cognome di fantasia - svela il regista - ma allude anche a quella trappola che per le due sorelle è stata la famiglia. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma, sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell´Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cecoviano. Io che sono più giovane non ho responsabilità oggettive di questa loro "prigionia", ma sento ugualmente una certa tristezza per la loro vita di confortevoli rinunce».
Intorno a loro ci sono il nipote Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio) che inquieto viene e va, la piccola Elena che cresce (Elena Bellocchio) e Sara, sorella di Giorgio (Donatella Finocchiaro), che fa l´attrice a Milano. Tutto in quello stesso luogo dove 45 anni fa si era svolto il dramma de «I pugni in tasca», diventato il manifesto della ribellione contro l´istituto familiare.
Ma Bellocchio avverte: «Ho inserito dei piccoli frammenti de «I pugni in tasca» non per una citazione intellettualistica, ma perché essendo gli stessi luoghi, gli stessi ambienti, mi piaceva inabissare improvvisamente e rapidamente la storia di «Sorelle Mai» in un´altra lontanissima nel tempo. Vissuta e rappresentata cinquant´anni prima. La casa del mio primo film da allora non è molto cambiata. Ma, almeno per me, non è più popolata di fantasmi». Altri interpreti di "Sorelle Mai" Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher, Gianni Schicchi, Silvia Ferretti.
Repubblica 18.3.11
Chi ha paura della Filosofia?
Così l´Ungheria criminalizza gli intellettuali
di Ágnes Heller
L´obiettivo è quello dell´intimidazione: farti tacere educatamente se non vuoi essere denunciato
Sono stata tacciata di essere una pensatrice "liberale" che nel loro lessico è sinonimo di "antipatriottico"
La Heller, celebre studiosa, racconta la campagna di diffamazione che il governo di Budapest ha organizzato contro di lei e altri suoi colleghi
Dall´Illuminismo in poi, scrittori, teatranti, musicisti e redattori e cronisti dei giornali di qualità si sono fatti carico delle responsabilità che derivano dalla libertà di opinione. In altre parole, i loro pensieri e le loro convinzioni hanno cominciato a essere dettati dalla propria coscienza e dalla propria ragione, e non più dai loro signori e maestri. Nel campo della filosofia, invece, la riflessione indipendente è da sempre una delle "malattie professionali" del filosofo, ma l´Illuminismo ha esteso questo morbo a tutti coloro che successivamente sono stati designati con il termine di "intellettuali".
Gli intellettuali critici ebbero il loro momento di gloria sotto le dittature. Furono loro a incarnare l´idra a sette teste in rivolta contro la tirannia. E se una delle teste cadeva, per corruzione, assassinio, invio in campi di internamento o di sterminio, o ancora per esilio forzato o incarcerazione, altre spuntavano a prendere il loro posto. Un drago che si è dimostrato invincibile.
Con l´arrivo della democrazia, finisce l´eroismo! Ma il coraggio civico resta sempre di attualità. È questione di investire tempo ed energia, di rifiutare le promozioni facili per mantenere desto lo spirito critico. È la tensione che scaturisce dal dibattito, lo scambio incessante di argomentazioni e controargomentazioni che alimentano la dinamica della società moderna
Per anni ho creduto che la filosofia fosse diventata una disciplina universitaria come le altre, una professione che si occupava del proprio passato e dalla museificazione della sua storia, che interessava soltanto i suoi rappresentanti. La funzione critica che tradizionalmente svolgeva ormai veniva assolta dai vari media.
E poi, la sorpresa. Il nuovo Governo ungherese, appena entrato in carica, ha lanciato una campagna di diffamazione contro i filosofi ungheresi, e attraverso di loro contro tutta la filosofa critica, sottoposta ad attacchi in serie lanciati simultaneamente da tre quotidiani e tre reti televisive. La campagna è durata quasi due mesi, insistendo sempre sulle stesse accuse, asserzioni stucchevoli e reiterate da tempo smentite. L´accusa, ripetuta fino alla nausea, era che «la banda Heller», con mezzi sospetti e con il pretesto di lavori di ricerca, aveva rubato, sottratto mezzo miliardo di fiorini (quasi 2 milioni di euro).
