Terra 29.5.09
Nelle librerie l’ultimo lavoro di Mario Vegetti, «Un paradigma in cielo». Una rassegna della fortuna del pensatore politico da Aristotele a Kant e Hegel, fino ai giorni nostri. Con un’attenzione particolare al Novecento
Né in cielo né in terra. Lo Stato perfetto di Platone
Precursore di tutti i totalitarismi. La sua «ingegneria sociale utopica» è indifferente alla violenza richiesta per fondare una società nuova
di Noemi Ghetti
L’iperuranio delle idee platoniche era la reazione all’antimetafisica dei sofisti, che con Protagora avevano posto «l’uomo a misura di tutte le cose»: una risposta a quello che oggi si chiamerebbe “relativismo”, paventato elemento disgregatore della “pólis”, a cui il metodo maieutico di Socrate non aveva saputo porre rimedio. Il «sapere di non sapere», cardine dell’intellettualismo etico socratico, si era rivelato infatti un principio inadeguato alla ricerca del «Sommo Bene», cioè della verità assoluta. Platone rispose con la proposizione teorica di un fondamento divino, eterno ed immutabile della conoscenza, che poteva essere solo “reminiscenza” di quanto l’anima razionale, e di necessità immortale, conosceva “ab aeterno”, per averlo mutuato nell’iperuranio da cui proveniva. Sembrerebbe una questione filosofica, e invece era una questione eminentemente politica: «la teoria delle idee - secondo Popper - è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il “modello dello stato perfetto”, per definizione immutabile e invariante».
«Un paradigma in cielo» (Carocci), il nuovo libro di Mario Vegetti, ci conduce attraverso un’interessante rassegna della fortuna del Platone politico da Aristotele ai giorni nostri, con un’attenzione particolare al Novecento. Il titolo del libro è una citazione di un passo della Repubblica platonica in cui a Glaucone, che obietta che la città della cui fondazione si parla non esiste da nessuna parte della terra, Socrate risponde che essa è posta in cielo come modello (“paradeigma”) per chi voglia, tenendolo a mente, rifondare se stesso. Di una rifondazione del sapere si sentiva in verità bisogno, se si consideravano gli esiti della scandalosa condotta politica di cui aveva dato prova la nuova leva di filosofi cresciuti, alla fine del V secolo, in ambito sofistico-socratico. Nel 415 a.C., mentre infuriava la guerra del Peloponneso, Alcibiade, il dissoluto e ambizioso pupillo amato da Socrate nel Simposio, aveva promosso la disastrosa spedizione militare ateniese di 30.000 uomini in Sicilia, che segnò l’inizio del declino di Atene. Nel 404 a.C. il sanguinario Crizia, un altro allievo di Socrate, era stato il capo dei Trenta tiranni, il governo fantoccio imposto dagli spartani agli ateniesi sconfitti, che si era macchiato - oltre che dell’assassinio dello stesso Alcibiade - di confische, esili e uccisioni di stranieri senza cittadinanza, allora il nerbo produttivo della città.
Per Platone dunque l’interesse politico è tutt’uno con quello filosofico, e le sue opere più direttamente politiche, la Repubblica, il Politico e le Leggi, costituiscono la parallela elaborazione filosofica del progetto politico di instaurare il suo stato ideale nella Siracusa del tiranno Dionisio I e poi di Dionisio II. Il progetto, vagheggiato sulla base di un rapporto di intima amicizia con l’ammiratore e seguace siciliano Dione, cognato di Dionisio I, fu perseguito da Platone nell’arco di un trentennio, con tre a dir poco problematiche spedizioni in Sicilia.
La malattia della “pólis” della fine del V secolo e la cura ideata da Platone, una “politéia” governata da una casta illuminata di filosofi-legislatori, in cui l’ordine sia assicurato da una classe di guardiani, che garantiscano l’obbedienza del vasto gregge dei lavoratori, nel Medio Evo attirò l’interesse dei teologi cristiani, e sembrò quasi incarnarsi nel modello teocratico cristiano. Ma fu a partire da Kant e Hegel che, per tutto l’Ottocento e il Novecento, si avvicendarono le interpretazioni più disparate del pensiero di Platone, divenuto ineludibile banco di prova di ogni filosofia della politica. Tra slittamenti semantici significativi, valorizzazioni di aspetti parziali a discapito di altri, arbitrarie appropriazioni e deformazioni, la rassegna di Vegetti procede agile e nello stesso tempo approfondita, fornendoci una storia della cultura degli ultimi due secoli filtrata alla luce della teoria platonica dello stato. Incontriamo così un Platone liberale e uno socialista, un Platone nazista e uno comunista, uno fascista e uno cattolico. E non mancano quello utopico, quello ironico e addirittura quello impolitico.
Nel Novecento i tedeschi individuarono in Platone la guida spirituale della rinascita dalla sconfitta della prima guerra mondiale e dal trauma della rivoluzione repubblicana. Al nazionalsocialismo piacquero la superiorità ariana della casta dei filosofi, la militarizzazione dello stato e l’eugenetica al servizio dell’idea di razza. I bolscevichi dei primi anni della rivoluzione accolsero l’utopia platonica come premessa ad una radicale trasformazione educativa e morale della società, affascinati dall’opera di collettivizzazione, dall’abolizione della proprietà privata e della famiglia teorizzati dalla Repubblica. Ma nel 1923 le opere di Platone furono escluse dalla libera consultazione nelle biblioteche sovietiche, insieme con quelle di Kant e Nietzsche.
Per Platone, scriveva Popper nel 1944, mentre la seconda guerra mondiale infuriava, «l’individuo è il Sommo Male in senso assoluto»: questo è il punto nodale, che lo rende precursore di tutti i totalitarismi. Presa dal sacro fuoco di fondare la società nuova, «l’ingegneria sociale utopica» di Platone è indifferente alla violenza che si richiede per costituirla. Insomma, per l’arbitrarietà dei fini e l’impossibilità di controllare la sequenza dei mezzi, il filosofo della «società aperta» riteneva molto probabile che essa portasse sulla terra, invece che il cielo, l’inferno. Il potenziale antidemocratico della «scrittura velenosa», perché affascinante, della Repubblica è ancora ben lungi, Popper concludeva, dall’essere esaurito.
«Che cosa resta oggi di Platone? » si chiede Vegetti alla fine del suo saggio.
La ricerca sulle cause profonde della plurimillenaria fascinazione, subita sia dai conservatori che dai rivoluzionari, di un modello politico totalitario fondato sulla negazione della sessualità e dell’identità delle donne, relegate al ruolo riproduttivo di fattrici per la patria, e sull’elevazione del rapporto pederastico a modello ideale di eros, rimane tuttora aperta.
Sommarietto:
Abbiamo un Platone liberale e uno socialista, uno fascista e uno cattolico,
uno nazista e uno bolscevico
l’Unità 8.9.10
Intervista a Maurizio Landini
Tute blu: è solo l’inizio, se la deroga si fa regola il contratto non esiste più
Il leader Fiom: «Il problema non riguarda solo i metalmeccanici, ma tutti i lavoratori italiani»
di Luigina Venturelli
Quello di Federmeccanica è «un atto politico preciso, grave ed irresponsabile, perchè produce la rottura delle relazioni industriali democratiche in questo Paese». Dunque la risposta della Fiom non potrà che essere politica: «Nel comitato centrale discuteremo tutte le iniziative necessarie, valuteremo gli strumenti legali, organizzeremo una campagna di discussione tra tutti i lavoratori, ci batteremo anche nelle fabbriche, e la manifestazione del 16 ottobre per la difesa dei diritti assumerà ulteriore importanza» assicura il segretario generale Maurizio Landini. La disdetta di Federmeccanica è una dichiarazione di guerra alla Fiom? «Piuttosto è una dichiarazione di guerra a tutti i lavoratori metalmeccanici, perchè si vuol far saltare il loro contratto nazionale lasciandoli privi di qualsiasi strumento di contrattazione, secondo il presupposto inaccettabile che le industrie possano funzionare ed essere competitive solo cancellando i loro diritti fondamentali».
Questa è la teoria del Lingotto.
«Infatti non bisogna dimenticare che questa accelerazione di Federmeccanica nasce da un ultimatum della Fiat dopo la vicenda di Pomigliano. Ma se c’è un sindacato che firma gli accordi per la produttività e la competitività, e senza bisogno di deroghe al contratto, quello è la Fiom. Sfido le aziende metalmeccaniche a dimostrare il contrario».
Da un punto di vista pratico, che cosa succederà adesso? «Per quanto ci riguarda, resta in vigore il contratto del 2008, firmato da tutte le organizzazioni sindacali ed approvato dai lavoratori metalmeccanici con un referendum. Il comitato centrale della Fiom discuterà anche di come, quando, e con quali contenuti presentare la piattaforma per il suo rinnovo. Invece vorrei chiedere a Fim e Uilm chi ha dato loro il mandato per cancellare il contratto nazionale». Domanda retorica.
«La questione non riguarda solo i lavoratori metalmeccanici. Se la derogabilità diventa la regola, allora è chiaro che i contratti nazionali non esistono più. Un vero disastro per i lavoratori, ma anche per le imprese, che perderebbero un pungolo industriale verso la ricerca, la qualità e l’innovazione, e cadrebbero nella competizione al ribasso sul costo del lavoro».
l’Unità 8.9.10
Bersani: grave errore voler dividere il mondo del lavoro
di Giuseppe Vespo
Dal 2012 la Panda sarà prodotta su 18 turni e straordinario decisi dall’azienda
Sacconi: auspichiamo l’ulteriore evoluzione delle relazioni industriali...
Il leader del Pd boccia la scelta di Federmeccanica: «Un errore». Dal piano Fabbrica Italia a Pomigliano, le tappe della disdetta che tiene il Lingotto in Confindustria e gli garantisce «le misure correttive» chieste da Marchionne.
Dal 2012 la Panda, e non solo quella, potrà essere prodotta come vuole Marchionne: su 18 turni, con 120 ore all’anno di straordinario decise dall’azienda senza accordo sindacale (oggi sono 40 ore), con tre pause da dieci minuti per ogni turno contro le due da venti minuti di adesso con qualche voce retributiva in meno per i nuovi assunti e la mensa aperta solo a fine turno; senza la possibilità di scioperare contro le suddette regole e senza la Fiom che chiami in causa i Tribunali.
«UN ERRORE»
Il piano voluto dal Lingotto per portare l’utilitaria in Campania dà già l’idea di come sarà la nuova Fiat, e forse non solo quella. Ma è da lì, dal Gian Battista Vico, che si deve partire per ripercorrere le tappe che hanno portato alla decisione presa ieri da Federmeccanica: la disdetta preventiva del contratto dei metalmeccanici 2008. Una scelta sbagliata, per il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «È un errore commenta a caldo impostare le relazioni industriali mettendo in premessa la divisione delle organizzazione dei lavoratori». Spiega il leader dei Democratici: «C’è uno sforzo comune da fare e io dico che servono due tipi di intervento: innanzitutto delle regole, di cui si occupa anche il legislatore, su salario minimo, sicurezza sul lavoro, malattia... E poi bisogna trovare qualche meccanismo che garantisca la partecipazione dei lavoratori. Non
mi piace aggiunge che tutto questo tema venga affidato a deliri tra il mistico e l’ideologico». Ma tant’è: da oggi la strada è segnata, e per il ministro del Welfare Sacconi ora «si tratta di auspicare l’ulteriore evoluzione delle relazioni industriali», superando «il vecchio impianto ideologico che voleva il necessario conflitto tra capitale e lavoro».
Allo strappo di ieri si è arrivati nel giro di qualche mese, a cavallo di quest’estate fatta di crisi, licenziamenti e «diktat». Era il 22 aprile quando Marchionne annunciava il piano «Fabbrica Italia» e «le misure correttive» da applicare agli stabilimenti della casa torinese per investire quasi 20 miliardi di euro. Neanche un mese dopo i sindacati, senza la Fiom e con il placet del governo, firmavano l’accordo voluto dal Lingotto per produrre la Panda a Pomigliano d’Arco. Un’intesa benedetta solo dal 62% dei dipendenti dello stabilimento chiamati al referendum: pochi per lo stesso Marchionne, che di fronte al «prendere o lasciare» aspettava un plebiscito. Da qui l’idea di newco per il Gian Battista Vico, nata il 19 luglio già fuori da Federmeccanica, e la «minaccia» con tanto di disdetta già pronta di lasciare l’associazione confindustriale per avere mani libere dal contratto delle tute blu. Un brutto affare anche per Viale dell’Astronomia, che con la presidente Marcegaglia ha poi ottenuto qualche mese di calma per trovare una soluzione, salvare la permanenza di Fiat in Confindustria e le esigenze produttive del Lingotto. Ed eccola la soluzione. Era attesa ed è arrivata col direttivo degli industriali metalmeccanici. Ma non sarebbe stata possibile senza l’accordo separato sul nuovo modello contrattuale di gennaio, non firmato dalla Cgil, e il contratto delle tute blu del 2009, non sottoscritto dalla Fiom.
Ora vedremo le contromosse dei meccanici Cgil. Che, lascia intendere il responsabile del settore auto Enzo Masini, potrebbero sfruttare la loro presenza nelle aziende e organizzare il malcontento dei lavoratori contro ulteriori deroghe al contratto. La partita è aperta. La Fiom la giocherà sulla rappresentanza. «Così si apre lo scontro sociale», dice il segretario nazionale Giorgio Cremaschi: «Solo pochi illusi potevano pensare che con Pomigliano si affrontasse una situazione particolare». Mentre per Fim-Cisl e Uil-Uilm non cambia nulla: «Il nostro contratto è quello del 2009», affermano i segretari Giuseppe Farina e Rocco Palombella. Ma fuori dal mondo sindacale sono diversi i «no» alla disdetta. Una scelta che «complica inutilmente lo scenario», la bolla Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Negativo anche il giudizio di Sergio Cofferati, mentre il sindaco di Torino Chiamparino boccia gli «atti unilaterali».
Repubblica 8.9.10
Il pugno di ferro degli industriali
di Luciano Gallino
Il contratto nazionale di lavoro dovrebbe svolgere due funzioni fondamentali: perseguire una distribuzione del Pil passabilmente equa tra il lavoro e le imprese, e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori.
Diritti e doveri al di là di quelli sanciti in generale dalla legislazione in vigore. La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici da parte di Federmeccanica compromette ambedue le funzioni, a scapito soprattutto dei lavoratori. Caso mai ve ne fosse bisogno. I redditi da lavoro hanno infatti perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale (dati Ocse). Perdere 1 punto di Pil, va notato, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso.
Quanto ai diritti, sono sotto attacco sin dai primi anni ´90 e la loro erosione ha preso forma della proliferazione dei contratti atipici che sono per definizione al di fuori del contratto nazionale. Per cui lasciano ai datori di lavoro la possibilità di imporre a loro discrezione, a milioni di persone, quali debbano essere le retribuzioni, gli orari, l´intensità e le modalità della prestazione, e soprattutto la durata del contratto.
Si potrebbe obbiettare che il contratto dei metalmeccanici riguarda solo un milione di persone, su diciassette milioni di lavoratori dipendenti. Ma non si può avere dubbi sul fatto che altri settori dell´industria e dei servizi seguiranno presto l´esempio di Federmeccanica. Dietro la quale è sin troppo agevole scorgere non l´ombra, bensì il pugno di ferro che la Fiat sembra aver scelto a modello per le relazioni industriali.
Le conseguenze? Ci si può seriamente chiedere come possa mai immaginarsi un imprenditore o un manager, e come possa sostenere in pubblico senza arrossire, di riuscire a competere con i costi del lavoro di India e Cina, Messico e Vietnam, Filippine e Indonesia, cercando di tenere fermi i salari dei lavoratori italiani mentre li si fa lavorare più in fretta, con meno pause e con un rispetto ossessivo dei metodi prescritti. Magari a mezzo di altoparlanti e Tv in reparto, come già avviene in aziende del gruppo Fiat. Allo scopo di competere con tali paesi bisognerebbe produrre beni e servizi che essi non sono capaci di produrre, o perché sono altamente innovativi, oppure perché sono destinati al nostro mercato interno. Ma per farlo occorrerebbe aumentare di due o tre volte gli investimenti in ricerca e sviluppo, che ora vedono l´Italia agli ultimi posti nella Ue. Affrontare una buona volta il problema dello sviluppo di distretti industriali funzionanti come fabbriche distribuite organicamente sul territorio, tipo i poli di competitività francesi o le reti di competenze tedesche. Accrescere gli stanziamenti per la formazione professionale, le medie superiori e l´università, invece di tagliarli con l´accetta come si sta facendo.
A fronte di ciò che sarebbe realmente necessario per competere efficacemente con i paesi emergenti, la guerra scatenata da Fiat e Federmeccanica al contratto nazionale di lavoro è un povero ripiego. Che farà salire la temperatura del conflitto sociale. Per di più impoverirà ulteriormente i lavoratori, che così acquisteranno meno merci e servizi, abbasseranno gli anni di istruzione dei figli e dovranno andare in pensione prima perché non possono reggere a un lavoro sempre più usurante. Fa un certo effetto vedere degli industriali che nel 2010, a capo di fabbriche super tecnologiche, si danno la zappa sui piedi.
l’Unità 8.9.10
Bersani: «Non c’è ancora la Costituzione di Arcore»
Risposta a Vendola
di Simone Collini
Il leader Pd dà l’altolà al premier e a Bossi. «Il voto? Non ci spaventa, non siamo impreparati»
Al lavoro per la legge elettorale. «Anche con Fini: lui resta a destra ma è un interlocutore»
Risposta a Vendola: «Prepararci al voto? Il Pd è pronto, ma la crisi è tutta di Berlusconi»
Il segretario democratico dà l’altolà a Berlusconi e Bossi: «Quando avremo la Costituzione di Arcore potranno chiedere le dimissioni del presidente della Camera». Al lavoro per la riforma elettorale.
Bersani si aspetta ancora «pericolosi colpi di coda» da parte di un Berlusconi in difficoltà ma ancora tutt’altro che sconfitto. E la pretesa delle dimissioni di Fini e l’annuncio di una richiesta di incontro al Quirinale per perorare la causa confermano i timori del leader del Pd. «Berlusconi e Bossi non hanno a disposizione le istituzioni, e questo devono metterselo in testa», è l’altolà che lancia. «Quando avremo la Costituzione di Arcore allora potranno chiedere le dimissioni del presidente della Camera», ironizza. Ma le ultime ventiquattro ore per Bersani dicono che c’è poco da scherzare e che la crisi politica aperta nel centrodestra difficilmente potrà trascinarsi per molto. Così, se fino a qualche settimana fa insisteva sulla necessità di dar vita a un governo tecnico, ora il segretario del Pd ci tiene a sottolineare che i Democratici sono «pronti», se si andrà alle urne in primavera.
PD PRONTO AL VOTO
L’unica cosa che si esclude, al Nazareno, è uno show down immediato che porti ad elezioni in autunno. Per il resto, Bersani dice che se anche si dovesse andare al voto tra sei mesi, il Pd non è affatto «impreparato». Una risposta a Vendola, che chiede di tenere al più presto le primarie del centrosinistra, ma non solo. «Davanti a eventuali elezioni anticipate siamo pronti. Se si arrivasse al voto deve essere però chiaro che questo avrebbe un padre e una madre, e cioè Berlusconi e la sua crisi. Dopodiché, noi non siamo né preoccupati né spaventati».
IL NODO DELLA LEGGE ELETTORALE
Non è però il ritorno anticipato alle urne lo scenario auspicato dal leader Pd. Con questa legge elettorale rischia infatti di ricrearsi una situazione di paralisi, visto che l’intenzione del leader Udc di andare da solo potrebbe consentire a Pdl e Lega di conquistare il premio di maggioranza alla Camera (basta un voto in più per avere il 55% dei seggi) e invece potrebbe impedire un’analoga maggioranza al Senato (dove il premio viene assegnato su base regionale).
Per questo Bersani continua a lavorare per verificare se sia possibile dar vita in Parlamento a una maggioranza in grado di cambiare la legge elettorale. Il leader del Pd vuole coinvolgere anche Fini perché, dice, «la modifica non possiamo farla da soli ma con chi è disponibile» e perché il presidente della Camera viene
giudicato «un interlocutore per le regole del gioco». Fini, dice Bersani anche dopo averlo ascoltato al Tg di Mentana, «è un esponente del centrodestra e fa parte di questo litigio che sta avvenendo nel centrodestra». Però dice anche «non mi è dispiaciuto», quando gli viene richiesto un commento sul passaggio di Fini a Mirabello sulla necessità di cambiare la legge elettorale. «Abbiamo bisogno di dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, e dobbiamo privilegiare questo aspetto, senza scoraggiare il bipolarismo», dice Bersani. Che alla domanda se abbia sentito Fini dopo Mirabello risponde con un secco «no». E a quella successiva se lo incontrerà nei prossimi giorni, risponde con un sorriso: «Vedremo».
Il problema è che sul tipo di modello con cui sostituire il “porcellum” la discussione è in alto mare. L’Udc punta al proporzionale alla tedesca o al “provincellum” (sistema utilizzato per le Province, ma senza premio di maggioranza). Due ipotesi bocciate dal costituzionalista veltroniano Ceccanti, solo per rimanere in casa Pd («il tedesco è peggiorativo rispetto all’attuale legge e il provincellum è il sistema abrogato col referendum del ‘93»). Quanto poi al finiano Urso, il viceministro dalla Festa del Pd di Torino ha definito l’uninominale «la soluzione migliore».
l’Unità 8.9.10
Bindi: ora il nuovo Ulivo Vendola: è già vecchio
Il presidente Pd: noi voteremo Bersani
di Maria Zegarelli
Il ticket con Chiamparino. Il leader Sel lo smonta.
Il governatore della Puglia Accoglienza da star alla Festa per un dibattito con Rosy Bindi
Primarie «Servono subito». Il presidente Pd: «Dopo la crisi di governo. Nichi sa come vincerle»
Il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola ieri ospite alla Festa Pd ha ribadito la necessità di andare alle primarie il prima possibile. Bindi ha risposto: «Dopo la crisi di governo».
Sono arrivati un’ora prima per essere sicuri di trovare il posto. È l'appuntamento del giorno, il più atteso. Tutti in piazza Castello per ascoltare Nichi Vendola, che già scalda i muscoli in vista delle elezioni e che, ha già fatto sapere dal mattino, proprio da questo palco lancerà la sfida a Rosy Bindi e al Pd: «Primarie subito, ora».
La sala scoppia, impossibile entrare già alle otto e mezzo di sera. C'è un cartello che campeggia. «Nichi e Rosy oggi sposi». Quando arrivano sul palco lo vedono e sorridono. Sposi proprio no, per ora ci si corteggia. Nichi la star, superacclamato, applaudito, un po’ poeta, un po’ visionario, come si definisce lui stesso, Rosy, concreta, gentile, ma ferma, che alla gara dell' applausometro forse arriva seconda, ma è una bella sfida. «Le primarie per fare il premier si fanno, non ci sono dubbi risponde infatti quando Vendola rilancia -, abbiamo parlato di primarie di coalizione, lo scelgono i cittadini, gli iscritti. Ho qualche dubbio sulla tua proposta di farle subito: portasse un po’ male, aspettiamo che cada il governo. Noi sappiamo come farle, Nichi sa come vincere ma ogni volta è diverso».
Si rilanciano battute, accendono la platea, «è davvero una bella serata», ma potete starne certi non si risparmiano le critiche. Nichi resta sulle sue posizioni, quelle che qui a Torino va ripetendo dalla mattina, «Ieri era troppo presto per convocare le primarie, domani troppo tardi, allora le si convochi ora». Anzi, oggi è il tempo di metterci attorno al tavolo per definire il regolamento delle primarie e non sfuggire a quello che è percepito dal popolo del centrosinistra come un appuntamento fondamentale». Perché «la bella favola di Berlusconi, per metà Peron, per metà Vanna Marchi, è finita».
E il «grande animale politico», sta-
volta «ha paura del responso elettorale». Adesso davanti a migliaia di persone dice che non basta un atto di buona volontà per smontare il berlusconismo che è stato un mix di liberismo e populismo, che ci ha trasformato tutti da cittadini «a clienti, telespettatori», che ha cambiato antropologicamente il Paese.
Non basta perché «il centrosinistra si costruisce attorno ai precari, ad un nuovo modello di scuola, di società». E se al mattino smonta, con gentilezza, il ticket con il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, di cui ha una «grande stima» e di cui apprezza la sua voglia di mettere a disposizione l'esperienza torinese per trasferirla sul piano nazionale, di sera torna sul centrosinistra, popolato da «anime morte», temporeggia sul nuovo Ulivo, quando Bindi glielo chiede esplicitamente, lui risponde «In Puglia ci sono 60 milioni di ulivi».
Ma non ripete quando detto durante una video chat a La Stampa, il nuovo Ulivo «sarebbe un suicidio», inutile unire «i vecchi cocci» di quello vecchio "non avrebbe nessun appeal. Sarà perché Rosy Bindi dice che quel nuovo Ulivo è un cantiere a cui si deve lavorare tutti insieme, «non si fa senza di lui» sarà perché questo popolo di centrosinistra arrivato ad ascoltarlo chiede unità e non divisione, ma i toni sembrano più soft. «Per costruire l'alleanza, risponde, adesso, dobbiamo mettere insieme il lavoro e i diritti sociali». Ma per vincere non basta fare «un raduno, una sommatoria, bisogna ricostruire culturalmente l'orizzonte del cambiamento, occorre il coraggio del cambiamento».
