martedì 7 settembre 2010

l’Unità 7.9.10
Bersani: «Il premier riconosca la crisi e si affidi al Colle»
«Qualsiasi ennesimo tentativo di coprire la situazione con pezze a colori non potrebbe nascondere la crisi politica del centrodestra», dice Pier Luigi Bersani.
Il segretario del Pd commenta così l’incontro tra il premier Berlusconi e il leader della Lega Bossi fissato all’indomani del discorso di Fini a Mirabello: «Il rischio vero che abbiamo davanti è che questa crisi la paghi il Paese, a fronte di politiche di governo fino a qui inefficaci e da domani completamente impotenti. Meglio prendere la strada maestra e riconoscere la crisi politica, affidandosi
come la Costituzione richiede al Presidente della Repubblica e al Parlamento».
Domenica a caldo, dopo il discorso di Fini, il segretario del Pd aveva commentato: «Il problema è che il Paese non può subire traccheggiamenti». Per Bersani non va bene «il gioco del cerino», perchè «ci sono problemi seri di cui la politica non riesce a parlare». Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui» riferendosi a Gianfranco Fini i «Fini andava avanti il segretario oggi ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Per questo l’invito, rinnovato, a salire al Colle e affidare la crisi nelle mani di Napolitano.

l’Unità 7.9.10
Vendola chiama i suoi a raccolta: «Entro novembre le primarie»
Ieri riunito il vertice di SeL. Il governatore: «Le consultazioni dovranno servire a scegliere il candidato premier e a costruire l’alternativa» Nuovo Ulivo? Temo sia un’allenza di conservatori
di Simone Collini

Primarie del centrosinistra entro novembre, a prescindere da come andrà avanti la crisi aperta nel centrodestra e se si voterà o meno tra l’autunno e la primavera. Nichi Vendola riunisce a Roma i vertici di Sinistra ecologia e libertà, e la proposta che viene lanciata a Pd e soci è di fissare fin d’ora la data di una consultazione che, per dirla col coordinatore di Sel Claudio Fava, «dovrà servire a costruire un processo politico e rappresentare quali sono i nostri contenuti, valori, meriti politici, non solo a scegliere il candidato premier».
«Mentre seppelliamo il berlusconismo, il centrosinistra apra il cantiere dell’alternativa al berlusconismo», dice Vendola senza mostrarsi troppo entusiasta della proposta del «nuovo Ulivo» lanciata da Pier Luigi Bersani: «Non sono innamorato delle dispute nominalistiche, mi interessano le cose concrete. Io ho paura che si possa mettere in piedi un’alleanza di conservatori, che il vecchio ceto politico del vecchio centrosinistra finisca per concentrarsi sulla propria rendita di posizione».
Il leader del Pd vuole incontrare il governatore pugliese nei prossimi giorni per discutere i contorni della proposta, ma a quell’incontro Vendola si presenterà con una sua controproposta: fissare entro i prossimi 100 giorni la data delle primarie che, sottolinea lui che è stato il primo a scendere in pista per questa competizione, sono «una necessità assoluta»: «Non un capriccio di Vendola, di Veltroni o di Chiamparino. E nessuna oligarchia può togliere il potere agli elettori. C’è qualcuno che guarda alle primarie come una specie di male da evitare, invece per me la partecipazione popolare non è mai un danno». Gli attacchi a una parte del gruppo dirigente del Pd non mancano, e oggi il governatore della Puglia si sottoporrà al giudizio di militanti e simpatizzanti pd alla Festa di Torino, per un faccia a faccia con Rosy Bindi.
Vendola ci va intenzionato a non schiacciare il piede sul freno, anzi. Dice che «sarebbe un errore imperdonabile» se sotto la pressione della crisi economica si dia vita a «una santa alleanza che veda insieme Pd e Tremonti», o anche se qualcuno tra i Democratici «flirtasse» col ministro dell’Economia. Così come, per il governatore pugliese, è da evitare l’illusione che sia possibile dar vita a una maggioranza per cambiare la legge elettorale. O quella, ancora peggiore, di imbarcare Fini: «Sta rifondando la destra, come si fa a cooptarla in maniera immaginifica nel centrosinistra?». Per il leader di Sinistra e libertà in questo momento c’è bisogno di chiarezza. E ostenta distacco di fronte all’aut-aut incrociato in cui è finito il Pd, con Casini da una parte e Di Pietro dall’altra che si chiudono le porte a vicenda. «Dobbiamo mettere in discussione anche il centrosinistra, non basta fare “fioretti”, promettere di non fare più le sceneggiate che abbiamo visto durante il governo Prodi. E non si devono usare i veti, non bisogna dire mai con Vendola, mai con Di Pietro, mai con Casini». Se si vuole veramente costruire un’alternativa, «il centrosinistra deve dire qualcosa di diverso sulla politica internazionale, la società, il lavoro, i diritti, e sulla base di questi programmi si potranno costruire le alleanze». E le primarie, per Vendola, costituiscono una tappa fondamentale di questo percorso.