Di che si trattava? Su un centinaio di progetti sono sei quelli sotto accusa. Le cifre destinate ai vari lavori in questione (ricerca, traduzione, curatela di opere…) sono state sommate, e una persona è stata additata come capro espiatorio. Perché proprio io, che su sei direttori di progetto non ho mai percepito un centesimo? Gli accusatori non hanno fatto mistero delle loro ragioni. Sono stata tacciata di «filosofa liberale», e «liberale», nel lessico del Governo attuale, è sinonimo di «opposizione», «diabolico», «antipatriottico». Questi sei bersagli selezionati sono stati scelti perché rappresentano il gruppo ideale per criminalizzare tutti coloro che mettono in discussione la politica del Governo ungherese, in particolare la recentissima legge sui mezzi di informazione.
Quali sono gli obbiettivi politici di questa criminalizzazione? Tanto per cominciare l´intimidazione degli intellettuali critici, in particolare dei filosofi. Costringerli a stare sul chi vive, indurli a tacere educatamente se non vogliono essere denunciati e trattati come vengono trattati i criminali comuni.
Inoltre, questa campagna consente di criminalizzare anche numerosi esponenti del Governo precedente e l´ex primo ministro social-liberale. In generale sulla base del pretesto che in questi ultimi dieci anni l´indebitamento dell´Ungheria ha raggiunto un livello preoccupante. Questo fatto, che è una questione di politica economica, ora viene presentato come un atto criminale, come se la precedente dirigenza si fosse intascata milioni di euro.
Assistiamo a un Kulturkampf, a un´offensiva del potere contro gli intellettuali. La maggior parte delle personalità di rilievo dell´élite culturale è stata «eliminata». È il caso, ad esempio, del direttore artistico e direttore d´orchestra dell´Opera di Budapest Adam Fischer, famoso a livello mondiale, o ancora del direttore del Balletto e di un gran numero di direttori di teatro, di redattori televisivi, di presentatori, di opinionisti, di giornalisti. Ed è in questo contesto che si inserisce l´attacco contro i filosofi.
Abusando della sua maggioranza parlamentare di due terzi, questo Governo di destra che si proclama «rivoluzionario» ha fatto approvare una legge sui mezzi di informazione gravemente in contraddizione con lo spirito democratico europeo. È stata creata una commissione ad hoc, composta unicamente da esponenti del partito di maggioranza, con la missione di controllare e definire sanzioni nei confronti dei media, inclusa la carta stampata (fino ad ora, la competenza per giudicare un reato mediatico – che si trattasse di diffamazione o di altro – spettava a un tribunale indipendente).
Quando molti deputati europei sono insorti contro questa grave violazione della libertà di stampa, il capo del Governo, Viktor Orbán, se l´è presa con gli intellettuali critici (i famosi «liberali»), accusati di aver pugnalato alla schiena il Governo legittimo del loro Paese, di essere dei nemici della patria, attribuendo a loro la responsabilità del fatto che l´Unione Europea non abbia apprezzato a dovere la particolarità di questo hungaricum, come chiamiamo noi le specialità magiare. Questo non lo nego, e mi dichiaro colpevole, come tantissimi altri colleghi. Ma la stampa europea non ha avuto bisogno di noi per lanciare l´allarme, perché la limitazione della libertà di stampa si può propagare come una malattia contagiosa, e bisogna fermarla fin dal manifestarsi dei primi sintomi.
Tuttavia, il Governo è ricorso a ogni genere di riforme per mettere alla prova i nervi degli intellettuali, sensibili al rispetto dei diritti. Ad esempio, eliminando metodicamente i contrappesi istituzionali, concentrando i poteri, nazionalizzando i contributi versati alle casse pensionistiche private, limitando l´indipendenza della Banca centrale, introducendo e applicando leggi a effetto retroattivo e altre misure ancora. Gli economisti e i politologi «liberali» si ritrovano in questo caso alleati dei filosofi.