E sulla riforma elettorale Bindi propone una riforma quale scopo unico del governo di transizione. Vendola è scettico: ho il calice pronto per brindare ma non credo che si trovi la maggioranza».
Ai Ferrero, i Diliberto, i Nencini e i Bonelli che non hanno apprezzato ilo giudizio sul progetto lanciato da Bersani, risponde che a lui non interessa «lo spazio per sventolare la mia bandierina», a lui interessa «che il centrosinistra diventi un nuovo racconto».
Bindi rilancia: scriviamolo il nuovo racconto, insieme, ritroviamo quello spiriuto che l'Ulivo diede al paese e ai cittadini, anche se sarà difficile oggi convincere le persone che pagare le tasse è giusto, che saranno necessari sacrifici.
Poi la chiusura. Se Vendola ribadisce che si candiderà alle primarie Bindi gli risponde: «Io ribadisco che voterò Bersani». Se ne vanno tra l’ovbazione del pubblico.
il Fatto 8.9.10
Tra i militanti del Pd
Il “partito delle anime morte” si infiamma per Vendola
di Stefano Caselli
“C ome accoglieremo Vendola? Con stima e affetto. E te lo dice uno che con Nichi ha diviso l’appartamento per tre anni ai tempi della Fgci...”. Parola di un dirigente del Pd. Le storie hanno sorgenti comuni ma poi, come un torrente, si divaricano. Ieri, alla Festa democratica di Torino, è stato il giorno di Vendola; l’ufo, l’outsider, il guastafeste. E come tale è stato atteso per tutta la giornata, con “stima e affetto”. Ma il popolo del Pd lo ha accolto con un entusiasmo senza precedenti alla festa: 8 applausi solo nei primi 5 minuti. Nichi non perde tempo. La sua è una giornata torinese intensa, ma non prevede un incontro con Sergio Chiamparino; forse perché il sindaco era altrove, o forse perché il presidente della Puglia manifesta stima per il primo cittadino di Torino, tuttavia declina l’invito al tandem di cui tanto si è parlato: “È un eccellente sindaco – dichiara – e sono contento se si candiderà alle primarie, ma dal mio punto di vista è sbagliato indicare un ticket”. Chiamparino accanto a Vendola sembrerebbe la formula perfetta per la digeribilità. Il diavolo e l’acqua santa, il visionario e il pragmatico, la tequila bum-bum e la tisana di passiflora; ma le primarie non sembrano affatto un desiderio impellente tra gli stand della Festa democratica. Meno che mai se a reclamarle è qualcuno, ormai, percepito come estraneo. Come a dire: la leadership è roba nostra, Vendola non tenti la scalata a un partito che non è il suo.
A casa sua il presidente della Puglia ci passa brevemente: una rapida passeggiata intorno alle 19 alla Festa di Sinistra e Libertà all’Anatra Zoppa (storico locale della sinistra torinese) poco prima del dibattito con Rosy Bindi in piazza Castello. Nel primo pomeriggio, invece, lunga tappa alla festa della Fiom ad Orbassano, in un’antica cascina aggrappata a una delle più brutte periferie torinesi, a poche centinaia di metri dai lembi estremi della Grande Mirafiori. Ad aspettarlo ci sono decine e decine di giovani. Certo, alle quattro del pomeriggio di un giorno feriale, in un posto del genere, è più facile incontrare uno studente universitario che un impiegato, ma la differenza tra l’età media delle platee della Festa Democratica e quella che, nonostante mosche ed umidità, ascolta Vendola per oltre un’ora, salta all’occhio. Sono ragazzi che non si scandalizzano a sentir parlare di operai e padroni, citano Garcia Marquez e Antonio Gramsci, ascoltano volentieri parole come “principio di speranza” e “politica come grande narrazione”. Chiedono a Vendola di “dare un segno” e loro saranno pronti a seguirlo, “senza deleghe in bianco”, precisano. In pochi hanno votato Pd, ma sarebbero pronti a farlo se il leader fosse lui. Alle primarie, però, non ci credono: “Non gliele faranno fare – è l’opinione di uno studente – e se le fanno le taroccano”. Ma Vendola insiste: “Primarie subito”. E replica a Rosy Bindi ancor prima di incontrarla in piazza Castello: “Rosy Bindi dice che fare le primarie ieri era troppo presto, farle domani è troppo tardi. Io allora dico: le si convochi oggi”. Il pezzo forte del suo discorso è quando paragona il Pd a un partito di “anime morte” come il romanzo di Gogol. Giura di ripeterlo anche a casa del Pd.
Corriere della Sera 8.9.10
Vendola star alla festa pd «Nuovo Ulivo? Non serve»
di Elsa Muschella
Veltroni: in caso di crisi governo anche con Fini
TORINO — L’investitura arriva direttamente dalla folla stipata in piazza Castello: c’è Nichi Vendola, ed è un’ovazione. Accolto come un divo da una sala «piena almeno il triplo di quando è venuto D’Alema» (o almeno così giura chi non s’è perso nemmeno un incontro della Festa democratica), il governatore pugliese si ritrova accanto a una sorridente Rosy Bindi — che commenta l’inclemenza del tempo con un «Piove, governo ladro!» — e saluta Torino: «Il popolo del centrosinistra batte un colpo, costruiamo il cantiere della vittoria».
Assolutamente d’accordo con la presidente del Pd sulla «grande soddisfazione nel vedere Berlusconi che adesso conta i voti sapendo la fatica che facevamo noi...», Vendola sembra concedere un’apertura di credito anche sul tema che oggi interessa di più ai riformisti: la legge elettorale e l’ipotesi di un governo di garanzia capace di traghettare il Paese alle urne con un nuovo sistema di voto, eventualità benedetta anche da Walter Veltroni alla Festa dell’Unità di Bologna («Se si apre la crisi, subito un governo di emergenza, anche con Fini»). «Se si trova una maggioranza in Parlamento ho pronto il calice per brindare — dice ora "il ragazzo di Puglia" —. E soprattutto ho un’intera collezione di spumanti se si riesce a fare una legge sul conflitto d’interessi. Ma dubito che si avrà successo — sostiene sulla coda di un applauso fragoroso —. Il centrosinistra non ha saputo fare una legge sul conflitto d’interessi quando governava, come può pensare di riuscire ora?».
Il muro di sarcasmo retroattivo investe anche l’esperienza del vecchio Ulivo: «Ma come fa Bersani a pensare a un nuovo cantiere? Avrà pure lusingato Diliberto, Ferrero, Bonelli e Nencini, pronti alla cooptazione nel Nuovo Ulivo, a una rendita di posizione e a spergiurare, oggi, "stavolta faremo i bravi, faremo un fioretto". Il mio problema non è avere lo spazio per sventolare la mia bandierina, non è avere il mio ceto politico e la mia forza di interdizione. Il mio problema, compagni e compagne, vabbé, amici e amiche — sorride Vendola scatenando il tripudio — è cambiare la storia d’Italia e ricostruire finalmente una grande speranza per questo Paese». Ecco perché allora l’unica strada percorribile è quella di «ridare la parola al popolo», ecco perché è questo il tempo per la sinistra di uscire dalla propria «nicchia ideologica», di rinunciare alla resurrezione dell’Ulivo e di puntare sull’unico strumento in grado di assicurare potere al popolo: «Le primarie. Consideratele pure uno strumento rudimentale e rozzo, ma l’esperienza pugliese ha dimostrato quanto siano astruse tutte le geometrie politiche dei grandi strateghi».
Su questo orizzonte l’apertura della Bindi è totale: «Le primarie per scegliere il candidato premier si faranno eccome, caro Nichi: è stato proprio il cammino congressuale di Bersani a stabilirlo. Vedete, Nichi ha ragione: non si può dire che ieri era presto e oggi è troppo tardi, le primarie bisogna farle». E sulle difficoltà dei tempi organizzativi, l’ex ministro non si lascia intimorire: «E quanto ci vorrà a mobilitare il nostro popolo? Guardate qua, stasera, cosa sono riusciti a fare due come noi con tutta questa meravigliosa gente... Certo, Nichi sa vincerle le primarie, ma noi sappiamo come farle!». La Bindi però non molla la presa, e incalza il governatore sulle future alleanze: «Nichi, io sulle primarie ti ho dato ragione, ora però tu mi devi una risposta sull’Ulivo e me la devi stasera perché senza di te questa cosa non si fa». Lui non concede nulla e anzi fa appello allo spirito: «Io in Puglia ho già 60 milioni di piante di ulivo». Gli risponde da Roma il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che dopo aver attaccato Bossi e Berlusconi («Le istituzioni non sono a loro disposizione») replica all’outsider necessario ma ingombrante: «Vendola stia tranquillo, noi non temiamo le elezioni e non siamo affatto impreparati al voto».
l’Unità 8.9.10
La distruzione della scuola
Istruzione. La linea suicida di Gelmini
di Vittorio Emiliani
Da anni l’Italia spende poco e male per l’istruzione. Ma con questo governo spende sempre meno e sprofonda al penultimo gradino fra i 33 Paesi dell’Ocse, lontanissima da Scandinavia, Usa, Regno Unito, o Francia, lontana da Austria e Portogallo. Dal 5 % circa di PIL del governo Prodi al 4,7 % indicato dall’Ocse prima dell’ultima sciagurata manovra. Il ministro Gelmini prende lo spunto per gloriarsi dei suoi tagli sulla pelle dei precari sostenendo che il rapporto “spinge ad andare avanti con le riforme”. Quali, se per ora l’intero comparto – dalle materne all’Università – viene sottoposto ad una dieta delle più debilitanti? Avremmo capito se avesse mantenuto inalterata la spesa e destinato una quota maggiore ad investimenti in strutture, edifici, laboratori, servizi di supporto, e ad incentivi al merito. No, siamo di fronte ad un governo che sa solo calare la scure su istruzione, cultura e ricerca, cioè sul futuro del Paese. Una linea suicida.
Tanto più che l’Italia detiene già la “maglia nera” dei laureati. Stiamo infatti andando (ma con le discusse lauree brevi) verso il 14 % di giovani e adulti, roba da arrossire rispetto agli altri Paesi europei che stanno al doppio e oltre, Spagna inclusa. Di donne laureate la Finlandia ne vanta più del triplo di noi e il Regno Unito poco di meno. Siamo tuttora il Paese in cui il 25 % degli abitanti in età ha a malapena la V Elementare o neanche quella (in pratica semi-analfabeti) e un altro terzo circa si è fermato alla III Media. Col Nord che non brilla per niente e coi giovani di famiglie “a basso livello di formazione” che, al 90 %, non arriveranno ad una laurea. Paese ingiusto, e ottuso: per l’Ocse infatti, un individuo con un livello alto di istruzione, “genererà nel corso della vita lavorativa una somma supplementare di 119.000 dollari tra imposte sul reddito e contributi sociali” rispetto ad un individuo con una istruzione più bassa. Senza contare l’apporto che potrà dare a tutti in creatività.
Ecco perché indignano i Tg di questi giorni in cui si vedono insegnanti e genitori che si ingegnano a rendere accettabili aule fatiscenti, a trovare altri banchi, a portare pennarelli, quaderni, persino la carta igienica. Sono gli stessi italiani a reddito fisso ai quali questo fisco sommamente ingiusto non fa sconti di sorta, i soli, coi pensionati e coi titolari di partite Iva, a pagare al centesimo tasse e imposte. Senza le quali anche quel misero 4,7 % del Pil non potrebbe essere assegnato all’istruzione pubblica. “Non è mai troppo tardi” fu una bandiera della tanto rimpianta Rai del servizio pubblico quando faceva cultura con l’Approdo e insegnava a leggere e scrivere con l’indimenticabile maestro Manzi. Non è mai troppo tardi. Per cambiare anzitutto.
l’Unità 8.9.10
L’Ocse: in Italia si spende poco per la scuola. Prof in piazza
di G. V.
Il dossier è spietato: il nostro Paese agli ultimi posti, così gli stipendi
Gelmini: ci dà ragione. Replica Pd: senza investimenti l’istruzione è morta
L’Ocse ci consegna un quadro deprimente dell’Istruzione italiana e Gelmini si sente rinfrancata. Il nostro Paese è agli ultimi posti per investimenti nella scuola, i nostri insegnanti i peggio pagati.
L'Italia spende il 4,5% del pil nelle istituzioni scolastiche, contro una media Ocse del 5,7%. Solo la Repubblica Slovacca spende meno tra i paesi industrializzati, secondo quanto emerge dallo studio Ocse sull'istruzione. Nel suo insieme, la spesa pubblica nella scuola (inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti) è pari al 9% di quella pubblica totale, il livello più basso tra i paesi industrializzati (13,3% la media Ocse) e l'80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio nell'Ocse. La spesa media annua complessiva per studente è di 7.950 dollari, non molto lontana dalla media (8.200), ma focalizzata sulla scuola primaria e secondaria e a scapito dell'università, dove la spesa media per studente, inclusa l'attività di ricerca, è 8.600 dollari, contro i quasi 13mila Ocse.
La spesa cumulativa per uno studente dalla prima elementare alla maturità è di 101mila dollari (contro 94.500 media Ocse), cui vanno aggiunti i 39mila dollari dell'università contro i 53mila della media Ocse. Nella scuola primaria il costo salariale per studente è 2.876 dollari, 568 in più della media Ocse, ma il salario medio dei docenti è inferiore di 497 dollari alla media che è di 34.496 dollari. Gli insegnanti sono pagati meno della media, soprattutto ai livelli più alti di anzianità di servizio. Un maestro di scuola elementare inizia con 26mila dollari e al top della carriera arriva a 38mila (media Ocse 48mila). Un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un professore di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila). Al tempo stesso, però, l'Italia è quint’ultima per le ore di insegnamento diretto. Sono 601 l'anno nella scuola secondaria, contro una media Ocse di 703.
Per quanto riguarda i laureati, sono pochi e pagati bene, a patto di essere uomini e preferibilmente oltre i 45 anni, mentre per le donne la strada dopo l'università è decisamente più in salita, soprattutto nei guadagni.
Gelmini in uno scarno comunicato ha semplicemente detto che l’Ocse le dà ragione. L’evidenza dice il contrario. «Deve essere una gran bella soddisfazione, per Tremonti e Gelmini, sapere che l`Italia è fanalino di coda nella spesa per l`istruzione e che persino Brasile ed Estonia sono più generosi. Peggio di noi c`è solo la Slovacchia ma diamo tempo a questo governo e certamente non ci negherà anche questa soddisfazioneUna scuola nella quale non si investe è una scuola morta», avverte Francesca Puglisi responsabile Pd Scuola. Oggi a Roma i precari delle reppresentanze di base manifesteranno davanti Montecitorio. Nella giornata di lotta europea del 29 settembre, che oltre quella di Bruxelles vedrà una manifestazione anche a Roma, sui temi dello sviluppo, della crescita, delle politiche industriali, dell'occupazione e del welfare, «tema fondamentale sarà anche la lotta alla precarietà con la mobilitazione nazionale di tutti i precari dei settori della conoscenza». Lo annuncia una nota della segreteria nazionale della Cgil nel denunciare come «la dissennata politica dei tagli sulle fondamentali funzioni pubbliche, che ha come obiettivo finale quello della privatizzazione dei beni pubblici, si è abbattuta pesantemente sul sistema dell'istruzione e della ricerca e sull'insieme dell'
intervento pubblico».
il Fatto 8.9.10
L’Italia abbandona la scuola
Peggio di noi solo la Slovacchia
Il Rapporto Ocse sull’Istruzione rivela le bugie della Gelmini
di Mario Reggio e Caterina Perniconi
Spendiamo il 4,5% del Pil contro una media dei Paesi Ocse del 5,7%
La scuola non è una priorità del governo italiano. Per l’istruzione spediamo poco. Po-
chissimo. Siamo penultimi in graduatoria tra i Paesi Ocse, e peggio di noi fa solo la Slovacchia. Gli studenti italiani tra i 7 i 14 anni passano a scuola circa 8.200 ore contro una media dei paesi Ocse di 6.700. I nostri insegnanti hanno uno stipendio inferiore alla media dei colleghi europei, e il divario si accentua con il passare degli anni di servizio. Una situazione preoccupante, illustrata dall’ultimo rapporto sull’educazione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, reso noto ieri. Malgrado questo quadro sconsolante il ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, conferma le valutazioni del governo sul “sistema scolastico e la necessità di proseguire sulla strada delle riforme, per questo, stiamo cercando di liberare risorse da destinare a innovazione, merito e qualità”.
La mannaia dei tagli
IL MINISTRO della Pubblica istruzione dimentica di ricordare che il bilancio della scuola pubblica italiana è stato, e verrà decurtato, in tre anni di oltre 9 miliardi. È tradizione tutta italiana annunciare riforme della scuola, tutte a costo zero. Perché la prima mossa tocca da sempre al ministro dell’Economia. Il bilancio dello Stato è in bilico: il primo pensiero corre subito alla scuola, all’università, alla ricerca. Riforma sì ma senza tirare fuori un euro. Salvo poi stracciarsi le vesti a favore dell’importanza della cultura, dell’innovazione, della tutela degli studenti. È successo anche con i governi precedenti. Ma mai era successo che una riforma della scuola venisse annunciata tagliando il bilancio di tanti miliardi. Non se l’era permesso neanche il ministro Letizia Moratti. Anche lei, assieme all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, era il 5 febbraio del 2002, annunciò la prima riforma della scuola dopo quella di Gentile. Cosa è rimasto di quella tanto strombazzata riforma? Nulla o quasi. Anche il risibile portfolio delle conoscenze non lo ricorda più nessuno. Anzi, una cosa è rimasta: l’assunzione in ruolo dei 12 mila insegnanti della religione cattolica, senza concorso, inamovibili, con il diritto di cambiare cattedra nel caso perdessero la fede. Svanita la Moratti è arrivato Fioroni, convinto assertore della teoria del “cacciavite”. Nessuna riforma epocale, ma solo interventi mirati senza sconvolgere la scuola. Poi tocca a Mariastella Gelmini. E riecco un’altra riforma stellare e tanto per non smentire il presidente del Consiglio “la prima da quella di Giovanni Gentile”.
Ma il bilancio dello Stato non è in grado di sostenere il peso della scuola pubblica: 45 miliardi di euro l’anno, più di 700 mila insegnanti di ruolo, 200 mila precari. Bisogna risparmiare: Tremonti decide di tagliare 9 miliardi, approfittando anche del pensionamento di decine di migliaia di insegnanti e non docenti che sono arrivati alla fine della loro carriera. Tagliare, tagliare è la parola d’ordine. In nome del merito, della modernizzazione, della qualità. E poi gli studenti italiani passano troppe ore a scuola, occorre snellire le materie ed asciugare le cattedre. Quindi, per la Gelmini, i dati dell’Ocse sono i benvenuti.
Ma a proposito delle ore passate in classe, il confronto con la Finlandia, da alcuni anni ai vertici per la qualità ed i risultati di apprendimento degli studenti, è fuori luogo. È vero che nel paese nordico gli studenti trascorrono in classe pocopiùdi6milae500ore nell’arco dell’anno scolastico, ma se si sommano a quelle destinate alle attività sperimentali esterne o nei laboratori il totale delle ore di apprendimento raggiungono la media annua della scuola italiana.
Dati strumentalizzati
DURA LA replica dell’opposizione e degli studenti che “bocciano” la Gelmini e il suo operato, mentre secondo Manuela Ghizzoni, capogruppo del Partito democratico in commissione Cultura della Camera “L’Italia è il fanalino di coda in Europa in termini di spesa pubblica per istruzione e anche tra i paesi Ocse è sotto la media. Spendiamo 7.948 dollari per studente mentre la Francia 8.932 dollari, la Germania 8.270, la Finlandia 8.440, la Spagna 8.618, la Svezia 10.262, la Svizzera 13.031, gli Stati Uniti 14.269. Insomma, non si capisce che film abbia visto il ministro e stupisce che, dati alla mano, si continui a far finta di niente cercando di truccare i dati dell’Ocse”. Che l’Italia sia storicamente avara negli investimenti per la scuola è cosa nota. Spende infatti il 4,5% del Pil, la Slovacchia il 4%, contro una media dei Paesi Ocse del 5,7%, dove ai primi posti si piazzano Islanda, Stati Uniti e Danimarca.
Altra nota dolente gli stipendi: in Italia una maestra guadagna poco più di 26 mila dollari l’anno all’inizio della carriera contro una media di 29 mila. Alle soglie della pensione il divario raggiunge i 10 mila dollari. Stessa musica per i professori anche se quelli delle superiori toccano i 44 mila dollari a fine carriera. Ma sempre 10 mila in meno della media Ocse.
l’Unità 8.9.10
Napolitano al fianco di Sakineh
Teheran: «Il caso è in riesame»
di Marina Mastroluca
Stop alle ingerenze Le autorità iraniane: «Francia e Italia hanno notizie false, è un’assassina»
La mobilitazione La foto della donna che rischia la lapidazione esposta in molte città italiane
Il presidente Napolitano al fianco di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione. Il ministro Frattini: «No alla rottura delle relazioni diplomatiche». Teheran: «Il caso è ancora all’esame, basta ingerenze».
Tutta l’Italia è con Sakineh. Il presidente Napolitano rilancia l’appello per salvare la donna iraniana condannata alla lapidazione, «per evitare che si compia un atto altamente lesivo dei principi di libertà e di difesa della vita». «La posizione del governo italiano è stata molto netta e non solo di principio ha ricordato il capo dello Stato -. C’è stata un’iniziativa nei confronti del governo iraniano e lo stesso ministro Frattini mi ha riferito che nessuna decisione è stata presa a riguardo. La sollecitazione forte del governo, di tutte le istituzioni e dell’opinione pubblica italiana continua ad essere intensa».
L’Italia era stata chiamata in causa dal figlio della stessa Sakineh, che aveva chiesto di esercitare pressioni concrete su Teheran. Il ministro degli esteri Frattini, che lunedì sera ha detto di aver avuto assicurazioni da Teheran sul fatto che non è stato ancora stabilito nulla sull’esecuzione della donna, ieri ha comunque escluso la possibilità di rompere i rapporti diplomatici con l’Iran, come suggerito anche da europarlamentari Pdl. «Non possiamo immaginare di fare politica estera in questa maniera ha detto il ministro parlando a Radio 24 -. Le relazioni diplomatiche sono necessarie anche per ottenere le decisioni che vogliamo, ad esempio quella di graziare Sakineh e risparmiarle la vita. Sono decisioni che non si prendono sull’onda dell’emozione». Frattini ha ricordato di aver «fatto passi diplomatici anche negli ultimi giorni»: l’ambasciatore italiano a Teheran ha incontrato le autorità iraniane e altrettanto hanno fatto i rappresentanti della Ue. Pressioni che a suo avviso hanno già prodotto qualche risultato. «So che all’interno del sistema iraniano si è aperto un dibattito sulla praticabilità di questa esecuzione», ha aggiunto il ministro.
La fine del Ramadan, accompagnata tradizionalmente dalla ripresa delle esecuzioni, aumenta il senso di urgenza della campagna per salvare Sakineh. Ieri Teheran ha confermato che la sentenza è stata sospesa. «La situazione della signora Mohammadi Ashtiani è ancora sotto esame ha detto il portavoce del ministero degli esteri Ramin Mehmanparast -. Il verdetto (di lapidazione, ndr) è stato sospeso e viene attualmente riesaminato. Un nuovo procedimento per omicidio e complicità in omicidio è all’esame». La revisione del caso davanti alla Corte Suprema potrebbe lasciare uno spiraglio per Sakineh, a sollecitarla sono stati infatti gli avvocati della donna. Ma quello di Teheran non è stato un messaggio distensivo. Il ministero degli esteri iraniano ha criticato esplicitamente «Francia e Italia» per il loro intervento nella vicenda di Sakineh «purtroppo sulla base di informazioni false». «Il caso di un sospetto omicidio non dovrebbe essere trasformato in un caso politico e di diritti umani» ha aggiunto il portavoce iraniano.
GIGANTOGRAFIE
Parigi ha immediatamente ribattuto che continuerà il suo impegno per salvare Sakineh. «Continueremo con la nostra azione e con le nostre condanne e vogliamo parlare di questa vicenda anche con i nostri partner europei», ha affermato un portavoce del ministero degli esteri francese. Bernard Kouchner ha scritto la settimana scorsa all’Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue, Catherine Ashton, per chiedere di valutare l’opportunità di nuove sanzioni contro Teheran.
In Italia a rispondere sono state soprattutto le istituzioni locali che hanno moltiplicato le iniziative a favore di Sakineh. Il volto velato della donna da ieri è esposto anche sulla facciata della sede della regione Emilia Romagna e delle province di Palermo, di Bologna e Perugia, sul comune di Ravenna e Spoleto. La provincia di Venezia, oltre ad esporre uno striscione con la foto di Sakineh, si è fatta avanti per dare asilo alla donna. Sergio Chiamparino presidente dell’Anci e sindaco di Torino ha invitato tutti i comuni ad esporre la foto di Sakineh. Da domani una gigantografia di Sakineh apparirà anche sul palazzo della regione Lazio.