Corriere della Sera 7.9.10
La disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola
Il Pd ha il suo «futurista», Chiamparino
di Paolo Franchi

Nel giro di poche ore abbiamo appreso dal discorso di Gianfranco Fini a Mirabello che il Pdl ormai non esiste più, e dalle anticipazioni de La Sfida, il libro di Sergio Chiamparino in uscita da Einaudi, che il Pd non esiste da un pezzo, ridotto com’è a «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati in via Sant’Andrea delle Fratte».
La coincidenza temporale di queste due affermazioni (oggettivamente clamorose, visto che Fini del Pdl è il cofondatore, e Chiamparino è l’unica personalità del Pd spendibile al Nord) è, si capisce, dovuta al caso. Quella politica forse no. Il presidente della Camera e il sindaco di Torino sono entrambi, se non proprio dei sostenitori del bipartitismo, dei bipolaristi più che convinti. Ma tutti e due pensano, non senza buone ragioni, che il bipolarismo italiano incardinato su questo Pdl e su questo Pd sta vivendo una crisi probabilmente senza sbocchi. A meno che (ma qui i loro ragionamenti si fanno più vaghi) i due partiti cardine del sistema non ritrovino la loro anima smarrita, o se ne diano finalmente una. È quasi inutile sottolineare che tanto Fini quanto Chiamparino si candidano a capitanare, ciascuno nel proprio campo, questa ricerca. Il primo sfidando nientemeno che Silvio Berlusconi. Il secondo preannunciando la sua candidatura alle primarie, e lasciando intendere, seppure a giorni alterni, la disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola.
Qui finiscono le analogie, e vengono in chiaro le (radicali) differenze. Una su tutte. Fini pensa, al di là delle feroci vicende quotidiane della politica, a un centrodestra prossimo venturo finalmente emancipato dalla (straordinaria) eccezionalità di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, pienamente (e convintamente) «costituzionalizzato», una forza di sistema e del sistema: gli applausi più caldi dei bipolaristi di centrosinistra (fesserie sul «compagno Fini» a parte) li prende proprio per questo. Chiamparino, invece, non sembra per niente convinto che questa destra italiana sia solo un’anomalia da normalizzare, una parentesi da chiudere per «ritornare allo statuto». Se il Pd «vive sempre in difesa» ma non tocca palla, e, per restare ai tempi più recenti, riesce a perdere tre elezioni in tre anni con tre differenti segretari e con alleanze diverse, qualche ragione ci sarà pure. La principale, per Chiamparino, è che, agli occhi di chi «vive fuori del giardino del Welfare e subisce i rischi del mercato internazionale del lavoro» (dunque: in primo luogo agli occhi del Nord), sinistra e centrosinistra sono la conservazione, il centrodestra, la destra rappresentano «la contestazione del sistema»: sono loro «che prendono il palazzo d’Inverno, noi siamo lo zar che difende i privilegi e ammassa i comò contro la porta nell’estremo e disperato tentativo di fermarli», o «i banchieri della Bce», o «i vigili urbani che danno la multa a chi lascia l’auto in doppia fila perché deve correre a prendere i figli a scuola». Certo, il centrodestra, la destra, di questa gente interpreta soprattutto le paure, proponendo «una protezione dal resto del mondo» che non potrà mai offrire. Ma il Pd, se un simile cambiamento nemmeno lo vede, e quindi non ha né un’idea né un leader per un’area che va dal Veneto al Piemonte, è dannato, più che alla sconfitta, a una desolazione senza fine.
Il linguaggio è tutto diverso da quello inutilmente rassicurante caro ai leader del Pd quando si concedono una pausa nella guerriglia interna: provocatorio, aggressivo, verrebbe da dire persino futurista. Questo centrodestra è in crisi, sì, ma bisognerebbe lo stesso andarci a scuola, per dare risposte diverse, naturalmente, ma senza eludere le domande. Si può fare? Forse sì, a patto, naturalmente, di cambiare in tutta fretta e radicalmente Dna (impresa non facile) e senza provocare (impresa ancora più ardua) ulteriori sfracelli nel proprio elettorato, al momento l’unico che c’è. Se riuscissero a farlo, il Pd e il centrosinistra avrebbero qualche chance di successo in più? Può darsi, anche se resta da spiegare perché gli elettori dovrebbero preferire l’imitazione all’originale, il «leghismo gentile» (la definizione, che a Chiamparino non spiace, è di Luca Ricolfi) al leghismo che c’è; e, più in generale, che cosa possa mai essere un «leghismo gentile». E il «popolo delle primarie», quello che domenica è rimasto appeso alla tv per non perdersi neanche un passaggio del discorso di Fini, gradirebbe? Questo è più difficile ancora, e lo sa anche il Chiampa. Che però stavolta le sue carte sembrerebbe averle giocate davvero. Proprio come Fini.


