lunedì 28 marzo 2011

elezioni in Germania
l’Unità 28.3.11
Terza sconfitta del 2011 per la Cancelliera, frana nel Baden Württemberg dove il partito governava da 58 anni
I Grünen volano e superano la Spd. Per la prima volta un ecologista può arrivare alla presidenza del Land
Merkel perde storica roccaforte Cdu Effetto nucleare, successo dei verdi
Terza sconfitta consecutiva per Angela Merkel, che arretra nella storica roccaforte del Baden Württemberg. Vittoria dei verdi, per la prima volta alla presidenza del Land. Nell’urna ha pesato la questione nucleare
di Gherardo Ugolini


Dopo la pesante sconfitta di Amburgo e quella più attenuata della Sassonia-Anhalt, Angela Merkel incassa un’altra batosta elettorale, la terza consecutiva nel 2011. Questa volta a girare le spalle alla cancelliera è stato il Baden-Württemberg, ricco e popoloso Land meridionale, la regione della Mercedes e della Bosch, oltre che di storiche città universitarie quali Tubinga e Heidelberg. Qui la sconfitta della Cdu assume i caratteri di una svolta storica, visto che in questa regione il partito cristiano-democratico era al governo ininterrottamente da 58 anni. Secondo le proiezioni della tv tedesca, la Cdu ha perso oltre il 5% dei consensi fermandosi al 39%: una percentuale ragguardevole, ma insufficiente per continuare a governare, neppure con l’appoggio dell’Fdp, che per un soffio ha superato la soglia del 5% dimezzando comunque la quota di consensi raccolta 5 anni fa.
FATTORE GIAPPONE
Trionfatori del voto in Baden-Württemberg sono i Grünen, che passano dall’11,7% al 24,4% e molto probabilmente potranno governare la regione insieme ad una Spd in calo (dal 25,2 al 23%) e senza la Linke bloccata al 2,8% e pertanto fuori dal parlamento di Stoccarda. Si tratta senza dubbio di un risultato storico per la sinistra tedesca, non solo per la conquista di un bastione della Cdu che pareva inespugnabile, ma anche e soprattutto per il riequilibrio dei rapporti di forza al suo interno. Dato il sorpasso dei Verdi sui socialdemocratici, sarà infatti un esponente del partito ecologista a guidare il governo del Land nella prossima legislatura, e precisamente Winfried Kretschmann, docente di biologia e chimica in un liceo di Stoccarda, da sempre impegnato nelle battaglie del fronte ecologista. Fino ad oggi nella storia politica tedesca non s’era mai visto un presidente regionale espresso dai Grünen. Non c’è dubbio che sul voto di ieri ha pesato moltissimo la questione nucleare. Nel Baden-Württemberg sono stanziati ben 4 dei complessivi 17 reattori nucleari tedeschi ed è ovvio che la problematica lì sia avvertita con particolare sensibilità. Merkel ha tentato fino all’ultimo di cavalcare le paure suscitate dalla catastrofe di Fukushima, ma i suoi voltafaccia non sono bastati. La recentissima conversione all’antinuclearismo è apparsa all’opinione pubblica un espediente opportunista. E non a caso il giorno prima del voto circa 250mila persone avevano manifestato in varie città della Germania protestando contro la politica energetica del governo conservatore. Un altro fattore che ha mobilitato in massa gli elettori verdi è stato il progetto di Stefan Mappus, governatore Cdu uscente, di demolire la vecchia stazione ferroviaria di Stoccarda per costruirne una nuova ultramoderna e sotterranea. Da mesi gli oppositori manifestano contro.
Successo dei Grünen anche nell’altro Land in cui si è votato ieri, la Renania-Palatinato. Qui l’Spd, che governava con la maggioranza assoluta sotto la guida di Kurt Beck, ha subito un pesante arretramento scendendo dal 45,6 al 36%, mentre la Cdu ha confermato il 35% dei voti del turno precedente. Le perdite dell’Spd sono state compensate dai Verdi che invece triplicano i loro consensi e arrivano al 15,3%, con la conseguenza che nella prossima legislatura ci sarà al governo una maggioranza rosso-verde.La perdita del Baden-Württemberg è un bruttissimo colpo per la Bundeskanzlerin e per la sua leadership già gravemente appannata. E qualcuno fa il paragone con la perdita del Nord Reno-Vestfalia, tradizionale fortezza Spd, nel luglio 2005, in un’elezione che segnò per l’ex cancelliere Gerhard Schröder l’inizio della fine.

elezioni in Francia
Corriere della Sera 28.3.11
Crolla la destra di governo. Eliseo a rischio per Sarkozy
di  Stefano Montefiori


Ha vinto la sinistra, la destra di governo dell’Ump è crollata e il Fronte nazionale è avanzato senza sfondare. Ma il protagonista delle elezioni cantonali dall’astensionismo record (attorno al 55%) è di nuovo Marine Le Pen, che gli ultimi sondaggi danno tra un anno certamente qualificata al secondo turno delle presidenziali, mentre Nicolas Sarkozy viene sconfitto subito, al primo turno, in quasi tutte le combinazioni possibili. «D’ora in poi bisognerà fare i conti con un Fronte nazionale in prima linea — ha commentato ieri sera una trionfante Marine Le Pen —. La ricomposizione della vita politica francese è in corso, siamo riusciti a trasformare il voto di protesta in un voto di adesione» . In Francia, i 101 dipartimenti (analoghi alle province italiane) si suddividono in arrondissement dipartimentali, a loro volta suddivisi in cantoni, che eleggono i rappresentanti al consiglio generale del dipartimento. Le cantonali sono elezioni locali tradizionalmente poco appassionanti, ma stavolta giudicate un test importante per valutare le intenzioni di voto dei francesi, alla luce delle pessime indicazioni raccolte dal presidente Sarkozy nel corso di ormai molti mesi. Urne e sondaggi danno lo stesso responso: l’Ump e Sarkozy sprofondano in una crisi sempre più profonda. La possibilità che la destra di governo cambi cavallo per puntare sul premier François Fillon al posto di Sarkozy entra a far parte del dibattito politico, anche se il portavoce del governo François Baroin non ha dubbi: «Sarebbe pura follia» . Secondo i primi dati non definitivi, la sinistra guidata da Martine Aubry ha raccolto ieri il 36%dei voti, quasi il doppio di quelli dell’Ump (poco più del 18%), mentre il Fronte nazionale presente in circa un quarto dei cantoni ha ottenuto l’ 11%. «I francesi hanno aperto la strada al cambiamento, sapremo essere all’altezza» , ha commentato Martine Aubry. Le difficoltà anche interne dell’Ump sono apparse subito evidenti dopo l’affermazione del Fn al primo turno. In caso di scontro al ballottaggio tra il candidato socialista e quello frontista, «non votate né i socialisti né il Fn» , aveva detto Sarkozy. Il premier Fillon, invece, almeno in un primo momento ha chiesto ai suoi elettori di scegliere il Ps per bloccare l’avanzata della destra estrema. E la divisione tra Sarkozy e Fillon potrebbe approfondirsi, dopo le indicazioni di ieri. Tra un anno, secondo i sondaggi, passeranno il primo turno Marine Le Pen, e chiunque si candidi nei socialisti tra Dominique Strauss-Kahn, Martine Aubry e François Hollande. Per battere la gauche, Sarkozy avrebbe un’unica speranza: che a rappresentarla fosse Ségolène Royal.

l’Unità 28.3.11
Intervista a Hafiz Al Ghogha
«Libereremo Tripoli. Nessun ruolo per il raìs nel futuro del Paese»
Per il vicepresidente del governo provvisorio di Bengasi il Colonnello dovrebbe essere giudicato per i suoi crimini ma anche l’esilio è accettabile
di Umberto De Giovannangeli