FIACCOLATA A STRASBURGO
Ieri intanto a Strasburgo le europarlamentari del Pd hanno organizzato una fiaccolata, chiedendo a Catherine Ashton e alla commissaria Ue per i diritti umani Viviane Reding di fare «senza ulteriori indugi tutti i passi necessari presso il governo iraniano», per salvare la donna e perchè «sia abbandonata la pratica barbara della lapidazione». E per dare «nuovo impulso alla battaglia per la moratoria sulla pena di morte».
il Fatto 8.9.10
La Ue contro i razzisti d’Europa a Francia e Italia fischiano le orecchie
di Giampiero Gramaglia
Borroso lancia l’allarme immigrazione
Nel giorno in cui, per la prima volta, un presidente della Commissione europea pronuncia il discorso
‘sullo stato dell’Unione’ di fronte al Parlamento europeo, l’Italia, un tempo campione d’europeismo e di solidarietà, finisce implicitamente sotto accusa per la politica sull’emigrazione e sui rom. José Luis Durão Barroso non la cita per nome, come non chiama direttamente in causa la Francia, ma afferma che “in Europa non c’è posto per il razzismo” e invita tutti “ad agire con sensibilità” su “questioni così delicate” come i diritti degli emigrati, specie quando sono cittadini comunitari, senza risvegliare “fantasmi del passato”. Barroso è già chiaro del suo, ma i capigruppo lo sono ancora di più: puntano il dito sulla Francia, che camuffa da partenze volontarie il rimpatrio dei rom verso i Paesi d’origine, ma pensano anche all’Italia della Lega o all’Olanda dove un partito xenofobo è divenuto seconda forza politica.
Ogni forma di discriminazione “è puramente inaccettabile”, avverte Barroso: tutti i cittadini hanno “diritti e doveri” e ci vuole “equilibrio” tra il rispetto del principio della libera circolazione e quello della sicurezza, evitando “strumentalizzazioni populiste”. Parole che fischiano nelle orecchie del presidente Sarkozy e dei leader leghisti.
IL CAPOGRUPPO socialista Martin Schulz, quello cui Berlusconiungiornodiededelkapò, include “il governo francese di Sarkozy e Fillon” fra xenofobi e razzisti d’Europa. E il capogruppo dei liberal-democratici, il belga Guy Verhofstadt, definisce “inaccettabile” quello che sta accadendo in Francia e aggiunge: “Purtroppo non è un caso isolato”, perché “diversi altri governi piombano nelle tentazioni del populismo, della xenofobia e del razzismo, e strumentalizzano paure e inquietudini”.
Nella scia del dibattito, la Commissioneannuncialacreazione di una task force per valutare l’uso fatto nei vari Paesi dei fondi Ue per l’integrazione dei rom. Il discorso di Barroso non ha (ancora?) il fascino e l’autorità del discorso sullo stato dell’Unione che il presidente Usa fa ogni fine gennaio. Ma l’emiciclo di Strasburgo è gremito per il ‘primo giorno di scuola’ delle istituzioni comunitarie dopo la pausa estiva. E non c’è bisogno di minacciare multe agli eurodeputati renitenti: il progetto, contestatissimo, viene abbandonato, ma pochi seggi restano vuoti. Il presidente delinea priorità, ma inanella slogan (“Agire compatti per il successo”, “O nuotiamo insieme o affondiamo insieme”, “Più scienza e meno burocrazia”, bisogna “lavorare di più”).
PUNTI CONCRETI ve ne sono. Barroso rilancia l’idea di eurobond per finanziare le infrastrutture europee; vuole tassare letransazionifinanziariee“bandire le vendite allo scoperto”. Si delineano conflitti con i governi dei 27. Nonostante divisioni su tasse e banche, l’Ecofin vara il semestre europeo per coordinare le finanziarie nazionali e porta avanti la riforma della Vigilanza finanziaria.
l’Unità 8.9.10
Nietzsche? Tutto ma non fascista
di Bruno Gravagnuolo
Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo». È lapidario Armando Torno, sul Corsera di ieri l’altro, nella chiusa finale della sua recensione alla nuova traduzione di Così parlò Zarathustra a cura di Sossio Giametta (Bompiani, pp. 1228, Euro 30). Lapidario e brutale, come se a riguardo non fossero state versate tonnellate filologiche di inchiostro. In revisione di un lungo e trito luogo comune: il fascismo, anzi il nazismo vocazionale di Nietzsche. E quel luogo comune, lo ricordiamo, era condiviso sia dai «nazificatori» di Nietzsche, da Rosenberg allo stesso Hitler, sia dai marxisti alla Lukàcs, che del «superuomo» fecero il vessillifero dell’imperialismo razzista. Persino Mussolini pensava di essere «nietzscheano», discettando da giovane di masse e capi. Mentre di recente Ernst Nolte, «giustificatore» di certe ossessioni naziste, ha creduto, da destra, di ravvisare in Nietzsche il segnale delle reazione borghese europea contro la minaccia dell’«annientamento proletario», incombente tra otto e novecento. Infine, il marxista Domenico Losurdo. Che ha rispolverato la reazionarietà razzista e imperialista del pensatore dell’Eterno Ritorno. Intendiamoci, Nietzsche non era di sinistra e nemmeno progressista. E la curvatura apocalittica e a tratti risentita dei suoi pensieri, va anche in senso conservatore: filippiche contro l’umanitarismo, il progresso, la morale dei deboli etc. Ma la direzione del suo pensiero è un’altra. È una critica dirompente delle false giustificazioni del potere e della morale. Una destructio integrale del rapporto servo/ padrone, volta alla liberazione delle energie vitali della soggettività soggiogata. Nietzsche, campione di psicologia politica, parla all’anima di ciascuno, invitando ciascuno alla ribellione. Contro tutti i totem della massificazione e del conformismo. Ben per questo Freud scorse in lui il vero scopritore dell’inconscio oppresso. E ben per questo, come attesta Nolte, con Marx ed Engels, era la lettura preferita degli operai tedeschi nella Germania guglielmina. Solo un caso?
Corriere della Sera 8.9.10
Un appello perché, prima di votare, si cambi questa brutta legge elettorale
di Rino Formica e Emanuele Macaluso
Illustri Presidenti, i nostri padri costituenti prima di dare inizio alla elaborazione del testo costituzionale affrontarono due temi dirimenti e pregiudiziali: 1. La forma di Stato; 2. La struttura formale della Carta.
Sul primo punto si votò l’o.d.g. Petrassi (no al Governo presidenziale e no al Governo direttoriale sì ad un sistema parlamentare). Sul 2˚punto si aprì una discussione intorno a 3 o.d.g. (Bozzi, Calamandrei e Dossetti). L’Assemblea approvò l’o.d.g. Bozzi integrato dai suggerimenti di Togliatti e di Piccioni («il testo della Costituzione dovrà contenere nei suoi articoli disposizioni concrete di carattere normativo e istituzionale, anche nel campo economico e sociale»).
I Costituenti, per tenere insieme la costruzione di un ordinamento istituzionale democratico ed equilibrato, previdero poteri bilanciati da sostenere con un sistema di garanzie regolato sul principio della rappresentanza proporzionale della volontà popolare. (La Costituente votò un o.d.g. di Antonio Giolitti in tal senso).
Noi che scriviamo questa lettera siamo in condizioni di poter parlare con scienza e coscienza di esperienza vissuta e partecipata, perché abbiamo attraversato tutte le fasi pacifiche e drammatiche della vita repubblicana dalla Costituente ad oggi. Non vogliamo affrontare i temi caldi che attualmente incidono sull’equilibrio costituzionale: la crisi dello Stato nazionale; la crisi del partito politico e della democrazia organizzata; il lento svanire della democrazia parlamentare.
Vogliamo cogliere l’occasione che ci offre la discussione in corso sulla possibile fine anticipata della legislatura per porre alle più alte cariche istituzionali un problema ineludibile: o si cambia la legge elettorale in senso proporzionalistico o si cambiano i quorum di garanzie degli artt.64 (regolamenti della Camera), art.83 (elezione Presidente della Repubblica), art.135 (elezione giudici della Corte Costituzionale), art.138 (procedura di revisione costituzionale).
La questione non è nuova, ma oggi il conflitto tra quorum di garanzia costituzionale e legge elettorale maggioritaria, è più grave del passato a causa della debolezza delle forze politiche e per la crisi del bipolarismo bipartitico. La stessa sconcezza della nomina diretta dei parlamentari da parte dei capi partito appare come una infelice irrisione di ogni principio di libera determinazione della volontà popolare.
Dalla Costituente (1946) alla XI legislatura (1992) la rappresentanza parlamentare è stata eletta con leggi proporzionali. Il tema dei quorum di garanzia è nato con il Referendum abrogativo del 18 aprile 1993 su la legge elettorale del Senato.
Il Gruppo Socialista, pochi giorni dopo quel voto, presentò il 14 maggio 1993 la proposta di legge costituzionale (atto Camera n.2665) per l’abrogazione del terzo comma dell'art.138. Il 3 novembre 1993 il testo approdò in Aula. Tutti i Gruppi si dichiararono d’accordo con l’eccezione di Rifondazione comunista e i Radicali. Il testo fu approvato con 341 voti a favore e 7 voti contrari. Lo scioglimento delle Camere affossò la modifica dell’art. 138.
Il 28 febbraio 1995 il centro-sinistra presentò una organica proposta di legge costituzionale (atto Camera n.2115) per la modifica degli artt. 64, 83, 135 e 138. Tutti gli altri Gruppi presentarono proposte di modifiche del 138. La discussione si svolse su tutte le proposte, il 2 e 3 agosto 1995 ed ebbe il parere favorevole del Governo. Ma anche in questo caso l’anticipato scioglimento delle Camere (1996) affossò le modifiche costituzionali.
Sul tema cadde il silenzio interrotto da una proposta alla Camera nella fine della XV legislatura e nella riproposizione del testo al Senato all’inizio dell’attuale legislatura (4 giugno 2008) a firma Oscar Luigi Scalfaro (atto Senato n.741). L’argomento è ancora una modifica del quorum dell’art. 138, e ancora una volta si osserva che la nuova legge per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica con premio di maggioranza, consente a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessaria per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, «a portata di mano» per cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale.
A questo punto c’è da chiedersi: perché le forze politiche che da 17 anni hanno sempre votato alla quasi unanimità in prima lettura le proposte di modifica dei quorum di garanzia costituzionale come necessario bilanciamento alla introduzione delle leggi elettorali maggioritarie, hanno accantonato la questione?
A questa domanda si può dare una sola risposta: nel potere costituito è prevalsa la convinzione che l’attenuarsi delle garanzie costituzionali può essere giocata come arma politica aggiuntiva da una parte politica contro l'altra.
Noi ci rivolgiamo a Voi come supremi garanti della democrazia italiana, perché sia posto al Parlamento, prima dello scioglimento delle Camere, il tema per deliberare o una modifica in senso proporzionalista della legge elettorale o una modifica dei quorum di garanzia costituzionale.
Il tempo stringe e non consente oziose e inconcludenti discussioni. La nostra generazione si ribellò alla notte buia della dittatura, ed ha avuto l’onore di partecipare alla costruzione di una grande democrazia moderna. Noi temiamo che disattenzione o, peggio, fatalistica rassegnazione, possa distruggere un'opera preziosa per tutti.
Repubblica 8.9.10
Le regole calpestate
di Stefano Rodotà
In una ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo.
La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l´attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.
Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com´è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l´interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l´alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell´interesse dell´assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell´elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all´interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell´attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v´è bisogno d´invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell´improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell´unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l´irrilevanza delle vicende successive al momento dell´elezione del presidente.
A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l´annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l´ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell´annuncio era rivolto all´opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera.
Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d´ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere.
La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po´ di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.
Repubblica 8.9.10
"Resto in Israele, la patria degli ebrei ma la pace coi palestinesi è essenziale"
David Grossman: "Il futuro del Paese più importante dei confini territoriali"
di Fabio Scuto
I miei detrattori dovranno continuare a sopportare le mie idee: l´esistenza di due Stati non ha alternative
Non è vero che voglio andar via: nell´intervista alla tv inglese è stata estrapolata una frase fuori contesto
«In quell´intervista alla tv inglese ho parlato di me e della mia famiglia, di come vedo in Israele la mia patria, del mio futuro e dei miei figli; da lì è stata estrapolata fuori contesto una frase, anzi una parte, e i giornali ci hanno fatto i titoli. Ai miei detrattori, a quelli che non aspettano altro per attaccarmi, voglio dire: resto qui e dovranno continuare a sopportarmi con le mie opinioni». Non ha perso il filo della sua ironia, ma certamente David Grossman è molto arrabbiato: «Le mie parole sono state riportate in maniera imprecisa, fuori dal loro contesto». Da tempo - in Israele e nel mondo - il cinquantaseienne scrittore israeliano non è più un privato cittadino, ma un´icona, un punto di riferimento obbligato, per la chiarezza del suo pensiero e del sentimento che lo anima. Dopo la drammatica morte del figlio Uri, ucciso in combattimento con gli Hezbollah negli ultimi giorni della guerra del 2006, Grossman si è trovato «in una situazione estrema», in cui ha esaminato cose diverse, l´idea di lasciare Israele «è stata pure evocata, ma al solo scopo di scartarla».
Ci parli di quei giorni...
«Dopo quella tragedia mi sono tormentato la mente, in quei momenti è il dolore a guidare i tuoi pensieri. Niente ti sembra più scontato, guardi alla tua vita e ti fai delle domande, per esempio: se non fossimo stati qui non sarebbe accaduto. Ma la risposta dentro di me allora come oggi è stata chiara: sono nato qui, appartengo a questa terra, vedo il mio futuro qui e da 30 anni questo posto è il centro di tutto ciò che dico e scrivo. Per noi israeliani la patria è qui, qui dobbiamo affrontare la realtà e affrontare il nostro futuro. E in tutta quell´intervista ho parlato di questo e di quanto sia forte il mio desiderio che Israele sia davvero la "casa" che dovrebbe essere per noi ebrei».
Non è la prima volta che lei diventa un bersaglio per le sue opinioni…
«È mio pieno diritto avere opinioni di sinistra. Essere a favore della spartizione di questa terra in due Stati, di fare rinunce per arrivare alla pace. Ma detto questo è necessario sapere che queste convinzioni vengono proprio da una preoccupazione profonda, da un impegno, da un amore per questa terra. Ci sono persone che la pensano come me e altre che aspettano ogni scusa per attaccarmi. Mi spiace per la loro reazione ma io sono e resto qui. In genere sono felicemente contento di essere un loro bersaglio ma questa volta non posso collaborare, diventare un bersaglio per una cosa che non ho fatto e non ho detto, proprio no. Ripeto sono e resto qui e dovranno continuare a sopportarmi con le mie opinioni»
È preoccupato per il futuro di Israele?
«Sono sempre preoccupato per il futuro del mio Paese. Israele viene sempre più isolato e io credo che invece il futuro sia di essere integrato e di essere il paese che deve essere, cioè uno Stato che esplora, che espande le sue capacità e che realizza il suo grande potenziale. Ma tutto questo dipende dalla capacità di vivere in pace con i Paesi vicini, ma certo non sappiamo se la pace sia garanzia che ciò accada veramente. Viviamo in una regione molto imprevedibile e tanti elementi estremi stanno provando a fare di tutto per assassinare questa pace. Quello che posso garantire è che se non c´è nessuna pace la nostra situazione sarà sempre più pericolosa».
E timori per la democrazia interna?
«Sì certamente ne ho. Perché se continuiamo a vivere in situazioni così estreme la gente sarà presa dall´ansia e dalla disperazione, ci saranno sempre più estremisti che sfrutteranno questa situazione. I nazionalisti, i fondamentalisti e molti altri con le loro promesse di rapide e facili soluzioni. L´unico modo per rimanere veramente noi stessi e per affrontare ciò è guardare la realtà dritta negli occhi, in tutta la sua complessità e possibilità. E di ricordare che noi abbiamo ricevuto una meravigliosa opportunità dalla Storia quando è nato Israele nel 1948 e dobbiamo essere rispettosi di questo privilegio. Dobbiamo capire che il futuro di Israele, la sua identità di Stato e quella dei suoi cittadini sono cose molto, molto, più importanti dei problemi sui confini territoriali».
Grossman che sensazione ha ricavato dalla ripresa del negoziato di pace a Washington dopo quasi due anni di gelo diplomatico?
«Molto dipende dai due leader, sono loro che devono prendere delle decisioni. Io spero che superino le paure e le diffidenze reciproche e che capiscano che la pace è la sola alternativa per noi, per avere una vita qui, per avere una vera vita. Ma penso anche che dopo anni di violenza talvolta noi non agiamo sempre nel vero interesse e spesso abbiamo fatto la scelta sbagliata. Domani sera per noi ebrei è Rosh Hashanah, è Capodanno, il mio auspicio per il nuovo anno è che finalmente saremo tanto coraggiosi da fare l´inevitabile: trovare una soluzione-compromesso per questa terra e non importa quanti problemi avremo poi per questa fragile pace, ma loro la mantengano. O almeno per una volta ci provino davvero».
Repubblica 8.9.10
Uno studio di due psicologi illustra come sono cambiate nel corso della storia le virtù richieste a chi comanda: nell´antichità contava la forza, ora vale molto di più l´intelligenza emotiva
Dai muscoli all´empatia ecco l´evoluzione del capo
di Enrico Franceschini
«Gordon Brown ha grande intelligenza analitica, ma zero intelligenza emozionale». Tony Blair spiega così, discutendo il libro di memorie in cui ha vuotato il sacco sulla loro conflittuale relazione, il fallimento del suo successore come primo ministro, l´incapacità di Brown di connettere con la gente e apparire un vero leader. Di intelligenza emozionale, invece, lui ne aveva da vendere: anche i suoi detrattori concordano che raramente è apparso in politica un comunicatore come Blair. Ma cosa serve per fare il leader? Capi si nasce o si diventa? E perché certi di noi sembrano fatti fin da piccoli per dirigere e altri per seguire? Libri e studi dibattono attorno a questo tema, con una tesi che sarebbe piaciuta a Darwin: la leadership è una caratteristica innata dell´uomo, perlomeno di certi uomini (e anche - almeno oggi, finalmente - di certe donne). Ha accompagnato l´evoluzione della nostra specie, aiutandoci nella lotta per la sopravvivenza. E fornendoci pure dei campanelli d´allarme per contrastare ed eventualmente rovesciare un leader, quando è la sua presenza, il suo modo di fare, che sembrano una minaccia alla nostra vita.
È un cammino lungo milioni di anni, quello del leader, scrivono Mark van Vugt e Anjana Ahuja, docenti di psicologia dell´università di Amsterdam, in Selected: why some people lead, why others follow and why it matters ("Selezionati: perché certe persone dirigono, perché altri seguono e perché è importante"). Si va dal primo cavernicolo, che impugnò la clava e guidò la propria tribù o la propria famiglia nella caccia o nella lotta contro i suoi simili, al mito omerico di Achille, da Giulio Cesare a re Artù, da Napoleone a Garibaldi, da Churchill a Barack Obama. I leader sono coloro che si distinguono e prevalgono, in guerra, in politica, negli affari, così come nella fede o nello spettacolo. Ma perché tutti gli altri, quelli che non comandano ma obbediscono o comunque seguono, scelgono proprio quella persona lì come capo e punto di riferimento?
Il primo fattore, nella preistoria, rispondono i due psicologi, era ovviamente la prestanza fisica, la statura, i muscoli, visto che i problemi, di ogni tipo, venivano risolti con la forza. Questa caratteristica però non è scomparsa del tutto quando l´Homo è diventato Sapiens e poi si è ulteriormente civilizzato (e un po´ rammollito): tanto è vero, nota uno studio americano, che i candidati più alti e prestanti solitamente vincono le elezioni presidenziali Usa. Obama, in effetti, sovrastava nettamente McCain. Un secondo elemento di leadership, dagli uomini primitivi in poi, è il tribalismo, l´appartenenza al proprio clan, partito, religione: meglio uno dei nostri, anche se incapace, piuttosto che uno degli altri, è il ragionamento che l´uomo ha portato avanti per millenni, osservano vari studiosi.
Con il passaggio dalla caccia all´agricoltura affiora un altro motivo di leadership, destinato a risultare sempre più importante: la ricchezza. Gli agricoltori che accumulavano più granaglie, e più tardi più bestie, più merci, con le quali potevano procurarsi altri beni, si accorgevano di quanto fosse facile comandare all´interno della propria comunità (e anche, notano gli psicologi nel libro, di potere avere le donne più belle, quelle prima attirate solo dalla forza maschile).
Ma fin dall´antichità non c´era solo Achille: c´era anche Ulisse, la cui scaltrezza dipendeva non poco dalla sua capacità di comunicare, di relazionare, di emozionare. È l´intelligenza emozionale che Blair aveva e Brown no: il "caldo" vince sul "freddo". Commentando il libro dei due scienziati di Amsterdam, il Daily Telegraph si chiede se il favorito per la guida del Labour, David Miliband, abbia appunto questo calore.
«I leader sono come una colla che unisce i loro seguaci», spiega il professor van Vugt. La colla, tuttavia, talvolta diventa troppo appiccicosa: nell´animo umano, avverte il loro libro, c´è un ancestrale meccanismo di rigetto dei leader che si approfittano troppo del proprio potere. E che allora vengono dileggiati, contestati, abbandonati.
Repubblica 8.9.10
Le passioni secondo Shakespeare
Il nuovo saggio di Nadia Fusini svela i meccanismi con cui il grande scrittore mette in scena l’animo umano grazie alla finzione del teatro
di Giuseppe Montesano
Chi è Shakespeare, il misterioso e immenso continente dove la poesia si è fatta più reale della realtà? Di lui non sappiamo nemmeno che faccia avesse. Quando nell´800 fu esposto il suo ritratto più attendibile, il rifiuto fu unanime: aveva le labbra troppo "lubriche", la faccia era troppo "licenziosa", la carnagione troppo scura, i tratti somatici troppo da "italiano" o da "ebreo" e troppo poco britannici.
E l´orecchino! In quel ritratto Shakespeare porta un orecchino d´oro che gli dà un´aria davvero troppo da avventuriero. E anche nella sua opera tutto sembra troppo: la vita, la morte, l´amore, i sogni, il dolore, tutto nell´ambigua stregoneria evocatoria di Shakespeare sembra cantare per far smarrire lettori e esegeti. Ma è proprio dentro questo traboccare che toglie il fiato che si immerge l´ultimo libro di Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, pagg. 496, euro 22) riemergendone con uno Shakespeare per noi, qui e oggi.
La Fusini apre Di vita si muore dichiarando di averlo scritto nel "modo dell´amore", vale a dire nell´ebbrezza scaturita dalla lettura quotidiana di Shakespeare, e confessando che il saggista ha qui preso le vesti di un interprete rabbinico: «Qui si esercita un modo di lettura che del midrash ha l´andamento; ovvero il movimento di chi cerca il significato di quel che è scritto risolvendo qualsiasi domanda o questione, che dallo scritto possa sorgere, dentro il testo stesso».
Da questo voltare le spalle a una critica accademica nasce l´oggettività innamorata che divampa in Di vita si muore, una oggettività che può concedersi l´accensione passionale e l´illuminazione imprevista perché sa che bisogna fondarle sull´acribia filologica e sull´acume critico. Al centro del libro c´è l´intreccio tra le passioni e la ragione sondato in spirali continue, spire che si avvolgono intorno al loro oggetto per spremere da esso verità, e che affondano l´opera di Shakespeare nelle contraddizioni della sua epoca non per appiattirne l´unicità ma per farla brillare in tutta la sua energia. Così se è il rapporto tra corpo e linguaggio che si accampa nel cuore del racconto conoscitivo della Fusini, in esso emergono in dettaglio anche gli influssi culturali dei quali si nutriva Shakespeare, da Aristotele al Principe, da Galeno al Leviatano, dall´Edipo a Colono ai Passion Plays del medioevo cristiano, da Marlowe alle Anatomie medico-morali degli elisabettiani.
In Di vita si muore scopriamo così uno Shakespeare che cita da The Anatomie of the Minde di Thomas Rogers, e che in Amleto richiama il trattato On Melancholy di Timothy Bright; ci appare un poeta che conosce bene, e indaga, le controversie tra Lutero e i cattolici; capiamo meglio quanto Shakespeare sia prossimo al pensiero della nuova scienza di Hobbes e Spinoza; e vediamo come questa materia divenga memorabile teatro.
Il miracolo di questa metamorfosi che trasforma le idee e le ideologie in persone e vite non lontane dalla equanime ferocia di Dostoevskij sta nella natura doppia del teatro, il teatro che, come il romanzo, mette in scena la finzione per smascherarla, crea una dialettica tra bene e male sottratta alle ovvietà morali e giunge a quel culmine conoscitivo in cui l´emozione getta un fascio di luce sul male non per fingere di annullarlo, ma per scoprirne le ambiguità. E lo strumento sovrano di tale operazione è per la Fusini il linguaggio, il luogo della metamorfosi e della conoscenza in Shakespeare: «E´ l´invenzione di una lingua che non è dialettica né discorsiva, ma è tesa nell´irriducibile contrasto dell´ossimoro, figura connaturata a questo linguaggio teatrale che nega la sintesi e con essa ogni idea di armonia degli opposti, operando piuttosto per congiunzioni di pensiero illegittime… Sì, questa lingua "sforza" le parole, le violenta… E´ così che un linguaggio, che dispera dell´ordine, inventa altri gradini per conquistare la torre di Babele. La sua disperazione è la sua forza, la sua povertà la sua grandezza».