l’Unità 7.9.10
Incentivo alla natalità solo per genitori italiani A Travate si può...
Il pacchetto sicurezza 2008 comprende al suo interno un articolo che attribuisce ai sindaci nuovi poteri in materia di sicurezza urbana. Il risultato è che, a più di due anni dall’approvazione di quella legge, si sono moltiplicate delibere ordinanze e regolamenti che spesso, ahinoi, hanno il sapore di procedure di esclusione rivolte agli stranieri. Spesso quei provvedimenti sono totalmente ridicoli e dimostrano la fervida immaginazione di amministratori locali che sembrano sollevati dall’idea di poter finalmente dar sfogo alle proprie peggiori fantasie in materia di discriminazione etnica. Si va dalle restrizioni ai locali commerciali stranieri, come phone center e kebaberie, al rifiuto dell’abbonamento ai mezzi pubblici, dalle limitazioni per l’accesso alle graduatorie delle case popolari, ai divieti di affitto di locali in cui pregare.
L’ultima trovata l’ha avuta il sindaco di Travate (Varese) che, con chiari intenti di «conservazione dell’identità europea» (come da sua stessa ammissione), ha emanato la seguente leggina: «Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani». Come dire, in questi tempi di calo demografico, un bel premio a chi assicura la purezza della razza. Cittadini e associazioni sono insorti, ottenendo dal Tribunale di Milano una sentenza che definisce il provvedimento discriminatorio. Il comune di Tradate ha presentato ricorso contro questa decisione.
A noi non resta altro da fare se non aspettare che siano i Tribunali, in questa come in tante altre situazioni, a fare l’interesse dei cittadini, ristabilire l’equità e placare un po’, almeno un po’, le velenose bizzarrie di questi solerti sindaci.

Corriere della Sera 7.9.10
Maroni rilancia la linea francese: l’Europa agisca unita
di Fiorenza Sarzanini

PARIGI — Evita accuratamente di pronunciare la parola rom e lo stesso fa il suo collega francese Eric Besson. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, volato in Francia per un seminario sul tema dell’immigrazione, sa bene che è proprio questo il tema in discussione. E non si sottrae, anzi rilancia la linea già attuata da Parigi: «Bisogna espellere i cittadini comunitari che non rispettano la direttiva europea sul soggiorno nei Paesi membri».
Posizione forte che certamente non mancherà di provocare nuove polemiche proprio perché è ai nomadi che i titolari dell’Interno — all’incontro partecipano anche i colleghi di Germania, Grecia, Gran Bretagna, Belgio e Canada, tutti in cima alla lista delle richieste d’asilo — pensano quando annunciano di voler formalizzare la richiesta nella riunione a Bruxelles la prossima settimana. E perché questa mattina il titolare del Viminale affronterà la questione con il sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha già reso note le sue proposte: «Obbligare i Paesi di origine a fornire i precedenti penali creando una sorta di casellario europeo e introdurre il divieto di reingresso per i cittadini che hanno già subito un’espulsione».
Il documento cui si riferisce Maroni è la disposizione europea numero 38 del 2004 «che stabilisce la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione e regola in 3 mesi la permanenza di un cittadino comunitario all’interno di un altro stato membro». Ed ecco il problema posto dal ministro: «Chi non rispetta queste regole di fatto rimane impunito perché gli Stati non hanno gli strumenti per disporre l’allontanamento. Per questo ho già chiesto alla commissaria europea di prevedere sanzioni che servano a far rispettare le regole». In realtà la sanzione è solo una e Maroni la esplicita subito dopo: «Espulsione e rimpatrio». Vale a dire applicare il procedimento che già è previsto per gli extracomunitari.
Non a caso il titolare dell’Interno cita l’esempio della Libia «perché grazie all’accordo che abbiamo fatto con quel Paese siamo riusciti di fatto ad azzerare gli sbarchi» e quando un giornalista straniero gli chiede se intenda minacciare la Romania perché sono i suoi cittadini a non rispettare la direttiva risponde: «Noi non minacciamo nessuno, noi firmiamo trattati. Per questo ci appelliamo all’Unione europea affinché si arrivi ad una legislazione comune fra tutti gli Stati membri».
Maroni ha difeso energicamente le iniziative di Francia e Italia sostenendo di aver «incoraggiato l’esodo volontario di alcuni cittadini comunitari verso i loro Paesi dando loro una somma di denaro per consentire il rientro».
Non sfugge la scelta di procedere su una linea unitaria, anche per prevenire quelle che appaiono conseguenze inevitabili quando la linea dura viene messa in atto soltanto da alcuni Stati: migrazione verso il Paese confinante o comunque quello che ha una legislazione favorevole. Il timore neanche troppo velato è che i rom mandati via da Parigi possano decidere di trasferirsi in Italia. Besson assicura che «non c’è stata alcuna espulsione collettiva, ma è stato sempre rispettato il diritto francese e quello comunitario», però conferma la linea della fermezza. Tanto basta a far dilagare le proteste e le prese di posizione di chi ricorda che in passato l’allora commissario dell a Ue Jacques Barrot abbia già respinto analoghe richieste di sanzioni. L’asse italo-francese — con l’appoggio sicuro di Germania e Grecia — non sembra disposto ad arretrare.

