sabato 12 febbraio 2011

l’Unità 12.2.11
La dignità delle donne
riguarda tutti
Domani in piazza per dirlo
C'è in quello che sta avvenendo una importante assunzione di responsabilità collettiva che deciderà della reale modernità del nostro Paese. Molte hanno capito che questo è il momento di fare massa critica, in cui non hanno spazio ortodossie da difendere, diversità da ostentare
di Anna Finocchiaro


Non ricordo, negli ultimi anni, un così vasto movimento di opinione, una così ricca produzione di documenti pubblici, una così numerosa serie di iniziative come quella che in questi giorni si manifesta tra le donne italiane.
Perché stavolta non è in gioco né il destino di una legge per quanto definitiva sotto il profilo sostanziale e simbolico come fu quella sulla violenza sessuale, né resistono divisioni politiche e di concezione di vita e di ruolo, come accaduto con la legge sul divorzio.
Stavolta in gioco c'è l'identità stessa delle donne. L'essere donne italiane così come in lunghi decenni esse hanno definito nella più strabiliante delle diversità se stesse. Che poi la rappresentazione mediatica risulti un'altra è altro affare. Attiene al fatto che, per ritardo culturale, perdurante ottusità e manifesto condizionamento da parte della potente macchina mediatica a disposizione del berlusconismo, le donne italiane sono raramente rappresentate per quelle che sono, relegate invece, se va bene, al ruolo di vittime, deboli, soggetti minori.
Ma le donne sono altro. Conciliano lavoro, figli e impegno. Studiano perché vogliono imporsi nella società, non puntano tutto sulla loro avvenenza, molte amministrano bene pubblico senza aver dato niente in cambio.
Basterebbe guardarle, appena guardarle con sollecita curiosità (e sono oltre la metà della popolazione), per verificare di quale stupefacente innovazione esse sono state capaci: nell'istruzione, nel lavoro, nell'ovviare ad un welfare insufficiente e arretrato, nella propria libertà, nella rottura di schemi e ruoli giovando alla società italiana, al suo benessere, alla sua crescita e sviluppo, alla sua stessa sprovincializzazione.
Oggi affidiamo la formazione dei nostri figli a insegnanti donne, la cura della nostra salute a medici donne, la guida delle imprese, i nostri diritti e i nostri interessi a manager, magistrati e professionisti che sono donne. Con percentuali, peraltro, destinate a crescere, poiché le diplomate e le laureate superano già statisticamente i maschi . Anche per questa ragione, oggi, proprio oggi, le donne italiane avvertono che la misura è colma e pretendono che la propria identità non sia
manipolata. Oggi, in questi giorni e in queste ore, le donne cercano visibilità per pretendere rispetto e ottenere il riconoscimento della loro dignità.
Si tratta di una questione politica, non privata.
Capiamo bene che questa pretesa, la consapevolezza di sé che l'accompagna e la competizione che le don-
ne ormai praticano in campi tradizionalmente maschili, possa far paura. Che induca timore di perdere ruolo e posizioni, in particolare nelle classi dirigenti maschili del nostro Paese.
E si capisce che la condivisione, il dover mettere a disposizione almeno la metà delle occasioni e delle opportunità economiche (di lavoro, di carriera e di potere) irrigidisca chi oggi le detiene prioritariamente. Ed allora, è preferibile per alcuni fare finta di niente. Evitare di guardare e di vedere. Ed è naturale che il Presidente Berlusconi, che del potere ha concezione arcaica, totemica e illimitata, non possa comportarsi che come fa. Ammettendo, ai luoghi delle opportunità come graziosa concessione, solo le donne che lui stesso sceglie, certificandone ad un tempo avvenenza e capacità. Quanto alle altre, esse sono archetipo delle donne che non infastidiscono, ma "allietano" soltanto. Con l'esibizione dei loro corpi in tivù, con lo sfruttamento del loro corpo in uno spazio che non è più solo privato, perché, per quanto se ne lamenti, la separazione tra pubblico e privato è stata frantumata dallo stesso Berlusconi, che dell' esibizione della sua fisicità ha fatto uso politico, e dei suoi affari privati e familiari ha fatto elemento di discussione pubblica.
Ma, appunto, le donne italiane reclamano oggi di essere raffigurate, e di raffigurarsi a loro volta, per quello che sono. E non è più la rivendicazione della signoria su se stesse, per quanto così precaria si sia rivelata in questi anni la signoria di ciascuna sul suo proprio corpo. Oggi è altro: è la pretesa, perentoria, di essere rappresentate, come genere collettivo, per quello che si è e si è diventate. E stimate, e rispettate per davvero,
per quello che, liberamente, si è scelto di essere. Trastullo per nessuno, oggetto di sfruttamento per nessuno, soggetto invece dignitoso e libero, riconosciuto nella sua dignità e nella sua libertà. Tutte. Se fossimo abituate a pensarlo, forse ci renderemmo conto anche di quale potente strumento di integrazione questo potrebbe diventare per le donne che in Italia vengono da altri Paesi, da altre culture, da altre religioni. Mi colpiva, nella conversazione avuta qualche giorno fa con una giovane donna velata, intelligente e simpatica, il fatto che mi confidasse quanto le mancasse la possibilità di frequentare una piscina per praticare il nuoto. In Italia, diceva, sono tutte promiscue, e la mia religione mi chiede di non frequentarle. E aggiungeva che forse solo una cooperativa di donne avrebbe potuto offrire, a sé ed alle sue sorelle, quella possibilità. Non ci conoscevamo, ma le era venuto spontaneo pensare che solo altre donne avrebbero potuto riconoscerle quel bisogno e quella occasione. Non è un caso.
Ma in quello che sta avvenendo in questi giorni c'è anche altro di nuovo. Ce lo racconta il fatto che ogni appello, ogni lettera, ogni documento venga riconosciuto, e firmato, da chi a sua volta ne ha scritto un altro e firmato altri ancora.
E che questo accade spontaneamente, con la naturalezza con cui si risponde ad un'urgenza, con cui la si condivide.
Non c'è fatica politica, ma c'è, in ciò stesso, un fatto politico. Donne diversissime hanno compreso che, appunto, questo è il momento e confidano, giustamente, nella forza di una massa critica in cui non hanno spazio ortodossie da difendere, diversità da ostentare. Così in piazza il 13 febbraio ci saranno, ci saremo, tutte. Bene. Molto bene. Questo ci dice anche che la forza e la fatica spese negli anni, da tante e tante donne per se stesse e per le altre, non si sono consumate e disperse, come a volte abbiamo temuto, ma anzi, hanno dato sicurezza di sé a nuove generazioni di donne e si manifestano oggi, di fronte all'urgenza, come coscienza collettiva. Ancora di più, come coscienza nazionale.
Se mai fosse stata solo questo, oggi non è piu' una questione di genere, un rivendicare diritti e spazi. L' interlocuzione e le adesioni di tanti uomini alle tante manifestazioni, testimonia di un tema che si impone, finalmente, come generale.
La dignità delle donne come cartina di tornasole della crescita, dell' identità, del futuro italiano: c'è in quello che sta avvenendo una importante assunzione di responsabilità collettiva che deciderà della reale modernità del nostro Paese.