Non esiste nulla di simile, non crediamo al doppio gioco di Gheddafi che finora ci ha mandato solo armi e distruzione. Lo abbiamo già avvertito che non accetteremo nessun negoziato con lui. Non credo che questa gente arrivi con un ramoscello d’ulivo, ma sicuramente con armi e bombe perché conosciamo bene Gheddafi e le sue strategie. Non li lasceremo entrare a Bengasi». Parole chiare, tanto più significative perché a pronunciarle è una delle figure più rappresentative del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), il governo degli insorti libici: Hafiz Al Ghogha, portavoce e Vicepresidente del Cnt. «Avevamo chiesto alla Comunità internazionale di agire per limitare la forza militare di Gheddafi, soprattutto aerea. L’intervento sta dando i suoi frutti. L’esercito rivoluzionario – dice a l’Unità Al Ghogha – ha lanciato con successo la controffensiva. La rivoluzione non si fermerà fino a quando non libereremo Tripoli». A chi afferma che l’intervento internazionale sia stato affrettato, il Vicepresidente del Cnt ribatte: «Semmai è stato troppo ritardato. Se non ci fossero stati i raid aerei le milizie di Gheddafi, con la loro schiacciante superiorità di armamenti, avrebbero trasformato Bengasi in un mattatoio. La riprova è nelle maschere antigas trovate nell’equipaggiamento dei miliziani al soldo del dittatore. È la dimostrazione che Gheddafi era pronto a usare armi chimiche». Sulla ventilata mediazione italiana, Al Ghogha è molto chiaro: «Non ne sappiamo nulla. Per noi non esiste alcuna mediazione italiana. Per noi Gheddafi è un criminale di guerra che va giudicato da un tribunale internazionale». La cronaca di guerra s'intreccia indissolubilmente con quella politico-diplomatica. Partiamo dal campo...
«La controffensiva è iniziata sulla direttrice ovest. I raid della coalizione hanno indebolito la potenza militare del regime, soprattutto aerea. Ed era ciò che chiedevamo. Un riequilibrio delle forze. L'esercito rivoluzionario ha riconquistato Ajdabya, Ras Lanuf, Ben Jawad, Brega. Molti miliziani pro-Gheddafi stanno trattando la resa e sappiamo di importanti defezioni anche nella nomenclatura del regime...». Siamo alla svolta militare?
«Non è ancora tempo di parlare di vittoria. Lo potremo fare solo una volta liberata Tripoli. È solo questione di tempo».
In campo c'è anche la diplomazia . Domani a Londra si terrà un importante vertice in cui verranno presentate diverse proposte per una soluzione politica e diplomatica. Si parla di una mediazione italiana...
«A noi non risulta in essere alcuna mediazione. Per quanto ci riguarda non esiste alcuna mediazione italiana....».
Ma il Cnt è pregiudizialmente contrario all'esilio del Raìs? «Per i crimini di cui si è macchiato e continua a macchiarsi, Gheddafi dovrebbe essere giudicato da un tribunale internazionale. Ma il suo destino personale è cosa secondaria. Gheddafi e i suoi figli sono il passato della Libia. Il futuro del Paese sarà senza di loro. Gheddafi non deve avere alcun ruolo, diretto o indiretto, nella transizione. Voglio essere ancora più chiaro: non c'interessa la vendetta personale. Se c'è chi riesce a convincerlo a lasciare la Libia, da noi non incontrerebbe ostacoli. Ma una cosa deve essere chiara...». Quale? «Nessuno potrà garantirgli le ricchezze che ha accumulato ai danni del popolo libico. Quelle ricchezze sono state depredate al popolo e al popolo vanno restituite».
C'è chi dice che il Cnt è «pilotato» dalla Francia... «È falso. Noi diamo atto al presidente Sarkozy di essere stato tra i più determinati nello spingere per un' azione militare a protezione della popolazione civile bersagliata dai caccia e dai cannoni di Gheddafi. Ma nessuno ci “pilota”. Saranno i libici a liberare il loro Paese e a decidere sul loro futuro. Amici di tutti, dipendenti da nessuno».
Il Cnt ha più volte rassicurato sul rispetto dei contratti sottoscritti in passato con aziende occidentali. L’Italia può stare tranquilla?
«Quello che abbiamo detto e ripetuto è che la “nuova Libia” del dopo-Gheddafi sarà uno Stato libero, democratico, indipendente che cercherà la cooperazione e il dialogo con l’Occidente. Ma è altrettanto chiaro che i rapporti economici non possono prescindere dagli eventi di queste settimane, di questi giorni, di queste ore. E saranno calibrati al sostegno che i vari Paesi europei hanno offerto alla rivolta popolare».

La Stampa 28.3.11
A Damasco il gorgo del mondo
di Lucia Annunziata


La Siria sta rapidamente raggiungendo un punto di non ritorno. Di fronte al presidente Assad si apre un bivio molto semplice: di qua le riforme, di là la repressione. Quale sarà la direzione che Damasco prenderà si saprà in non tanto tempo.
Ieri le cose lasciavano sperare: sono state annunciate la cancellazione dopo 48 anni dello stato d’emergenza imposto nel 1963 e le dimissioni dell’attuale gabinetto di governo. Ma alla fin fine, come ci hanno insegnato fin qui le altre rivolte arabe, il livello di riforme necessarie a calmare le acque o è molto alto o è inesistente. E la leadership dell’erede del Leone di Damasco, come lo definisce nella sua migliore biografia Patrick Seal, non ha mai dato fin qui particolari segni di forti capacità né strategiche né politiche - nemmeno nel senso di forza repressiva che il padre era capace di scatenare.
Per cui, se tanto dà tanto, al di là anche delle intenzioni della presidenza, molto presto la Siria potrebbe diventare terreno di intervento di altre potenze regionali.
Non intendiamo qui né un’occupazione militare né tanto meno un intervento diretto degli occidentali.
I giochi dentro questa nazione sono però troppi e troppo aperti perché la rivolta contro gli Assad proceda troppo a lungo e vada fuori controllo. La ribellione siriana sarà pure, infatti, parte dell’onda delle rivoluzioni popolari del Nord Africa, ma sposta l’asse della storia dal Mediterraneo alla regione a più alta tensione del mondo il triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita. Il paradosso è dunque che proprio un Paese senza petrolio, qual è la Siria, rischia di aprire una falla nel faticoso equilibrio che negli ultimi dieci anni si è costruito intorno alla cassaforte energetica mondiale.
L’importanza di Damasco è scritta sulla carta geografica, dove si colloca, oggi come nei secoli scorsi, al centro di un vasto incrocio. Sul vicino Libano esercita da anni un protettorato senza scrupoli, che negli anni ha fatto sentire il suo pugno di ferro nei momenti chiave dal bombardamento contro il generale cristiano maronita Michel Aoun a Beirut Est, con cannoni di lunga gittata, nel 1989, all’uccisione nel 2005 dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri che aveva guidato la rinascita del Libano dopo la Guerra civile. Oggi il ruolo di Damasco è quello di costituire un santuario politico per gli Hezbollah che senza governare pienamente controllano la vita politica in Libano, e per le forze palestinesi radicali di Hamas nella Striscia di Gaza: è tramite la Siria, infatti, che arriva a questi movimenti l’appoggio logistico (armi) e politico dell’Iran.
A proposito di religione, va notato che la Siria è governata dagli Assad che sono una minoranza sciita alawita in un Paese a maggioranza sunnita. L’esatto contrario di quel che è stato l’Iraq di Saddam Hussein, per intenderci. Il che la dice lunga nel rapporto con l’Iraq attuale.
La tensione inter-islamica è all’origine di uno degli episodi della formazione della Siria moderna la cui memoria oggi rischia di avere molto peso negli eventi di questi giorni: nel 1982, nella città di Hama, Assad padre sterminò ventimila persone per dare una lezione ai Fratelli Musulmani. Oggi però l’esercito popolare è a maggioranza sunnita, e questo mette a rischio la coesione dell’intervento del governo centrale.
Delle frontiere che la Siria ha con Israele e con la Turchia, e del ruolo che ha nella politica di questi due Paesi, si sa molto. Infine va considerato il legame, anche sociale, fra la Giordania e la Siria, entrambi Paesi con una vasta popolazione di palestinesi, retaggio del conflitto arabo-israeliano. E in Giordania l’opposizione islamista agita le piazze e ha chiesto le dimissioni del primo ministro Maaruf Bakhit.
Quante possibilità ci sono che questo gorgo non diventi un ingovernabile caos che si scarica su tutti i Paesi confinanti?
Per Washington infatti la Siria pone un serio dilemma. L’indebolimento degli Assad sarebbe positivo per gli Usa perché indebolirebbe l’influenza regionale iraniana. Ma una crisi non risolta bene e presto rischierebbe di scalfire il precario equilibrio iracheno. Per ora si sa che a Damasco il nuovo ambasciatore Usa, Robert Ford, sta fortemente consigliando al Presidente la via delle riforme.
Ma lo scenario è pronto, come si diceva, per una sorta di apertura a un intervento di potenze esterne. È possibile che più o meno apertamente si muova l’Iran: un po’ di settimane fa, come si ricorderà, subito dopo la caduta di Mubarak, il Canale di Suez fu attraversato da due navi da guerra iraniane. La loro apparizione nel Mediterraneo suscitò allarme. Quelle navi erano dirette in Siria, e ancora lì stanno. Si muove tuttavia anche la Turchia, altra potenza che in questa crisi libica ha assunto peraltro un maggior ruolo nei confronti degli Stati Uniti. Fra Istanbul e Damasco corrono relazioni, anche recenti, «fraterne», con una vigile presenza dell’abile Erdogan sul fragile giovane Assad.
Un altro dilemma dunque si è aperto, un altro gioco nel Grande Gioco. Un altro possibile deragliamento del mondo arabo, in una maniera o nell’altra, è dietro l’angolo.

Corriere della Sera 28.3.11
Intervista a Moshe Maoz
«L’Occidente sta a guardare: adesso toccare la Siria significa sfidare Teheran»
di Francesco Battistini