Ecco indicata, e stupendamente, la verità di Shakespeare, il luogo dove lo scontro tra passione e ragione si duplica nello scontro tra tragico e comico e tra giusto e ingiusto, il luogo in cui è possibile porsi domande sul mondo che è out of joints, "fuori dai cardini", in una lingua che per raccontare la nascente Modernità le offre la recita della sua lacerazione nella lingua stessa della lacerazione.
Allora i drammi e le tragedie che la Fusini legge e interpreta in Di vita si muore si illuminano di una luce nuova, e le intuizioni abbondano: in Macbeth sono la droga della paura e il desiderio di ignoranza di Macbeth come salvezza dalla lucidità del pensiero; in Amleto è l´indagine sottile sul Tempo a partire dal "frattempo", la pausa in cui la vicenda è un fantasma immaginato dalla mente di Amleto; in Otello è una lettura che andrebbe citata riga per riga: dall´intuizione di Iago come uomo nuovo della Modernità che si fonda sull´Economico e "stupra l´anima" di Otello, a quella di Iago che "fa teatro con le parole" come Shakespeare; dall´intuizione magnifica che è Otello e non Iago il vero traditore dell´amore, a quella che nell´Otello le parole tradiscono se stesse; da quella che vede Otello naufragare perché considera l´amore secondo il "principio di proprietà", a quella dell´amore di Desdemona come forza al di là del bene e del male borghesi.
Alla fine non c´è dubbio: Di vita si muore non è solo un libro bello, è anche un libro importante. Le grandi opere letterarie vanno interpretate attraverso se stesse, e non siamo noi a svelarle ma semmai sono loro che ci svelano a noi stessi: mettendoci senza riguardi di fronte a ciò che non avevamo la forza o la passione per vedere. Quanto costa andare verso le verità che Shakespeare o Kafka o Baudelaire ci mostrano nel terrore e nella pietà? Niente di meno che l´anima, ecco cosa chiede la letteratura. Ma in cambio offre qualcosa di impagabile: una brace accesa nella notte dell´anima, un sovrabbondare di vita nella nostra miseria quotidiana.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
martedì 7 settembre 2010
l’Unità 7.9.10
Bersani: «Il premier riconosca la crisi e si affidi al Colle»
«Qualsiasi ennesimo tentativo di coprire la situazione con pezze a colori non potrebbe nascondere la crisi politica del centrodestra», dice Pier Luigi Bersani.
Il segretario del Pd commenta così l’incontro tra il premier Berlusconi e il leader della Lega Bossi fissato all’indomani del discorso di Fini a Mirabello: «Il rischio vero che abbiamo davanti è che questa crisi la paghi il Paese, a fronte di politiche di governo fino a qui inefficaci e da domani completamente impotenti. Meglio prendere la strada maestra e riconoscere la crisi politica, affidandosi
come la Costituzione richiede al Presidente della Repubblica e al Parlamento».
Domenica a caldo, dopo il discorso di Fini, il segretario del Pd aveva commentato: «Il problema è che il Paese non può subire traccheggiamenti». Per Bersani non va bene «il gioco del cerino», perchè «ci sono problemi seri di cui la politica non riesce a parlare». Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui» riferendosi a Gianfranco Fini i «Fini andava avanti il segretario oggi ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Per questo l’invito, rinnovato, a salire al Colle e affidare la crisi nelle mani di Napolitano.
l’Unità 7.9.10
Vendola chiama i suoi a raccolta: «Entro novembre le primarie»
Ieri riunito il vertice di SeL. Il governatore: «Le consultazioni dovranno servire a scegliere il candidato premier e a costruire l’alternativa» Nuovo Ulivo? Temo sia un’allenza di conservatori
di Simone Collini
Primarie del centrosinistra entro novembre, a prescindere da come andrà avanti la crisi aperta nel centrodestra e se si voterà o meno tra l’autunno e la primavera. Nichi Vendola riunisce a Roma i vertici di Sinistra ecologia e libertà, e la proposta che viene lanciata a Pd e soci è di fissare fin d’ora la data di una consultazione che, per dirla col coordinatore di Sel Claudio Fava, «dovrà servire a costruire un processo politico e rappresentare quali sono i nostri contenuti, valori, meriti politici, non solo a scegliere il candidato premier».
«Mentre seppelliamo il berlusconismo, il centrosinistra apra il cantiere dell’alternativa al berlusconismo», dice Vendola senza mostrarsi troppo entusiasta della proposta del «nuovo Ulivo» lanciata da Pier Luigi Bersani: «Non sono innamorato delle dispute nominalistiche, mi interessano le cose concrete. Io ho paura che si possa mettere in piedi un’alleanza di conservatori, che il vecchio ceto politico del vecchio centrosinistra finisca per concentrarsi sulla propria rendita di posizione».
Il leader del Pd vuole incontrare il governatore pugliese nei prossimi giorni per discutere i contorni della proposta, ma a quell’incontro Vendola si presenterà con una sua controproposta: fissare entro i prossimi 100 giorni la data delle primarie che, sottolinea lui che è stato il primo a scendere in pista per questa competizione, sono «una necessità assoluta»: «Non un capriccio di Vendola, di Veltroni o di Chiamparino. E nessuna oligarchia può togliere il potere agli elettori. C’è qualcuno che guarda alle primarie come una specie di male da evitare, invece per me la partecipazione popolare non è mai un danno». Gli attacchi a una parte del gruppo dirigente del Pd non mancano, e oggi il governatore della Puglia si sottoporrà al giudizio di militanti e simpatizzanti pd alla Festa di Torino, per un faccia a faccia con Rosy Bindi.
Vendola ci va intenzionato a non schiacciare il piede sul freno, anzi. Dice che «sarebbe un errore imperdonabile» se sotto la pressione della crisi economica si dia vita a «una santa alleanza che veda insieme Pd e Tremonti», o anche se qualcuno tra i Democratici «flirtasse» col ministro dell’Economia. Così come, per il governatore pugliese, è da evitare l’illusione che sia possibile dar vita a una maggioranza per cambiare la legge elettorale. O quella, ancora peggiore, di imbarcare Fini: «Sta rifondando la destra, come si fa a cooptarla in maniera immaginifica nel centrosinistra?». Per il leader di Sinistra e libertà in questo momento c’è bisogno di chiarezza. E ostenta distacco di fronte all’aut-aut incrociato in cui è finito il Pd, con Casini da una parte e Di Pietro dall’altra che si chiudono le porte a vicenda. «Dobbiamo mettere in discussione anche il centrosinistra, non basta fare “fioretti”, promettere di non fare più le sceneggiate che abbiamo visto durante il governo Prodi. E non si devono usare i veti, non bisogna dire mai con Vendola, mai con Di Pietro, mai con Casini». Se si vuole veramente costruire un’alternativa, «il centrosinistra deve dire qualcosa di diverso sulla politica internazionale, la società, il lavoro, i diritti, e sulla base di questi programmi si potranno costruire le alleanze». E le primarie, per Vendola, costituiscono una tappa fondamentale di questo percorso.
Corriere della Sera 7.9.10
La disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola
Il Pd ha il suo «futurista», Chiamparino
di Paolo Franchi
Nel giro di poche ore abbiamo appreso dal discorso di Gianfranco Fini a Mirabello che il Pdl ormai non esiste più, e dalle anticipazioni de La Sfida, il libro di Sergio Chiamparino in uscita da Einaudi, che il Pd non esiste da un pezzo, ridotto com’è a «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati in via Sant’Andrea delle Fratte».
La coincidenza temporale di queste due affermazioni (oggettivamente clamorose, visto che Fini del Pdl è il cofondatore, e Chiamparino è l’unica personalità del Pd spendibile al Nord) è, si capisce, dovuta al caso. Quella politica forse no. Il presidente della Camera e il sindaco di Torino sono entrambi, se non proprio dei sostenitori del bipartitismo, dei bipolaristi più che convinti. Ma tutti e due pensano, non senza buone ragioni, che il bipolarismo italiano incardinato su questo Pdl e su questo Pd sta vivendo una crisi probabilmente senza sbocchi. A meno che (ma qui i loro ragionamenti si fanno più vaghi) i due partiti cardine del sistema non ritrovino la loro anima smarrita, o se ne diano finalmente una. È quasi inutile sottolineare che tanto Fini quanto Chiamparino si candidano a capitanare, ciascuno nel proprio campo, questa ricerca. Il primo sfidando nientemeno che Silvio Berlusconi. Il secondo preannunciando la sua candidatura alle primarie, e lasciando intendere, seppure a giorni alterni, la disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola.
Qui finiscono le analogie, e vengono in chiaro le (radicali) differenze. Una su tutte. Fini pensa, al di là delle feroci vicende quotidiane della politica, a un centrodestra prossimo venturo finalmente emancipato dalla (straordinaria) eccezionalità di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, pienamente (e convintamente) «costituzionalizzato», una forza di sistema e del sistema: gli applausi più caldi dei bipolaristi di centrosinistra (fesserie sul «compagno Fini» a parte) li prende proprio per questo. Chiamparino, invece, non sembra per niente convinto che questa destra italiana sia solo un’anomalia da normalizzare, una parentesi da chiudere per «ritornare allo statuto». Se il Pd «vive sempre in difesa» ma non tocca palla, e, per restare ai tempi più recenti, riesce a perdere tre elezioni in tre anni con tre differenti segretari e con alleanze diverse, qualche ragione ci sarà pure. La principale, per Chiamparino, è che, agli occhi di chi «vive fuori del giardino del Welfare e subisce i rischi del mercato internazionale del lavoro» (dunque: in primo luogo agli occhi del Nord), sinistra e centrosinistra sono la conservazione, il centrodestra, la destra rappresentano «la contestazione del sistema»: sono loro «che prendono il palazzo d’Inverno, noi siamo lo zar che difende i privilegi e ammassa i comò contro la porta nell’estremo e disperato tentativo di fermarli», o «i banchieri della Bce», o «i vigili urbani che danno la multa a chi lascia l’auto in doppia fila perché deve correre a prendere i figli a scuola». Certo, il centrodestra, la destra, di questa gente interpreta soprattutto le paure, proponendo «una protezione dal resto del mondo» che non potrà mai offrire. Ma il Pd, se un simile cambiamento nemmeno lo vede, e quindi non ha né un’idea né un leader per un’area che va dal Veneto al Piemonte, è dannato, più che alla sconfitta, a una desolazione senza fine.
Il linguaggio è tutto diverso da quello inutilmente rassicurante caro ai leader del Pd quando si concedono una pausa nella guerriglia interna: provocatorio, aggressivo, verrebbe da dire persino futurista. Questo centrodestra è in crisi, sì, ma bisognerebbe lo stesso andarci a scuola, per dare risposte diverse, naturalmente, ma senza eludere le domande. Si può fare? Forse sì, a patto, naturalmente, di cambiare in tutta fretta e radicalmente Dna (impresa non facile) e senza provocare (impresa ancora più ardua) ulteriori sfracelli nel proprio elettorato, al momento l’unico che c’è. Se riuscissero a farlo, il Pd e il centrosinistra avrebbero qualche chance di successo in più? Può darsi, anche se resta da spiegare perché gli elettori dovrebbero preferire l’imitazione all’originale, il «leghismo gentile» (la definizione, che a Chiamparino non spiace, è di Luca Ricolfi) al leghismo che c’è; e, più in generale, che cosa possa mai essere un «leghismo gentile». E il «popolo delle primarie», quello che domenica è rimasto appeso alla tv per non perdersi neanche un passaggio del discorso di Fini, gradirebbe? Questo è più difficile ancora, e lo sa anche il Chiampa. Che però stavolta le sue carte sembrerebbe averle giocate davvero. Proprio come Fini.
l’Unità 7.9.10
Incentivo alla natalità solo per genitori italiani A Travate si può...
Il pacchetto sicurezza 2008 comprende al suo interno un articolo che attribuisce ai sindaci nuovi poteri in materia di sicurezza urbana. Il risultato è che, a più di due anni dall’approvazione di quella legge, si sono moltiplicate delibere ordinanze e regolamenti che spesso, ahinoi, hanno il sapore di procedure di esclusione rivolte agli stranieri. Spesso quei provvedimenti sono totalmente ridicoli e dimostrano la fervida immaginazione di amministratori locali che sembrano sollevati dall’idea di poter finalmente dar sfogo alle proprie peggiori fantasie in materia di discriminazione etnica. Si va dalle restrizioni ai locali commerciali stranieri, come phone center e kebaberie, al rifiuto dell’abbonamento ai mezzi pubblici, dalle limitazioni per l’accesso alle graduatorie delle case popolari, ai divieti di affitto di locali in cui pregare.
L’ultima trovata l’ha avuta il sindaco di Travate (Varese) che, con chiari intenti di «conservazione dell’identità europea» (come da sua stessa ammissione), ha emanato la seguente leggina: «Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani». Come dire, in questi tempi di calo demografico, un bel premio a chi assicura la purezza della razza. Cittadini e associazioni sono insorti, ottenendo dal Tribunale di Milano una sentenza che definisce il provvedimento discriminatorio. Il comune di Tradate ha presentato ricorso contro questa decisione.
A noi non resta altro da fare se non aspettare che siano i Tribunali, in questa come in tante altre situazioni, a fare l’interesse dei cittadini, ristabilire l’equità e placare un po’, almeno un po’, le velenose bizzarrie di questi solerti sindaci.
Corriere della Sera 7.9.10
Maroni rilancia la linea francese: l’Europa agisca unita
di Fiorenza Sarzanini
PARIGI — Evita accuratamente di pronunciare la parola rom e lo stesso fa il suo collega francese Eric Besson. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, volato in Francia per un seminario sul tema dell’immigrazione, sa bene che è proprio questo il tema in discussione. E non si sottrae, anzi rilancia la linea già attuata da Parigi: «Bisogna espellere i cittadini comunitari che non rispettano la direttiva europea sul soggiorno nei Paesi membri».
Posizione forte che certamente non mancherà di provocare nuove polemiche proprio perché è ai nomadi che i titolari dell’Interno — all’incontro partecipano anche i colleghi di Germania, Grecia, Gran Bretagna, Belgio e Canada, tutti in cima alla lista delle richieste d’asilo — pensano quando annunciano di voler formalizzare la richiesta nella riunione a Bruxelles la prossima settimana. E perché questa mattina il titolare del Viminale affronterà la questione con il sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha già reso note le sue proposte: «Obbligare i Paesi di origine a fornire i precedenti penali creando una sorta di casellario europeo e introdurre il divieto di reingresso per i cittadini che hanno già subito un’espulsione».
Il documento cui si riferisce Maroni è la disposizione europea numero 38 del 2004 «che stabilisce la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione e regola in 3 mesi la permanenza di un cittadino comunitario all’interno di un altro stato membro». Ed ecco il problema posto dal ministro: «Chi non rispetta queste regole di fatto rimane impunito perché gli Stati non hanno gli strumenti per disporre l’allontanamento. Per questo ho già chiesto alla commissaria europea di prevedere sanzioni che servano a far rispettare le regole». In realtà la sanzione è solo una e Maroni la esplicita subito dopo: «Espulsione e rimpatrio». Vale a dire applicare il procedimento che già è previsto per gli extracomunitari.
Non a caso il titolare dell’Interno cita l’esempio della Libia «perché grazie all’accordo che abbiamo fatto con quel Paese siamo riusciti di fatto ad azzerare gli sbarchi» e quando un giornalista straniero gli chiede se intenda minacciare la Romania perché sono i suoi cittadini a non rispettare la direttiva risponde: «Noi non minacciamo nessuno, noi firmiamo trattati. Per questo ci appelliamo all’Unione europea affinché si arrivi ad una legislazione comune fra tutti gli Stati membri».
Maroni ha difeso energicamente le iniziative di Francia e Italia sostenendo di aver «incoraggiato l’esodo volontario di alcuni cittadini comunitari verso i loro Paesi dando loro una somma di denaro per consentire il rientro».
Non sfugge la scelta di procedere su una linea unitaria, anche per prevenire quelle che appaiono conseguenze inevitabili quando la linea dura viene messa in atto soltanto da alcuni Stati: migrazione verso il Paese confinante o comunque quello che ha una legislazione favorevole. Il timore neanche troppo velato è che i rom mandati via da Parigi possano decidere di trasferirsi in Italia. Besson assicura che «non c’è stata alcuna espulsione collettiva, ma è stato sempre rispettato il diritto francese e quello comunitario», però conferma la linea della fermezza. Tanto basta a far dilagare le proteste e le prese di posizione di chi ricorda che in passato l’allora commissario dell a Ue Jacques Barrot abbia già respinto analoghe richieste di sanzioni. L’asse italo-francese — con l’appoggio sicuro di Germania e Grecia — non sembra disposto ad arretrare.
l’Unità 7.9.10
Ore contate per Sakineh Il figlio: «Italia devi fare di più»
di Marina Mastroluca
Condannata alla lapidazione Il ragazzo, 22 anni: «Roma convochi il nostro ambasciatore»
Fine del Ramadan «La uccideranno venerdì». Frattini: l’Iran assicura, per ora nessuna esecuzione
«Grazie all’Italia ma non basta». Il figlio della donna iraniana condannata alla lapidazione chiede di più. «Si convochi l’ambasciatore». Timori di una possibile esecuzione alla fine del Ramadan, venerdì prossimo.
«Grazie all’Italia, grazie a tutti. Ma serve di più». Sajjad Ghaderzadeh parla con la forza della disperazione. Sua madre Sakineh Mohammadi Ashtiani è in isolamento da venti giorni, le visite si sono fatte più rade, più difficili. E la fine del Ramadan, venerdì prossimo, si avvicina come una minaccia: Sajjad teme che sarà questo il giorno dell’esecuzione, il giorno in cui sua madre verrà lapidata. «Il mese del Ramadan è alla fine e secondo la legge islamica le condanne possono di nuovo essere eseguite». Lo dice al telefono al filosofo francese, Bernard-Henri Levy, che sul suo sito ha raccolto 80.000 firme per salvare Sakineh. L’avvocato della donna, Javid Houtan Kian, nega che ci sia una data già fissata. Anche il ministro Frattini afferma di aver avuto assicurazioni da Teheran che «nessuna decisione è stata ancora presa». Ma ogni ora che passa, il filo che tiene in vita Sakineh sembra accorciarsi.
Per questo Sajjad chiede di più. «È importante, grazie di cuore all’Italia e a tutti quelli che si sono mossi in queste ore. Ma non basta. Gli Stati devono mostrarsi più esigenti e severi verso il governo iraniano, servono
passi solenni, come la convocazione dell’ambasciatore, o l’inasprimento delle sanzioni. Purtroppo con Teheran funzionano soltanto i rapporti di forza». Non solo solidarietà e appelli, ma passi diplomatici concreti, questa la richiesta del figlio di Sakineh che ha apprezzato la disponibilità del ministro degli Esteri Franco Frattini ad incontrare il collega italiano Mottaki, a margine dell’Assemblea generale Onu a New York nei prossimi giorni. «Se Mottaki accetterà potrà essere un passo efficace per ottenere la liberazione di mia madre», dice Sajjad. Nei giorni scorsi Frattini aveva sollecitato l’opinione pubblica a farsi sentire e il governo di Teheran ad un «atto di clemenza». Lo stesso appello è stato fatto ieri dall’Osservatore romano. «In molti scrive il giornale vaticano in un breve articolo nel pieno rispetto della sovranità iraniana chiedono al governo di Teheran di compiere un atto di clemenza». Il Vaticano di solito preferisce strade più silenziose che prese di posizione pubbliche e anche stavolta potrebbe essere così. Ma per chi come Sajjad aspetta aiuto, il segnale dovrebbe arrivare più forte.
99 FRUSTATE
Frattini, intervistato dal Tg1, assicura di aver già avuto «molteplici rapporti» con l’ambasciatore iraniano e di aver fatto pressioni a favore di Sakineh. A Teheran pur «rispettando» le posizioni italiane, non sono «stati contenti». Nessuna risposta finora neanche all’offerta del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che si è detto pronto ad andare a Teheran «se potrà servire» a salvare Sakineh. Kouchner ha anche auspicato che la Ue possa trovare una posizione comune, una voce per farsi sentire. Proprio ieri Maja Kocijancic, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, ha respinto le accuse di im-
mobilismo: «Abbiamo già sollevato la questione in molte, molte occasioni».
Ma «sollevare la questione» evidentemente non basta. «Bisogna fare presto», ha insistito ieri Bernard-Henri Levy convinto che le pressioni internazionali possano fare la differenza per Sakineh, spostando l’ago della bilancia nei difficili equilibri di potere a Teheran a favore di «quelli che sono pronti a trattare» contro chi ha fretta di chiudere la partita. Sakineh aspetta. Nel braccio della morte avrebbe già subito una condanna supplementare a 99 frustate, dopo la pubblicazione sul Times di una foto senza chador diffusa da Mostafei, con una mossa criticata senza mezzi termine dall’altro legale della donna. Non era lei, ma le è valsa l’accusa di indecenza. «La pena è stata eseguita dice il figlio di Sakineh -. Anche se le autorità del carcere non hanno voluto dirlo ufficialmente. Forse se ne vergognano».
l’Unità 7.9.10
4 domande a Shirin Ebadi
«L’Occidente non si fermi. Il regime deve fare un passo indietro»
di Maria Zegarelli
Shirin Ebadi, Nobel per la pace, esule dal suo paese l'Iran. Perché è costretta a questa continuo errare?
«Dal giugno del 2009, dalla repressione dei moti da parte del regime dopo le elezioni, non sono rientrata: non ci sono le condizioni per chi come me difende i diritti umani». Suo marito è stato arrestato, lo ha più sentito?
«È stato arrestato e torturato: quando era in carcere lo hanno costretto a leggere davanti alle telecamere un atto d'accusa contro di me e solo dopo lo hanno liberato. Ci ho parlato, gli ho detto: hai fatto bene, non devi morire. Ora spero lo lascino andare ma finora non ho buoni segnali».
Veniamo all'attualità: Sakineh rischia la lapidazione. L'Occidente alza la voce ma la reazione degli estremisti iraniani diventa sempre più aspra... «Non fatevi intimorire: la situazione di Sakineh non può essere peggiore di quella che è. L'Occidente non si faccia spaventare e continui, sono convinta che il regime sarà costretto a fare un passo indietro». Cosa bisogna fare?
«Protestare a voce alta, per Sakineh e contro le pene come la lapidazione: in Iran il codice prevede perfino la crocifissione e è stata introdotta persino la regola della vendetta. C'è un giovane uomo che sarà accecato con l'acido perché ha commesso la stessa cosa contro la ragazza che lo rifiutava. Ecco, il mondo deve chiedere che simili pene vengano abolite per sempre anche perché nel corano queste pene non sono scritte e chi si nasconde dietro la religione sa di mentire».
il Fatto 7.9.10
I volti di Sakineh
Il mondo mobilitato per l’iraniana condannata alla lapidazione. Ma la sua vicenda rimane incerta
di Stefano Citati
Il volto di Sakineh Mohammadi Ashtiani condensa da giorni l’intermittente solidarietà occidentale.
La donna iraniana condannata alla lapidazione smuove le coscienze e si moltiplicano le iniziative per salvarla. Ma il suo caso giuridico rimane opaco e le informazioni sulla vicenda giudiziaria incompleta. In buona parte per responsabilità delle autorità iraniane, ma anche per le voci non chiare e non univoche dei suoi difensori (l’avvocato rifugiatosi in Norvegia e uno dei due figli della 43enne che da Tabriz, città del Nord del Paese dove la madre è detenuta, continua a far sentire la sua voce, ma ha rotto i rapporti con il legale della madre). Sakineh nel 2005 è stata arrestata per una “relazione illecita”, fuori dal matrimonio e condannata a 10 anni di carcere e 99 frustate. Poi il suo caso sarebbe stato riaperto e condannata per adulterio, pena la lapidazione. Il suo amante in un primo tempo era stato condannato a morte per l’omicidio del marito; il giudice aveva poi invertito le condanne: lei incolpata per omicidio del marito e lui a 10 anni di carcere come amante della donna, confermando il diverso peso giuridico e sociale tra uomo e donna in Iran (e non solo).