l’Unità 12.2.11
Intervista a Magdy Ahmed Hussein
«È la nostra liberazione
Senza armi abbiamo fatto la storia»
Il segretario del partito del lavoro: «Per le strade ho visto gente piangere di gioia La nostra vittoria è un monito per tutti quei regimi nel mondo che si sentono inamovibili»
di Umberto De Giovannangeli


L’indignazione si è trasformata in felicità. La rabbia in commozione. Il dolore per l’affronto subito con il discorso
dell’altra notte di Mubarak si è trasformato in orgoglio per essere riusciti in una impresa storica. Abbiamo dovuto aspettare altre ventiquattr’ore per vedere il tramonto del rais. Ma per chi ha aspettato questo giorno da trent’anni, 24 ore sono un niente. Ora l’Egitto può finalmente voltare pagina». A sostenerlo è Magdy Ahmed Hussein, segretario generale del Partito del Lavoro egiziano, più volte arrestato dal regime per la sua attività di oppositore. «Non era stato solo il popolo egiziano ad essere stato preso in giro dal discorso di Mubarak dell’altra notte dice a l’Unità Hussein ma l’intera Comunità internazionale, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti. Obama ha detto che in Egitto si sta facendo la storia. È così. E questa storia ha scritto oggi (ieri, ndr) una pagina eroica. Non si governa senza il consenso del popolo. Ora inizia un’altra partita che ha come posta in gioco la democrazia».
Hosni Mubarak si è dimesso. Qual è il suo stato d’animo a notizia appena battuta dalle agenzie di stampa? «Lo stessa delle centinaia di migliaia di persone che gremivano Piazza Tahrir. Una liberazione. Non trovo le parole per descrivere ciò che sta avvenendo sotto i miei occhi...La gente piange di gioia, ragazze abbracciano i soldati... È il Giorno della Liberazione. Abbiamo scritto una pagina indelebile nella storia dell’Egitto... Una rivoluzione ha ottenuto il suo primo obiettivo senza usare la forza. È una lezione per tutti i popoli oppressi del mondo».
Da più parti si indica nel vice presidente Suleiman la possibile guida per una transizione ordinata... «È presto per dirlo. Il generale Suleiman è stato colui che ha avviato il dialogo con le opposizioni. Ne ha ascoltato le richieste: elezioni libere, fine dello stato di emergenza, riforma della Costituzione. Da qui occorre ripartire».
«In quella Piazza si sta scrivendo la storia»: così Barack Obama su Piazza Tahrir... «Parole importanti che evidentemente hanno sortito l’effetto sperato: l’uscita di scena di Mubarak. Il presidente Obama era consapevole che l’affermare che in Piazza Tahrir si “faceva la storia” non aveva nulla di retorico, di roboante. Era solo la constatazione di un fatto. E il presidente del “Nuovo Inizio” non poteva tradire una Rivoluzione che ha al suo centro la rivendicazione di libertà, diritti, giustizia sociale. Ma in quella presa di posizione di Obama, c’è anche un sano pragmatismo...
Vale a dire?
«L’America non può legare i suoi interessi geopolitici in Medio Oriente a regimi che rappresentano il passato. Non può affondare con loro».
L’Esercito si fa garante della fine dello stato d’emergenza «una volta finiti i disordini» e promette elezioni libere ed eque...
«L’Esercito ha avuto un ruolo importante in queste settimane facendo argine alle squadracce filogovernative. Ora si apre una fase nuova in cui è importante lavorare per una transizione democratica che coinvolga tutte le forze sane del Paese. E l’Esercito è tra queste». Parte ma non tutto. Non c’è il rischio che al regime del «Faraone» se ne sostituisca uno dei militari? «L’Esercito non è un corpo estraneo alla società egiziana. Chi lo comanda ha potuto rendersi conto in questi 18 giorni della determinazione, del coraggio, della lucidità di cui milioni di egiziani hanno dato prova. In piazza c’erano tutte le componenti della società, operai, giovani disoccupati, giudici, teologi, medici, docenti universitari...L’Egitto è cambiato e nessuno può illudersi di poterlo più governare con il pugno di ferro. Indietro non si torna. Di questa transizione l’Esercito può esserne il garante».
C’è chi teme che la rivolta spiani la strada ai Fratelli Musulmani... «I Fratelli Musulmani sono parte del movimento ma non ne rappresentano gli orientamenti maggioritari. Lo hanno anche riconosciuto. Questo “rischio” non esiste».
Chi nel mondo arabo deve gioire di questa svolta egiziana e chi deve invece temerla? «A gioire sono quei popoli soggiogati da regimi che si pensavano inamovibili. Ma nessuno lo è. A temerlo sono quelli che si credevano inamovibili e che si sono arricchiti ai danni dei loro popoli. Anche per loro la fine è vicina».