l’Unità 7.9.10
Ore contate per Sakineh Il figlio: «Italia devi fare di più»
di Marina Mastroluca

Condannata alla lapidazione Il ragazzo, 22 anni: «Roma convochi il nostro ambasciatore»
Fine del Ramadan «La uccideranno venerdì». Frattini: l’Iran assicura, per ora nessuna esecuzione
«Grazie all’Italia ma non basta». Il figlio della donna iraniana condannata alla lapidazione chiede di più. «Si convochi l’ambasciatore». Timori di una possibile esecuzione alla fine del Ramadan, venerdì prossimo.

«Grazie all’Italia, grazie a tutti. Ma serve di più». Sajjad Ghaderzadeh parla con la forza della disperazione. Sua madre Sakineh Mohammadi Ashtiani è in isolamento da venti giorni, le visite si sono fatte più rade, più difficili. E la fine del Ramadan, venerdì prossimo, si avvicina come una minaccia: Sajjad teme che sarà questo il giorno dell’esecuzione, il giorno in cui sua madre verrà lapidata. «Il mese del Ramadan è alla fine e secondo la legge islamica le condanne possono di nuovo essere eseguite». Lo dice al telefono al filosofo francese, Bernard-Henri Levy, che sul suo sito ha raccolto 80.000 firme per salvare Sakineh. L’avvocato della donna, Javid Houtan Kian, nega che ci sia una data già fissata. Anche il ministro Frattini afferma di aver avuto assicurazioni da Teheran che «nessuna decisione è stata ancora presa». Ma ogni ora che passa, il filo che tiene in vita Sakineh sembra accorciarsi.
Per questo Sajjad chiede di più. «È importante, grazie di cuore all’Italia e a tutti quelli che si sono mossi in queste ore. Ma non basta. Gli Stati devono mostrarsi più esigenti e severi verso il governo iraniano, servono
passi solenni, come la convocazione dell’ambasciatore, o l’inasprimento delle sanzioni. Purtroppo con Teheran funzionano soltanto i rapporti di forza». Non solo solidarietà e appelli, ma passi diplomatici concreti, questa la richiesta del figlio di Sakineh che ha apprezzato la disponibilità del ministro degli Esteri Franco Frattini ad incontrare il collega italiano Mottaki, a margine dell’Assemblea generale Onu a New York nei prossimi giorni. «Se Mottaki accetterà potrà essere un passo efficace per ottenere la liberazione di mia madre», dice Sajjad. Nei giorni scorsi Frattini aveva sollecitato l’opinione pubblica a farsi sentire e il governo di Teheran ad un «atto di clemenza». Lo stesso appello è stato fatto ieri dall’Osservatore romano. «In molti scrive il giornale vaticano in un breve articolo nel pieno rispetto della sovranità iraniana chiedono al governo di Teheran di compiere un atto di clemenza». Il Vaticano di solito preferisce strade più silenziose che prese di posizione pubbliche e anche stavolta potrebbe essere così. Ma per chi come Sajjad aspetta aiuto, il segnale dovrebbe arrivare più forte.
99 FRUSTATE
Frattini, intervistato dal Tg1, assicura di aver già avuto «molteplici rapporti» con l’ambasciatore iraniano e di aver fatto pressioni a favore di Sakineh. A Teheran pur «rispettando» le posizioni italiane, non sono «stati contenti». Nessuna risposta finora neanche all’offerta del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che si è detto pronto ad andare a Teheran «se potrà servire» a salvare Sakineh. Kouchner ha anche auspicato che la Ue possa trovare una posizione comune, una voce per farsi sentire. Proprio ieri Maja Kocijancic, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, ha respinto le accuse di im-
mobilismo: «Abbiamo già sollevato la questione in molte, molte occasioni».
Ma «sollevare la questione» evidentemente non basta. «Bisogna fare presto», ha insistito ieri Bernard-Henri Levy convinto che le pressioni internazionali possano fare la differenza per Sakineh, spostando l’ago della bilancia nei difficili equilibri di potere a Teheran a favore di «quelli che sono pronti a trattare» contro chi ha fretta di chiudere la partita. Sakineh aspetta. Nel braccio della morte avrebbe già subito una condanna supplementare a 99 frustate, dopo la pubblicazione sul Times di una foto senza chador diffusa da Mostafei, con una mossa criticata senza mezzi termine dall’altro legale della donna. Non era lei, ma le è valsa l’accusa di indecenza. «La pena è stata eseguita dice il figlio di Sakineh -. Anche se le autorità del carcere non hanno voluto dirlo ufficialmente. Forse se ne vergognano».

l’Unità 7.9.10
4 domande a Shirin Ebadi
«L’Occidente non si fermi. Il regime deve fare un passo indietro»
di Maria Zegarelli