Un motivo di soddisfazione però c´è, in tutta questa triste faccenda. La solidarietà che ci è stata manifestata dai filosofi del mondo intero, e dagli intellettuali e dai liberi pensatori in genere, ci riconforta. L´eco è stato più ampio di quello che ci si sarebbe potuti immaginare. Petizioni e lettere di protesta sono affluite dai quattro angoli del pianeta, da tutti i Paesi d´Europa. Ovunque, la stampa si è mobilitata.
Sembra finalmente che la libertà di espressione, la libertà di opinione, la libertà di pensiero siano concetti che non conoscono confini. E che anche la filosofia, alla fine, non sia diventata un vecchio leone sdentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti) Le Monde 14 mars 2011
il Fatto 18.3.11
Beltrandi, se c’è lui Berlusconi sta tranquillo
di Paola Zanca
La sua ossessione, da buon radicale, si chiama par condicio. E per difenderla è riuscito perfino a cadere nel trappolone che portò alla sospensione dei talk show prima delle regionali del 2010. A un anno di distanza, Marco Beltrandi, 42 anni da Bologna, è tornato a far parlare di sé. Mercoledì, a Montecitorio ha votato contro la mozione Franceschini che chiedeva l’accorpamento delle amministrative con i referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Un voto pesante, che, insieme alle assenze tra le fila dell’opposizione, ha fatto perdere la possibilità di mandare sotto il governo su una questione così importante. Una scheggia impazzita , che nessuno, nemmeno i suoi compagni di squadra sono riusciti a fermare. Lunedì, raccontano, ha annunciato il suo voto contrario in una riunione-fiume nella sede di via di Torre Argentina. Ancora ieri ribadiva la sua coerenza: “I miei compagni radicali lo sanno: io sono ferocemente contrario all’abbinamento amministrative e referendum. Lo ritengo un escamotage per raggiungere il quorum”. Non sia mai. Hanno riprovato a convincerlo due giorni dopo, durante il voto. Quando sul pannello delle votazioni elettroniche si è accesa la lucina rossa in alto a sinistra dell’emiciclo, i compagni di banco hanno urlato: “Cambia, cambia!”. Avrebbe fatto in tempo, la votazione è rimasta aperta a lungo. Invece no, ha preferito restare sulla sua posizione e farsi processare da tutto il Pd in Transatlantico.
D’ALTRONDE, controcorrente Beltrandi lo è. Sono passati i tempi, era l’ultima legislatura Prodi, lo ricordano disciplinato vicepresidente in commissione Trasporti. Da quando è finito nella Vigilanza Rai si è fatto riconoscere eccome.
È il marzo di quattro anni fa quando vota insieme a Storace una risoluzione contro Lucia Annunziata, colpevole di non invitare ospiti di centro-destra a In mezz'ora. La stagione della Annunziata è ancora a metà, in studio da lei c’è già stato Fini, c’è stato Tremonti. Per questo il capogruppo dell’Ulivo Fabrizio Morri bollò come “grave” il comportamento di Beltrandi, lui fece spallucce: “Grave – disse – è che il centrosinistra non rispetti i principi stabiliti dalla legge di pluralismo”. Un anno dopo è la volta dell’elezione del presidente della commissione di Vigilanza. Al termine di una querelle durata sei mesi , il Pd Riccardo Villari viene eletto con i voti del centrodestra. I democratici lo cacciano dal partito, i commissari, pur di mandarlo via, si dimettono in massa. Beltrandi e il collega Mpa Luciano Sardelli sono gli unici due a rimanere al loro posto e a invitare Villari a non andarsene. Servirà l’intervento dei presidenti delle Camere Fini e Schifani per sbloccare la situazione: revoca degli incarichi a tutti, si riparte da zero.