Nonostante i 76 anni, il professore guarda Al Jazeera fino a tardi: «Immagini straordinarie...» . Non si perde nulla dallo Stato caserma: «Vedere la gente che strappa i ritratti degli Assad, impensabile...» . Tira fuori un’intervista di poco tempo fa, al Wall Street Journal, Bashar che cercava di svettare: «Diceva che il suo regime era più stabile di Mubarak..» . Pochi come il professor Moshe Maoz, in Israele, sanno che cosa dicono quando parlano di Siria: cattedra di Storia del Medio Oriente alla Hebrew University, insegnamento a Oxford, alla Columbia e a Harvard, già consigliere di Ben-Gurion, di Weizman, di Rabin e di Peres nei rapporti sempre problematici con le volpi di Damasco, autore nel 1995 del libro «Siria e Israele: dalla guerra alla pace» , Maoz ha consegnato qualche settimana fa in tipografia un saggio sugli «Sviluppi politici e socioeconomici della Siria moderna» . Eppure, confessa, ci capisce poco: «È difficile prevedere come va a finire. Guardi l’Egitto: sono passati quasi tre mesi e non è spuntato un leader...» . La fine della legge marziale è una svolta o un bluff? «Dal 1963, da quando il partito Baath è al potere, non c’è mai stato un governo siriano senza stato d’emergenza. Le incarcerazioni senza processo, il bavaglio ai media, la cancellazione dei diritti sono parte della Siria moderna. Bashar non può farne a meno. Bisogna capire quali riforme seguiranno: se saranno elezioni vere, il Baath è già morto» . Perché l’ideologia baathista è incompatibile con la democrazia? «Esatto. In Siria, il Baath coincide con gli Assad come in Iraq coincideva con Saddam. Governo e partito sono la stessa cosa. Impossibile che sia il governo a voltare pagina. Il Baath può sopravvivere solo in una situazione di caos, ma come uno degli elementi, altrimenti è destinato a sparire come in tutto il Medio Oriente» . Colpisce il silenzio dell’Occidente: un ministro italiano, Tremonti, lo attribuisce al fatto che non ci sia petrolio... «Per la verità, un po’ di petrolio c’è anche in Siria. Ma l’interesse dell’Occidente qui è d’altro tipo: questo è uno Stato-chiave nell’"asse del male". Americani ed europei avrebbero interesse ad appoggiare un cambiamento, perché Damasco è una via di controllo sul Libano e sull’Iraq. Se non lo fanno, è perché toccare la Siria significa sfiorare l’Iran. E ogni Paese dell’Occidente, quando si parla d’Iran, ha interessi propri e ben differenziati» . Israele per chi tifa? «Da quando sono cominciate queste rivoluzioni d’inverno, Israele è preoccupato. Assad cerca da anni la pace con Israele, è Israele che non l’ha mai voluta. E allora la nascita d’uno Stato democratico, sarebbe un vantaggio. In realtà, nessuno ci crede: la democrazia non si fa solo con le elezioni, ci vogliono le tradizioni. Qualche seme democratico non darà grandi frutti. Meglio lo status quo. Perché la vera preoccupazione israeliana è l’Iran. Con tutte queste rivolte, nessuno si occupa del programma nucleare iraniano» . Sta dicendo che l’Iran ha interesse a questa rivoluzione? «Fa comodo, finché è in Tunisia. Ma in Siria, ayatollah e Hezbollah continuano ad appoggiare Assad. Non hanno interesse al fatto che cada. Hanno paura di questo cambiamento anche più dell’Occidente» . Ma lei crede alla casuale concatenazione di queste rivolte? «Sono rivoluzioni che accomuniamo, ma molto diverse. Nascono tutte da fattori come la situazione economica e la corruzione dei governi. Di Paese in Paese, però, cambiano. Altrimenti, non si spiegherebbe perché al Cairo c’è adesso una dirigenza militare, sostenuta dal popolo, assai vicina alla dinastia alauita, minoranza contestata dal popolo, che comanda a Damasco. Bisogna guardare il cambiamento con le differenze dovute. In Siria, lo scontro fra società laica e religiosa, sarà più importante che altrove. E, più che altrove, sarà difficile capire con chi stare» .

Corriere della Sera 24.3.11
Quello sguardo sul Maghreb che divide Berlino e Parigi
di Massimo Nava


Dunque, molti italiani non hanno capito che la dittatura è a Parigi e non a Tripoli. Non si spiegherebbe altrimenti che la maggioranza dei francesi, oltre a opinionisti, partiti e giornali di destra e sinistra, nel pieno di una campagna presidenziale durissima, approvino le scelte dell’Eliseo sulla Libia. Così come molti altri non hanno capito che la democrazia e la razionale saggezza abitano nella Germania della signora Merkel, che si tiene fuori dalla guerra. Molti sospettano che i francesi siano in balia di un presidente guerrafondaio che vuole mettere le mani sul petrolio libico e si pulisce la coscienza lasciandosi consigliare dal «dandy umanitario» Bernard-Henri Lévy. Altri pensano che i tedeschi, egoisti e schiacciati dal senso di colpa della storia, si contentino di dettare regole dell’euro e vendere Mercedes. Ma ci sono aspetti meno caricaturali delle posizioni divergenti di Parigi e Berlino. Per quanto riguarda la Francia, sarebbe ingenuo credere che dietro le ragioni umanitarie non ci siano anche interessi economici. Ma questo non sminuisce il proposito di fermare i massacri e smuovere la comunità internazionale. Che cosa avremmo scritto dell’Occidente e della nostra morale dopo una nuova Srebrenica? E su quale futuro avremmo potuto costruire strategie nazionali ed europee se la primavera araba fosse stata sepolta a Bengasi? La Francia ha deciso di scommettere sulla sponda del Mediterraneo e sul futuro di un continente in cui si sono aperte molte partite: rapido ingresso nella globalizzazione, urbanesimo e crescita culturale delle nuove generazioni, concorrenza della Cina sui mercati delle materie prime, affermarsi di classi borghesi che vogliono essere padrone del proprio destino e non più in balia di dittature corrotte e sanguinarie (peraltro così sovente coccolate proprio a Parigi). Come ha avvertito Kofi Annan, nei prossimi 18 mesi si terranno 19 elezioni presidenziali in Africa. Dal Sudan alla Costa d’Avorio, dalla Nigeria al Ciad, sono in atto processi complicati: alcuni condizionati dalla rete di interessi, investimenti e ricatti di Gheddafi, molti altri in bilico fra passato e futuro. Possiamo sperare che anche in Africa le nuove generazioni raccolgano, con la velocità incomprimibile di Facebook, le stesse sfide del mondo arabo? Può essere sottovalutato il ruolo di Paesi arabi e africani nella partita libica? E magari nel conflitto fra palestinesi e israeliani? Sarebbe utile ricordare che anche dal crollo del Muro nacquero situazioni incerte, diverse, non tutte positive: la Polonia e l’Ungheria democratiche, il bagno di sangue in Romania, i Baltici europei, la Bielorussia ancora sotto dittatura, la pacifica separazione della Cecoslovacchia, i massacri nella ex Jugoslavia, la Russia oligarchica. Gli sbocchi potrebbero essere parimenti incerti e diversi nel mondo arabo e africano, ma all’interno di un processo che appare irreversibile. Forse questo intendeva lo studioso Francis Fukuyama quando parlò di fine della storia dopo la caduta del Muro. La primavera araba potrebbe ampliare il processo di globalizzazione di diritti e democrazia apertosi con il crollo del comunismo e limitato in gran parte del mondo alla globalizzazione dei mercati. Queste prospettive, per quanto visionarie, attraversano da tempo cancellerie e grande politica. Questo era il senso del famoso discorso di Obama al Cairo, a favore di «governi che riflettano la volontà dei cittadini» . Sono prospettive riducibili a rissa politica? Ha senso ritenere che l’uomo africano o l’uomo arabo siano geneticamente diversi dall’uomo comunista? O che il fanatismo religioso sia più impenetrabile e resistente di quello ideologico? Rispetto al crollo del mondo comunista, la Germania ebbe una velocità di reazione analoga a quella francese rispetto al Mediterraneo. C’erano motivazioni ideali e interessi nazionali, che avrebbero aperto al Paese le strade della riunificazione e dei nuovi mercati dell’Est. La Germania fece la corsa di testa, sfidò chi diceva di preferire che le Germanie restassero due, seppe rischiare, si caricò sulle spalle costi enormi, accettò ondate di profughi ed emigranti, ebbe un ruolo non secondario, a volte ambiguo e cinico, nella guerra dei Balcani. È dunque un fatto e non una caricatura che Berlino guardi al Maghreb con occhi diversi dalla Francia. Se le posizioni francese e tedesca meritano considerazione, diventa più comprensibile, al fuori delle polemiche, anche lo strabismo di un’Italia che vorrebbe assumere nel Mediterraneo un ruolo conseguente alla propria storia e geografia e, d’altra parte, sente storici legami con la Mitteleuropa e considera il sud del mondo più un pericolo che un’opportunità. Anche per questo scegliere è stato più difficile. Mentre sarebbe un errore un ripensamento sull’impegno militare, è una mossa azzeccata, anche nell’interesse dell’Europa, il tenere la Germania dentro la partita. Nei teatri recenti di guerra, giusta o sbagliata, l’Italia ha dimostrato di non essere seconda a nessuno. Non abbiamo mai avuto voglia di sparare per primi, ma siamo abilissimi quando si tratta di dialogare, pacificare, ricostruire. Con il sorriso che non hanno i francesi e le intuizioni che non hanno i tedeschi.

Repubblica 28.3.11
La scommessa del mondo arabo in cerca dei piccoli Mandela per creare le nuove democrazie
di Thomas L. Friedman


L´America deve prepararsi a fare da arbitro in quei Paesi, come Libia e Yemen, dove mancano del tutto le basi per la transizione
La gente lotta per governi più rappresentativi: è ciò di cui ha bisogno per superare il divario che la affligge in termini di libertà e diritti