Repubblica 12.2.11
Le Goff: "Oggi è storia Per il mondo arabo è una grande rivoluzione"
"Un tiranno cacciato senza veleno né spada"
di Pietro Del Re


La scomparsa di re o tiranni avviene di rado con una sollevazione popolare. Soprattutto in quella parte di mondo
L´unico precedente è la caduta dell´ultimo sultano turco, che però fu costretto all´esilio dall´esercito di Atatürk

«No, non me l´aspettavo proprio: quanto accaduto in Egitto e in Tunisia è grande una novità per i Paesi arabi, una prima assoluta nella storia di quel mondo». Appare davvero stupito il celebre medievalista francese Jacques Le Goff, al quale chiediamo di scandagliare la Storia con la sua memoria e la sua erudizione per fornirci analogie con quanto accade in queste ore al Cairo. «La scomparsa brutale di re, imperatori o tiranni è quasi sempre passata attraverso l´omicidio o le rivoluzioni di palazzo, e molto più raramente grazie a una sollevazione popolare. Soprattutto in quella parte di pianeta».
Professor Le Goff, la fine di Mubarak non ha proprio nessun antecedente?
«Nessuno. Salvo, forse, la caduta dell´ultimo califfo turco, Abdul Mejid II, che però fu costretto all´esilio più dall´esercito di Atatürk che da un sollevamento popolare. Diverso è quanto accaduto in Africa centrale, dove re e capi tribù sono stati, essi sì, scacciati da rivolte di popolo, in paesi come il Benin o il Congo».
E che cosa è successo altrove, in Europa, per esempio?
«Mi vengono in mente almeno tre esempi francesi. L´ultimo re di Francia, Luigi XVI, prima di essere condannato a morte dal parlamento e decapitato, fu vittima della rivoluzione del 1789, che può essere considerata un sommovimento popolare».
E gli altri due?
«Carlo X, ultimo re della dinastia dei Borboni, fu spodestato nel 1830 dal popolo parigino. Allora la rivolta durò tre giorni, entrati nella storiografia con il nome dei "tre gloriosi", perché così fu intitolato lo splendido quadro con cui il pittore Eugène Delacroix immortalò quei moti. Dalla piazza fu detronizzato anche Luigi Filippo nel 1847».
Ci fu poi la rivoluzione russa del 1917.
«Certo, fu anche quello un imponente sollevamento popolare che fece cadere l´ultimo zar di tutte le Russie, Nicola II».
Torniamo all´antichità. Quali eventi le propone la memoria?
«Possiamo perfino risalire ai tempi biblici, quando Saul, primo re del Regno d´Israele, fu cacciato dalla folla e sostituito da David. Penso anche al grande re babilonese Nabucodonosor, noto per aver conquistato e distrutto Gerusalemme e il suo tempio, e che dal 605 a.C. regnò per 43 anni. Ebbene, fu anche lui detronizzato dalla piazza di Babilonia».
E in Italia?
«Nel 1343, i tumulti di Firenze fecero cadere il Signore della città».
Dalla rivolta dei mercenari di Cartagine a quella cinese dei "Sopraccigli Rossi" e dai Vespri Siciliani a quella delle Quattro giornate di Napoli, le ribellioni sono state numerose nella storia dell´umanità. Ma quante hanno ottenuto l´esito sperato?
«Dai tempi dell´Antica Grecia solo molto poche sono riuscite a rovesciare un re o un despota. Nei secoli scorsi, gli espedienti più diffusi per sbarazzarsi di un sovrano erano piuttosto il veleno o la spada. Perché? Perché è sempre stato più facile pagare un sicario che mobilitare una folla. Mi riferisco all´assassinio del re d´Inghilterra Eduardo IV, e quello del re di Francia Enrico IV. Ma poteva anche capitare che un monarca fosse vinto in battaglia. Accadde all´inglese Carlo I e all´imperatore francese Napoleone III, il quale nel 1870 fu duramente sconfitto dai prussiani a Sedan. A causa di quella catastrofe militare, a Parigi venne rapidamente decisa la deposizione dell´imperatore. Con lui finì il Secondo Impero».
Ma ci sono stati anche sommovimenti repressi nel sangue, o comunque abortiti prima di raggiungere lo scopo voluto.
«Certo. Le faccio l´esempio del borghese Etienne Marcel, che condusse il primo moto rivoluzionario della storia di Parigi. Il 22 febbraio 1358, con un folto gruppo di suoi partigiani, invase il palazzo del Delfino, obbligando quest´ultimo a rinnovare la Grande Ordonnance, un testo legislativo promulgato dagli Stati generali di Francia che prevedeva la ristrutturazione dell´amministrazione regia. Diventato padrone assoluto di Parigi e sostenuto dalla borghesia, Etienne Marcel tentò quindi di far abbracciare la propria causa anche alla provincia. Il Delfino, però, era nel frattempo riuscito a fuggire e a mettere Parigi sotto assedio. Il 31 luglio 1358, Marcel fu ucciso da un sostenitore del Delfino».