ORA A CAPO della Vigilanza Rai c’è Sergio Zavoli, e Beltrandi è rimasto il battitore libero di un tempo. È suo – siamo a febbraio del 2010 – il testo del regolamento per la campagna elettorale che prevede nell’ultimo mese solo tribune elettorali. Lo votarono Pdl, Lega e Udc. Il dirigente radicale era convinto di ottenere spazio sulla tv pubblica anche per il suo partito (“Avremo per la prima volta negli spazi più ambìti del palinsesto Rai una vera par condicio”), finì con un colossale bavaglio: la sospensione di tutti i programmi di approfondimento per quattro settimane.
Ora il referendum. Pur di evitare “gli escamotage per raggiungere il quorum” Beltrandi ha deciso che i cittadini italiani dovranno tornare due volte alle urne, a fine maggio e il 12 giugno. Lui insiste: “Il mio dissenso è politico, figuriamoci se intendo passare in maggioranza”. Ma c’è chi maliziosamente ricorda i numerosi incontri del leader Marco Pannella con Silvio Berlusconi, alla vigilia della riforma “epocale” della Giustizia, tema assai caro ai Radicali stessi. In verità, lo stesso Pannella ha definito il voto di Beltrandi “politicamente errato”. Altri maligni erano già andati oltre: “Beltrandi? Non è così intelligente da aver votato contro per fare un favore a Berlusconi”.
Corriere della Sera 18.3.11
La casa popolare della Polverini «A 130 euro al mese»
Sull’Aventino per 15 anni per 5 stanze
di Paolo Foschi
ROMA— Anche Renata Polverini finisce al centro di «affittopoli» . La governatrice del Lazio proprio l’altro ieri aveva istituito una «commissione ispettiva» sull’Ater (l’azienda dell’edilizia popolare) di Roma. Obiettivo: fare luce su eventuali abusi e favoritismi nei contratti di affitto e di vendita delle case pubbliche. Da settimane il centrodestra accusa la vecchia giunta Veltroni di aver svenduto case ad amici e amici di amici. Ma ieri, appena 24 ore dopo l’annuncio della linea dura, Renata Polverini si è ritrovata a sua volta sotto accusa. Tirata in ballo da un’inchiesta pubblicata sul sito Internet de l’Espresso. Secondo la ricostruzione del settimanale (suffragata da certificati anagrafici), l’ex sindacalista per 15 anni, fino al 2004, ha avuto la propria residenza insieme al marito Massimo Cavicchioli in una casa dell’Ater in via Bramante, all’Aventino, quartiere extra lusso, usufruendo di un canone ultra-popolare: circa 130 euro al mese per 4 vani più bagno e cucina. E ancora oggi, sostiene il giornale, Cavicchioli risulta residente nell’appartamento. Renata Polverini, cercata tramite la propria portavoce, ha preferito non commentare: «Domani (oggi per chi legge, ndr) forse parlerà di questa storia» . La governatrice -secondo la ricostruzione de l’Espresso -dal settembre del 2004 abita e ha la propria residenza in un elegante appartamento a San Saba, altra zona extra lusso in pieno centro della Capitale. Si tratta di una casa acquistata nel 2002 dallo Ior: nove stanze, due box e tre balconi, pagata appena 272 mila euro (somma con la quale all’epoca a Roma si acquistavano sul mercato al massimo 70-75 metri fuori dal centro). E sempre nello stesso stabile aveva poi comprato nel 2004, quando ancora era residente nella casa Ater, un altro appartamento gemello, stavolta a 666 mila euro (valore sempre di molto inferiore rispetto ai prezzi di mercato), di proprietà di una società in affari con la Santa sede. Non solo. Da inquilina delle case popolari, ricostruisce il settimanale, Renata Polverini, mentre stava scalando i vertici del sindacato Ugl fino a diventarne leader, dal 2001 era stata protagonista di una girandola di compravendite immobiliari (compreso un appartamento al Torrino ex Inpdap acquistato alle condizioni riservate agli inquilini, anche se lei non lo era), cessioni e donazioni con un vorticoso giro di centinaia di migliaia di euro. Insomma un tenore di vita ben diverso da quello che si richiede come requisito per usufruire dei canoni agevolati delle abitazioni popolari riservate a persone con redditi bassi e senza casa. Ancora oggi sul citofono della casa di via Bramante si leggono tre cognomi: Polverini R.-Cavicchioli M. -Berardi (è la famiglia della suocera defunta della governatrice). «Non abitano più qui da tempo» , dicono però gli altri inquilini. L’appartamento, a quanto pare, è vuoto. «Se le notizie riportate dall’Espresso fossero confermate, sarebbero molto gravi. Ci auguriamo che Renata Polverini faccia chiarezza al più presto» , è il commento di Vincenzo Maruccio, dell’Italia dei Valori.