Oggi che la Libia, lo Yemen e la Siria sono tutti coinvolti nella ribellione, non è esagerato sostenere che, per 350 milioni di arabi, il coperchio autoritario che per secoli ha soffocato la libertà nel mondo arabo potrebbe saltare tutto in una volta. Personalmente, ritengo che, con il tempo, ciò è esattamente quello che accadrà. Preparatevi a sloggiare, autocrati arabi: e anche tu, Ahmadinejad.
Da persona che ha sempre creduto nel potenziale democratico di questa parte del mondo, sono allo stesso tempo fiducioso e preoccupato sulle prospettive. Fiducioso perché i popoli arabi lottano per un governo più rappresentativo e onesto, che è ciò di cui hanno bisogno per superare l´enorme divario in termini di istruzione, libertà e autonomia delle donne, un divario che li ha tenuti in posizione arretrata. Ma compiere un tale passo significa attraversare un terreno minato fatto di problemi tribali, settari e di governance.
Il modo migliore per comprendere le potenzialità e le trappole che questa transizione presenta, è quello di pensare all´Iraq. So che in America la guerra in Iraq e lo sforzo per costruire la democrazia che ne è seguito ha costituito un elemento di divisione tale che nessuno desidera parlarne. Oggi però ne parleremo, perché quell´esperienza ci ha dato una lezione importantissima sul modo di gestire il passaggio verso il governo democratico di uno Stato arabo multi-settario, una volta che il coperchio è saltato.
La democrazia richiede tre cose: i cittadini, vale a dire persone che si considerano parte di una comunità nazionale indifferenziata, nella quale chiunque può essere governante o governato.
Richiede autodeterminazione, cioè l´andare a votare. E richiede ciò che Michael Mandelbaum definisce "libertà" (liberty). «Mentre votare determina chi governa - spiega Mandelbaum - la libertà determina ciò che i governi possono o non possono fare. Il termine libertà abbraccia tutte le regole e i limiti che governano la politica, la giustizia, l´economia e la religione».
E costruire la libertà è davvero difficile. Sarà molto arduo in quei Paesi mediorientali caratterizzati da grandi maggioranze omogenee, come l´Egitto, la Tunisia e l´Iran, dove già esiste un forte senso della cittadinanza e dove, grosso modo, l´unità nazionale è data per scontata. Lo sarà doppiamente in tutti gli altri Paesi, divisi da identità tribali, etniche e settarie e dove la minaccia della guerra civile è sempre presente.
Nessun Paese, sotto questo aspetto, era più diviso dell´Iraq. Che cosa abbiamo imparato da quell´esperienza? Per prima cosa abbiamo visto che, una volta rimosso il coperchio autoritario, le tensioni tra iracheni curdi, sciiti e sunniti sono esplose e ogni fazione ha messo alla prova la forza dell´altra in una guerra civile strisciante. Ma abbiamo appreso anche che, oltre a quella guerra, molti iracheni hanno espresso il desiderio, altrettanto forte, di vivere insieme da cittadini. Nonostante tutti gli sforzi feroci di Al Qaeda per scatenare in Iraq una guerra civile su vasta scala, ciò non è accaduto. Nelle ultime elezioni irachene, il candidato che ha conquistato più seggi, lo sciita Ayad Allawi, ha presentato un programma che coinvolgeva anche i sunniti. La lezione da trarne è che sebbene le identità settarie siano profondamente radicate e possano esplodere da un momento all´altro, nel Medio Oriente di oggi, più urbanizzato, più connesso e in cui si usano di più i social network, sono presenti anche forti controtendenze.
«Nel mondo arabo esiste un problema di cittadinanza - sostiene Michael Young, autore libanese di The Ghosts of Martyr´s Square - ma ciò accade in parte perché questi regimi non hanno mai permesso alla loro gente di essere cittadini. Malgrado questo, possiamo vedere in che modo i manifestanti in Siria abbiano cercato di mantenere un comportamento non violento e di parlare di libertà a nome dell´intera nazione».
Lezione numero due: ciò che è stato cruciale nell´impedire, in Iraq, che la guerra civile strisciante esplodesse, ciò che è stato cruciale nella stesura della loro Costituzione circa il modo di vivere insieme e ciò che è stato cruciale nell´aiutare gli iracheni a gestire elezioni eque è stato il fatto di avere un credibile arbitro neutrale durante tutta la fase della transizione: gli Stati Uniti.
L´America ha svolto il suo ruolo ad un prezzo sbalorditivo e non sempre in modo perfetto, ma lo ha svolto. In Egitto, è l´esercito egiziano a interpretare il ruolo di arbitro. Qualcuno dovrà farlo in tutti questi Paesi in rivolta in modo da poter gettare con successo le basi della democrazia e della libertà. Chi farà da arbitro in Libia, in Siria, nello Yemen?
L´ultima cosa che l´Iraq ci ha insegnato è che, sebbene gli arbitri esterni possono essere necessari, non sono tuttavia sufficienti. Alla fine dell´anno lasceremo l´Iraq. Soltanto gli iracheni potranno sostenere la loro democrazia una volta che saremo partiti. La stessa cosa vale per tutti gli altri popoli arabi che sperano di avanzare nella transizione verso l´autogoverno. Quei Paesi devono trovare i propri arbitri, i loro Nelson Mandela. Vale a dire, sciiti, sunniti e capi tribali che si alzino e dicano gli uni agli altri quello che il personaggio di Mandela dice dei sudafricani bianchi nel film Invictus: «Dobbiamo sorprenderli con la moderazione e con la generosità».
Questo è ciò che i nuovi leader dei ribelli arabi dovranno fare: sorprendersi e sorprendere gli altri con una forte volontà di unità, reciproco rispetto e democrazia. Più Mandela arabi emergeranno, più essi saranno in grado di gestire le proprie transizioni, senza generali dell´esercito o elementi esterni. Emergeranno? Stiamo a vedere e speriamo. Non c´è altra scelta. I coperchi stanno saltando.
(Copyright New York Times - La Repubblica Traduzione di Antonella Cesarini)

Corriere della Sera 28.3.11
Frattocchie, studi seri e flirt. Ma lo yoga no
Il Pd e la riedizione della scuola politica pci. Macaluso: imparagonabile. Violante: mai le divise
di Angela Frenda

qui

Repubblica 28.3.11
Una legge contro i giudici
di Giancarlo De Cataldo


Proviamo a esaminare i principali argomenti portati a sostegno dell´ormai famoso emendamento-Pini. Numero uno: i giudici che sbagliano devono pagare. Da come la cosa viene presentata, sembra che non esista alcuna forma di responsabilità. Falso.
La responsabilità esiste, e prevede che, in caso di dolo o colpa grave, sia lo Stato a indennizzare il cittadino. Obiezione, e argomento numero due: appunto, il giudice non paga mai di tasca propria. Falso. Lo Stato ha diritto di rivalsa sul giudice. Obiezione, e argomento numero tre: allora godete di un privilegio castale che vi rende diversi da tutti gli altri cittadini, medici, architetti, ingegneri, i quali, si sa, pagano di tasca propria.
Falso. Ci sono almeno due categorie di cittadini che non pagano "di tasca propria". Il personale direttivo, docente, educativo e non docente delle scuole materne, elementari, secondarie e artistiche risponde dei danni provocati dagli alunni soltanto in caso di dolo o colpa grave nella vigilanza degli stessi. La causa si propone contro lo Stato che, se ha torto, paga. E poi, sempre che esistano dolo o colpa grave, si può rivalere sul singolo, dirigente, insegnante o bidello che sia. Motivo: evitare che la scuola, della quale si riconosce la preziosa, essenziale funzione sociale, diventi una palestra di ritorsioni.
Quanto alla seconda categoria di cittadini che "non pagano di tasca propria", ne fanno parte gli amministratori dei partiti politici, i quali, in virtù di un articolo della legge sul finanziamento, "rispondono delle obbligazioni assunte in nome e per conto del partito solamente nei casi di dolo e colpa grave". A pagare per il partito insolvente, in altri termini, è lo Stato. Che adempie alle obbligazioni dei partiti attraverso un fondo di garanzia costituito presso il Ministero dell´Economia e delle Finanze, per la precisione presso il Dipartimento del Tesoro. Motivo: il riconoscimento del ruolo centrale dei partiti nella vita politica. Scuola e partiti sono dunque essenziali al funzionamento della società, e godono di un regime particolare. I giudici no.
Quarto argomento: dolo e colpa grave non bastano. Deve essere sanzionato l´errore giudiziario in sé. E infatti l´emendamento Pini introduce la categoria della "violazione manifesta del diritto" come fonte della pretesa di risarcimento. Osservazione di buon senso: il concetto di "manifesta violazione del diritto" è un motivo di ricorso in Cassazione. L´ultimo grado di giudizio esiste proprio per questo, per porre rimedio, all´interno del sistema, ai possibili deficit interpretativi delle norme. Per dirla in termini d´altri tempi, la famosa funzione "nomofilattica" della Cassazione. Qui l´emendamento Pini smaschera il suo autentico sostrato culturale. Lo fa nella parte in cui prevede l´abrogazione di un´altra norma, quella che esenta il giudice da responsabilità per "l´attività di interpretazione di norme del diritto e valutazione del fatto e delle prove".
Il diritto secondo l´on. Pini è mera applicazione della legge. Tesi antica e quanto mai controversa, cara, per intenderci, a Robespierre: in era cibernetica la si potrebbe declinare affidando il giudizio alle macchine e mandando l´uomo a casa. Ci sarà pure un motivo se ancora non ci siamo arrivati. Quinto argomento: l´ampliamento della responsabilità ci viene imposto dall´Europa. Falso, e decisamente tendenzioso. Gli organismi consultivi del Consiglio d´Europa, a partire dalla Carta di Strasburgo del 1998, raccomandano a tutti gli Stati membri di evitare la citazione diretta in giudizio del magistrato, e sconsigliano l´adozione di formule vaghe e indeterminate come "negligenza grossolana" e via dicendo. La sentenza della Corte di Giustizia Europea che si invoca oggi tratta della responsabilità per violazione del diritto comunitario non del singolo, ma dello Stato. Circostanza che fu autorevolmente ribadita dal governo attualmente in carica quando, il 20 novembre 2008, rispose a un´interpellanza parlamentare degli onorevoli Mecacci, Bernardini e altri, testualmente affermando che "la normativa posta dalla legge 117/88 (sulla responsabilità dei magistrati) come rilevato anche dalla dottrina, non è in contrasto con la decisione della Corte di giustizia richiamata nell´interrogazione". Tutti possono cambiare idea, ovviamente. Nel 2000 cambiarono il codice penale perché i giudici davano pene troppo basse agli incensurati, e bisognava dare un segnale repressivo. Oggi agli incensurati offrono il processo breve. Tutti possono cambiare idea. Ma è bene saperlo.
Sesto, e ultimo argomento: il popolo vuole che il giudice paghi di tasca propria. Vero. Contro questo argomento c´è poco da opporre. Trent´anni di bombardamento mediatico hanno scavato a fondo nelle coscienze degli italiani. Da che mondo è mondo ogni processo è una scelta fra due parti. Alla fine c´è sempre chi vince e chi perde. Da che mondo è mondo lo sconfitto se la prende con il giudice che gli ha dato torto. Da domani avrà al suo fianco, in questa nobile battaglia, la legge.