Repubblica 12.2.11
Il sultanato e i suoi danni
di Giorgio Bocca


Che cosa è stato per l´Italia il periodo che va sotto il nome di berlusconismo? Certamente un periodo di perdita della pubblica educazione, della correttezza dei rapporti civili. Di una delle sue allieve predilette, la signora Minetti, Berlusconi ha detto: «Una donna intelligente, laureata, che è diventata per suoi meriti consigliere regionale».
Ma nelle intercettazioni di questa signora viene fuori un altro personaggio, una donna di una volgarità è di un´avidità notevoli, che di Berlusconi dice: «Quel vecchio dal sedere floscio che ci faceva eleggere a cariche pubbliche per farci pagare dai contribuenti». Nessuna vivandiera di lanzichenecchi sarebbe stata più feroce.
Il berlusconismo è anche una riduzione della lotta politica a livello infimo, in questa politica il ministro degli Esteri della Repubblica italiana, invece di occuparsi delle bufere sociali in corso in Egitto o in Tunisia, legge alla Camera una comunicazione di un ministro di Santa Lucia, repubblica delle banane caraibica, la rivelazione storica che Gianfranco Fini, co-fondatore del partito di governo, ha un cognato di nome Tulliani che è proprietario di una casa Montecarlo. In altre parole il ministro degli Esteri di una grande nazione europea si presta a diffamare il presidente della Camera diventato nemico politico del sultano.
Il berlusconismo è un periodo nero della storia politica e civile italiana anche per altri aspetti, a cominciare dai rapporti fra il presidente del Consiglio e l´informazione, fra il signore di Arcore e la libertà di stampa. Criticato da giornalisti e da politologi il premier si comporta come un sultano vendicativo e minaccioso, viola tutte le regole della pubblica informazione, irrompe nelle trasmissioni televisive e radiofoniche per insultare i suoi critici usando parole da trivio come «la sua trasmissione è un postribolo» e «infami menzogne». Offrendosi alla giusta reazione degli accusati di cui dice: «di lei mi vergogno», «la sua trasmissione è infame». Un´impressionante riedizione del Nerone di Petrolini, del despota feroce e ridicolo che abusa del suo potere e si fa applaudire dalle sue vittime.
Con il Cavaliere di Arcore ecco il danno maggiore: la giovane e fragile democrazia italiana si riduce a un pettegolezzo volgare, a un gossip che tutto occupa e soffoca, che rischia di mascherare tutti i problemi del governo, tutti i doveri di educazione e di stile, il paese intero, sotto una nube ronzante di menzogne e abuso di potere. Perché comunque si consideri l´uomo di Arcore, egli è la gente che frequenta, che ama, che protegge, che innalza o abbassa a suo piacere, questa corte maleducata e supponente che grazie a lui vive di bassi servizi. Tutti, anche i migliori, che ritengono normale avere dalla res publica non solo un lauto stipendio ma anche le amanti.
Il berlusconismo come un tempo di corruzione e di servitù, esentato dalla ferocia solo dal controllo internazionale e dall´indole del sultano che vuole non solo l´obbedienza ma anche la gratitudine del popolo. E il disagio, la stanchezza di vivere in un paese senza morale, senza regole del gioco rispettate da tutti, senza disciplina, ci fa rimpiangere quelle società che ti mettono alla prova di educazione e di ragione, non quelle dove tutto è permesso a patto che tutto decada verso il peggio. Purtroppo per molti italiani il laisser faire è preferibile ai doveri.