Da quando il caso di Sakineh – a differenza dei molti altri passati sotto silenzio in questi de-
cenni di teocrazia islamica (pare 150 siano state le donne lapidate finora, e altre 150 in attesa di sentenza) – è diventato internazionale, la reazione della giustizia iraniana è stata prima quella di ignorare la pressione occidentale, poi quella di confermare la giustezza delle accuse (anche con un video, in cui la donna si autoaccusa, la cui autenticità lascia molti dubbi) e infine, in questi giorni spingendo verso la conclusione cruenta del caso: comminate altre 99 frustate e moltiplicazione delle voci di un imminente esecuzione (forse già venerdì) della condanna.
il Fatto 7.9.10
L’eccesso occidentale
di Massimo Fini
La mobilitazione internazionale a favore di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte per adulterio e complicità nell'omicidio del marito (i due fatti, se le accuse sono veritiere, sono, con tutta evidenza, collegati), sarebbe totalmente condivisibile se fosse stata centrata esclusivamente sulla modalità dell'esecuzione: la lapidazione. La lapidazione infatti va oltre la pena di morte, è una tortura. Una tortura, se si può dir così, a fuoco lento (le pietre non devono essere né troppo grosse, così da uccidere all'istante la condannata, né troppo piccole da non farle male). Ora, un uomo, in determinati e precisi casi, può essere lecitamente ucciso ma mai torturato o umiliato, tant'è che la tortura, almeno formalmente, non è legittimata in nessuno Stato del mondo nemmeno in tempo di guerra (anche se gli americani l'hanno usata a piene mani a Guantanamo – con l'ipocrito escamotage che era fuori del territorio degli Stati Uniti – e nel modo più sadico, ignobile e schifoso a Abu Ghraib dove è venuto a galla tutto il marciume morale della cosiddetta “cultura superiore”). Ma la mobilitazione internazionale, per meglio dire: occidentale, non contesta solo la lapidazione, ma anche la pena capitale inflitta alla donna e anzi la vuole “subito libera”. Davanti a una immagine di Sakineh che, per iniziativa del governo italiano, campeggia da tre giorni all'ingresso di Palazzo Chigi il ministro degli Esteri Franco Frattini e quello delle Pari opportunità Mara Carfagna hanno dichiarato “Finché Sakineh non sarà salva o libera il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano”.
ORA, LA PENA DI MORTE è in vigore anche in Paesi considerati campioni della civiltà, come gli Stati Uniti, e nessuno Stato lascerebbe a piede libero un assassino. Quanto all'adulterio è considerato un reato meritevole della pena capitale non solo in Iran ma in molti altri Paesi islamici che hanno una cultura e una morale diversissime dalle nostre soprattutto per quel che riguarda la famiglia. La domanda è questa: le sentenze di un Tribunale iraniano su fatti che quel Paese considera reati gravi sono ancora sentenze di uno Stato sovrano o devono essere sottoposte ai Tribunali popolari dell'Occidente? E può Sarkozy dichiarare che Sakineh “è sotto la protezione della Francia”? Allora sia coerente e dichiari formalmente guerra all'Iran in nome dei principi in cui dice di credere, invece di continuare a farci cospicui affari (la Francia è il secondo partner commerciale europeo dell'Iran, dopo l'Italia).
Questo il quadro di principio. Ma dietro i principi ci sono le persone in carne e ossa. In questo caso una giovane donna di 42 anni che rischia da un momento all'altro di essere giustiziata. È l'eterno conflitto fra pietas umana e la legge (dura lex sed lex dicevano i Romani), fra Antigone che, contro la legge, seppellisce il fratello Polinice in terra consacrata e il re Creonte che quella legge deve far rispettare e la condanna a morte. È l'eterno dilemma fra Libertà e Autorità così profondamente scandagliato da Dostoevskij nell'apologo de Il Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov.
L'IRAN NON HA ALCUN obbligo giuridico di fornire all'Occidente le prove che la sentenza del suo Tribunale è giusta, anche perché qui non ci troviamo di fronte a un oppositore politico ma a una persona accusata di reati comuni e non si vede quale interesse avrebbe mai la giustizia iraniana ad accanirsi arbitrariamente su di essa. Ma l'Iran è però un grande, colto e civile Paese, molto più civile di quanto lo facciano gli occidentali, e dovrebbe avere la sensibilità, anche politica, di capire che su un caso che è comunque sotto gli occhi di tutto il mondo ha l'obbligo morale di dare sulla reale colpevolezza di Sakineh informazioni maggiori e più trasparenti di quante ne abbia date finora, sen-
za per questo sentirsi diminuito nella propria sovranità, anche se sappiamo benissimo che questa vicenda viene strumentalizzata in funzione della tambureggiante campagna contro Teheran di Stati Uniti e Israele. Perché, a questo punto, un'esecuzione al buio sarebbe altrettanto inaccettabile di quella liberazione al buio che vorrebbero il ministro Frattini e Bernard-Henri Lévy.
il Fatto 7.9.10
Reazione necessaria
di Giampiero Gramaglia
S alvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia Saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata – non sempre con successo, anzi – per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper – uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne – o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas. Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di Paesi specifici: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che indignano più d’altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima dei talebani, in Arabia o Nigeria). Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione.
NELL’ISLAM si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri. Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph O’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
NEL CASO DI SAKINEH , la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi – ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione tv – si presume estorta, magari con la tortura. Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo “Libera subito”, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese. Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.
l’Unità 7.9.10
Zero fondi contro la fame
L’Onu striglia l’Italia
La coordinatrice della campagna per il Millennio: «Berlusconi non ha mantenuto le promesse Siete il fanalino di coda negli aiuti allo sviluppo»
di Umberto De Giovannangeli
Il Cavaliere-Pinocchio alla prova dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Alla prova degli impegni internazionali sbandierati e mai mantenuti. Di «maglie nere» accumulate. «L'Italia mantenga le promesse e rispetti l'obiettivo di medio termine per raggiungere quelli che sono stati definiti gli “Obiettivi del Millennio”». È l'appello lanciato dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite a poche settimane dal Summit Onu di New York sugli «Obiettivi del Millennio» convocato per fare il punto della situazione. «Mancano poco più di cinque anni alla scadenza dei cosiddetti “Obiettivi del Millennio” fissati nel 2000 nel corso del Vertice del Millennio dell'Onu. In quell'incontro ricordano gli organizzatori della Campagna ben 189 Paesi sottoscrissero la Dichiarazione del Millennio ponendosi precisi obiettivi: combattere la fame, la disparità fra i sessi, la mortalità infantile e le malattie, come Aids e malaria, e migliorare la salute delle gestanti, l'istruzione primaria, la qualità della vita, il rispetto dell'ambiente e raggiungere un lavoro dignitoso per tutti...».
Tra i firmatari c’era l’Italia. Con al Governo Silvio Berlusconi. Impegni mai realizzati. La Campagna del Millennio lamenta il mancato rispetto degli impegni presi dall'Italia e afferma che entro il 2010 il nostro Paese o avrebbe dovuto devolvere lo 0,51% del Pil mentre attualmente denuncia la Campagna Onu del Millennio l'Italia dona solo lo 0,1%. «L'Italia resta il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio – rimarca Eveline Herfkens, coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio -. Siamo davvero molto preoccupati per l'attuale tendenza al continuo ribasso degli aiuti allo sviluppo in Italia...L’Italia non ha agenzie né un apposito ministero per l'aiuto allo sviluppo, né tantomeno un dibattito politico su questi temi cruciali». Una tendenza al ribasso che era già stata segnalata dal documento elaborato dalla Commissione europea prima del vertice dei ministri dello Sviluppo tenutosi il 17 e il 18 febbraio in Spagna. La Commissione europea aveva elogiato Lussemburgo (1% del Pil) , Svezia (1,03%), Olanda (0,8%) e Danimarca (0,83%) per aver superato l’obiettivo dello 0,7% del Pil. Spagna (0,51%), Belgio (0,7%), Regno Unito (0,56%), Finlandia (0,55%), Irlanda (0,51%) sono sulla strada giusta e sono definiti attori chiave per far sì che l’Unione europea raggiunga i suoi obiettivi.
In base a recenti previsioni dell’Ocse, l’Italia (0,20%), insieme a Francia (0,46%), Germania (0,40%), Austria (0,37%), Portogallo (0,34%), Grecia (0,21%) è il Paese più lontano dal rispetto degli impegni presi per il 2010. Siamo al fondo del fondo. Triste fanalino di coda. Dati che attribuiscono al Cavalier Berlusconi l'Oscar del premier-Pinocchio, all'Italia quello della nazione peggior protagonista sulla scena europea quanto a impegni disattesi. A distanza di sette mesi dalla pubblicazione di quel rapporto, la situazione, quanto a impegni disattesi dall’Italia, è ancor più peggiorata. L’appello della Campagna del Millennio come il documento della Commissione europea supporta e arricchisce di ulteriori motivazioni la scelta compiuta negli scorsi mesi dal fondatore di Microsoft, Bill Gates di inserire l'Italia nella «Lista della Vergogna». «Nella comunità internazionale – aveva denunciato Gates c'è solo un Paese che ha ridotto gli aiuti allo sviluppo e questo è l'Italia». L'Italia – incalza ancora Gates – è un Paese «uniquely stingy» (particolarmente tirchio”). Una nuova maglia nera. Altro che «locomotiva» europea. L'Italia del Cavaliere rappresenta un pesante freno a mano.
Ancora più bassa la percentuale destinata in particolare agli aiuti sanitari dove l’Italia è ferma allo 0,025% del Pil contro lo 0,1% raccomandato dagli accordi internazionali. Berlusconi aveva promesso, durante la conferenza stampa conclusiva del G8 dell’Aquila ricorda Annalisa Stagni, Health advocacy officer di "Azione per la salute globale" di saldare la quota 2009, pari a 130 milioni euro,destinata al Fondo globale di lotta all’Aids, Tubercolosi e Malaria entro agosto scorso, alla quale sarebbero stati aggiunti ulteriori 30 milioni di dollari. Ma ad oggi non c’è traccia di nessuno di questi finanziamenti». «L’Italia inoltre si è impegnata a versare lo 0,7% del Pil in aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2015, ma come step intermedio nel 2010, cioè quest’anno, avrebbe dovuto versare lo 0,51% del Prodotto interno lordo. Purtroppo invece, dati del 2009 attestano l’Italia allo 0,17% e sottolinea salvo miracoli nei prossimi mesi, il nostro Paese resta fanalino di coda nelle statistiche sugli aiuti pubblici allo sviluppo». E ancora: « L’Italia ha versato appena lo 0,025% del Pil ponendosi agli ultimi posti, preceduta da Germania (0,030%), Francia (0,041%), Spagna (0,045%) e Gran Bretagna (0,058%), anch’esse comunque lontane dalla percentuale raccomandata.
Cinque anni fa, a Gleneagles, ricordano Oxfam e Ucodep i leader del G8 si impegnarono ad aumentare gli aiuti ai Paesi del Sud del mondo di 50 miliardi di dollari (40 miliardi di euro) entro il 2010. Di questi, 25 miliardi di dollari (20 miliardi di euro) sarebbero andati all’Africa. Tuttavia, il G8 registra un ammanco di 20 miliardi di dollari (16 di euro). L’Italia è il fanalino di coda del G8 in materia ad aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ed è il Paese che più di tutti ha tradito le promesse fatte a Gleneagles. In seguito ai ripetuti tagli alla cooperazione allo sviluppo, infatti, l’APS italiano ha registrato nel 2009 un calo complessivo pari al 31%. «L’impegno finanziario italiano è ormai sceso ai suoi minimi storici rimarca l’ultimo rapporto Ocse . L’ultimo taglio degli stanziamenti ammonta al 56%, mettendo di fatto in ginocchio la cooperazione pubblica bilaterale. Attualmente le possibilità discrezionali italiane su come spendere i soldi sono ridotte al minimo visto che i quattro quinti delle risorse sono dovute ad impegni già presi, in particolare per i contributi obbligatori verso le agenzie internazionali. Nel 2010 l’APS italiano sarebbe dovuto essere dello 0,51% del Pil, invece non supererà lo 0,19%. E per gli anni a venire la manovra del Governo prevede tagli ulteriori.
Corriere della Sera 7.9.10
Grossman si confessa: «Tentato di lasciare Israele»
Lo scrittore: «Ci ho pensato e ci penso ancora, ma lo farò solo quando scomparirà la democrazia»
di Francesco Battistini
GERUSALEMME — Il venerdì, lui c’è. Quasi sempre. Da mesi. A Gerusalemme Est, David Grossman non si perde i sit in davanti alle case del quartiere arabo di Sheikh Jarrah. Una protesta pacifica, cartelloni e slogan contro lo sgombero di alcune famiglie palestinesi. Un gruppetto di pacifisti testardi, molti che arrivano apposta dall’Europa. Qualche settimana fa, per ripararsi dal caldo, Grossman è arrivato vestito di nero alle solite tre del pomeriggio e s’è seduto su una panchina, sotto un grande ulivo. Stanco. Nessuna voglia di parlare. Per l’afa soffocante, per la delusione che da un po’ gli soffoca le parole: «Non chiedetemi niente. Mi sembra di ripetere certe cose da cent’anni...».
A un cerbiatto somiglia il suo dolore. Un cerbiatto in fuga. Lo scrittore è stanco. Lo confidava da un po’ di tempo, in privato. L’altra sera, a Londra, dove in questi giorni si trova per promuovere una nuova edizione inglese del suo ultimo libro, per la prima volta ha deciso di rendere pubblico il suo disagio.
D’intellettuale. D’israeliano. Dice d’avere una «tentazione» forte: «Ho soppesato l'idea di lasciare Israele e devo riconoscere che la tentazione c’è sempre». Lo sfogo è arrivato in un’intervista a una tv inglese, Canale 10: «Parte della tragedia degli ebrei come individui, ma anche come collettività, è che non abbiamo mai trovato una vera casa nel mondo. Oggi, abbiamo Israele. L’abbiamo da 62 anni. E non è la patria che pensavamo sarebbe stata». C’entra l’ultima disillusione, ovviamente, su negoziati di pace destinati — pure nella visione di Grossman — alla galleria delle inutili cerimonie: «Non sono sicuro che i nostri due leader, quello israeliano e quello palestinese, siano tanto coraggiosi da fare i passi giusti per raggiungere la pace. Dopo cent’anni di morte, forse abbiamo perso il momento giusto». Il disagio però va oltre e riguarda, più che l’inconcludente agenda del domani, la paura del dopodomani: «Sì, ho sempre pensato di poter abbandonare questo Paese e questa possibilità c’è sempre. Ma so che me ne andrò solo quando Israele smetterà d’essere una democrazia».
È un’inquietudine che Grossman spiegò già nel 2006, l’anno di Uri, il figlio ucciso in un tank mentre combatteva in Libano: «La nostra famiglia — disse nel commovente ricordo del ragazzo —, questa guerra in cui sei rimasto ucciso, l’abbiamo già persa... Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi, ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi». «Dopo il lutto — dice ora lo scrittore —, io sono tornato subito a scrivere. Quel che è cambiato, è solo la consapevolezza di ciò che significa perdere un figlio. E la consapevolezza della realtà in cui viviamo».
Questa consapevolezza divide. E imbarazza. Perché viene da un uomo di sinistra che non ha mai esitato a condividere le fondamenta d’Israele. Qualche giorno fa, Grossman ha aderito al boicottaggio culturale degl’ intellettuali che si rifiutano di partecipare a dibattiti nelle colonie. «E allora — ha replicato un opinionista di destra —, non dovrebbe più vendere nei Territori palestinesi nemmeno i suoi libri. Perché non succede?». Adesso, arriva il commento d’un falco delle colonie come Noam Arnon: «Grossman se ne vuole andare? S’accomodi. Capisco il ragionamento che lo porta a questa conclusione. Questi scrittori vivono dentro la Linea Verde e si sentono nel giusto. Dimenticano che la guerra dei Sei giorni non fu voluta da Israele, e che le colonie nacquero allora. Dimenticano che Israele si fonda su quelle cose in cui loro non si vogliono più riconoscere. È gente che si costruisce un’idea di mondo completamente scollata dalla realtà». C’è chi capisce, però: «Per andarsene, David non deve aspettare che in questo Paese finisca la democrazia — dice Jonatan Gefen, scrittore e nipote del primo presidente israeliano Weizman —. Anch’io ho provato ad andarmene, più d'una volta. Ma non ci sono mai riuscito. Se un giorno si presentasse la possibilità, credo che Grossman non sarebbe l’unico a farlo».
il Fatto 7.9.10
Prescrizione, una festa per tutti
Quali processi richiedono un sacco di tempo per arrivare a giudizio? Ma è ovvio, quelli che hanno un excursus breve, altrimenti B&C in quale modo si salverebbero dalla galera?
di Bruno Tinti
B&C continuano a pretendere il “processo breve”, si dice per evitare a B. la condanna per corruzione dell’avv. Mills. Anche se sanno tutti che di prigione non se ne parla: dopo pochi mesi dalla pronuncia della sentenza il reato sarà prescritto.
Questa “soluzione” (già ampiamente sfruttata da B.) è quella abitualmente ricercata dalle difese: i tempi dei processi sono così lunghi che arrivare a una sentenza di condanna è praticamente impossibile. Sotto questo profilo, dunque, il “processo breve” esiste già.
Praticamente impossibile... Ma quanti sono davvero i processi che si prescrivono? Questo veramente nessuno lo sa: l’amministrazione giudiziaria non ha uno strumento statistico che possa fornire questo dato; e, soprattutto, non è tecnicamente possibile prevedere quanti dei processi pendenti si prescriveranno. Questo perché la prescrizione dipende da situazioni processuali imprevedibili: un furto pluriaggravato si prescrive in 12 anni e mezzo; ma, se vengono concesse attenuanti e se queste sono considerate prevalenti sulle aggravanti, ecco che il termine di prescrizione scende a 7 anni e mezzo; e così, magari in Appello o in Cassazione, la precedente sentenza di condanna diventa una sentenza di “assoluzione” per prescrizione. Così è successo a B. in uno dei suoi processi: condannato in primo e secondo grado per corruzione, è stato assolto in Cassazione perché, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, il reato era prescritto. Non si può sapere dunque quanti processi si chiuderanno con la prescrizione; ma si può sapere quali. Ogni anno il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il ministro della Giustizia spiegano ai cittadini, quando inaugurano solennemente l’anno giudiziario (con cerimonie che somigliano sempre più a un funerale), qual è la durata media del processo penale. Attenzione, la parola chiave è “media”: alcuni processi si concludono prima e altri dopo: la media è 7 anni e mezzo. I processi più rapidi sono quelli semplici, per i quali non occorrono indagini complicate; e quelli più lenti sono i processi complessi. Giusto. Quindi, si potrebbe pensare, i termini di prescrizione tengono conto della complessità dei processi. Sbagliato. I termini di prescrizione non dipendono dalla complessità delle indagini ma dalla pena prevista per il reato: più è alta, più lunghi sono; per dire, l’omicidio si prescrive in 30 anni, il traffico di droga in 25, una rapina, un’estorsione, uno stupro, in 12 anni e mezzo; ma la truffa, la corruzione, la frode fiscale, il falso in bilancio, l’infedeltà patrimoniale, si prescrivono in 7 anni e mezzo. In effetti, tutti i reati puniti con una pena inferiore a 6 anni si prescrivono in 7 anni e mezzo; e, guarda caso, la quasi totalità dei reati cui la classe dirigente del nostro Paese è tanto affezionata sono puniti con una pena inferiore ai 6 anni.
Quel sogno della mancata condanna
ORA, SE I PROCESSI semplici, quelli che si possono concludere entro il termine di durata media del processo, coincidessero con quelli che si prescrivono in 7 anni e mezzo andrebbe tutto bene. Nessun processo si prescriverebbe: quelli semplici si concluderebbero prima della scadenza del termine di prescrizione e quelli complessi, che richiedono più di 7 anni e mezzo per essere definiti, avrebbero termini di prescrizione più lunghi. Solo che non c’è nessuna relazione tra pena prevista (e conseguente termine di prescrizione) e complessità del processo. Un traffico di droga, dopo un annetto di intercettazioni telefoniche, è un processo che si chiude in poche udienze; in un processo per omicidio, quasi sempre, o non si trova il colpevole oppure lo si individua dopo poche settimane; gli autori di una rapina, quasi sempre, sono arrestati mentre la stanno facendo o poco dopo. Insomma i processi per i reati puniti più gravemente sono spesso quelli più brevi. Per questi reati un termine di prescrizione lungo è inutile; tanto i relativi processi si concludono in fretta. E quali invece richiedono un sacco di tempo? Ma è ovvio, quelli che hanno una prescrizione breve, sennò B&C come si salverebbero dalla galera? In questi processi la linea d’indagine è sempre e solo una: seguire i soldi. Da dove vengono i soldi pagati al corrotto? E di chi erano? E questo dove li ha presi? È così che si indaga, da una banca all’altra, da una società all’altra, da una persona all’altra. Ma naturalmente è complicato. La prima banca magari è in Italia e qui si fa relativamente in fretta: i soldi vengono dalla Svizzera o da Montecarlo. A questo punto cominciano le rogatorie; e, se si scopre che i soldi arrivano da un’altra banca che sta alle isole Cayman, le cose si fanno difficili. E poi c’è il problema delle società e delle persone che le rappresentano; magari si tratta della donna delle pulizie e di suo marito; e questa società ha il solo compito di trasmettere la corrispondenza a un’al-
tra società che ha sede in un altro paese e che fa capo a un importante studio di commercialisti o di avvocati. Insomma, quando si è finito di accertare tutto questo, quanti anni sono passati? E, per finire, non è che questi reati si scoprono subito, come avviene per un traffico di droga o un omicidio. Qui c’è il morto, lì c’è un pusher che parla, le indagini cominciano immediatamente. Ma, per i reati di B&C bisogna aspettare che un commercialista inglese si senta chiedere da un avvocato che si è fatto corrompere con circa mezzo milione di dollari come deve regolarsi fiscalmente con questa somma (!); e che il commercialista in questione, indignato, denunci il fatto alle competenti autorità (!!!) Magari passano un paio d’anni; ma la prescrizione comincia a decorrere da quando l’avvocato si è preso i soldi.
E così, quando matura la prescrizione, il processo è arrivato sì e no in primo grado e restano ancora Appello e Cassazione. Alla fine c’è da chiedersi: ma perché B. ci tiene tanto a non farsi dichiarare colpevole di corruzione dell’avv. Mills?
In Appello il reato sarà prescritto; e lui si è già beccato tre “assoluzioni” per prescrizione, una per corruzione, una per finanziamento illecito e una per falso in bilancio; una più, una meno... Vale la pena di ammazzare tutti i processi penali italiani solo per questo?
Repubblica 7.9.10
Memorie di un ebreo laico
Ritratto dell´Italia attraverso una vita
di Eugenio Scalfari
Partecipa alla fondazione di "Repubblica", dirige "L´Europeo" e poi torna al quotidiano
Mario Pirani ha raccolto in "Poteva andare peggio" la sua biografia. Da Venezia al Pci, dall´Eni al giornalismo
Un lungo racconto che inizia nei dorati anni Trenta e che incrocia personaggi drammatici come Mattei
Qualche tempo fa ho recensito un libro di Alfredo Reichlin intitolato Il midollo del leone superando dentro di me la difficoltà di parlar bene dell´opera d´un caro e vecchio amico. Quel libro, che univa insieme storia politica e vicende personali, era molto piaciuto e l´amicizia non credo abbia fatto ombra all´oggettività del giudizio.
Mi accingo ora ad affrontare un compito un poco più arduo: l´autore del libro del quale oggi voglio scrivere, e che si intitola Poteva andare peggio (Mondadori, pagg. 440, euro 20), non è soltanto un amico ma anche un collega che fu tra i fondatori di Repubblica, ci lasciò dopo tre anni, ritornò dopo altri sei e da allora è sempre rimasto con noi. «Ritorno a casa», si intitola l´ultimo capitolo del volume di Mario Pirani; questo giornale è stato dunque la sua casa e a me fa grande piacere sentirglielo dire anche se accentua la difficoltà di recensirlo col dovuto e oggettivo distacco.
Prometto ai lettori che ce la metterò tutta per esprimere un giudizio compiuto e motivato, ma era mio dovere avvertirli affinché prendano essi stessi le loro misure. E comincio subito col dire che il libro è bello quanto insolito.
Anche questo, come quello di Reichlin, mette insieme la storia del paese e la biografia dell´autore, ottant´anni raccontati con una prosa scorrevole, molto più da romanzo che da saggio. Descrive personaggi, vicende, episodi, passioni, amori, intrighi politici, strategie imprenditoriali. Su questo lungo percorso che ha il suo inizio negli anni Trenta dello scorso secolo incombe la personalità dell´autore che porta dentro di sé un deposito culturale di ebraicità e insieme di laicità che hanno profondamente connotato le sue scelte, i suoi comportamenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie. Insomma la sua vita, gli elementi di forza e quelli di debolezza.
L´esergo del libro è una frase di Camus che privilegia il dialogo rispetto al combattimento. In realtà Camus dialogò combattendo con gli scritti, con i pensieri e con l´azione. Pirani, anche lui ha dialogato combattendo ma il "combat" l´ha subito, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stato una sua libera scelta.
Il libro descrive il nucleo dominante di questa vicenda e della personalità del protagonista: un ebreo laico, tanto più ebreo perché laico e tanto più laico perché ebreo. Chi per tanti anni l´ha avuto compagno di lavoro giornalistico, quella sua duplice dominante l´ha vista all´opera e può dunque testimoniarne l´autenticità.