Corriere della Sera 28.3.11
La nuova religione sarà come il «Lego»
di Jacques Attali


La diffusione di democrazia e mercato genera precarietà, cui la democrazia, da sola, non basta a fornire senso. Essa infatti organizza la libertà individuale ma non costituisce, in sé, un progetto politico che possa rendere meno esposti alla precarietà. Ed ecco che rinasce il bisogno di trovare un senso alla durata, sia grazie alla nazione, sia grazie alla religione. Il giogo integralista non resisterà, ne sono convinto, al desiderio di democrazia e di consumo dei giovani di tutto il mondo. Al contrario, per reazione alla società dei consumi, la domanda di religioso diventerà più forte. Il XXI secolo sarà, all’inizio, il secolo del confronto e della concorrenza tra le religioni e all’interno del Cristianesimo e dell’Islam. In particolare, se il Cristianesimo e l’Islam rifiuteranno di prendere posizione sul preservativo, è anche perché vorranno mantenere un vantaggio demografico. Questa guerra di influenza, così tragica per l’umanità, finirà a mio avviso per risolversi con la moltiplicazione delle Chiese. Credo che noi non ci stiamo dirigendo verso un mondo religioso o laico, ma verso un individualismo che condurrà progressivamente a ciò che chiamerei la «religione Lego» , o la «religione dell’ego» , in cui ognuno prenderà qualcosa dal Cristianesimo, dall’Islam, dal Buddhismo, e questo gli permetterà di costruirsi un suo credo. — oggi l’utopia dell’immortalità è una delle più grandi della nostra società. Noi trasmettiamo ai nostri figli un senso di eternità. Cristallizziamo il tempo in oggetti, e questo ci infonde un sentimento di immortalità: non possiamo morire, crediamo, prima di avere utilizzato questi oggetti. E crediamo che la scienza ci darà l’immortalità tramite l’allungamento della durata della vita e la clonazione. Ma queste ricerche non impediranno agli uomini di avere bisogno di un patto con la morte, cioè di immaginare un aldilà. Lo si vede in particolare nella società americana, in cui la democrazia non riesce a realizzare un sogno laico. Il religioso potrebbe anche mettere sul potere politico una cappa di piombo tale da ostacolarne il funzionamento democratico. Negli Stati Uniti i predicatori giocano un ruolo sempre più rilevante nella vita politica. Lo stesso George W. Bush fu eletto grazie ai voti degli evangelici, che non smettono di crescere in tutto il mondo — oggi sono più di 160 milioni. Queste Chiese, nate dal Protestantesimo e dalla Chiesa pentecostale, utilizzano tutti i mezzi di comunicazione per fare proselitismo, promettendo la ricchezza e il Paradiso. Per il momento sono solo delle macchine per la conversione, non per la conquista del potere politico. Se le nostre società non sapranno dare un senso pieno alla morte, e se gli individui non sapranno costruire un rapporto individuale con la vita, allora certe religioni imporranno un rapporto collettivo con la morte. Da questo punto di vista l’Islam è quella che può farlo meglio. Essendo la più astratta tra le religioni è anche la più universale: se esiste una religione mondialista, quella è certamente l’Islam. Attualmente assistiamo dunque a una battaglia tra l’uniformazione delle religioni, il loro tentativo di presa globale e la loro diversificazione, la loro frammentazione e balcanizzazione. Una frammentazione che oggi è parziale ma domani sarà ancora più drastica, e in cui ciascuno porterà la propria definizione di religioso. La distinzione tra sette e religioni sarà sempre più incerta. Così potremmo tendere verso una religione individualista in cui ognuno userebbe il proprio rapporto con il mondo, la natura e quello che egli chiama — o non chiama— Dio come fattore esplicativo del mondo. È la religione Lego, dal nome del gioco di costruzioni. Il XXI secolo vedrà all’inizio sorgere ogni sorta di nuove religioni. Alcune permetteranno di credere in un’immortalità personale. Altre forniranno agli uomini una morale collettiva. Altre ancora permetteranno di pensare in modo diverso il rapporto con la natura. Tutte dureranno molto meno delle religioni attuali. Poi ognuno agirà in modo personale. Nella musica, la creazione odierna non si fonda più sulla scrittura di una partitura in note, ma su una mescolanza di opere scritte da diversi compositori precedenti, con tecniche diverse. Allo stesso modo, in materia di fede, questa vittoria dell’ «e» sull’ «oppure» farà del meticciato delle religioni l’inizio di un mondo infinitamente più vario. Un mondo in cui ciascuno si fabbricherà la propria religione, come nel Lego. Una religione personale. Una religione dell’ego.

Corriere della Sera 28.3.11
Regole per un dialogo tra le culture
La convivenza tra diversi esige certezza del diritto e più educazione
di Fred Dallmayr


Il moderno Stato-nazione mirava all’unità e all’omogeneità nazionale. Le versioni totalitarie dello Stato insistevano sulla totale uniformità. Fu contro questi modelli che, nella seconda parte del XX secolo, emerse una nuova idea politica: quella del «multiculturalismo» , che poneva l’accento sul fatto che la maggior parte degli Stati sono composti da una pluralità di sub-nazionalità e culture. Quest’idea, rispetto alle precedenti, segnava un progresso in termini di libertà democratica e di uguaglianza. Recentemente è stata però attaccata da chi sostiene che da un lato mina l’identità nazionale e dall’altro produce un miscuglio di identità scollegate tra loro e a volte inconciliabili. Sembra di nuovo emergere l’aspirazione a una identità nazionale uniforme, che è però in contrasto con l’uguaglianza dei diritti umani di tutti i cittadini. Sul piano della democrazia bisogna dire che il multiculturalismo non era una cattiva idea, ma anche che non è stato ben attuato, perché si è trascurata l’esigenza di stabilire regole adeguate e soprattutto la necessità di far leva sull’istruzione. Non ci si può aspettare che persone di culture e talvolta di lingue e religioni diverse possano convivere pacificamente in assenza di regole e di strumenti educativi. Si è dato per scontato che persone con differenti background si amino e si rispettino in modo naturale, ma è un presupposto errato. Le persone di diversa provenienza devono imparare a conoscersi e devono essere disposte a farlo. Questo tipo di apprendimento è particolarmente importante nel caso delle comunità di immigrati. Giungendo in uno Stato già esistente, queste comunità vorranno sicuramente conoscere la lingua, le tradizioni culturali e i costumi della società che le ospita. Anche la società ospitante deve però mostrarsi una buona padrona di casa e imparare a conoscere la cultura e i costumi della comunità immigrata. È uno scambio con il quale si possono accrescere fiducia e rispetto reciproci. Il cosmopolitismo trasferisce le questioni del multiculturalismo in un più ampio contesto globale. In quanto fenomeno relativamente nuovo, il cosmopolitismo deve ancora trovare forme e regole proprie, e può essere esaminato con diversi approcci. Ne voglio qui elencare sette, dei quali solo l’ultimo, il «cosmopolitismo dialogico» , dà spazio adeguato all’apprendimento, agli strumenti educativi necessari ad attuarlo. I sette tipi di cosmopolitismo sono: 1) Stato mondiale, 2) universalismo assoluto, 3) universalità morale kantiana, 4) modello del discorso razionale, 5) modello liberal-individualista, 6) cosmopolitismo agonistico, 7) cosmopolitismo dialogico (o ermeneutico). Vorrei spiegare in breve le caratteristiche e i punti di forza e di debolezza di ognuno. 1) Stato mondiale: i sostenitori di questa idea vorrebbero che il cosmopolitismo si concretizzasse in una struttura politica globale, unitaria o federale. Il vantaggio è che con uno Stato globale forte il pericolo di conflitti nazionali o etnici può ridursi. Lo svantaggio è che lo Stato globale può rivelarsi dispotico. Quale sarebbe poi il meccanismo per instaurare un tale Stato? Quali sarebbero la lingua e il sistema giuridico dominanti? 2) Universalismo assoluto: in questo caso si sostiene che, anche in assenza di un governo globale, il mondo è già uno in virtù della comune natura umana, in particolare della comune natura razionale degli esseri umani. Perciò tutte le differenze culturali, religiose e linguistiche diventano irrilevanti e obsolete. Il vantaggio qui è l’idealismo radicale, che promette di trascendere le questioni politiche più prosaiche. Il rovescio della medaglia è l’utopismo assoluto, che trascura il contesto (la «natura umana» quale lingua parla?), e il pericolo che l’universalismo venga manipolato per scopi politici molto prosaici. 3) Universalità morale kantiana: i suoi sostenitori affermano che l’universalità è un «dovere» o imperativo categorico che tutti i singoli membri della terra devono perseguire. Una caratteristica importante di questo approccio è una teoria della giustizia universale. A volte la morale kantiana è rimpiazzata o integrata da dettati religiosi o biblici. Il vantaggio è il forte richiamo morale e l’appello a un principio universale che guidi la condotta umana. Il problema è la dicotomia tra «essere» e «dover essere» e l’assenza di un percorso praticabile che porti dall’uno all’altro. 4) Modello del discorso razionale: i sostenitori di questa tesi modificano il modello kantiano, sottolineando la necessità di formulare dei principi guida attraverso un «discorso razionale» a cui tutte le persone possono partecipare. Una delle principali caratteristiche di questo modello è la sperimentazione e il riscatto delle «pretese di validità» razionali. A volte l’universalità delle pretese razionali è temperata dall’ammissione del ruolo dei contesti culturali e linguistici. I vantaggi di questo modello sono un carattere più democratico (rispetto al modello 3) e la sua opposizione al mero utilitarismo. Il lato negativo è di nuovo la distanza tra «essere» e «dover essere» e anche il carattere fortemente razionalistico del «discorso» (che sembra escludere voci meno «razionali» ). 5) Modello liberal-individualista: qui si afferma che il mondo è composto da individui che cercano ovunque di massimizzare i loro interessi individuali. Nella sua forma radicale il modello coincide con il processo di globalizzazione economica incentrato sull’iniziativa privata. A volte, l’individualismo radicale prende una strada «postmoderna» , esaltando il carattere ibrido, proteiforme e nomade di un’individualità illimitata. In una forma più sobria, l’individualismo liberale rimane legato al moderno Stato-nazione liberale. Il vantaggio di questo approccio è quello di essere facilmente comprensibile per gli individui occidentali. Lo svantaggio è che somiglia fin troppo a un elitarismo internazionale neoliberale. 6) Cosmopolitismo agonistico: sostiene che il cosmopolitismo deve essere visto come «cosmo politica» e che la politica è una lotta per il potere. Questa lotta può assumere diverse forme. I marxisti internazionalisti sostengono che la scena mondiale sia quella della «lotta di classe» . I nazionalisti di destra ritengono che la lotta globale avvenga per la supremazia nazionale su scala globale. A volte le posizioni agonistiche assumono una veste «postmoderna» , sostenendo che la politica è la lotta tra despoti e dissidenti. Il vantaggio di questo modello è la sua attenzione ai reali conflitti del mondo. Sul piano negativo si nota una impostazione manichea e si ha l’impressione che le contrapposizioni e gli scontri siano un fine in sé. 7) Cosmopolitismo dialogico: i fautori di questo modello accettano che la politica sia spesso una lotta di potere, ma insistono sul fatto che gli altri (individui, società o culture) non devono essere visti come nemici o antagonisti, ma come «altri» , meritevoli di attenzione e rispetto, un rispetto che si manifesta di preferenza con una mutua apertura al dialogo. Nell’impegnarsi in questo dialogo non si deve perseguire un interesse personale o rivendicare maggior potere, ma coltivare virtù civiche ed etiche che possono portare a una mediazione o a una composizione pacifica delle controversie. Il vantaggio di questo modello è che riconcilia «essere» e «dover essere» , realtà e utopia (offrendo un’utopia realistica). Il problema è che richiede istruzione e una trasformazione paziente ed è quindi un progetto di lungo termine. Nel mio lavoro ho sempre espresso la preferenza per il cosmopolitismo dialogico, il numero 7. Sono pronto a difendere questo modello, ma altri potrebbero voler sostenere altre opzioni. Il mio obiettivo è arrivare a formulare un «significato» di cosmopolitismo che sia accettabile per tutti. (Traduzione di Maria Sepa)