il Fatto 12.2.11
La politica non va a scuola
di Marina Boscaino


Le circolari dello scorso anno su iscrizioni alla prima superiore e determinazione degli organici (equivalente a un taglio di più di 40 mila posti) sono illegittime. Lo ha decretato a luglio il Tar del Lazio. Sono state emesse senza che la “riforma” delle superiori avesse compiuto l’iter giuridico per diventare legge. Il 17 febbraio ci sarà l’udienza definitiva sul ricorso di docenti, Ata, studenti e genitori, coadiuvati dai comitati Scuola e Costituzione. Come si spiega allora che Gianluca Parrini – consigliere regionale della Toscana (V commissione, Attività culturali e Turismo) – raggiunto, sul recapito di posta elettronica istituzionale, dalla richiesta del Tavolo Regionale per la Difesa della Scuola Statale di appoggiare il ricorso con intervento ad adiuvandum abbia chiesto di essere cancellato dalla lista degli interlocutori istituzionali? Senza arrivare a questo eccesso, molti enti locali di centrosinistra (tutte le Regioni) interpellati, per ora si sono sottratti. Strano. Il ricorso impugna i provvedimenti attuativi della l. 133/08 (-8 mld alla scuola pubblica, -140 mila posti di lavoro), in particolare tagli agli organici della scuola statale. La grande mobilitazione di questi anni, come è noto, non ha fermato i progetti di smantellamento della scuola pubblica previsti da quella legge, poi confluita in Finanziaria. Per il 2011/12 il MIUR taglierà 35 mila posti (20 mila cattedre e 15 mila non docenti). Ci saranno meno Ata in tutti gli ordini di scuola, penalizzando in particolare i plessi piccoli di scuola primaria e dell’infanzia , in forse nel garantire l’orario. Le 20 mila cattedre graveranno su secondaria di II grado (il professionale passerà da 36 a 32 ore nelle classi I, II e III) e primaria, dove le 27 ore saranno estese alle classi III e si parla anche di un taglio di 4.700 posti di inglese. Dobbiamo forse pensare che questi tagli sono ben accetti a coloro che non intendono dare sostegno al ricorso, potenziale atto di coerenza da parte delle forze politiche che governano le Regioni di centro-sinistra e segnale di effettiva differenziazione dalle giunte di centrodestra? E pensare che il Tar ha rilevato l’illegittimità dei provvedimenti relativi agli organici anche perché viola le prerogative di Regioni ed Enti Locali: gli organici sono stati determinati senza il parere obbligatorio della Conferenza Unificata Stato-Regioni. Le Regioni avrebbero non solo il diritto, ma anche, per rispetto dei cittadini che rappresentano, il dovere di contestare l’illegittimo comportamento di Gel-mini, lesivo anche del principio di leale collaborazione tra istituzioni della Repubblica. Solo le province di Bologna, Cosenza, Pistoia, Vibo Valentia e Perugia hanno aderito, insieme a qualche comune, tra cui Bologna e Imola. L'acquiescenza e l’inerzia delle Regioni indeboliscono il ricorso sotto il profilo dell'interesse processuale, ma anche nei confronti dei giudici del Tar, che non potranno non rilevare l’anomalia della loro totale assenza in una materia che per dettato costituzionale le coinvolge. È un segnale di una politica scolastica subalterna anche al federalismo, che apre un enorme problema di rappresentanza politica. “Sono fortemente deluso e preoccupato per questa diserzione irresponsabile delle Regioni non solo rispetto a questi, ma anche ai futuri provvedimenti. Sembra non esserci volontà politica di contrasto efficace. Tocca al mondo della scuola chiedere ai rappresentanti delle istituzioni la necessaria coerenza e valutarne il comportamento a tutti gli effetti” dice Corrado Mauceri, avvocato dei ricorrenti. Esisterebbe un modo per invertire la rotta da parte degli enti locali di centro sinistra e delle forze politiche cui fanno riferimento: assumersi l’onere e la responsabilità di un’elaborazione politica davvero autonoma e dare concretezza ad un’appartenenza che non può risolversi in etichette formali, ma che prevede adesione fattiva a principi condivisi, come difesa della scuola pubblica e certezza del diritto. Sussidiarietà istituzionale non vuol dire subalternità politico-culturale.

Corriere della Sera 12.2.11
Graduatorie dei prof precari La Lega «scavalca» la Consulta
di M. Io.


ROMA — La Corte Costituzionale aveva bloccato due giorni fa, dichiarandole incostituzionali, le graduatorie attuali degli insegnanti, graduatorie fatte sulla base di una legge del novembre 2009 fortemente voluta dalla Lega. Una legge che di fatto impediva ai professori che facevano domanda in un’altra Provincia di essere inseriti in graduatoria «a pettine» , ovvero sulla base del loro punteggio: gli insegnanti che sceglievano un’altra Provincia finivano in coda. Questo per scoraggiare il trasferimento di insegnanti dal Sud al Nord. Naturalmente adesso lo scompiglio è grande perché non meno di 15 mila insegnanti faranno ricorso. Ma ieri, nonostante il pronunciamento della Consulta, è passato in commissione Affari costituzionali e Bilancio del Senato un emendamento, ancora una volta a firma della Lega al decreto Milleproroghe in discussione in Parlamento che in parte ripropone una modalità di accesso alle graduatorie e alle cattedre nuovamente svantaggiosa per i professori del Sud che fanno domanda in una Provincia del Nord. Intanto, secondo questo emendamento, saranno congelate fino al 2012 le graduatorie attuali, in attesa di rifarle ma soprattutto, dice la Lega, in attesa di approvare una riforma del reclutamento. E questo per «regolare— spiega Mario Pittoni, primo firmatario dell' emendamento— la fase transitoria in vista della riforma del reclutamento. La sentenza della Corte crea una situazione tecnicamente difficile da gestire, perché i ricorrenti erano almeno 15.000. E poi noi cerchiamo di dare una garanzia a quei poveretti che avevano una determinata posizione nelle graduatorie provinciali, e che ora si vedrebbero scavalcati» . Ma non è tutto. Il secondo comma dell’emendamento passato ieri stabilisce che, a decorrere dall’anno scolastico 2011-12, «l'inserimento nella prima fascia delle graduatorie di istituto è consentito esclusivamente a coloro che sono inseriti nelle graduatorie ad esaurimento della provincia in cui ha sede l'istituzione scolastica» . Insomma i supplenti chiamati dalle scuole potranno provenire solo dalla provincia in cui ha sede l'istituto stesso. «È il massimo che potevamo fare in questo momento» , continua Pittoni ma il segretario generale della Cgil Scuola Mimmo Pantaleo lo definisce un «atto razzista nei confronti del Mezzogiorno» e una «violazione della sentenza della Corte Costituzionale» . Nel decreto Milleproroghe potrebbero essere in arrivo anche nuovi tagli sul fronte Università. A tutte le Università (e sono oltre la metà) che non riusciranno a stare al di sotto della soglia del 90 per cento di criticità nella gestione delle spese, sarà impedito per il prossimo anno di procedere a nuove assunzioni di ricercatori o docenti.