Shirin Ebadi, Nobel per la pace, esule dal suo paese l'Iran. Perché è costretta a questa continuo errare?
«Dal giugno del 2009, dalla repressione dei moti da parte del regime dopo le elezioni, non sono rientrata: non ci sono le condizioni per chi come me difende i diritti umani». Suo marito è stato arrestato, lo ha più sentito?
«È stato arrestato e torturato: quando era in carcere lo hanno costretto a leggere davanti alle telecamere un atto d'accusa contro di me e solo dopo lo hanno liberato. Ci ho parlato, gli ho detto: hai fatto bene, non devi morire. Ora spero lo lascino andare ma finora non ho buoni segnali».
Veniamo all'attualità: Sakineh rischia la lapidazione. L'Occidente alza la voce ma la reazione degli estremisti iraniani diventa sempre più aspra... «Non fatevi intimorire: la situazione di Sakineh non può essere peggiore di quella che è. L'Occidente non si faccia spaventare e continui, sono convinta che il regime sarà costretto a fare un passo indietro». Cosa bisogna fare?
«Protestare a voce alta, per Sakineh e contro le pene come la lapidazione: in Iran il codice prevede perfino la crocifissione e è stata introdotta persino la regola della vendetta. C'è un giovane uomo che sarà accecato con l'acido perché ha commesso la stessa cosa contro la ragazza che lo rifiutava. Ecco, il mondo deve chiedere che simili pene vengano abolite per sempre anche perché nel corano queste pene non sono scritte e chi si nasconde dietro la religione sa di mentire».

il Fatto 7.9.10
I volti di Sakineh
Il mondo mobilitato per l’iraniana condannata alla lapidazione. Ma la sua vicenda rimane incerta
di Stefano Citati

Il volto di Sakineh Mohammadi Ashtiani condensa da giorni l’intermittente solidarietà occidentale.
La donna iraniana condannata alla lapidazione smuove le coscienze e si moltiplicano le iniziative per salvarla. Ma il suo caso giuridico rimane opaco e le informazioni sulla vicenda giudiziaria incompleta. In buona parte per responsabilità delle autorità iraniane, ma anche per le voci non chiare e non univoche dei suoi difensori (l’avvocato rifugiatosi in Norvegia e uno dei due figli della 43enne che da Tabriz, città del Nord del Paese dove la madre è detenuta, continua a far sentire la sua voce, ma ha rotto i rapporti con il legale della madre). Sakineh nel 2005 è stata arrestata per una “relazione illecita”, fuori dal matrimonio e condannata a 10 anni di carcere e 99 frustate. Poi il suo caso sarebbe stato riaperto e condannata per adulterio, pena la lapidazione. Il suo amante in un primo tempo era stato condannato a morte per l’omicidio del marito; il giudice aveva poi invertito le condanne: lei incolpata per omicidio del marito e lui a 10 anni di carcere come amante della donna, confermando il diverso peso giuridico e sociale tra uomo e donna in Iran (e non solo).
Da quando il caso di Sakineh – a differenza dei molti altri passati sotto silenzio in questi de-
cenni di teocrazia islamica (pare 150 siano state le donne lapidate finora, e altre 150 in attesa di sentenza) – è diventato internazionale, la reazione della giustizia iraniana è stata prima quella di ignorare la pressione occidentale, poi quella di confermare la giustezza delle accuse (anche con un video, in cui la donna si autoaccusa, la cui autenticità lascia molti dubbi) e infine, in questi giorni spingendo verso la conclusione cruenta del caso: comminate altre 99 frustate e moltiplicazione delle voci di un imminente esecuzione (forse già venerdì) della condanna.