Repubblica 18.3.11
Il segretario della Cgil: redistribuzione senza gravare sui Bot
Camusso: "Aiuti fiscali ai redditi bassi e tasse sui patrimoni oltre 800mila euro"
ROMA Di crisi, ripresa e lavoro non se ne parla quasi più, ma il 2011 rischia di essere un anno in cui le condizioni del paese possono peggiorare ulteriormente. Per questo serve un governo responsabile, che intervenga anche partendo dalle tasse. Susanna Camusso, leader della Cgil, ha in proposito un´idea precisa, raccontata ieri a RepubblicaTv intervistata dal vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini.
Berlusconi sta cercando di convincere Tremonti ad avviare una riforma fiscale, lei è d´accordo?
«Da tempo diciamo che è necessaria, ovviamente bisogna vedere di che riforma si tratta».
Il premier dice che la sinistra vuole la patrimoniale, è così?
«Non mi risulta che sia così. Per quanto riguarda la Cgil sicuramente sì: siamo convinti che vada introdotta una patrimoniale sopra gli 800 mila euro».
Tassando i Bot?
«No, non bisogna pensare ai bassi redditi o a chi si è comprato casa con venti anni di mutuo. Bisogna invece pensare a chi ha tante ville e grandi patrimoni, all´aumento della tassazione sulle rendite finanziare, al fatto che le stock option devono essere trattate come il reddito da lavoro. Serve una riforma fiscale che ridistribuisca risorse verso il basso, ai dipendenti, pensionati e redditi bassi. E che le tolga alla rendita per darle alla produzione delle imprese».
Del federalismo fiscale cosa ne pensa?
«Che così com´è contiene in sé due ingiustizie: affida più competenze a comuni e regioni, ma sottrae loro risorse mettendo in difficoltà le amministrazioni. In più l´aumento delle addizionali e l´aumento del costo dei servizi colpiranno ancora una volta lavoratori dipendenti e pensionati. Chi dichiara tutto il reddito e non evade».
Da parte del sindacato la risposta a tutto questo può continuare ad essere lo sciopero generale? Cgil ne ha in programma uno il 6 maggio.
«Lo sciopero non basta, ma va fatto. Di fronte alla situazione attuale ci sono troppi silenzi e poche assunzioni di responsabilità. Se le cose non vanno bene bisogna dirlo, lo sciopero è lo strumento che ha il sindacato per farlo. Il tema di questa manifestazione sarà proprio la mancanza di responsabilità della classe dirigente: se si cominciasse a discutere pubblicamente su cosa fare, come intervenire, noi non saremmo costretti a scioperare».
Qual è lo stato dell´arte dei rapporti fra Cgil, Cisl e Uil?
«Sappiamo che i lavoratori hanno bisogno di unità e abbiamo fatto una proposta: ridiamoci delle regole e coinvolgiamo i lavoratori quando siamo in dissenso. Ma forse a qualche sindacato pare più utile ottenere il riconoscimento del governo che provare a determinare un cambiamento».