Sono le pagine più vive, più innocenti, nelle quali la gioia di vivere propria dell´età infantile è rafforzata dagli agi di cui gode la famiglia del protagonista, la madre bellissima ed elegante, il padre al vertice d´una prestigiosa carriera di amministratore della società Ciga, proprietaria di grandi alberghi a Venezia, a Roma, a Firenze. L´ambiente e l´aria che vi si respira sono quelle dell´età del jazz, entrato in Italia e a Venezia in particolare dalla fessura aperta dal giovane Galeazzo Ciano e dal suo gusto di frequentare le famiglie di grande lignaggio per notorietà o per ricchezza e potenza del "business".
È in questi luoghi di opulenza che i Pirani vivono quegli anni, in una società separata dal resto di un´Italia chiusa in se stessa, immiserita dall´autarchia oltre che dalla crisi economica mondiale, confinata nel suo provincialismo, nel suo "dopolavorismo" di regime, nel suo mediocre obiettivo di potere avere "mille lire al mese" di stipendio.
Le canzoni dell´epoca sono lo specchio più verace di quell´Italia piccolo-borghese e il contrasto è perfettamente raccontato e vissuto dal bambino di otto anni che frequenta con i genitori il Lido, le lussuose tende che costellano la spiaggia, gli spettacoli della Fenice, i caffè di San Marco e dei campielli di Dorsoduro.
Passano gli anni e affiorano le prime pulsioni erotiche che l´autore racconta con disarmante e pruriginosa innocenza, i primi vestiti da ometto, le musiche americane che fino all´inizio degli anni Quaranta riuscirono a filtrare attraverso le colonne sonore dei film in concorso alla Mostra del cinema, Armstrong e Gillespie invece di Rabagliati e di Natalino Otto, Dino Grandi e il conte Volpi anziché Starace e i gerarchi del Foro Mussolini.
Ma d´improvviso il tono del racconto cambia e da deliziosamente futile e leggero diventa cupo e drammatico: le persecuzioni razziali, la guerra, il trasferimento a Roma e poi in Abruzzo di paese in paese, mentre aumentano la paura e le ristrettezze economiche, i bombardamenti, le deportazioni. Insomma il nazismo in tutta la sua orrenda crudeltà che il bambino degli anni dorati vive da adolescente braccato, accanto ad una madre ormai sfiorita e un padre costretto a fuggire in Francia sperando di potersi nasconder meglio a Parigi che non nelle montagne inospitali della Maiella.
Infine la liberazione, l´arrivo della divisione polacca che combatteva con l´Ottava armata di Montgomery, il ritorno a Roma e la scelta del giovanissimo protagonista di iscriversi al Partito comunista.
Scelta obbligata? No, perché le abitudini e l´aria che circolava in quella famiglia erano cosmopolite, occidentali, liberali. E tuttavia l´ebreo errante che viveva dentro la corteccia di quel giovane aveva bisogno di un approdo solido, d´un rifugio sicuro, di certezze protettive. Un bisogno di assoluto che gli consentiva di avanzare, assumere responsabilità e poteri di comando. Obbedire per poter comandare.
Questa è la motivazione reale di quella scelta. Pirani non la confessa perché le sue motivazioni razionali sono diverse, ma il racconto così radicalmente e candidamente sincero conduce chi lo legge a questa conclusione che lo impigliò, come piccolo funzionario prima e poi come dirigente, dentro le maglie dell´ideologia ma soprattutto in quella sorta di tagliola psicologica dell´obbedire per comandare che emerge dalle pagine del libro. In particolare da quelle, coloritissime e godibilissime, del Festival della gioventù a Praga, pieno di impreviste peripezie, dove il gregario svela una vocazione di leader che spesso lo conduce a passi arrischiati cui seguono richiami all´ordine e ricerche di nuove amicizie politiche dentro la complessa struttura del centralismo comunista.
Racconti analoghi li scrisse Enzo Bettiza che fece analoga esperienza sulle terre della sua Istria, ma l´ambiente era diverso, diverse le dinamiche e soprattutto le personalità dei due protagonisti.
Mario però non entrò, come altri suoi compagni fecero, nel Partito socialista. Aveva maturato, dopo l´iniziale infatuazione, un´idiosincrasia verso i partiti. Non verso la politica, che è sempre rimasta la sua passione dominante, ma verso ideologie che sconfinavano nell´utopia di futuribili inconcreti.
L´amico Giorgio Ruffolo, che dirigeva da tempo il servizio delle comunicazioni esterne dell´Eni, gli propose di affiancarlo con il mandato specifico di coltivare i rapporti con il Fronte di liberazione algerino. Gli presentò Enrico Mattei. Il colloquio con il capo dell´Eni è una delle pagine più avvincenti del libro. Fu assunto e cominciò la mattina dopo. Gli fu offerta la "stazione" che l´Eni aveva aperto in Tunisia e da lì, per alcuni anni, fu lui a tessere la rete con gli algerini affrontando i rischi d´un compito clandestino e avventuroso
Con la sua scomparsa molte cose cambiarono nella Dc e all´interno dell´Eni. Spuntava la procellosa stella di Eugenio Cefis. Pirani era stato troppo intimo del fondatore dell´Eni per continuare con il suo successore. Fu invitato a restare ma si rese conto che era un invito a fior di labbra e preferì farsi trasferire al Giorno dove ebbe inizio la sua stagione giornalistica che dura tuttora.
Ha passato quarantasette anni, più di metà della vita in questa professione, ma ad essa dedica poco spazio. In realtà il suo libro-diario si ferma con la morte di Mattei. Ciò che viene dopo è annotato con pochi tratti di penna, quasi per pura completezza d´informazione, salvo due vicende. Una, privata e sentimentale, il suo rapporto amoroso con Barbara Spinelli; l´altra la direzione de L´Europeo che gli fu affidata dall´editore Rizzoli con la malleveria politica di Claudio Martelli e del Psi. Correva l´anno 1979, Pirani lasciò Repubblica per tentar la sorte con quel settimanale che era stato fondato tanti anni prima da Arrigo Benedetti ma che non aveva più niente a che vedere con quel glorioso passato.
Ci restò pochi mesi, la sua uscita coincise con l´arrivo della P2 al Corsera e a quel che ne seguì. Francamente mi riesce difficile capire il perché del sostanziale silenzio dell´autore su un arco di anni così ricco anche per lui d´incontri e di tumultuose vicende giornalistiche, politiche, economiche, culturali. Faccio solo pochi nomi che esercitarono grande influenza su quel periodo e dei quali Pirani si occupò come giornalista, editorialista e scrittore: Fanfani, Moro, Andreotti, Gianni Agnelli, Guido Carli, Nenni, Craxi, Romiti, Cefis, Cossiga, Berlinguer, Berlusconi, D´Alema, Veltroni, Fini.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere e Pirani ne ha scritto ininterrottamente, ma in questo suo libro non ce n´è praticamente traccia. Credo che il motivo di questo silenzio riguardi un problema di distacco. Molte di quelle vicende sono ancora in corso e l´autore deve aver pensato che gli mancasse la lontananza necessaria per filtrarle con la lente della memoria, dell´ironia, del racconto e infine di quella realtà romanzata e romanzesca che è il pregio delle autobiografie. Ed è infatti il pregio di questo libro che il riserbo su fatti ancora troppo caldi ha salvaguardato.
Repubblica 20.8.10
Curarsi con l' Lsd, la medicina ci (ri)prova
di Elena Dusi
ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l' Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l' acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l' uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore. «Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell' umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell' ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l' autocoscienza, facilitano l' accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia. Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L' Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent' anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l' acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segalee lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l' Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile». Gli "psichedelici" anni ' 60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d' arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l' effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l' arma antica degli allucinogeni. L' Lsd, scrive,è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell' umore - scrive lo psichiatra - contro le 23 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi. La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharmaèa corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell' università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.
Repubblica 13.8.10
Ricerche truccate e Harvard sospende l' uomo delle scimmie
di Nicholas Wade
L' origine della moralità sta creando grossi problemi a Marc Hauser, il noto studioso dell' università di Harvard autore di un libro sull' argomento e sospeso dopo un' inchiesta interna legata proprio alle sue ricerche. Hauser, che si è specializzato nello studio comparato della mente umana e di quella degli animali, è autore del noto libro Menti morali. Le origini naturali del bene e del male. Jeff Neal, portavoce di Harvard, all' inizio non ha confermato né che Hauser sia in aspettativa né che l' università ha condotto un' indagine. La segreteria telefonica del laboratorio del professore, però, fa sapere che lui sarà in aspettativa fino ad autunno. In un articolo pubblicato dalla rivista Cognition nel 2002, Hauser e altri autori sostenevano che le scimmie tamarino edipo fossero in grado di apprendere alcune regole, analogamente a come le apprendono i bambini. La rivista scientifica ora sta per pubblicare una rettifica specificando che un riesame interno del paper dell' Università «ha riscontrato che i dati non corroborano le scoperte vantate» e che pertanto, Cognition «ritratta quell' articolo». «Marc Hauser», prosegue la rettifica, «si assume la responsabilità dell' errore». Il silenzio di Harvard suscita preoccupazioni anche tra altri ricercatori nel campo che temono un discredito generalizzato finché i fatti non saranno stati chiariti. «A mio avviso, Harvard deve rendere pubblici i risultati della sua indagine», dice Herbert Terrace, professore di psicologia presso la Columbia University. «Stando all' Università, essa sta agendo così per proteggere se stessa e Hauser, ma non sarebbe meglio proteggere invece tutto quest' ambito di studio?». Hauser è uno degli studiosi di Harvard più noti,è citato frequentemente in altri articoli scientifici che trattano del linguaggio, delle capacità cognitive degli animali e delle basi biologiche della moralità. Nel suo campo è considerato un luminare. Nel suo libro del 2006, Menti morali, Hauser sosteneva che nella mente umana, a livello genetico, è presente una grammatica morale universale, analoga alla grammatica universale con la quale Noam Chomsky spiega il linguaggio. Hauser sta attualmente lavorando a un altro libro, Evilicious: Why We Evolved a Taste for Being Bad, che analizza come l' uomo abbia sviluppato una propensione alla malvagità. Il professore di Harvard è uno scrittore prolifico e persuasivo. Il suo errore in questa ricerca sembra riguardare gli esperimenti, molti dei quali basati su riprese di scimmie tamarino edipo dalla chioma bianca. Per un essere umano, tuttavia, è facile individuare nelle risposte degli animali, delle scimmie in questo caso, ciò che egli vuole vedere e di essere quindi tratto in inganno dagli animali. Terrace riferisce che è da un certo tempo che sono sorti dei problemi con il lavoro di Hauser: «Innanzitutto c' è stata un' interpretazione arbitraria delle riprese video per far sì corroborassero l' ipotesi. Il secondo problema riguarda la validità dei dati. Molti dei suoi lavori si basano su riprese video che ora devono essere nuovamentesottopostea valutazione per accertare la validità dei dati». A quanto riferisce un articolo pubblicato da The Boston Globe martedì, lo studioso Gordon G. Gallup Jr. della State University di New York ad Albany, che aveva chiesto a Hauser il materiale video nel quale, secondo il ricercatore di Harvard, i tamarini edipo dalla chioma bianca si riconoscevano in uno specchio, dopo averlo analizzato non aveva trovato prove di tale comportamento. Un altro dei paper che presenta dei problemi è quello pubblicato da Science magazine nel 2007 sulla capacità dei tamarini, dei macachi rhesus e degli scimpanzé di intuire le intenzioni delle persone. A giugno la redazione ha ricevuto a una lettera del coautore senior della ricerca. In essa, Justin Wood, dell' Università della California del Sud, scrive che, dopo che Harvard nel suo riesame dell' articolo non aveva trovato allegati né delle note sugli esperimenti sul campo né altri dati legati alla ricerca in merito alla parte sul macaco rhesus, lui e Hauser avevano ripetuto l' esperimento arrivando gli stessi risultati, mentre non c' erano stati problemi con i dati riguardanti i tamarini e gli scimpanzé. In autunno, quando si concluderà l' aspettativa, Hauser potrebbe riprendere in pieno la sua attività a Harvard, ma le nuvole che si sono addensate sui suoi esperimenti, tuttavia, non spariranno probabilmente finché non saranno state chiaritela naturae l' entità del problema. «Gli studenti non sono proprio soddisfatti di come Harvard sta gestendo la faccenda: hanno la sensazione che l' Università stia spazzando i problemi sotto il tappeto». ©The New York Times La Repubblica Traduzione di Guiomar Parada
Repubblica 11.3.08
Nel peccato originale la coscienza dell' uomo
di Eugenio Scalfari
Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell' albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell' Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza. Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all' inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato - non cancellato - e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio. Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest' affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l' assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell' al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta. Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l' ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione? Dov' è la bilancia della giustizia? Dov' è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all' Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. è la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato. Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell' uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto. Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch' io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l' innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto. Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all' Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l' Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall' animalità. Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari. Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell' albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio. La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l' atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all' accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo. Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l' abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. è possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un' idea assai mediocre e bislacca della modernità. Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto. Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni. Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l' erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana. Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell' uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l' Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l' Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello. Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l' Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza. La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. è oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. è colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l' assume. Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un' innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto. <* * * & Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti? Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l' altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento. Dunque siamo liberi, almeno stando all' insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell' insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell' Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio? Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l' uomo, ma è pur vero che anche l' uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell' inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell' «es» per distinguerla dall' io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all' interno dell' individuo. L' io non è una figura psichica separata dall' «es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l' io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l' istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini. Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l' intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi. La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell' individuo e quella della specie, l' egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l' individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto. Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell' egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate. Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.
Bersani: «Il premier riconosca la crisi e si affidi al Colle»
«Qualsiasi ennesimo tentativo di coprire la situazione con pezze a colori non potrebbe nascondere la crisi politica del centrodestra», dice Pier Luigi Bersani.
Il segretario del Pd commenta così l’incontro tra il premier Berlusconi e il leader della Lega Bossi fissato all’indomani del discorso di Fini a Mirabello: «Il rischio vero che abbiamo davanti è che questa crisi la paghi il Paese, a fronte di politiche di governo fino a qui inefficaci e da domani completamente impotenti. Meglio prendere la strada maestra e riconoscere la crisi politica, affidandosi
come la Costituzione richiede al Presidente della Repubblica e al Parlamento».
Domenica a caldo, dopo il discorso di Fini, il segretario del Pd aveva commentato: «Il problema è che il Paese non può subire traccheggiamenti». Per Bersani non va bene «il gioco del cerino», perchè «ci sono problemi seri di cui la politica non riesce a parlare». Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui» riferendosi a Gianfranco Fini i «Fini andava avanti il segretario oggi ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Per questo l’invito, rinnovato, a salire al Colle e affidare la crisi nelle mani di Napolitano.
l’Unità 7.9.10
Vendola chiama i suoi a raccolta: «Entro novembre le primarie»
Ieri riunito il vertice di SeL. Il governatore: «Le consultazioni dovranno servire a scegliere il candidato premier e a costruire l’alternativa» Nuovo Ulivo? Temo sia un’allenza di conservatori
di Simone Collini
Primarie del centrosinistra entro novembre, a prescindere da come andrà avanti la crisi aperta nel centrodestra e se si voterà o meno tra l’autunno e la primavera. Nichi Vendola riunisce a Roma i vertici di Sinistra ecologia e libertà, e la proposta che viene lanciata a Pd e soci è di fissare fin d’ora la data di una consultazione che, per dirla col coordinatore di Sel Claudio Fava, «dovrà servire a costruire un processo politico e rappresentare quali sono i nostri contenuti, valori, meriti politici, non solo a scegliere il candidato premier».
«Mentre seppelliamo il berlusconismo, il centrosinistra apra il cantiere dell’alternativa al berlusconismo», dice Vendola senza mostrarsi troppo entusiasta della proposta del «nuovo Ulivo» lanciata da Pier Luigi Bersani: «Non sono innamorato delle dispute nominalistiche, mi interessano le cose concrete. Io ho paura che si possa mettere in piedi un’alleanza di conservatori, che il vecchio ceto politico del vecchio centrosinistra finisca per concentrarsi sulla propria rendita di posizione».
Il leader del Pd vuole incontrare il governatore pugliese nei prossimi giorni per discutere i contorni della proposta, ma a quell’incontro Vendola si presenterà con una sua controproposta: fissare entro i prossimi 100 giorni la data delle primarie che, sottolinea lui che è stato il primo a scendere in pista per questa competizione, sono «una necessità assoluta»: «Non un capriccio di Vendola, di Veltroni o di Chiamparino. E nessuna oligarchia può togliere il potere agli elettori. C’è qualcuno che guarda alle primarie come una specie di male da evitare, invece per me la partecipazione popolare non è mai un danno». Gli attacchi a una parte del gruppo dirigente del Pd non mancano, e oggi il governatore della Puglia si sottoporrà al giudizio di militanti e simpatizzanti pd alla Festa di Torino, per un faccia a faccia con Rosy Bindi.
Vendola ci va intenzionato a non schiacciare il piede sul freno, anzi. Dice che «sarebbe un errore imperdonabile» se sotto la pressione della crisi economica si dia vita a «una santa alleanza che veda insieme Pd e Tremonti», o anche se qualcuno tra i Democratici «flirtasse» col ministro dell’Economia. Così come, per il governatore pugliese, è da evitare l’illusione che sia possibile dar vita a una maggioranza per cambiare la legge elettorale. O quella, ancora peggiore, di imbarcare Fini: «Sta rifondando la destra, come si fa a cooptarla in maniera immaginifica nel centrosinistra?». Per il leader di Sinistra e libertà in questo momento c’è bisogno di chiarezza. E ostenta distacco di fronte all’aut-aut incrociato in cui è finito il Pd, con Casini da una parte e Di Pietro dall’altra che si chiudono le porte a vicenda. «Dobbiamo mettere in discussione anche il centrosinistra, non basta fare “fioretti”, promettere di non fare più le sceneggiate che abbiamo visto durante il governo Prodi. E non si devono usare i veti, non bisogna dire mai con Vendola, mai con Di Pietro, mai con Casini». Se si vuole veramente costruire un’alternativa, «il centrosinistra deve dire qualcosa di diverso sulla politica internazionale, la società, il lavoro, i diritti, e sulla base di questi programmi si potranno costruire le alleanze». E le primarie, per Vendola, costituiscono una tappa fondamentale di questo percorso.
Corriere della Sera 7.9.10
La disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola
Il Pd ha il suo «futurista», Chiamparino
di Paolo Franchi
Nel giro di poche ore abbiamo appreso dal discorso di Gianfranco Fini a Mirabello che il Pdl ormai non esiste più, e dalle anticipazioni de La Sfida, il libro di Sergio Chiamparino in uscita da Einaudi, che il Pd non esiste da un pezzo, ridotto com’è a «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati in via Sant’Andrea delle Fratte».
La coincidenza temporale di queste due affermazioni (oggettivamente clamorose, visto che Fini del Pdl è il cofondatore, e Chiamparino è l’unica personalità del Pd spendibile al Nord) è, si capisce, dovuta al caso. Quella politica forse no. Il presidente della Camera e il sindaco di Torino sono entrambi, se non proprio dei sostenitori del bipartitismo, dei bipolaristi più che convinti. Ma tutti e due pensano, non senza buone ragioni, che il bipolarismo italiano incardinato su questo Pdl e su questo Pd sta vivendo una crisi probabilmente senza sbocchi. A meno che (ma qui i loro ragionamenti si fanno più vaghi) i due partiti cardine del sistema non ritrovino la loro anima smarrita, o se ne diano finalmente una. È quasi inutile sottolineare che tanto Fini quanto Chiamparino si candidano a capitanare, ciascuno nel proprio campo, questa ricerca. Il primo sfidando nientemeno che Silvio Berlusconi. Il secondo preannunciando la sua candidatura alle primarie, e lasciando intendere, seppure a giorni alterni, la disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola.
Qui finiscono le analogie, e vengono in chiaro le (radicali) differenze. Una su tutte. Fini pensa, al di là delle feroci vicende quotidiane della politica, a un centrodestra prossimo venturo finalmente emancipato dalla (straordinaria) eccezionalità di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, pienamente (e convintamente) «costituzionalizzato», una forza di sistema e del sistema: gli applausi più caldi dei bipolaristi di centrosinistra (fesserie sul «compagno Fini» a parte) li prende proprio per questo. Chiamparino, invece, non sembra per niente convinto che questa destra italiana sia solo un’anomalia da normalizzare, una parentesi da chiudere per «ritornare allo statuto». Se il Pd «vive sempre in difesa» ma non tocca palla, e, per restare ai tempi più recenti, riesce a perdere tre elezioni in tre anni con tre differenti segretari e con alleanze diverse, qualche ragione ci sarà pure. La principale, per Chiamparino, è che, agli occhi di chi «vive fuori del giardino del Welfare e subisce i rischi del mercato internazionale del lavoro» (dunque: in primo luogo agli occhi del Nord), sinistra e centrosinistra sono la conservazione, il centrodestra, la destra rappresentano «la contestazione del sistema»: sono loro «che prendono il palazzo d’Inverno, noi siamo lo zar che difende i privilegi e ammassa i comò contro la porta nell’estremo e disperato tentativo di fermarli», o «i banchieri della Bce», o «i vigili urbani che danno la multa a chi lascia l’auto in doppia fila perché deve correre a prendere i figli a scuola». Certo, il centrodestra, la destra, di questa gente interpreta soprattutto le paure, proponendo «una protezione dal resto del mondo» che non potrà mai offrire. Ma il Pd, se un simile cambiamento nemmeno lo vede, e quindi non ha né un’idea né un leader per un’area che va dal Veneto al Piemonte, è dannato, più che alla sconfitta, a una desolazione senza fine.
Il linguaggio è tutto diverso da quello inutilmente rassicurante caro ai leader del Pd quando si concedono una pausa nella guerriglia interna: provocatorio, aggressivo, verrebbe da dire persino futurista. Questo centrodestra è in crisi, sì, ma bisognerebbe lo stesso andarci a scuola, per dare risposte diverse, naturalmente, ma senza eludere le domande. Si può fare? Forse sì, a patto, naturalmente, di cambiare in tutta fretta e radicalmente Dna (impresa non facile) e senza provocare (impresa ancora più ardua) ulteriori sfracelli nel proprio elettorato, al momento l’unico che c’è. Se riuscissero a farlo, il Pd e il centrosinistra avrebbero qualche chance di successo in più? Può darsi, anche se resta da spiegare perché gli elettori dovrebbero preferire l’imitazione all’originale, il «leghismo gentile» (la definizione, che a Chiamparino non spiace, è di Luca Ricolfi) al leghismo che c’è; e, più in generale, che cosa possa mai essere un «leghismo gentile». E il «popolo delle primarie», quello che domenica è rimasto appeso alla tv per non perdersi neanche un passaggio del discorso di Fini, gradirebbe? Questo è più difficile ancora, e lo sa anche il Chiampa. Che però stavolta le sue carte sembrerebbe averle giocate davvero. Proprio come Fini.
l’Unità 7.9.10
Incentivo alla natalità solo per genitori italiani A Travate si può...
Il pacchetto sicurezza 2008 comprende al suo interno un articolo che attribuisce ai sindaci nuovi poteri in materia di sicurezza urbana. Il risultato è che, a più di due anni dall’approvazione di quella legge, si sono moltiplicate delibere ordinanze e regolamenti che spesso, ahinoi, hanno il sapore di procedure di esclusione rivolte agli stranieri. Spesso quei provvedimenti sono totalmente ridicoli e dimostrano la fervida immaginazione di amministratori locali che sembrano sollevati dall’idea di poter finalmente dar sfogo alle proprie peggiori fantasie in materia di discriminazione etnica. Si va dalle restrizioni ai locali commerciali stranieri, come phone center e kebaberie, al rifiuto dell’abbonamento ai mezzi pubblici, dalle limitazioni per l’accesso alle graduatorie delle case popolari, ai divieti di affitto di locali in cui pregare.
L’ultima trovata l’ha avuta il sindaco di Travate (Varese) che, con chiari intenti di «conservazione dell’identità europea» (come da sua stessa ammissione), ha emanato la seguente leggina: «Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani». Come dire, in questi tempi di calo demografico, un bel premio a chi assicura la purezza della razza. Cittadini e associazioni sono insorti, ottenendo dal Tribunale di Milano una sentenza che definisce il provvedimento discriminatorio. Il comune di Tradate ha presentato ricorso contro questa decisione.
A noi non resta altro da fare se non aspettare che siano i Tribunali, in questa come in tante altre situazioni, a fare l’interesse dei cittadini, ristabilire l’equità e placare un po’, almeno un po’, le velenose bizzarrie di questi solerti sindaci.
Corriere della Sera 7.9.10
Maroni rilancia la linea francese: l’Europa agisca unita
di Fiorenza Sarzanini
PARIGI — Evita accuratamente di pronunciare la parola rom e lo stesso fa il suo collega francese Eric Besson. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, volato in Francia per un seminario sul tema dell’immigrazione, sa bene che è proprio questo il tema in discussione. E non si sottrae, anzi rilancia la linea già attuata da Parigi: «Bisogna espellere i cittadini comunitari che non rispettano la direttiva europea sul soggiorno nei Paesi membri».