il Fatto 7.9.10
L’eccesso occidentale
di Massimo Fini

La mobilitazione internazionale a favore di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte per adulterio e complicità nell'omicidio del marito (i due fatti, se le accuse sono veritiere, sono, con tutta evidenza, collegati), sarebbe totalmente condivisibile se fosse stata centrata esclusivamente sulla modalità dell'esecuzione: la lapidazione. La lapidazione infatti va oltre la pena di morte, è una tortura. Una tortura, se si può dir così, a fuoco lento (le pietre non devono essere né troppo grosse, così da uccidere all'istante la condannata, né troppo piccole da non farle male). Ora, un uomo, in determinati e precisi casi, può essere lecitamente ucciso ma mai torturato o umiliato, tant'è che la tortura, almeno formalmente, non è legittimata in nessuno Stato del mondo nemmeno in tempo di guerra (anche se gli americani l'hanno usata a piene mani a Guantanamo – con l'ipocrito escamotage che era fuori del territorio degli Stati Uniti – e nel modo più sadico, ignobile e schifoso a Abu Ghraib dove è venuto a galla tutto il marciume morale della cosiddetta “cultura superiore”). Ma la mobilitazione internazionale, per meglio dire: occidentale, non contesta solo la lapidazione, ma anche la pena capitale inflitta alla donna e anzi la vuole “subito libera”. Davanti a una immagine di Sakineh che, per iniziativa del governo italiano, campeggia da tre giorni all'ingresso di Palazzo Chigi il ministro degli Esteri Franco Frattini e quello delle Pari opportunità Mara Carfagna hanno dichiarato “Finché Sakineh non sarà salva o libera il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano”.
ORA, LA PENA DI MORTE è in vigore anche in Paesi considerati campioni della civiltà, come gli Stati Uniti, e nessuno Stato lascerebbe a piede libero un assassino. Quanto all'adulterio è considerato un reato meritevole della pena capitale non solo in Iran ma in molti altri Paesi islamici che hanno una cultura e una morale diversissime dalle nostre soprattutto per quel che riguarda la famiglia. La domanda è questa: le sentenze di un Tribunale iraniano su fatti che quel Paese considera reati gravi sono ancora sentenze di uno Stato sovrano o devono essere sottoposte ai Tribunali popolari dell'Occidente? E può Sarkozy dichiarare che Sakineh “è sotto la protezione della Francia”? Allora sia coerente e dichiari formalmente guerra all'Iran in nome dei principi in cui dice di credere, invece di continuare a farci cospicui affari (la Francia è il secondo partner commerciale europeo dell'Iran, dopo l'Italia).
Questo il quadro di principio. Ma dietro i principi ci sono le persone in carne e ossa. In questo caso una giovane donna di 42 anni che rischia da un momento all'altro di essere giustiziata. È l'eterno conflitto fra pietas umana e la legge (dura lex sed lex dicevano i Romani), fra Antigone che, contro la legge, seppellisce il fratello Polinice in terra consacrata e il re Creonte che quella legge deve far rispettare e la condanna a morte. È l'eterno dilemma fra Libertà e Autorità così profondamente scandagliato da Dostoevskij nell'apologo de Il Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov.
L'IRAN NON HA ALCUN obbligo giuridico di fornire all'Occidente le prove che la sentenza del suo Tribunale è giusta, anche perché qui non ci troviamo di fronte a un oppositore politico ma a una persona accusata di reati comuni e non si vede quale interesse avrebbe mai la giustizia iraniana ad accanirsi arbitrariamente su di essa. Ma l'Iran è però un grande, colto e civile Paese, molto più civile di quanto lo facciano gli occidentali, e dovrebbe avere la sensibilità, anche politica, di capire che su un caso che è comunque sotto gli occhi di tutto il mondo ha l'obbligo morale di dare sulla reale colpevolezza di Sakineh informazioni maggiori e più trasparenti di quante ne abbia date finora, sen-
za per questo sentirsi diminuito nella propria sovranità, anche se sappiamo benissimo che questa vicenda viene strumentalizzata in funzione della tambureggiante campagna contro Teheran di Stati Uniti e Israele. Perché, a questo punto, un'esecuzione al buio sarebbe altrettanto inaccettabile di quella liberazione al buio che vorrebbero il ministro Frattini e Bernard-Henri Lévy.

il Fatto 7.9.10
Reazione necessaria
di Giampiero Gramaglia

S alvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia Saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata – non sempre con successo, anzi – per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper – uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne – o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas. Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di Paesi specifici: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che indignano più d’altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima dei talebani, in Arabia o Nigeria). Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione.
NELL’ISLAM si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri. Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph O’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
NEL CASO DI SAKINEH , la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi – ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione tv – si presume estorta, magari con la tortura. Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo “Libera subito”, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese. Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.

l’Unità 7.9.10
Zero fondi contro la fame
L’Onu striglia l’Italia
La coordinatrice della campagna per il Millennio: «Berlusconi non ha mantenuto le promesse Siete il fanalino di coda negli aiuti allo sviluppo»
di Umberto De Giovannangeli