Repubblica 28.3.11
La psico economia
Se il rapporto con il denaro è lo specchio dell’anima
di Maurizio Ferraris


Due saggi ci raccontano come siamo condizionati mentalmente e nelle decisioni dal nostro rapporto con i soldi. Ecco perché questo ci fa commettere degli errori
Soffriamo molto di più per una perdita di quanto siamo felici per un guadagno
Tra gli elementi che determinano instabilità c´è la nostra incapacità di fare previsioni

Nel giro di un paio di mesi sono usciti due libri, rispettivamente di uno psichiatra, Vittorino Andreoli, e di uno psicologo cognitivo, Paolo Legrenzi. Il primo si intitola Il denaro in testa (Rizzoli), il secondo I soldi in testa (Laterza), ma non potrebbero essere più differenti. Mentre Andreoli afferma che il fatto di avere i soldi in testa è un male tipicamente contemporaneo, Legrenzi sostiene che noi abbiamo davvero i soldi in testa, e da sempre, proprio come abbiamo in testa la scrittura e la lettura: sono dotazioni specifiche della mente umana che si proietta nel mondo costruendo arte, religione, politica, filosofia e quella quintessenza degli oggetti sociali che è il denaro. Se le cose stanno così, se il denaro è necessariamente nella nostra testa prima ancora di essere nel mondo, il nostro rapporto con i soldi è davvero lo specchio dell´anima di tutti, e non solo di Arpagone o di Paperone. E ci rivela quanto siamo inclini a sbagliarci, con errori inevitabili, perché, come diceva Ippocrate, "la vita è breve, l´arte è lunga, l´occasione fuggevole, l´esperimento pericoloso, il giudizio difficile".
Per esempio, comprare azioni è il modo più conveniente per investire i propri risparmi. Ma per un immortale o almeno per uno che abbia un´aspettativa di vita superiore ai cento anni, perché le borse alla lunga crescono sempre, però in tempi lunghissimi. Inoltre le azioni hanno un altro difetto: apprendiamo tutti i giorni, dai listini di borsa, il loro valore. Come risultato, siamo informati in tempo reale delle loro vicissitudini, e possiamo facilissimamente cedere alla tentazione di venderle proprio nel momento sbagliato. Cosa che non ci verrebbe mai in mente se, come moltissimi italiani, possediamo una casa che crediamo aumenti di valore, mentre sono i nostri stipendi che si abbassano. Per esempio gli stipendi dei professori d´università sono sempre cresciuti nominalmente. Ma se li confrontiamo a qualche altro indice, come il numero di notti d´albergo che possono pagare, ci accorgiamo che nel 1955 coprivano 12 mesi, e nel 2009 un mese soltanto. Un crollo vertiginoso, di cui di solito i professori non hanno piena coscienza, risparmiandosi peraltro gravi frustrazioni, proprio come credere che casa nostra sia un affarone ci mette di buon umore.
Siamo tutti stupidi, e i professori più degli altri? No. Tutto questo ha a che fare con due grandi caratteristiche delle scimmie cappuccine e di altri primati di cui leggiamo nel libro, tra cui Legrenzi, i suoi familiari e alcuni suoi illustri maestri. Primo, il fatto che soffriamo molto più di una perdita di quanto siamo felici per un guadagno, con un atteggiamento che non è affatto irrazionale, perché una perdita può costituire un danno irreparabile (immaginiamo un nostro antenato nelle savane che perde un´arma o il cibo), mentre del guadagno in fondo si può sempre fare a meno (campavamo anche prima). Secondo, il fatto che non siamo capaci di previsioni circa un futuro in cambiamento: se uno gioca alla roulette russa mettendo un proiettile in un revolver a sei colpi ha una possibilità su sei di morire. Un gioco idiota, ma con delle probabilità calcolabili. Solo che con le finanze noi non sappiamo quasi niente, quindi i proiettili possono essere anche tre (e in questo caso le probabilità di morire non sono una su sei ma una su due) o sei (e in questo caso è morte certa). In taluni casi, poi, c´è una disparità cognitiva: c´è chi conosce effettivamente le probabilità di un evento (per esempio le assicurazioni) e chi le ignora (i clienti delle assicurazioni). La combinazione tra questi due elementi, sommati al dato centrale del timore delle perdite sta alla base dei guadagni delle assicurazioni, che ci spingono a tutelarci con cura da eventi statisticamente molto improbabili. Dal punto di vista statistico, la probabilità che ti vada a fuoco la casa è fortunatamente remota quasi quanto la possibilità di vincere alla lotteria. Ma mentre nessuno penserebbe di vivere vincendo alla lotteria, è normale tutelarsi contro l´eventualità di un incendio.
Dobbiamo rivolgerci agli esperti? Mai, perché loro non devono fare i nostri interessi, ma prima di tutto quelli degli azionisti della banca. L´investimento più sicuro e redditizio che si possa immaginare sono i cosiddetti "prodotti finanziari passivi" (in gergo Etf), con cui ci si compra in modo meccanico il listino azionario nel suo complesso. Ma nessun esperto vi consiglierà mai un investimento di questo genere, che danneggerebbe i suoi azionisti. Allora dobbiamo diventare, noi stessi, tutti economisti? No, il punto è un altro. Si tratta di capire che in quello che con tanta esattezza si chiama "il bilancio di una vita" sia economisti sia non economisti possono avere ragione, come quando Legrenzi da ragazzo andava al cinema con i genitori: se il film era brutto, il padre (manager) diceva di andarsene, visto che avevano già subito un danno, il costo del biglietto, e non era il caso di aumentarlo. La madre (musicista) diceva di restare, perché il film avrebbe anche potuto migliorare, applicando un principio di speranza. Alla fine Legrenzi propende per l´insegnamento della madre quando, parlando di educazione economica dei ragazzi, fa notare che è molto meglio educare alla tenacia e alla speranza che insegnare le regole degli interessi composti e dei giochi in borsa. Ecco il messaggio finale di questo libro che parla di soldi senza demonizzarli, perché è pieno non solo di acume e di sapere, ma anche dell´intera economia della vita di Legrenzi.

Vittorino Andreoli...
Repubblica 28.3.11
L´ossessione per il portafoglio raccontata da andreoli   
 

ROMA - Il nuovo numero di "Mente & Cervello" in edicola in questi giorni ha la copertina dedicata al tema dell´ossessione dei soldi. Il titolo è "Malati di denaro" e rimanda ad un lungo servizio nelle pagine interne di Vittorino Andreoli. L´autore racconta come "la nostra vita ruoti intorno al denaro, al desiderio di possederlo oppure all´angoscia di perderlo". E questo scatena nuove dipendenze, depressioni e lutti. Proprio per questo i soldi sono finiti "sul lettino dello psichiatra". Ma se la nostra identità è determinata dal portafoglio, la mancanza di denaro può indurre a comportamenti asociali che vengono illustrati e declinati nel corso dell´intervento curato dal celebre psichiatra.

l’Unità 28.3.11
Lo studio che lo dimostra pubblicato su «Epidemiologia e Prevenzione»
I criteri per la valutazione basati sul numero degli articoli e i finanziamenti
La ricerca italiana in campo biomedico sopravvive ai tagli
Nell’Unione Europea l’Italia è al secondo posto per numero di pubblicazioni, mentre i nostri ricercatori partecipano a oltre la metà dei progetti finanziati dall’Europa. Ma i dati si riferiscono al 2007-
di Cristiana Pulcinelli