Posizione forte che certamente non mancherà di provocare nuove polemiche proprio perché è ai nomadi che i titolari dell’Interno — all’incontro partecipano anche i colleghi di Germania, Grecia, Gran Bretagna, Belgio e Canada, tutti in cima alla lista delle richieste d’asilo — pensano quando annunciano di voler formalizzare la richiesta nella riunione a Bruxelles la prossima settimana. E perché questa mattina il titolare del Viminale affronterà la questione con il sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha già reso note le sue proposte: «Obbligare i Paesi di origine a fornire i precedenti penali creando una sorta di casellario europeo e introdurre il divieto di reingresso per i cittadini che hanno già subito un’espulsione».
Il documento cui si riferisce Maroni è la disposizione europea numero 38 del 2004 «che stabilisce la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione e regola in 3 mesi la permanenza di un cittadino comunitario all’interno di un altro stato membro». Ed ecco il problema posto dal ministro: «Chi non rispetta queste regole di fatto rimane impunito perché gli Stati non hanno gli strumenti per disporre l’allontanamento. Per questo ho già chiesto alla commissaria europea di prevedere sanzioni che servano a far rispettare le regole». In realtà la sanzione è solo una e Maroni la esplicita subito dopo: «Espulsione e rimpatrio». Vale a dire applicare il procedimento che già è previsto per gli extracomunitari.
Non a caso il titolare dell’Interno cita l’esempio della Libia «perché grazie all’accordo che abbiamo fatto con quel Paese siamo riusciti di fatto ad azzerare gli sbarchi» e quando un giornalista straniero gli chiede se intenda minacciare la Romania perché sono i suoi cittadini a non rispettare la direttiva risponde: «Noi non minacciamo nessuno, noi firmiamo trattati. Per questo ci appelliamo all’Unione europea affinché si arrivi ad una legislazione comune fra tutti gli Stati membri».
Maroni ha difeso energicamente le iniziative di Francia e Italia sostenendo di aver «incoraggiato l’esodo volontario di alcuni cittadini comunitari verso i loro Paesi dando loro una somma di denaro per consentire il rientro».
Non sfugge la scelta di procedere su una linea unitaria, anche per prevenire quelle che appaiono conseguenze inevitabili quando la linea dura viene messa in atto soltanto da alcuni Stati: migrazione verso il Paese confinante o comunque quello che ha una legislazione favorevole. Il timore neanche troppo velato è che i rom mandati via da Parigi possano decidere di trasferirsi in Italia. Besson assicura che «non c’è stata alcuna espulsione collettiva, ma è stato sempre rispettato il diritto francese e quello comunitario», però conferma la linea della fermezza. Tanto basta a far dilagare le proteste e le prese di posizione di chi ricorda che in passato l’allora commissario dell a Ue Jacques Barrot abbia già respinto analoghe richieste di sanzioni. L’asse italo-francese — con l’appoggio sicuro di Germania e Grecia — non sembra disposto ad arretrare.
l’Unità 7.9.10
Ore contate per Sakineh Il figlio: «Italia devi fare di più»
di Marina Mastroluca
Condannata alla lapidazione Il ragazzo, 22 anni: «Roma convochi il nostro ambasciatore»
Fine del Ramadan «La uccideranno venerdì». Frattini: l’Iran assicura, per ora nessuna esecuzione
«Grazie all’Italia ma non basta». Il figlio della donna iraniana condannata alla lapidazione chiede di più. «Si convochi l’ambasciatore». Timori di una possibile esecuzione alla fine del Ramadan, venerdì prossimo.
«Grazie all’Italia, grazie a tutti. Ma serve di più». Sajjad Ghaderzadeh parla con la forza della disperazione. Sua madre Sakineh Mohammadi Ashtiani è in isolamento da venti giorni, le visite si sono fatte più rade, più difficili. E la fine del Ramadan, venerdì prossimo, si avvicina come una minaccia: Sajjad teme che sarà questo il giorno dell’esecuzione, il giorno in cui sua madre verrà lapidata. «Il mese del Ramadan è alla fine e secondo la legge islamica le condanne possono di nuovo essere eseguite». Lo dice al telefono al filosofo francese, Bernard-Henri Levy, che sul suo sito ha raccolto 80.000 firme per salvare Sakineh. L’avvocato della donna, Javid Houtan Kian, nega che ci sia una data già fissata. Anche il ministro Frattini afferma di aver avuto assicurazioni da Teheran che «nessuna decisione è stata ancora presa». Ma ogni ora che passa, il filo che tiene in vita Sakineh sembra accorciarsi.
Per questo Sajjad chiede di più. «È importante, grazie di cuore all’Italia e a tutti quelli che si sono mossi in queste ore. Ma non basta. Gli Stati devono mostrarsi più esigenti e severi verso il governo iraniano, servono
passi solenni, come la convocazione dell’ambasciatore, o l’inasprimento delle sanzioni. Purtroppo con Teheran funzionano soltanto i rapporti di forza». Non solo solidarietà e appelli, ma passi diplomatici concreti, questa la richiesta del figlio di Sakineh che ha apprezzato la disponibilità del ministro degli Esteri Franco Frattini ad incontrare il collega italiano Mottaki, a margine dell’Assemblea generale Onu a New York nei prossimi giorni. «Se Mottaki accetterà potrà essere un passo efficace per ottenere la liberazione di mia madre», dice Sajjad. Nei giorni scorsi Frattini aveva sollecitato l’opinione pubblica a farsi sentire e il governo di Teheran ad un «atto di clemenza». Lo stesso appello è stato fatto ieri dall’Osservatore romano. «In molti scrive il giornale vaticano in un breve articolo nel pieno rispetto della sovranità iraniana chiedono al governo di Teheran di compiere un atto di clemenza». Il Vaticano di solito preferisce strade più silenziose che prese di posizione pubbliche e anche stavolta potrebbe essere così. Ma per chi come Sajjad aspetta aiuto, il segnale dovrebbe arrivare più forte.
99 FRUSTATE
Frattini, intervistato dal Tg1, assicura di aver già avuto «molteplici rapporti» con l’ambasciatore iraniano e di aver fatto pressioni a favore di Sakineh. A Teheran pur «rispettando» le posizioni italiane, non sono «stati contenti». Nessuna risposta finora neanche all’offerta del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che si è detto pronto ad andare a Teheran «se potrà servire» a salvare Sakineh. Kouchner ha anche auspicato che la Ue possa trovare una posizione comune, una voce per farsi sentire. Proprio ieri Maja Kocijancic, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, ha respinto le accuse di im-
mobilismo: «Abbiamo già sollevato la questione in molte, molte occasioni».
Ma «sollevare la questione» evidentemente non basta. «Bisogna fare presto», ha insistito ieri Bernard-Henri Levy convinto che le pressioni internazionali possano fare la differenza per Sakineh, spostando l’ago della bilancia nei difficili equilibri di potere a Teheran a favore di «quelli che sono pronti a trattare» contro chi ha fretta di chiudere la partita. Sakineh aspetta. Nel braccio della morte avrebbe già subito una condanna supplementare a 99 frustate, dopo la pubblicazione sul Times di una foto senza chador diffusa da Mostafei, con una mossa criticata senza mezzi termine dall’altro legale della donna. Non era lei, ma le è valsa l’accusa di indecenza. «La pena è stata eseguita dice il figlio di Sakineh -. Anche se le autorità del carcere non hanno voluto dirlo ufficialmente. Forse se ne vergognano».
l’Unità 7.9.10
4 domande a Shirin Ebadi
«L’Occidente non si fermi. Il regime deve fare un passo indietro»
di Maria Zegarelli
Shirin Ebadi, Nobel per la pace, esule dal suo paese l'Iran. Perché è costretta a questa continuo errare?
«Dal giugno del 2009, dalla repressione dei moti da parte del regime dopo le elezioni, non sono rientrata: non ci sono le condizioni per chi come me difende i diritti umani». Suo marito è stato arrestato, lo ha più sentito?
«È stato arrestato e torturato: quando era in carcere lo hanno costretto a leggere davanti alle telecamere un atto d'accusa contro di me e solo dopo lo hanno liberato. Ci ho parlato, gli ho detto: hai fatto bene, non devi morire. Ora spero lo lascino andare ma finora non ho buoni segnali».
Veniamo all'attualità: Sakineh rischia la lapidazione. L'Occidente alza la voce ma la reazione degli estremisti iraniani diventa sempre più aspra... «Non fatevi intimorire: la situazione di Sakineh non può essere peggiore di quella che è. L'Occidente non si faccia spaventare e continui, sono convinta che il regime sarà costretto a fare un passo indietro». Cosa bisogna fare?
«Protestare a voce alta, per Sakineh e contro le pene come la lapidazione: in Iran il codice prevede perfino la crocifissione e è stata introdotta persino la regola della vendetta. C'è un giovane uomo che sarà accecato con l'acido perché ha commesso la stessa cosa contro la ragazza che lo rifiutava. Ecco, il mondo deve chiedere che simili pene vengano abolite per sempre anche perché nel corano queste pene non sono scritte e chi si nasconde dietro la religione sa di mentire».
il Fatto 7.9.10
I volti di Sakineh
Il mondo mobilitato per l’iraniana condannata alla lapidazione. Ma la sua vicenda rimane incerta
di Stefano Citati
Il volto di Sakineh Mohammadi Ashtiani condensa da giorni l’intermittente solidarietà occidentale.
La donna iraniana condannata alla lapidazione smuove le coscienze e si moltiplicano le iniziative per salvarla. Ma il suo caso giuridico rimane opaco e le informazioni sulla vicenda giudiziaria incompleta. In buona parte per responsabilità delle autorità iraniane, ma anche per le voci non chiare e non univoche dei suoi difensori (l’avvocato rifugiatosi in Norvegia e uno dei due figli della 43enne che da Tabriz, città del Nord del Paese dove la madre è detenuta, continua a far sentire la sua voce, ma ha rotto i rapporti con il legale della madre). Sakineh nel 2005 è stata arrestata per una “relazione illecita”, fuori dal matrimonio e condannata a 10 anni di carcere e 99 frustate. Poi il suo caso sarebbe stato riaperto e condannata per adulterio, pena la lapidazione. Il suo amante in un primo tempo era stato condannato a morte per l’omicidio del marito; il giudice aveva poi invertito le condanne: lei incolpata per omicidio del marito e lui a 10 anni di carcere come amante della donna, confermando il diverso peso giuridico e sociale tra uomo e donna in Iran (e non solo).
Da quando il caso di Sakineh – a differenza dei molti altri passati sotto silenzio in questi de-
cenni di teocrazia islamica (pare 150 siano state le donne lapidate finora, e altre 150 in attesa di sentenza) – è diventato internazionale, la reazione della giustizia iraniana è stata prima quella di ignorare la pressione occidentale, poi quella di confermare la giustezza delle accuse (anche con un video, in cui la donna si autoaccusa, la cui autenticità lascia molti dubbi) e infine, in questi giorni spingendo verso la conclusione cruenta del caso: comminate altre 99 frustate e moltiplicazione delle voci di un imminente esecuzione (forse già venerdì) della condanna.
il Fatto 7.9.10
L’eccesso occidentale
di Massimo Fini
La mobilitazione internazionale a favore di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte per adulterio e complicità nell'omicidio del marito (i due fatti, se le accuse sono veritiere, sono, con tutta evidenza, collegati), sarebbe totalmente condivisibile se fosse stata centrata esclusivamente sulla modalità dell'esecuzione: la lapidazione. La lapidazione infatti va oltre la pena di morte, è una tortura. Una tortura, se si può dir così, a fuoco lento (le pietre non devono essere né troppo grosse, così da uccidere all'istante la condannata, né troppo piccole da non farle male). Ora, un uomo, in determinati e precisi casi, può essere lecitamente ucciso ma mai torturato o umiliato, tant'è che la tortura, almeno formalmente, non è legittimata in nessuno Stato del mondo nemmeno in tempo di guerra (anche se gli americani l'hanno usata a piene mani a Guantanamo – con l'ipocrito escamotage che era fuori del territorio degli Stati Uniti – e nel modo più sadico, ignobile e schifoso a Abu Ghraib dove è venuto a galla tutto il marciume morale della cosiddetta “cultura superiore”). Ma la mobilitazione internazionale, per meglio dire: occidentale, non contesta solo la lapidazione, ma anche la pena capitale inflitta alla donna e anzi la vuole “subito libera”. Davanti a una immagine di Sakineh che, per iniziativa del governo italiano, campeggia da tre giorni all'ingresso di Palazzo Chigi il ministro degli Esteri Franco Frattini e quello delle Pari opportunità Mara Carfagna hanno dichiarato “Finché Sakineh non sarà salva o libera il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano”.
ORA, LA PENA DI MORTE è in vigore anche in Paesi considerati campioni della civiltà, come gli Stati Uniti, e nessuno Stato lascerebbe a piede libero un assassino. Quanto all'adulterio è considerato un reato meritevole della pena capitale non solo in Iran ma in molti altri Paesi islamici che hanno una cultura e una morale diversissime dalle nostre soprattutto per quel che riguarda la famiglia. La domanda è questa: le sentenze di un Tribunale iraniano su fatti che quel Paese considera reati gravi sono ancora sentenze di uno Stato sovrano o devono essere sottoposte ai Tribunali popolari dell'Occidente? E può Sarkozy dichiarare che Sakineh “è sotto la protezione della Francia”? Allora sia coerente e dichiari formalmente guerra all'Iran in nome dei principi in cui dice di credere, invece di continuare a farci cospicui affari (la Francia è il secondo partner commerciale europeo dell'Iran, dopo l'Italia).
Questo il quadro di principio. Ma dietro i principi ci sono le persone in carne e ossa. In questo caso una giovane donna di 42 anni che rischia da un momento all'altro di essere giustiziata. È l'eterno conflitto fra pietas umana e la legge (dura lex sed lex dicevano i Romani), fra Antigone che, contro la legge, seppellisce il fratello Polinice in terra consacrata e il re Creonte che quella legge deve far rispettare e la condanna a morte. È l'eterno dilemma fra Libertà e Autorità così profondamente scandagliato da Dostoevskij nell'apologo de Il Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov.
L'IRAN NON HA ALCUN obbligo giuridico di fornire all'Occidente le prove che la sentenza del suo Tribunale è giusta, anche perché qui non ci troviamo di fronte a un oppositore politico ma a una persona accusata di reati comuni e non si vede quale interesse avrebbe mai la giustizia iraniana ad accanirsi arbitrariamente su di essa. Ma l'Iran è però un grande, colto e civile Paese, molto più civile di quanto lo facciano gli occidentali, e dovrebbe avere la sensibilità, anche politica, di capire che su un caso che è comunque sotto gli occhi di tutto il mondo ha l'obbligo morale di dare sulla reale colpevolezza di Sakineh informazioni maggiori e più trasparenti di quante ne abbia date finora, sen-
za per questo sentirsi diminuito nella propria sovranità, anche se sappiamo benissimo che questa vicenda viene strumentalizzata in funzione della tambureggiante campagna contro Teheran di Stati Uniti e Israele. Perché, a questo punto, un'esecuzione al buio sarebbe altrettanto inaccettabile di quella liberazione al buio che vorrebbero il ministro Frattini e Bernard-Henri Lévy.
il Fatto 7.9.10
Reazione necessaria
di Giampiero Gramaglia
S alvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia Saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata – non sempre con successo, anzi – per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper – uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne – o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas. Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di Paesi specifici: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che indignano più d’altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima dei talebani, in Arabia o Nigeria). Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione.
NELL’ISLAM si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri. Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph O’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
NEL CASO DI SAKINEH , la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi – ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione tv – si presume estorta, magari con la tortura. Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo “Libera subito”, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese. Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.
l’Unità 7.9.10
Zero fondi contro la fame
L’Onu striglia l’Italia
La coordinatrice della campagna per il Millennio: «Berlusconi non ha mantenuto le promesse Siete il fanalino di coda negli aiuti allo sviluppo»
di Umberto De Giovannangeli
Il Cavaliere-Pinocchio alla prova dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Alla prova degli impegni internazionali sbandierati e mai mantenuti. Di «maglie nere» accumulate. «L'Italia mantenga le promesse e rispetti l'obiettivo di medio termine per raggiungere quelli che sono stati definiti gli “Obiettivi del Millennio”». È l'appello lanciato dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite a poche settimane dal Summit Onu di New York sugli «Obiettivi del Millennio» convocato per fare il punto della situazione. «Mancano poco più di cinque anni alla scadenza dei cosiddetti “Obiettivi del Millennio” fissati nel 2000 nel corso del Vertice del Millennio dell'Onu. In quell'incontro ricordano gli organizzatori della Campagna ben 189 Paesi sottoscrissero la Dichiarazione del Millennio ponendosi precisi obiettivi: combattere la fame, la disparità fra i sessi, la mortalità infantile e le malattie, come Aids e malaria, e migliorare la salute delle gestanti, l'istruzione primaria, la qualità della vita, il rispetto dell'ambiente e raggiungere un lavoro dignitoso per tutti...».
Tra i firmatari c’era l’Italia. Con al Governo Silvio Berlusconi. Impegni mai realizzati. La Campagna del Millennio lamenta il mancato rispetto degli impegni presi dall'Italia e afferma che entro il 2010 il nostro Paese o avrebbe dovuto devolvere lo 0,51% del Pil mentre attualmente denuncia la Campagna Onu del Millennio l'Italia dona solo lo 0,1%. «L'Italia resta il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio – rimarca Eveline Herfkens, coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio -. Siamo davvero molto preoccupati per l'attuale tendenza al continuo ribasso degli aiuti allo sviluppo in Italia...L’Italia non ha agenzie né un apposito ministero per l'aiuto allo sviluppo, né tantomeno un dibattito politico su questi temi cruciali». Una tendenza al ribasso che era già stata segnalata dal documento elaborato dalla Commissione europea prima del vertice dei ministri dello Sviluppo tenutosi il 17 e il 18 febbraio in Spagna. La Commissione europea aveva elogiato Lussemburgo (1% del Pil) , Svezia (1,03%), Olanda (0,8%) e Danimarca (0,83%) per aver superato l’obiettivo dello 0,7% del Pil. Spagna (0,51%), Belgio (0,7%), Regno Unito (0,56%), Finlandia (0,55%), Irlanda (0,51%) sono sulla strada giusta e sono definiti attori chiave per far sì che l’Unione europea raggiunga i suoi obiettivi.
In base a recenti previsioni dell’Ocse, l’Italia (0,20%), insieme a Francia (0,46%), Germania (0,40%), Austria (0,37%), Portogallo (0,34%), Grecia (0,21%) è il Paese più lontano dal rispetto degli impegni presi per il 2010. Siamo al fondo del fondo. Triste fanalino di coda. Dati che attribuiscono al Cavalier Berlusconi l'Oscar del premier-Pinocchio, all'Italia quello della nazione peggior protagonista sulla scena europea quanto a impegni disattesi. A distanza di sette mesi dalla pubblicazione di quel rapporto, la situazione, quanto a impegni disattesi dall’Italia, è ancor più peggiorata. L’appello della Campagna del Millennio come il documento della Commissione europea supporta e arricchisce di ulteriori motivazioni la scelta compiuta negli scorsi mesi dal fondatore di Microsoft, Bill Gates di inserire l'Italia nella «Lista della Vergogna». «Nella comunità internazionale – aveva denunciato Gates c'è solo un Paese che ha ridotto gli aiuti allo sviluppo e questo è l'Italia». L'Italia – incalza ancora Gates – è un Paese «uniquely stingy» (particolarmente tirchio”). Una nuova maglia nera. Altro che «locomotiva» europea. L'Italia del Cavaliere rappresenta un pesante freno a mano.
Ancora più bassa la percentuale destinata in particolare agli aiuti sanitari dove l’Italia è ferma allo 0,025% del Pil contro lo 0,1% raccomandato dagli accordi internazionali. Berlusconi aveva promesso, durante la conferenza stampa conclusiva del G8 dell’Aquila ricorda Annalisa Stagni, Health advocacy officer di "Azione per la salute globale" di saldare la quota 2009, pari a 130 milioni euro,destinata al Fondo globale di lotta all’Aids, Tubercolosi e Malaria entro agosto scorso, alla quale sarebbero stati aggiunti ulteriori 30 milioni di dollari. Ma ad oggi non c’è traccia di nessuno di questi finanziamenti». «L’Italia inoltre si è impegnata a versare lo 0,7% del Pil in aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2015, ma come step intermedio nel 2010, cioè quest’anno, avrebbe dovuto versare lo 0,51% del Prodotto interno lordo. Purtroppo invece, dati del 2009 attestano l’Italia allo 0,17% e sottolinea salvo miracoli nei prossimi mesi, il nostro Paese resta fanalino di coda nelle statistiche sugli aiuti pubblici allo sviluppo». E ancora: « L’Italia ha versato appena lo 0,025% del Pil ponendosi agli ultimi posti, preceduta da Germania (0,030%), Francia (0,041%), Spagna (0,045%) e Gran Bretagna (0,058%), anch’esse comunque lontane dalla percentuale raccomandata.
Cinque anni fa, a Gleneagles, ricordano Oxfam e Ucodep i leader del G8 si impegnarono ad aumentare gli aiuti ai Paesi del Sud del mondo di 50 miliardi di dollari (40 miliardi di euro) entro il 2010. Di questi, 25 miliardi di dollari (20 miliardi di euro) sarebbero andati all’Africa. Tuttavia, il G8 registra un ammanco di 20 miliardi di dollari (16 di euro). L’Italia è il fanalino di coda del G8 in materia ad aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ed è il Paese che più di tutti ha tradito le promesse fatte a Gleneagles. In seguito ai ripetuti tagli alla cooperazione allo sviluppo, infatti, l’APS italiano ha registrato nel 2009 un calo complessivo pari al 31%. «L’impegno finanziario italiano è ormai sceso ai suoi minimi storici rimarca l’ultimo rapporto Ocse . L’ultimo taglio degli stanziamenti ammonta al 56%, mettendo di fatto in ginocchio la cooperazione pubblica bilaterale. Attualmente le possibilità discrezionali italiane su come spendere i soldi sono ridotte al minimo visto che i quattro quinti delle risorse sono dovute ad impegni già presi, in particolare per i contributi obbligatori verso le agenzie internazionali. Nel 2010 l’APS italiano sarebbe dovuto essere dello 0,51% del Pil, invece non supererà lo 0,19%. E per gli anni a venire la manovra del Governo prevede tagli ulteriori.
Corriere della Sera 7.9.10
Grossman si confessa: «Tentato di lasciare Israele»
Lo scrittore: «Ci ho pensato e ci penso ancora, ma lo farò solo quando scomparirà la democrazia»
di Francesco Battistini
GERUSALEMME — Il venerdì, lui c’è. Quasi sempre. Da mesi. A Gerusalemme Est, David Grossman non si perde i sit in davanti alle case del quartiere arabo di Sheikh Jarrah. Una protesta pacifica, cartelloni e slogan contro lo sgombero di alcune famiglie palestinesi. Un gruppetto di pacifisti testardi, molti che arrivano apposta dall’Europa. Qualche settimana fa, per ripararsi dal caldo, Grossman è arrivato vestito di nero alle solite tre del pomeriggio e s’è seduto su una panchina, sotto un grande ulivo. Stanco. Nessuna voglia di parlare. Per l’afa soffocante, per la delusione che da un po’ gli soffoca le parole: «Non chiedetemi niente. Mi sembra di ripetere certe cose da cent’anni...».
A un cerbiatto somiglia il suo dolore. Un cerbiatto in fuga. Lo scrittore è stanco. Lo confidava da un po’ di tempo, in privato. L’altra sera, a Londra, dove in questi giorni si trova per promuovere una nuova edizione inglese del suo ultimo libro, per la prima volta ha deciso di rendere pubblico il suo disagio.
D’intellettuale. D’israeliano. Dice d’avere una «tentazione» forte: «Ho soppesato l'idea di lasciare Israele e devo riconoscere che la tentazione c’è sempre». Lo sfogo è arrivato in un’intervista a una tv inglese, Canale 10: «Parte della tragedia degli ebrei come individui, ma anche come collettività, è che non abbiamo mai trovato una vera casa nel mondo. Oggi, abbiamo Israele. L’abbiamo da 62 anni. E non è la patria che pensavamo sarebbe stata». C’entra l’ultima disillusione, ovviamente, su negoziati di pace destinati — pure nella visione di Grossman — alla galleria delle inutili cerimonie: «Non sono sicuro che i nostri due leader, quello israeliano e quello palestinese, siano tanto coraggiosi da fare i passi giusti per raggiungere la pace. Dopo cent’anni di morte, forse abbiamo perso il momento giusto». Il disagio però va oltre e riguarda, più che l’inconcludente agenda del domani, la paura del dopodomani: «Sì, ho sempre pensato di poter abbandonare questo Paese e questa possibilità c’è sempre. Ma so che me ne andrò solo quando Israele smetterà d’essere una democrazia».
È un’inquietudine che Grossman spiegò già nel 2006, l’anno di Uri, il figlio ucciso in un tank mentre combatteva in Libano: «La nostra famiglia — disse nel commovente ricordo del ragazzo —, questa guerra in cui sei rimasto ucciso, l’abbiamo già persa... Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi, ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi». «Dopo il lutto — dice ora lo scrittore —, io sono tornato subito a scrivere. Quel che è cambiato, è solo la consapevolezza di ciò che significa perdere un figlio. E la consapevolezza della realtà in cui viviamo».