Il Cavaliere-Pinocchio alla prova dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Alla prova degli impegni internazionali sbandierati e mai mantenuti. Di «maglie nere» accumulate. «L'Italia mantenga le promesse e rispetti l'obiettivo di medio termine per raggiungere quelli che sono stati definiti gli “Obiettivi del Millennio”». È l'appello lanciato dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite a poche settimane dal Summit Onu di New York sugli «Obiettivi del Millennio» convocato per fare il punto della situazione. «Mancano poco più di cinque anni alla scadenza dei cosiddetti “Obiettivi del Millennio” fissati nel 2000 nel corso del Vertice del Millennio dell'Onu. In quell'incontro ricordano gli organizzatori della Campagna ben 189 Paesi sottoscrissero la Dichiarazione del Millennio ponendosi precisi obiettivi: combattere la fame, la disparità fra i sessi, la mortalità infantile e le malattie, come Aids e malaria, e migliorare la salute delle gestanti, l'istruzione primaria, la qualità della vita, il rispetto dell'ambiente e raggiungere un lavoro dignitoso per tutti...».
Tra i firmatari c’era l’Italia. Con al Governo Silvio Berlusconi. Impegni mai realizzati. La Campagna del Millennio lamenta il mancato rispetto degli impegni presi dall'Italia e afferma che entro il 2010 il nostro Paese o avrebbe dovuto devolvere lo 0,51% del Pil mentre attualmente denuncia la Campagna Onu del Millennio l'Italia dona solo lo 0,1%. «L'Italia resta il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio – rimarca Eveline Herfkens, coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio -. Siamo davvero molto preoccupati per l'attuale tendenza al continuo ribasso degli aiuti allo sviluppo in Italia...L’Italia non ha agenzie né un apposito ministero per l'aiuto allo sviluppo, né tantomeno un dibattito politico su questi temi cruciali». Una tendenza al ribasso che era già stata segnalata dal documento elaborato dalla Commissione europea prima del vertice dei ministri dello Sviluppo tenutosi il 17 e il 18 febbraio in Spagna. La Commissione europea aveva elogiato Lussemburgo (1% del Pil) , Svezia (1,03%), Olanda (0,8%) e Danimarca (0,83%) per aver superato l’obiettivo dello 0,7% del Pil. Spagna (0,51%), Belgio (0,7%), Regno Unito (0,56%), Finlandia (0,55%), Irlanda (0,51%) sono sulla strada giusta e sono definiti attori chiave per far sì che l’Unione europea raggiunga i suoi obiettivi.
In base a recenti previsioni dell’Ocse, l’Italia (0,20%), insieme a Francia (0,46%), Germania (0,40%), Austria (0,37%), Portogallo (0,34%), Grecia (0,21%) è il Paese più lontano dal rispetto degli impegni presi per il 2010. Siamo al fondo del fondo. Triste fanalino di coda. Dati che attribuiscono al Cavalier Berlusconi l'Oscar del premier-Pinocchio, all'Italia quello della nazione peggior protagonista sulla scena europea quanto a impegni disattesi. A distanza di sette mesi dalla pubblicazione di quel rapporto, la situazione, quanto a impegni disattesi dall’Italia, è ancor più peggiorata. L’appello della Campagna del Millennio come il documento della Commissione europea supporta e arricchisce di ulteriori motivazioni la scelta compiuta negli scorsi mesi dal fondatore di Microsoft, Bill Gates di inserire l'Italia nella «Lista della Vergogna». «Nella comunità internazionale – aveva denunciato Gates c'è solo un Paese che ha ridotto gli aiuti allo sviluppo e questo è l'Italia». L'Italia – incalza ancora Gates – è un Paese «uniquely stingy» (particolarmente tirchio”). Una nuova maglia nera. Altro che «locomotiva» europea. L'Italia del Cavaliere rappresenta un pesante freno a mano.
Ancora più bassa la percentuale destinata in particolare agli aiuti sanitari dove l’Italia è ferma allo 0,025% del Pil contro lo 0,1% raccomandato dagli accordi internazionali. Berlusconi aveva promesso, durante la conferenza stampa conclusiva del G8 dell’Aquila ricorda Annalisa Stagni, Health advocacy officer di "Azione per la salute globale" di saldare la quota 2009, pari a 130 milioni euro,destinata al Fondo globale di lotta all’Aids, Tubercolosi e Malaria entro agosto scorso, alla quale sarebbero stati aggiunti ulteriori 30 milioni di dollari. Ma ad oggi non c’è traccia di nessuno di questi finanziamenti». «L’Italia inoltre si è impegnata a versare lo 0,7% del Pil in aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2015, ma come step intermedio nel 2010, cioè quest’anno, avrebbe dovuto versare lo 0,51% del Prodotto interno lordo. Purtroppo invece, dati del 2009 attestano l’Italia allo 0,17% e sottolinea salvo miracoli nei prossimi mesi, il nostro Paese resta fanalino di coda nelle statistiche sugli aiuti pubblici allo sviluppo». E ancora: « L’Italia ha versato appena lo 0,025% del Pil ponendosi agli ultimi posti, preceduta da Germania (0,030%), Francia (0,041%), Spagna (0,045%) e Gran Bretagna (0,058%), anch’esse comunque lontane dalla percentuale raccomandata.
Cinque anni fa, a Gleneagles, ricordano Oxfam e Ucodep i leader del G8 si impegnarono ad aumentare gli aiuti ai Paesi del Sud del mondo di 50 miliardi di dollari (40 miliardi di euro) entro il 2010. Di questi, 25 miliardi di dollari (20 miliardi di euro) sarebbero andati all’Africa. Tuttavia, il G8 registra un ammanco di 20 miliardi di dollari (16 di euro). L’Italia è il fanalino di coda del G8 in materia ad aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ed è il Paese che più di tutti ha tradito le promesse fatte a Gleneagles. In seguito ai ripetuti tagli alla cooperazione allo sviluppo, infatti, l’APS italiano ha registrato nel 2009 un calo complessivo pari al 31%. «L’impegno finanziario italiano è ormai sceso ai suoi minimi storici rimarca l’ultimo rapporto Ocse . L’ultimo taglio degli stanziamenti ammonta al 56%, mettendo di fatto in ginocchio la cooperazione pubblica bilaterale. Attualmente le possibilità discrezionali italiane su come spendere i soldi sono ridotte al minimo visto che i quattro quinti delle risorse sono dovute ad impegni già presi, in particolare per i contributi obbligatori verso le agenzie internazionali. Nel 2010 l’APS italiano sarebbe dovuto essere dello 0,51% del Pil, invece non supererà lo 0,19%. E per gli anni a venire la manovra del Governo prevede tagli ulteriori.