Corriere della Sera 12.2.11
Il dietrofront sulle staminali da cellule adulte: a rischio cancro
di  Mario Pappagallo


MILANO— Sembrava una svolta della ricerca sulle staminali. Si prende una cellula adulta, della pelle o mammaria, e con un metodo innovativo (riprogrammazione genetica) si riesce a riportarle a livello embrionale. Senza toccare minimamente gli embrioni. Convincente anche per l’etica cattolica. Purtroppo le cellule ottenute sono a rischio cancro. Uno studio pubblicato ieri da Cell death and differentiation lo ha dimostrato. Il loro Dna si può alterare e favorire l’insorgenza di tumori. E le cellule «riprogrammate» potrebbero causare, se usate in terapia, più danni che benefici. Il lavoro scientifico è italo-svizzero. Firmato dall’Istituto europeo di oncologia (Ieo), dall’Istituto Firc di oncologia molecolare (Ifom), dall’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica, dall’università di Ginevra e dall’École polytechnique fédérale di Losanna. Uno dei quattro geni usati per la «riprogrammazione» , c-myc, sembra il principale responsabile. Il risvolto positivo è che i ricercatori hanno già identificato il meccanismo responsabile del danno: i geni «riprogrammatori» inducono un’eccessiva proliferazione cellulare, alla lunga danneggiante il Dna. Ed è ora possibile studiare tecniche più sicure di «ringiovanimento» delle staminali. «Stiamo parlando della grande speranza di cura per molte malattie croniche che affliggono l’umanità, quali Alzheimer, Parkinson, diabete — dice Pier Giuseppe Pelicci (Ieo) coautore della ricerca —. Ed è fondamentale trovare come riprogrammare le staminali adulte in embrionali in piena sicurezza» . Perché solo le embrionali sono in grado di generare tutti i tipi di cellule specializzate (neuroni, intestinali, del cuore, delle ossa). Lo studio riapre anche il dibattito sui limiti della ricerca italiana, che non può usare nemmeno le staminali di quegli embrioni «orfani» , sovrannumerari di una fecondazione artificiale, conservati in frigo e destinati a finire in un lavandino. Per Umberto Veronesi, direttore scientifico dello Ieo, «è dovere morale ora utilizzarli» .

Corriere della Sera 12.2.11
Agostino, padre dell’Europa
Parte da lui il pensiero di Schelling, Hegel e Kierkegaard
di Armando Torno