La ricerca italiana in campo biomedico ed epidemiologico va forte. Nonostante i tagli. Lo dimostra uno studio appena pubblicato sulla rivista «Epidemiologia e Prevenzione». Gli autori, che lavorano presso il Centro di riferimento per l’epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte e l’Azienda ospedaliero-universitaria San Giovanni Battista di Torino, hanno analizzato gli articoli di epidemiologia pubblicati da ricercatori italiani, europei e statunitensi negli anni dal 2007 al 2009. Lo scopo era di valutare l’impatto della ricerca italiana rispetto agli altri paesi, sia per il numero di articoli scientifici pubblicati, sia per i finanziamenti ottenuti. È emerso che, tra i 27 paesi della Unione Europea, l’Italia è al secondo posto per numero di pubblicazioni, seconda solo alla Gran Bretagna. Inoltre, i ricercatori del nostro paese partecipano ad oltre la metà dei progetti finanziati dall’Europa.
Per la precisione, l’Italia è coinvolta nel 51,3% dei 374 studi finanziati tramite il 7 ̊ programma quadro dell’Unione Europea, disegnato allo scopo di potenziare i finanziamenti per la ricerca sanitaria: in 154 di essi partecipa almeno un ente di ricerca italiano e 38 sono coordinati da un’istituzione italiana. Mentre gli articoli pubblicati da ricercatori italiani rappresentano un ottavo della produzione europea che, nel complesso, è di poco inferiore a quella degli Stati Uniti con 50.063 articoli pubblicati contro 64.489. Anche se gli Stati Uniti presentano una crescita più rapida rispetto ai singoli Paesi europei «probabilmente perché investono di più nella ricerca scientifica» si legge nell’articolo.
Attenzione, però, dicono gli autori dello studio. Qui stiamo parlando di ricerche pubblicate dal 2007 al 2009, quindi effettuate con finanziamenti erogati negli anni precedenti. I tagli ai finanziamenti degli ultimi anni probabilmente si farebbero sentire di più. «Non abbiamo fatto una indagine precisa sui finanziamenti alla ricerca medica nel nostro paese – spiega Federica Gallo, uno degli autori dello studio tuttavia l’impressione nel mondo sanitario è che i fondi siano diminuiti. La maggior parte dei finanziamenti per la ricerca medica arrivano dalle regioni, dal ministero e dall’Unione Europea. Nel caso della Ue è diminuito il numero di finanziamenti erogati, nel caso del ministero e delle regioni sono diminuiti i budget».
ARTICOLI IN AUMENTO
Un dato è certo: dal 2000 al 2006 gli articoli scientifici redatti da gruppi di ricerca europei è aumentato del 49,37%, mentre la spesa europea per la ricerca rapportata al prodotto interno lordo (Pil) è ferma all’1,84%. Quella italiana è ferma da una decina d’anni intorno all’1% del Pil. E così, visto che la prerogativa dell’italiano è l’arte di arrangiarsi, con questa chiave si può leggere anche la bravura dei ricercatori italiani di accedere ai fondi europei quando quelli nazionali scarseggiano: «Gli studiosi italiani – si legge nell’articolo sembra sappiano sfruttare al meglio la disponibilità dei finanziamenti europei, probabilmente anche spinti dalla scarsa disponibilità di quelli interni». Ma a tutto c’è un limite.

Repubblica 28.3.11
Un volume sulla storia di Lavagnino e l´occupazione tedesca
L’uomo che salvò i capolavori
di Francesco Erbani


Lo studioso mise al sicuro molti tesori: la Fondazione Bellonci ha voluto ricordarlo così

Nella chiesa dell´Immacolata di Sutri, provincia di Viterbo, lavorarono per due ore e mezza. A mani nude smurarono «le grappe della cornice di ferro che tiene a posto il cristallo di protezione del dipinto», un Cristo in casa di Marta e Maria del cinquecentesco Jacopo Zucchi. A poca distanza piovevano grappoli di bombe. Era così che Emilio Lavagnino, durante l´occupazione tedesca di Roma, agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, metteva in salvo quadri e altri oggetti d´arte. Un´opera avventurosa e piena di fascino, che fu decisiva per la tutela di un patrimonio minacciato e che rivive in un volume curato da Raffaella Morselli per conto della Fondazione Bellonci. Il volume - che raccoglie scritti di Andrea Emiliani, Paola Nicita, Belinda Granata e Simona Rinaldi, con la prefazione di Tullio De Mauro - s´intitola Fuori dalla guerra (Mondadori, pagg. 279) e ricostruisce le peregrinazioni di Lavagnino fra chiese e palazzi laziali alla frenetica ricerca di opere da nascondere in Vaticano, dove sarebbero state al sicuro. Ma soprattutto propone una schedatura di tutto ciò che fu salvato da Lavagnino, costruendo un´ideale galleria di capolavori che altrimenti sarebbero finiti in polvere oppure depredati dai tedeschi. Una specie di catalogo di sopravvissuti. E infine riproduce il diario tenuto dallo stesso Lavagnino e la relazione che questi stilò, dopo la liberazione di Roma, al Soprintendente.
Lavagnino era uno storico dell´arte, funzionario del ministero dell´Educazione nazionale. A lui nel 2006 ha dedicato un romanzo sua figlia, Alessandra Lavagnino (Un inverno 1943-1944, Sellerio). Fra febbraio e maggio del 1944, a bordo di una scalcinata Topolino, con le ruote procurate da Palma Bucarelli, la leggendaria direttrice della Galleria nazionale d´Arte moderna, e per il resto a sue spese, compresa la benzina raccattata al mercato nero, Lavagnino prese a battere le strade dell´alto Lazio, schivando mitragliatrici e bombe, e seguendo un itinerario fra le chiese che sapeva contenevano quadri preziosi.
Cominciò con due opere di Sebastiano del Piombo, la Pietà e la Flagellazione custodite nel Museo civico di Viterbo, seguite nella stessa città da altri quadri. È lui che racconta: «Il Girolamo da Cremona e l´Antoniazzo della Cattedrale, il polittico del Balletta di S. Giovanni in Zoccoli e la grande tavola di Lorenzo di Bicci di San Sisto». In una prima fase era accompagnato da colleghi, da un autista e anche da un ufficiale tedesco, Peter Scheibert, che poi sarebbe diventato professore di storia all´università. Ma da un certo momento in poi fece tutto quasi da solo. Dopo Viterbo eccolo a Sutri, quindi a Vetralla, Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto, Acquapendente, Bolsena. E poi Caprarola e Ronciglione, Trevignano e Bracciano. Il suo "bottino" fu ricchissimo: quei quadri erano pregiati in sé, ma rappresentavano soprattutto l´esperienza artistica di un territorio minore, erano i simboli di un paesaggio culturale che andava sottratto alla distruzione e alla rapina e consegnato a una memoria viva. Un esempio di tutela a qualunque costo.

La Stampa 28.3.11
Il genitore perfetto? Si ispiri a Neanderthal
La provocazione di una psicologa: “I nostri antenati allevavano bimbi forti e sereni”
di Roselina Salemi


L’UNIVERSITÀ DI NOTRE DAME Lo studio è un’impietosa critica alla moderna famiglia americana
I SUGGERIMENTI «Dall’allattamento al seno al dormire nel lettone: torniamo alla naturalezza»

Pensavamo di esserci molto evoluti, con il nostro armamentario di carrozzine, passeggini, seggiolini omologati per l'auto, pappe pronte sottovuoto, costose babysitter. Pensavamo fosse giusto. Invece uno studio dell'Università di Notre Dame, nell'Indiana, severa scuola cattolica (nota per gli studi di diritto, e per aver dato alla patria una sfilza di campioni di pallacanestro) ci dice che non è così. E ci riporta a 100mila anni fa, prima dell'agricoltura e della scrittura, al tempo dei cacciatori-coglitori, antichi gruppi convenzionalmente noti come neanderthaliani.
Che forse, come genitori, erano molto più bravi di noi. L'atto d'accusa di Darcia Narvaez, docente di Psicologia a Notre Dame, parte da un'analisi spietata della società americana, già scossa dal saggio di Amy Chua, professoressa di Legge alla Law School dell'Università di Yale, che sostiene al superiorità delle mamme cinesi, più severe, su quelle occidentali. Secondo Darcia Narvaez, solo il 15 per cento delle madri Usa allatta il bambino al seno (e al massimo per 12 mesi), «lo tocca pochissimo, lo passa da una carrozzina a un passeggino, le famiglie sono frammentate e il gioco in libertà è diminuito drasticamente dagli anni '70 in poi. Questo comportamento produce generazioni fragili, con forti disagi emotivi, e un gran numero depressi, egocentrici, violenti».
Quello dei «cacciatori-coglitori» sembra un modello migliore: gruppi con una forte solidarietà sociale e una grande empatia. Le madri allattavano i figli sino a 5 anni, (soltanto a 6 il sistema immunitario è perfettamente formato). Il parto naturale permetteva alla donna di produrre gli ormoni necessari ad affrontare la cura del figlio, coccolato e tenuto in braccio. Il piccolo dormiva accanto ai genitori, per nulla sfiorati dall' idea di viziarlo. Beh, erano anche altri tempi, parecchi bambini non superavano l'undicesimo anno di età, c'erano predatori tremendi e un clima micidiale. Non era il caso di aggiungerci altro.
Nessun ricercatore ha a disposizione dati su antiche famiglie di cacciatori-coglitori per compararli con le nostre, ma il sistema di vita, praticato in luoghi spersi del mondo dove non sono arrivati né la Coca Cola, né il Grande Fratello, al massimo qualche antropologo, è ancora documentabile. E l'analisi si aggiunge ai molti studi sulla distanza emotiva che oggi separa i genitori dai figli. Yehudi Gordon, del St. John & St. Elizabeth Hospital di North London pioniere del parto in acqua in Gran Bretagna, invita le donne a essere più madri e meno lavoratrici, a restare accanto ai figli per un paio d'anni, ad allattare ed evitare, salvo in casi di vera necessità, il cesareo (che però è comodo e programmabile).
In Italia, Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica all'Università di Pavia, ha messo in guardia i genitori dai rischi di una delega precoce: babysitter, nidi («così socializza») e una valanga di attività sportive e creative riducono lo spazio di comunicazione tra genitori e figli. Anche il gioco è programmato e spesso, solitario, davanti a un computer. Certo, il discorso si fa complicato e delicato, perché le donne non hanno voglia di tornare a occuparsi soltanto di pappe e pannolini e non è che siamo commosse dalla bellezza della famiglia neanderthaliana, ma certe volte, l'evoluzione, con i suoi complicati slalom riesce a recuperare l'eredità del passato.
Una forte corrente di pensiero sostiene l'allattamento al seno, il parto naturale, il congedo (anche di paternità) e nuovi orari di lavoro per le mamme. Eve Ensler, autrice dei leggendari «Monologhi della Vagina» e di «Io sono emozione» (appena uscito da Piemme) anticipa in forma poetica, la tendenza all'ascolto di sé: «Io sono una creatura emotiva/ Io sono ciò che resta della tua memoria/ ti metto in comunicazione con la tua origine/Nulla è stato annacquato/ Nulla si è perso/ Io posso riportati indietro». Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile, scomparso lo scorso febbraio, l'ha detto in un altro modo nel bestseller «Le madri non sbagliano mai»: «Una madre in genere sa cosa è meglio per il bimbo, lo sente, lo avverte, lo percepisce, lo intuisce e, se cultura e società non la disorientano, fa la cosa giusta». Dal tempo dei cacciatori-coglitori ai giorni nostri.