Questa consapevolezza divide. E imbarazza. Perché viene da un uomo di sinistra che non ha mai esitato a condividere le fondamenta d’Israele. Qualche giorno fa, Grossman ha aderito al boicottaggio culturale degl’ intellettuali che si rifiutano di partecipare a dibattiti nelle colonie. «E allora — ha replicato un opinionista di destra —, non dovrebbe più vendere nei Territori palestinesi nemmeno i suoi libri. Perché non succede?». Adesso, arriva il commento d’un falco delle colonie come Noam Arnon: «Grossman se ne vuole andare? S’accomodi. Capisco il ragionamento che lo porta a questa conclusione. Questi scrittori vivono dentro la Linea Verde e si sentono nel giusto. Dimenticano che la guerra dei Sei giorni non fu voluta da Israele, e che le colonie nacquero allora. Dimenticano che Israele si fonda su quelle cose in cui loro non si vogliono più riconoscere. È gente che si costruisce un’idea di mondo completamente scollata dalla realtà». C’è chi capisce, però: «Per andarsene, David non deve aspettare che in questo Paese finisca la democrazia — dice Jonatan Gefen, scrittore e nipote del primo presidente israeliano Weizman —. Anch’io ho provato ad andarmene, più d'una volta. Ma non ci sono mai riuscito. Se un giorno si presentasse la possibilità, credo che Grossman non sarebbe l’unico a farlo».
il Fatto 7.9.10
Prescrizione, una festa per tutti
Quali processi richiedono un sacco di tempo per arrivare a giudizio? Ma è ovvio, quelli che hanno un excursus breve, altrimenti B&C in quale modo si salverebbero dalla galera?
di Bruno Tinti
B&C continuano a pretendere il “processo breve”, si dice per evitare a B. la condanna per corruzione dell’avv. Mills. Anche se sanno tutti che di prigione non se ne parla: dopo pochi mesi dalla pronuncia della sentenza il reato sarà prescritto.
Questa “soluzione” (già ampiamente sfruttata da B.) è quella abitualmente ricercata dalle difese: i tempi dei processi sono così lunghi che arrivare a una sentenza di condanna è praticamente impossibile. Sotto questo profilo, dunque, il “processo breve” esiste già.
Praticamente impossibile... Ma quanti sono davvero i processi che si prescrivono? Questo veramente nessuno lo sa: l’amministrazione giudiziaria non ha uno strumento statistico che possa fornire questo dato; e, soprattutto, non è tecnicamente possibile prevedere quanti dei processi pendenti si prescriveranno. Questo perché la prescrizione dipende da situazioni processuali imprevedibili: un furto pluriaggravato si prescrive in 12 anni e mezzo; ma, se vengono concesse attenuanti e se queste sono considerate prevalenti sulle aggravanti, ecco che il termine di prescrizione scende a 7 anni e mezzo; e così, magari in Appello o in Cassazione, la precedente sentenza di condanna diventa una sentenza di “assoluzione” per prescrizione. Così è successo a B. in uno dei suoi processi: condannato in primo e secondo grado per corruzione, è stato assolto in Cassazione perché, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, il reato era prescritto. Non si può sapere dunque quanti processi si chiuderanno con la prescrizione; ma si può sapere quali. Ogni anno il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il ministro della Giustizia spiegano ai cittadini, quando inaugurano solennemente l’anno giudiziario (con cerimonie che somigliano sempre più a un funerale), qual è la durata media del processo penale. Attenzione, la parola chiave è “media”: alcuni processi si concludono prima e altri dopo: la media è 7 anni e mezzo. I processi più rapidi sono quelli semplici, per i quali non occorrono indagini complicate; e quelli più lenti sono i processi complessi. Giusto. Quindi, si potrebbe pensare, i termini di prescrizione tengono conto della complessità dei processi. Sbagliato. I termini di prescrizione non dipendono dalla complessità delle indagini ma dalla pena prevista per il reato: più è alta, più lunghi sono; per dire, l’omicidio si prescrive in 30 anni, il traffico di droga in 25, una rapina, un’estorsione, uno stupro, in 12 anni e mezzo; ma la truffa, la corruzione, la frode fiscale, il falso in bilancio, l’infedeltà patrimoniale, si prescrivono in 7 anni e mezzo. In effetti, tutti i reati puniti con una pena inferiore a 6 anni si prescrivono in 7 anni e mezzo; e, guarda caso, la quasi totalità dei reati cui la classe dirigente del nostro Paese è tanto affezionata sono puniti con una pena inferiore ai 6 anni.
Quel sogno della mancata condanna
ORA, SE I PROCESSI semplici, quelli che si possono concludere entro il termine di durata media del processo, coincidessero con quelli che si prescrivono in 7 anni e mezzo andrebbe tutto bene. Nessun processo si prescriverebbe: quelli semplici si concluderebbero prima della scadenza del termine di prescrizione e quelli complessi, che richiedono più di 7 anni e mezzo per essere definiti, avrebbero termini di prescrizione più lunghi. Solo che non c’è nessuna relazione tra pena prevista (e conseguente termine di prescrizione) e complessità del processo. Un traffico di droga, dopo un annetto di intercettazioni telefoniche, è un processo che si chiude in poche udienze; in un processo per omicidio, quasi sempre, o non si trova il colpevole oppure lo si individua dopo poche settimane; gli autori di una rapina, quasi sempre, sono arrestati mentre la stanno facendo o poco dopo. Insomma i processi per i reati puniti più gravemente sono spesso quelli più brevi. Per questi reati un termine di prescrizione lungo è inutile; tanto i relativi processi si concludono in fretta. E quali invece richiedono un sacco di tempo? Ma è ovvio, quelli che hanno una prescrizione breve, sennò B&C come si salverebbero dalla galera? In questi processi la linea d’indagine è sempre e solo una: seguire i soldi. Da dove vengono i soldi pagati al corrotto? E di chi erano? E questo dove li ha presi? È così che si indaga, da una banca all’altra, da una società all’altra, da una persona all’altra. Ma naturalmente è complicato. La prima banca magari è in Italia e qui si fa relativamente in fretta: i soldi vengono dalla Svizzera o da Montecarlo. A questo punto cominciano le rogatorie; e, se si scopre che i soldi arrivano da un’altra banca che sta alle isole Cayman, le cose si fanno difficili. E poi c’è il problema delle società e delle persone che le rappresentano; magari si tratta della donna delle pulizie e di suo marito; e questa società ha il solo compito di trasmettere la corrispondenza a un’al-
tra società che ha sede in un altro paese e che fa capo a un importante studio di commercialisti o di avvocati. Insomma, quando si è finito di accertare tutto questo, quanti anni sono passati? E, per finire, non è che questi reati si scoprono subito, come avviene per un traffico di droga o un omicidio. Qui c’è il morto, lì c’è un pusher che parla, le indagini cominciano immediatamente. Ma, per i reati di B&C bisogna aspettare che un commercialista inglese si senta chiedere da un avvocato che si è fatto corrompere con circa mezzo milione di dollari come deve regolarsi fiscalmente con questa somma (!); e che il commercialista in questione, indignato, denunci il fatto alle competenti autorità (!!!) Magari passano un paio d’anni; ma la prescrizione comincia a decorrere da quando l’avvocato si è preso i soldi.
E così, quando matura la prescrizione, il processo è arrivato sì e no in primo grado e restano ancora Appello e Cassazione. Alla fine c’è da chiedersi: ma perché B. ci tiene tanto a non farsi dichiarare colpevole di corruzione dell’avv. Mills?
In Appello il reato sarà prescritto; e lui si è già beccato tre “assoluzioni” per prescrizione, una per corruzione, una per finanziamento illecito e una per falso in bilancio; una più, una meno... Vale la pena di ammazzare tutti i processi penali italiani solo per questo?
Repubblica 7.9.10
Memorie di un ebreo laico
Ritratto dell´Italia attraverso una vita
di Eugenio Scalfari
Partecipa alla fondazione di "Repubblica", dirige "L´Europeo" e poi torna al quotidiano
Mario Pirani ha raccolto in "Poteva andare peggio" la sua biografia. Da Venezia al Pci, dall´Eni al giornalismo
Un lungo racconto che inizia nei dorati anni Trenta e che incrocia personaggi drammatici come Mattei
Qualche tempo fa ho recensito un libro di Alfredo Reichlin intitolato Il midollo del leone superando dentro di me la difficoltà di parlar bene dell´opera d´un caro e vecchio amico. Quel libro, che univa insieme storia politica e vicende personali, era molto piaciuto e l´amicizia non credo abbia fatto ombra all´oggettività del giudizio.
Mi accingo ora ad affrontare un compito un poco più arduo: l´autore del libro del quale oggi voglio scrivere, e che si intitola Poteva andare peggio (Mondadori, pagg. 440, euro 20), non è soltanto un amico ma anche un collega che fu tra i fondatori di Repubblica, ci lasciò dopo tre anni, ritornò dopo altri sei e da allora è sempre rimasto con noi. «Ritorno a casa», si intitola l´ultimo capitolo del volume di Mario Pirani; questo giornale è stato dunque la sua casa e a me fa grande piacere sentirglielo dire anche se accentua la difficoltà di recensirlo col dovuto e oggettivo distacco.
Prometto ai lettori che ce la metterò tutta per esprimere un giudizio compiuto e motivato, ma era mio dovere avvertirli affinché prendano essi stessi le loro misure. E comincio subito col dire che il libro è bello quanto insolito.
Anche questo, come quello di Reichlin, mette insieme la storia del paese e la biografia dell´autore, ottant´anni raccontati con una prosa scorrevole, molto più da romanzo che da saggio. Descrive personaggi, vicende, episodi, passioni, amori, intrighi politici, strategie imprenditoriali. Su questo lungo percorso che ha il suo inizio negli anni Trenta dello scorso secolo incombe la personalità dell´autore che porta dentro di sé un deposito culturale di ebraicità e insieme di laicità che hanno profondamente connotato le sue scelte, i suoi comportamenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie. Insomma la sua vita, gli elementi di forza e quelli di debolezza.
L´esergo del libro è una frase di Camus che privilegia il dialogo rispetto al combattimento. In realtà Camus dialogò combattendo con gli scritti, con i pensieri e con l´azione. Pirani, anche lui ha dialogato combattendo ma il "combat" l´ha subito, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stato una sua libera scelta.
Il libro descrive il nucleo dominante di questa vicenda e della personalità del protagonista: un ebreo laico, tanto più ebreo perché laico e tanto più laico perché ebreo. Chi per tanti anni l´ha avuto compagno di lavoro giornalistico, quella sua duplice dominante l´ha vista all´opera e può dunque testimoniarne l´autenticità.
* * *
La prima parte ha inizio con l´autore bambino e si chiude con i suoi vent´anni, alla fine dell´adolescenza: il decennio degli anni Trenta e gli anni della guerra fino al 1946, con l´approdo al Partito comunista italiano.Sono le pagine più vive, più innocenti, nelle quali la gioia di vivere propria dell´età infantile è rafforzata dagli agi di cui gode la famiglia del protagonista, la madre bellissima ed elegante, il padre al vertice d´una prestigiosa carriera di amministratore della società Ciga, proprietaria di grandi alberghi a Venezia, a Roma, a Firenze. L´ambiente e l´aria che vi si respira sono quelle dell´età del jazz, entrato in Italia e a Venezia in particolare dalla fessura aperta dal giovane Galeazzo Ciano e dal suo gusto di frequentare le famiglie di grande lignaggio per notorietà o per ricchezza e potenza del "business".
È in questi luoghi di opulenza che i Pirani vivono quegli anni, in una società separata dal resto di un´Italia chiusa in se stessa, immiserita dall´autarchia oltre che dalla crisi economica mondiale, confinata nel suo provincialismo, nel suo "dopolavorismo" di regime, nel suo mediocre obiettivo di potere avere "mille lire al mese" di stipendio.
Le canzoni dell´epoca sono lo specchio più verace di quell´Italia piccolo-borghese e il contrasto è perfettamente raccontato e vissuto dal bambino di otto anni che frequenta con i genitori il Lido, le lussuose tende che costellano la spiaggia, gli spettacoli della Fenice, i caffè di San Marco e dei campielli di Dorsoduro.
Passano gli anni e affiorano le prime pulsioni erotiche che l´autore racconta con disarmante e pruriginosa innocenza, i primi vestiti da ometto, le musiche americane che fino all´inizio degli anni Quaranta riuscirono a filtrare attraverso le colonne sonore dei film in concorso alla Mostra del cinema, Armstrong e Gillespie invece di Rabagliati e di Natalino Otto, Dino Grandi e il conte Volpi anziché Starace e i gerarchi del Foro Mussolini.
Ma d´improvviso il tono del racconto cambia e da deliziosamente futile e leggero diventa cupo e drammatico: le persecuzioni razziali, la guerra, il trasferimento a Roma e poi in Abruzzo di paese in paese, mentre aumentano la paura e le ristrettezze economiche, i bombardamenti, le deportazioni. Insomma il nazismo in tutta la sua orrenda crudeltà che il bambino degli anni dorati vive da adolescente braccato, accanto ad una madre ormai sfiorita e un padre costretto a fuggire in Francia sperando di potersi nasconder meglio a Parigi che non nelle montagne inospitali della Maiella.
Infine la liberazione, l´arrivo della divisione polacca che combatteva con l´Ottava armata di Montgomery, il ritorno a Roma e la scelta del giovanissimo protagonista di iscriversi al Partito comunista.
Scelta obbligata? No, perché le abitudini e l´aria che circolava in quella famiglia erano cosmopolite, occidentali, liberali. E tuttavia l´ebreo errante che viveva dentro la corteccia di quel giovane aveva bisogno di un approdo solido, d´un rifugio sicuro, di certezze protettive. Un bisogno di assoluto che gli consentiva di avanzare, assumere responsabilità e poteri di comando. Obbedire per poter comandare.
Questa è la motivazione reale di quella scelta. Pirani non la confessa perché le sue motivazioni razionali sono diverse, ma il racconto così radicalmente e candidamente sincero conduce chi lo legge a questa conclusione che lo impigliò, come piccolo funzionario prima e poi come dirigente, dentro le maglie dell´ideologia ma soprattutto in quella sorta di tagliola psicologica dell´obbedire per comandare che emerge dalle pagine del libro. In particolare da quelle, coloritissime e godibilissime, del Festival della gioventù a Praga, pieno di impreviste peripezie, dove il gregario svela una vocazione di leader che spesso lo conduce a passi arrischiati cui seguono richiami all´ordine e ricerche di nuove amicizie politiche dentro la complessa struttura del centralismo comunista.
Racconti analoghi li scrisse Enzo Bettiza che fece analoga esperienza sulle terre della sua Istria, ma l´ambiente era diverso, diverse le dinamiche e soprattutto le personalità dei due protagonisti.
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I fatti d´Ungheria portarono rapidamente Pirani fuori dal Pci insieme a Fabrizio Onofri e ad Antonio Giolitti. La coscienza liberale non poteva accettare una ferita così palese e un tradimento allo spirito democratico che il partito di Gramsci aveva promesso ai giovani che erano entrati nel ´45 nelle sue file, motivati dall´antifascismo e dalla Costituzione repubblicana.Mario però non entrò, come altri suoi compagni fecero, nel Partito socialista. Aveva maturato, dopo l´iniziale infatuazione, un´idiosincrasia verso i partiti. Non verso la politica, che è sempre rimasta la sua passione dominante, ma verso ideologie che sconfinavano nell´utopia di futuribili inconcreti.
L´amico Giorgio Ruffolo, che dirigeva da tempo il servizio delle comunicazioni esterne dell´Eni, gli propose di affiancarlo con il mandato specifico di coltivare i rapporti con il Fronte di liberazione algerino. Gli presentò Enrico Mattei. Il colloquio con il capo dell´Eni è una delle pagine più avvincenti del libro. Fu assunto e cominciò la mattina dopo. Gli fu offerta la "stazione" che l´Eni aveva aperto in Tunisia e da lì, per alcuni anni, fu lui a tessere la rete con gli algerini affrontando i rischi d´un compito clandestino e avventuroso
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Enrico Mattei morì nel 1963. Le circostanze sono note anche se una versione univoca dei fatti ancora non c´è stata, tra la tesi dell´incidente e quella dell´omicidio premeditato. Mi è sembrato di capire che Mario propenda più per la seconda che per la prima. Comunque la scomparsa di Mattei faceva comodo a molti nel mondo politico, in quello dei servizi segreti, nella mafia, in Francia, in Israele, in America, in Gran Bretagna.Con la sua scomparsa molte cose cambiarono nella Dc e all´interno dell´Eni. Spuntava la procellosa stella di Eugenio Cefis. Pirani era stato troppo intimo del fondatore dell´Eni per continuare con il suo successore. Fu invitato a restare ma si rese conto che era un invito a fior di labbra e preferì farsi trasferire al Giorno dove ebbe inizio la sua stagione giornalistica che dura tuttora.
Ha passato quarantasette anni, più di metà della vita in questa professione, ma ad essa dedica poco spazio. In realtà il suo libro-diario si ferma con la morte di Mattei. Ciò che viene dopo è annotato con pochi tratti di penna, quasi per pura completezza d´informazione, salvo due vicende. Una, privata e sentimentale, il suo rapporto amoroso con Barbara Spinelli; l´altra la direzione de L´Europeo che gli fu affidata dall´editore Rizzoli con la malleveria politica di Claudio Martelli e del Psi. Correva l´anno 1979, Pirani lasciò Repubblica per tentar la sorte con quel settimanale che era stato fondato tanti anni prima da Arrigo Benedetti ma che non aveva più niente a che vedere con quel glorioso passato.
Ci restò pochi mesi, la sua uscita coincise con l´arrivo della P2 al Corsera e a quel che ne seguì. Francamente mi riesce difficile capire il perché del sostanziale silenzio dell´autore su un arco di anni così ricco anche per lui d´incontri e di tumultuose vicende giornalistiche, politiche, economiche, culturali. Faccio solo pochi nomi che esercitarono grande influenza su quel periodo e dei quali Pirani si occupò come giornalista, editorialista e scrittore: Fanfani, Moro, Andreotti, Gianni Agnelli, Guido Carli, Nenni, Craxi, Romiti, Cefis, Cossiga, Berlinguer, Berlusconi, D´Alema, Veltroni, Fini.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere e Pirani ne ha scritto ininterrottamente, ma in questo suo libro non ce n´è praticamente traccia. Credo che il motivo di questo silenzio riguardi un problema di distacco. Molte di quelle vicende sono ancora in corso e l´autore deve aver pensato che gli mancasse la lontananza necessaria per filtrarle con la lente della memoria, dell´ironia, del racconto e infine di quella realtà romanzata e romanzesca che è il pregio delle autobiografie. Ed è infatti il pregio di questo libro che il riserbo su fatti ancora troppo caldi ha salvaguardato.
Repubblica 20.8.10
Curarsi con l' Lsd, la medicina ci (ri)prova
di Elena Dusi
ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l' Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l' acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l' uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore. «Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell' umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell' ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l' autocoscienza, facilitano l' accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia. Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L' Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent' anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l' acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segalee lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l' Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile». Gli "psichedelici" anni ' 60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d' arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l' effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l' arma antica degli allucinogeni. L' Lsd, scrive,è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell' umore - scrive lo psichiatra - contro le 23 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi. La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharmaèa corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell' università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.
Repubblica 13.8.10
Ricerche truccate e Harvard sospende l' uomo delle scimmie
di Nicholas Wade
L' origine della moralità sta creando grossi problemi a Marc Hauser, il noto studioso dell' università di Harvard autore di un libro sull' argomento e sospeso dopo un' inchiesta interna legata proprio alle sue ricerche. Hauser, che si è specializzato nello studio comparato della mente umana e di quella degli animali, è autore del noto libro Menti morali. Le origini naturali del bene e del male. Jeff Neal, portavoce di Harvard, all' inizio non ha confermato né che Hauser sia in aspettativa né che l' università ha condotto un' indagine. La segreteria telefonica del laboratorio del professore, però, fa sapere che lui sarà in aspettativa fino ad autunno. In un articolo pubblicato dalla rivista Cognition nel 2002, Hauser e altri autori sostenevano che le scimmie tamarino edipo fossero in grado di apprendere alcune regole, analogamente a come le apprendono i bambini. La rivista scientifica ora sta per pubblicare una rettifica specificando che un riesame interno del paper dell' Università «ha riscontrato che i dati non corroborano le scoperte vantate» e che pertanto, Cognition «ritratta quell' articolo». «Marc Hauser», prosegue la rettifica, «si assume la responsabilità dell' errore». Il silenzio di Harvard suscita preoccupazioni anche tra altri ricercatori nel campo che temono un discredito generalizzato finché i fatti non saranno stati chiariti. «A mio avviso, Harvard deve rendere pubblici i risultati della sua indagine», dice Herbert Terrace, professore di psicologia presso la Columbia University. «Stando all' Università, essa sta agendo così per proteggere se stessa e Hauser, ma non sarebbe meglio proteggere invece tutto quest' ambito di studio?». Hauser è uno degli studiosi di Harvard più noti,è citato frequentemente in altri articoli scientifici che trattano del linguaggio, delle capacità cognitive degli animali e delle basi biologiche della moralità. Nel suo campo è considerato un luminare. Nel suo libro del 2006, Menti morali, Hauser sosteneva che nella mente umana, a livello genetico, è presente una grammatica morale universale, analoga alla grammatica universale con la quale Noam Chomsky spiega il linguaggio. Hauser sta attualmente lavorando a un altro libro, Evilicious: Why We Evolved a Taste for Being Bad, che analizza come l' uomo abbia sviluppato una propensione alla malvagità. Il professore di Harvard è uno scrittore prolifico e persuasivo. Il suo errore in questa ricerca sembra riguardare gli esperimenti, molti dei quali basati su riprese di scimmie tamarino edipo dalla chioma bianca. Per un essere umano, tuttavia, è facile individuare nelle risposte degli animali, delle scimmie in questo caso, ciò che egli vuole vedere e di essere quindi tratto in inganno dagli animali. Terrace riferisce che è da un certo tempo che sono sorti dei problemi con il lavoro di Hauser: «Innanzitutto c' è stata un' interpretazione arbitraria delle riprese video per far sì corroborassero l' ipotesi. Il secondo problema riguarda la validità dei dati. Molti dei suoi lavori si basano su riprese video che ora devono essere nuovamentesottopostea valutazione per accertare la validità dei dati». A quanto riferisce un articolo pubblicato da The Boston Globe martedì, lo studioso Gordon G. Gallup Jr. della State University di New York ad Albany, che aveva chiesto a Hauser il materiale video nel quale, secondo il ricercatore di Harvard, i tamarini edipo dalla chioma bianca si riconoscevano in uno specchio, dopo averlo analizzato non aveva trovato prove di tale comportamento. Un altro dei paper che presenta dei problemi è quello pubblicato da Science magazine nel 2007 sulla capacità dei tamarini, dei macachi rhesus e degli scimpanzé di intuire le intenzioni delle persone. A giugno la redazione ha ricevuto a una lettera del coautore senior della ricerca. In essa, Justin Wood, dell' Università della California del Sud, scrive che, dopo che Harvard nel suo riesame dell' articolo non aveva trovato allegati né delle note sugli esperimenti sul campo né altri dati legati alla ricerca in merito alla parte sul macaco rhesus, lui e Hauser avevano ripetuto l' esperimento arrivando gli stessi risultati, mentre non c' erano stati problemi con i dati riguardanti i tamarini e gli scimpanzé. In autunno, quando si concluderà l' aspettativa, Hauser potrebbe riprendere in pieno la sua attività a Harvard, ma le nuvole che si sono addensate sui suoi esperimenti, tuttavia, non spariranno probabilmente finché non saranno state chiaritela naturae l' entità del problema. «Gli studenti non sono proprio soddisfatti di come Harvard sta gestendo la faccenda: hanno la sensazione che l' Università stia spazzando i problemi sotto il tappeto». ©The New York Times La Repubblica Traduzione di Guiomar Parada
Repubblica 11.3.08
Nel peccato originale la coscienza dell' uomo
di Eugenio Scalfari
Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell' albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell' Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza. Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all' inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato - non cancellato - e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio. Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest' affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l' assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell' al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta. Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l' ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione? Dov' è la bilancia della giustizia? Dov' è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all' Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. è la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato. Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell' uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto. Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch' io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l' innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto. Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all' Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l' Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall' animalità. Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari. Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell' albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio. La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l' atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all' accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo. Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l' abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. è possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un' idea assai mediocre e bislacca della modernità. Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto. Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni. Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l' erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana. Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell' uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l' Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l' Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello. Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l' Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza. La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. è oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. è colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l' assume. Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un' innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto. <* * * & Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti? Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l' altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento. Dunque siamo liberi, almeno stando all' insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell' insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell' Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio? Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l' uomo, ma è pur vero che anche l' uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell' inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell' «es» per distinguerla dall' io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all' interno dell' individuo. L' io non è una figura psichica separata dall' «es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l' io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l' istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini. Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l' intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi. La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell' individuo e quella della specie, l' egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l' individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto. Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell' egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate. Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.