Q uindici anni di lavoro, forse più. Centoventiquattro discorsi, dei quali una abbondante cinquantina furono prediche proferite a braccio e messe per iscritto dai tachigrafi, mentre i restanti vennero dettati e poi letti da terzi. In cifre e schemi si possono così riassumere le pagine che Agostino ha lasciato sul quarto Vangelo, quello di Giovanni, nel quale la rivelazione cristiana abbraccia e trasfigura il messaggio della cultura greca. Un insieme di chiose e di considerazioni imponente, ma allo stesso tempo inquietante, sconvolgente, tra i più ispirati del santo. Giovanni Reale ne ha curato una nuova edizione, basandosi sul classico testo dei Maurini, cercando di ricostruire e riprodurre il ritmo del parlato, i possibili silenzi, le riprese della voce. Ha posto titoli a ogni capitolo e ai paragrafi, intervenendo su un’opera che si presenta magmatica, concepita sovente di getto da una mente che piegava la sintassi e le regole retoriche ai propri bisogni. In tal modo, è riconsegnato ai lettori uno dei momenti più alti del lascito di Agostino, quel Commento al Vangelo di Giovanni (Bompiani, 2 volumi in cofanetto, pp. 3.278, e 50) che corre come un filo rosso nella cultura occidentale. L’ariosità restituita ai discorsi li rende comprensibili, quasi in grado di evocare gli accenti che li hanno plasmati. Nel saggio introduttivo si esaminano la struttura logica, i fondamenti metodologici, filosofici e teologici dell’opera e si evidenzia in cosa consista il sovvertimento del pensiero filosofico antico pagano qui attuato; e per quali ragioni, come ha sostenuto Maria Zambrano, Agostino debba essere considerato il padre spirituale dell’Europa (e, aggiungiamo, uno dei massimi riferimenti per l’arte, come prova il primo volume dell’Iconografia agostiniana. Dalle origini al XIV secolo, appena pubblicato da Città Nuova). Ma cosa trova il lettore di oggi, impigrito da una letteratura inconsistente, in questo universo di considerazioni su Giovanni? Il testo rivela il bisogno di amore e la necessità di capire il mondo, di trovare un senso alla morte. Con il Commento si chiarisce il metodo di Agostino e si intuisce un’ulteriore chiave di lettura dell’ultimo libro delle Confessioni. La tarsia di citazioni, dove è riunita tutta la Bibbia, mostra come il santo cercasse di cogliere dal punto di vista allegorico il mistero della creazione attraverso la Parola rivelata. C’è qualcosa di rivoluzionario in queste pagine? Certo, basta leggere le parti sulle domande che non hanno ancora una risposta e le considerazioni sull’amore, giacché quello cristiano ha bisogno della carne, non è un mero fatto spirituale. Di carne si riveste Dio, con la carne dialoga il Cristo e di carne necessita la resurrezione. «Questo è il mio corpo» contrasta con il platonico «tutto ciò che è umano non è degno di molta considerazione...» . Dal momento in cui sull’Acropoli di Atene si scoprì che c’è una realtà oltre quella tangibile, nacque il desiderio di trovare un mediatore che in essa conduca e la illustri. Platone lo individuò nell’eros, vedendolo non come dio ma come demone. Nel Commento a Giovanni, Agostino tenta di più spiegando come Dio stesso diventi il demone-mediatore, facendosi uomo. La novità rispetto agli altri vangeli? Questo Commento ricorda che i sinottici hanno mostrato soprattutto l’umanità di Gesù, leggendo Giovanni il santo capisce che è tempo di ritoccare le prospettive: in ogni momento della vita di Cristo, anche nei particolari, si vede Dio. Perché Dio abita in ogni azione di Cristo e il Figlio diventa il contemporaneo di ogni uomo (lo ripeterà Kierkegaard). Agostino, che ha avuto una prima conversione con i platonici, ora ha smesso di credere che Dio sia corpo infinito, ma è tale in spirito. Leggendo Plotino e Porfirio si è accorto che l’aldilà c’è veramente e che per raggiungerlo occorre attraversare un mare. Comprende che solo il lignum crucis fa superare queste acque: non mostra l’aldilà, ma in esso conduce. Già, lignum crucis: emblematica sintesi della totalità delle sofferenze dell’uomo. Ci sono poi delle intuizioni accecanti che Reale evidenzia, presenti anche in Hegel (Filosofia della religione) e in Schelling (Filosofia della rivelazione): Cristo ha preso su di sé la morte e, accettandola, l’ha uccisa. Sulla croce, quindi, la morte di Cristo segna la morte della morte. Per questo non ha abbandonato il legno del supplizio: rimanendovi l’ha sconfitta, solo restando appeso poteva divorarla. Kierkegaard dirà che se fosse sceso avrebbe negato di essere il Figlio di Dio, diventando un pagliaccio. Per Platone l’amore mette le ali all’anima, rendendola in grado di volare sempre più in alto; inoltre, il cocente sentimento è tanto grande quanto lo è l’oggetto che si ama. Il messaggio cristiano che Agostino urla nel Commento capovolge la prospettiva: l’amore è tanto più grande quanto più è piccolo l’oggetto amato. Da acquisitivo si fa donativo. Per questo Dio ama l’uomo sino a indossarne la carne e a morire per lui. Credere in Cristo — quest’opera cerca di spiegare il modo in cui gli uomini devono farlo — significa portare il logos dei filosofi greci sino a Dio, quindi toccarlo quando si fa carne e infine, seguendo disegni lontani dalla ragione, vederlo immolarsi per amore.

l’Unità 12.2.11
Petrarca tra la terra e il cielo
Una lettera autografa del poeta per la prima volta esposta al grande pubblico è tra i pezzi della mostra «desanctisiana» che, nei 150 anni dell’Italia unita, apre al Quirinale. Qui ecco un saggio del curatore che l’accompagna
di Giorgio Ficara