La Stampa 28.3.11
Sodoma distrutta da un asteroide
Una tavoletta svela il segreto: “Sulla mitica città una palla di fuoco potente come quattro atomiche”
di Mario Baudino


E’ stato un asteroide a distruggere Sodoma e Gomorra, o almeno a dare origine alla storia biblica che riguarda le due città punite per i comportamenti sessuali piuttosto disinibiti degli abitanti. Com’è noto, alcuni di loro fecero minacciose profferte agli angeli del Signore mandati ad ammonirli, e per passare a vie di fatto fracassarono l’ingresso della casa di Lot, l’unico giusto che aveva accolti i messaggeri. L’impresa com’è ovvio non riuscì, e la punizione celeste si abbatté come un maglio, spianando col fuoco non solo le due città ma anche altri tre centri che insieme ad esse costituivano la Pentapoli. Non sapremo mai se questa sia la vera storia, ma ora la spaventosa scena è stata estratta dal tempo immemoriale del racconto biblico e ha una data precisa nel nostro calendario: il 29 giugno 3123 a. C., poco prima dell’alba.
L’hanno calcolata due scienziati inglesi, Alan Bond (membro di un centro ricerche di Abingdon) e Mark Hempsell, dell’Università di Bristol, partendo da una tavoletta sumera conservata al British Museum. I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati nel libro A sumerian observation of the Köfels's impact event (Un’osservazione sumera dell’impatto di Köfels). Che sarà mai Köfels? I geologi lo sanno bene. E’ una località dell’Austria, dove è noto che un’intera montagna venne spianata dall’impatto di un asteroide, evento apocalittico e non tramandato. Köfels ha però uno stretto rapporto con Sodoma e Gomorra. Proprio decrittando la tavoletta, che è una copia risalente al 700 a. C. della descrizione del cielo fatta da un astronomo sumero, i due scienziati hanno ricostruito i cieli del mondo come li aveva visti il loro antico predecessore nella notte fatale quando assistette a qualcosa di immenso: un grande oggetto luminoso che attraversava l’atmosfera a folle velocità da est a ovest.
Andava a Köfels, e stava per innescare un apocalittico bigliardo. Secondo questa ricostruzione (che pure non è accettata in blocco dalla comunità scientifica) l’asteroide si disintegrò sull’Austria, e una palla di fuoco da 800 milioni di tonnellate si abbattè sulla montagna, distruggendola. L’enorme potenza liberata fece rimbalzare un pennacchio di fuoco che risalì a 900 chilometri di altezza e rifece il cammino al contrario, rientrando nell’atmosfera sull’Egitto e scaricando sulla Pentapoli qualcosa come l’equivalente di quattro bombe atomiche ad altissimo potenziale. Così finirono Sodoma e Gomorra, e iniziò il mito dei peccatori sfrontati. Quanto agli abitanti della zona di Köfels non se ne sa nulla. Forse non ce n’erano. Forse erano pochissimi. In tal caso sarebbero nella nostra lunga storia le prime vittime di un danno collaterale. Proprio come le figlie di Lot, offerte agli assalitori pur di salvare gli angeli. Per loro fortuna i sodomiti non erano interessati.

La Stampa 28.3.11
Redon il principe dei sogni
Una grande mostra a Parigi celebra il maestro visionario che anticipò il simbolismo
di Francesco Poli


Un mondo fantastico
Ma un capolavoro come «La cellule d’or» fu bollato da Tolstoj: «È perversione dell’arte»

Inquietante e affascinante esploratore del mistero, dell’immaginario e del subcosciente, Odilon Redon ha vissuto in piena epoca naturalista, contemporaneo degli impressionisti. Grande precursore del simbolismo in arte insieme a Gauguin, di cui era amico, è stato considerato come un maestro dai Nabis Vuillard, Bonnard, Russel, Sérusier e Bernard (che lo aveva definito il Mallarmé dei pittori), e poi amatissimo da molti surrealisti. Borghese benestante, ha trascorso un’esistenza tranquilla e senza eccessi, ben lontana dallo stereotipo dell’artista «maledetto». E forse proprio per questa sua apparente normalità la sua figura appare ancora più problematica ed enigmatica. Per molti versi lo si può considerare come un caso a parte. Anche la sua affermazione come pittore è stata piuttosto tardiva. In effetti la sua ricerca e anche la sua carriera si articola in due fasi abbastanza distinte: la prima, fino alla fine degli Anni 80, è caratterizzata soprattutto dalla sua produzione grafica di acqueforti, litografie e disegni; e la seconda dalla fantasmagorica entrata in scena del colore nei meravigliosi pastelli e dipinti.
In questa grande mostra al Grand Palais è possibile ripercorrere cronologicamente con chiarezza e precisione (attraverso un centinaio di stampe e 180 disegni e dipinti) tutte le tappe fondamentali della sua evoluzione tecnica, stilistica e tematica, dalla fase più tenebrosa dei Noirs fino alle fluttuanti e iridescenti atmosfere cromatiche delle sue grandi decorazioni. È una progressione, una sorta di viaggio iniziatico ed esoterico, che va dal buio profondo verso la luminosità più accesa. Negli anni della formazione due sono i personaggi che più lo hanno influenzato. Il primo è l’incisore e illustratore Adolphe Bresdin che, a Bordeaux, gli insegna le tecniche grafiche ma gli apre anche la strada verso la dimensione del fantastico. Il secondo è il botanico Armand Clavaud che ha una visione panteista della natura e che gli fa conoscere la teoria dell’evoluzione di Darwin e gli fa amare Baudelaire, Poe, Flaubert e la poesia indiana. A Parigi frequenta per breve tempo l’atelier di Gérôme, ma la pittura che lo interessa è quella di Corot, Delacroix e di Moreau. E per quello che riguarda le incisioni studia con passione Dürer, Rembrandt e Goya a cui dedicherà un omaggio grafico.
In mostra si possono vedere le serie complete dei suoi più famosi album di litografie come ria, le forme amebiche e i microorganismi, il sole nero, l’angelo caduto, e le figure decadenti di martiri e mistici. Il tutto in atmosfere cupe, fosforescenti, cosmiche, a volte macabre e grottesche, dove non manca però una raffinatissima vena di humour noir. La dimensione letteraria è evidente ma l’artista ci teneva a precisare che i suoi lavori non erano illustrazioni ma interpretazioni assolutamente libere da condizionamenti testuali. E aveva assolutamente ragione. È vero comunque che i primi grandi estimatori delle sue invenzioni grafiche sono stati gli scrittori e i poeti, tra cui Mallarmé, suo grande amico, e Huysmans, che in A rebours ne descrive con ammirazione le opere, contribuendo non poco al loro successo.
La svolta determinante nella carriera di Redon avviene negli Anni 90 con la sua ampia retrospettiva da Durand Ruel, il mercante degli impressionisti; e con la mostra che gli organizza Ambroise Vollard, che in quegli anni è il primo a sostenere Cézanne e Gauguin. È probabile che siano anche questi galleristi ad aver spinto l’artista verso la pittura a pastello e a olio. I primi capolavori dipinti sono Yeux clos ( derivato da una litografia) e La cellule d'or . Quest’ultimo è una fantastica testa di profilo di colore blu cobalto su fondo oro, la cui novità sconcertante aveva provocato anche reazioni scandalizzate come quella (piuttosto miope) di Tolstoj che la definisce un esempio «della perversione dell’arte e del gusto nella nostra società».
Volti misteriosi, soggetti mitologici come il carro di Apollo, figure enigmaticamente allegoriche, e soprattutto fantasmagorie floreali ed esseri viventi eterei come farfalle o fluttuanti organismi biomorfici. Questi temi appaiono come sospesi in una dimensione spaziale indeterminata, quasi senza profondità, e con una delicata ma intensa energia cromatica che fa vibrare tutta la superficie delle opere in modo iridescente e quasi elettrico. I suoi mazzi di fiori, apparentemente tradizionali, sono dipinti nei particolari con una sfumata precisione apparentemente naturalistica, ma sono allo stesso tempo magicamente irreali. Tutta l’arte di Redon ha una sua particolare essenza intimistica e interiore. Questa caratteristica appare invece diluita e trasformata in qualcosa di meno intenso e più spettacolare nelle grandi decorazioni realizzate all’inizio del nuovo secolo e alla fine della sua vita. In mostra si può vedere un’accurata ricostruzione ambientale della grande e articolata decorazione, in vari pannelli, realizzata nel castello del suo amico e collezionista Domecy. L’effetto complessivo è magnifico, la qualità straordinaria, ma l’estetismo decorativo giapponesizzante e art nouveau è un rischio forse non evitato del tutto.