Collezionista di solitudini, Petrarca descrive incessantemente questo umano stato di eccellenza, ne fa dono ai contemporanei e alla posterità. La solitudine è un tesoro, di cui egli conosce e cataloga ogni gemma: da Valchiusa, dove vive con due servi e un cane «più nero della pece e più veloce del vento», alla casa tra i campi di Sant’Ambrogio, a Padova, dove in un suo orticello «ornato di fronde e fiori» riceve Boccaccio, ad Arquà, sui colli Euganei, dove muore, tutta la sua vita è un susseguirsi di solitudini. «Ovunque n’andasse scriverà Foscolo ricoveravasi in una specie di eremo; e continuava a comporre interi volumi». Insieme ad Agostino, compagni di questa solitudine sono i latini e poi i Salmi davidici e Boezio e i poeti di Provenza: amici segreti del cuore, discreti, soavi, che gli giungono da ogni parte del mondo e da ogni tempo; amici che si accontentano di un angolo della casa e lo assistono premurosi, se ne vanno a un suo cenno, «redeantque vocati».
VIVERE AL PRESENTE
Petrarca non spreca un attimo del suo tempo, «vive oggi l’oggi, per vivere domani, se gli sarà dato, il domani». L’ansia, che perseguita il cittadino, gli è ignota, e fra i libri da leggere e quelli da scrivere non conosce che felicità. Inoltre: non si possono immaginare un’eleganza e una cordialità più perfette delle sue, un eloquio più temperato, un sorriso più gentile. Che si rivolga a Roberto d’Angiò o al mezzadro di Valchiusa, egli si esprime con la stessa attenzione che rivolge ai grandi del passato: «Mai non puoi coglierlo in veste da camera -scriverà De Sanctismai non ti viene innanzi che in guanti gialli e in cravatta bianca».
Eppure, il perfetto Petrarca assomiglia a uno strabico, che guarda in due direzioni diverse, verso il secolo e il chiostro, ed è immobile, tormentato, inquieto e inutilmente desto.
Da una parte Laura e la seduzione dei luoghi (che evocano Laura), dall’altra l’orizzonte, visibile e inarrivabile, della spiritualità pura, senza Laura e senza luoghi: indeciso fra due assoluti, il poeta fuggitivo verso la solitudine-eden cade nell’inazione e nell’angoscia. Avverte che, in questa impossibilità, la sua vita interiore si è sbriciolata; e d’altra parte un dolore talmente acuto lo sovrasta, da fargli rimpiangere la vita di prima, il «vulgo» un tempo «nemico e odioso».
LA COMPAGNIA DEGLI EMPI
Cantore del disagio dell’interiorità, Petrarca in un celebre sonetto invoca la compagnia degli «empi» come un balsamo: «tal paura ho di ritrovarmi solo». L’abisso dei pensieri, divenutigli estranei, è troppo profondo e vuoto per poterlo guardare. La «cameretta» è disabitata. Il letticciolo è asperso di lacrime. E il poeta fugge anche da se stesso: «Né pur il mio secreto e ‘l mio riposo/ fuggo, ma più me stesso e ‘l mio pensero,/ che, seguendol talor, levommi a volo». Fuggire la propria intimità, cioè l’agognata solitudine, e il pensiero, cioè l’impeto nella solitudine, il volo possibile da un luogo -la cameretta, l’ioa un non luogo celeste, è il castigo cui Petrarca non può sottrarsi che piangendo e sospirando.
LACRIME VANE O DEVOTE?
E niente potrebbe mutare le sue lacrime «vane» in lacrime «sante» o «devote». Quanto in Petrarca è cristiano si manifesta cioè come inaccessibilità, mancanza, nostalgia e, d’altra parte, come debolezza assoluta della volontà. Petrarca crede pochissimo nel libero arbitrio e suppone che sarà salvato per grazia, non per natura: se la grazia abbonda dove il «fallo abondò» , se solo una «gran vertute» divina sa metter fine al suo dolore, egli non può che attendere l’evento decisivo. Il suo stesso genio, è l’attesa.

il Fatto 12.2.11
Radio Radicale: il governo nega i soldi
Bocciati due emendamenti per prorogare il finanziamento pubblico oltre il 2011


Radio Radicale, oltre ad avere evidenti problemi di palinsesto a causa della mancanza di dibattito parlamentare, comincia a tremare per la convenzione con lo Stato, in scadenza a fine 2011. Convenzione che frutta alla radio 10 milioni di euro all’anno (8 milioni e 150 mila netti), indispensabili per poter continuare le trasmissioni. Due emendamenti al mille-proroghe sono già stati bocciati dal governo che per la prima volta potrebbe far mancare il sostegno al “servizio pubblico” di Radio Radicale. Forse c’era anche questa partita dietro le “trattative” di Marco Pannella con Silvio Berlusconi nei giorni scorsi? Con il leader radicale che annunciava possibili sostegni al governo da parte dei suoi parlamentari (eletti nelle liste del Partito democratico) e il conseguente malumore di Emma Bonino: “Il premier non mi pare più in grado di gestire alcunché politicamente parlando”. Il Giornale ieri scriveva: “Il Cavaliere non sta nascondendo la sua insofferenza verso Tremonti sempre più defilato e in aperto contrasto con il premier. Il caso più eclatante è quello del rinnovo della convenzione a Radio Radicale”, aggiungendo anche che Gianni Letta “sta caldeggiando da tempo” questo rinnovo. Intanto, sempre nel milleproroghe, è stato approvato un emendamento dalla commissione Bilancio per i fondi all’editoria (quasi sicuro quindi il sì definitivo del Parlamento). Il che per Radio Radicale significa beneficiare di 4 milioni di euro. Cifra che non è neppure sufficiente a coprire le spese per la rete di trasmissione: 220 impianti in tutta Italia. “Adesso speriamo che il finanziamento arrivi con il maxi-emendamento al milleproroghe – spiega la senatrice radicale Donatella Perotti –, ma nulla è certo” e, allo stato attuale, a fine 2011 le storiche trasmissioni come Stampa e regime di Massimo Bordin s’interromperanno. (g. cal.)