Corriere della Sera 7.9.10
Grossman si confessa: «Tentato di lasciare Israele»
Lo scrittore: «Ci ho pensato e ci penso ancora, ma lo farò solo quando scomparirà la democrazia»
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Il venerdì, lui c’è. Quasi sempre. Da mesi. A Gerusalemme Est, David Grossman non si perde i sit in davanti alle case del quartiere arabo di Sheikh Jarrah. Una protesta pacifica, cartelloni e slogan contro lo sgombero di alcune famiglie palestinesi. Un gruppetto di pacifisti testardi, molti che arrivano apposta dall’Europa. Qualche settimana fa, per ripararsi dal caldo, Grossman è arrivato vestito di nero alle solite tre del pomeriggio e s’è seduto su una panchina, sotto un grande ulivo. Stanco. Nessuna voglia di parlare. Per l’afa soffocante, per la delusione che da un po’ gli soffoca le parole: «Non chiedetemi niente. Mi sembra di ripetere certe cose da cent’anni...».
A un cerbiatto somiglia il suo dolore. Un cerbiatto in fuga. Lo scrittore è stanco. Lo confidava da un po’ di tempo, in privato. L’altra sera, a Londra, dove in questi giorni si trova per promuovere una nuova edizione inglese del suo ultimo libro, per la prima volta ha deciso di rendere pubblico il suo disagio.
D’intellettuale. D’israeliano. Dice d’avere una «tentazione» forte: «Ho soppesato l'idea di lasciare Israele e devo riconoscere che la tentazione c’è sempre». Lo sfogo è arrivato in un’intervista a una tv inglese, Canale 10: «Parte della tragedia degli ebrei come individui, ma anche come collettività, è che non abbiamo mai trovato una vera casa nel mondo. Oggi, abbiamo Israele. L’abbiamo da 62 anni. E non è la patria che pensavamo sarebbe stata». C’entra l’ultima disillusione, ovviamente, su negoziati di pace destinati — pure nella visione di Grossman — alla galleria delle inutili cerimonie: «Non sono sicuro che i nostri due leader, quello israeliano e quello palestinese, siano tanto coraggiosi da fare i passi giusti per raggiungere la pace. Dopo cent’anni di morte, forse abbiamo perso il momento giusto». Il disagio però va oltre e riguarda, più che l’inconcludente agenda del domani, la paura del dopodomani: «Sì, ho sempre pensato di poter abbandonare questo Paese e questa possibilità c’è sempre. Ma so che me ne andrò solo quando Israele smetterà d’essere una democrazia».
È un’inquietudine che Grossman spiegò già nel 2006, l’anno di Uri, il figlio ucciso in un tank mentre combatteva in Libano: «La nostra famiglia — disse nel commovente ricordo del ragazzo —, questa guerra in cui sei rimasto ucciso, l’abbiamo già persa... Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi, ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi». «Dopo il lutto — dice ora lo scrittore —, io sono tornato subito a scrivere. Quel che è cambiato, è solo la consapevolezza di ciò che significa perdere un figlio. E la consapevolezza della realtà in cui viviamo».
Questa consapevolezza divide. E imbarazza. Perché viene da un uomo di sinistra che non ha mai esitato a condividere le fondamenta d’Israele. Qualche giorno fa, Grossman ha aderito al boicottaggio culturale degl’ intellettuali che si rifiutano di partecipare a dibattiti nelle colonie. «E allora — ha replicato un opinionista di destra —, non dovrebbe più vendere nei Territori palestinesi nemmeno i suoi libri. Perché non succede?». Adesso, arriva il commento d’un falco delle colonie come Noam Arnon: «Grossman se ne vuole andare? S’accomodi. Capisco il ragionamento che lo porta a questa conclusione. Questi scrittori vivono dentro la Linea Verde e si sentono nel giusto. Dimenticano che la guerra dei Sei giorni non fu voluta da Israele, e che le colonie nacquero allora. Dimenticano che Israele si fonda su quelle cose in cui loro non si vogliono più riconoscere. È gente che si costruisce un’idea di mondo completamente scollata dalla realtà». C’è chi capisce, però: «Per andarsene, David non deve aspettare che in questo Paese finisca la democrazia — dice Jonatan Gefen, scrittore e nipote del primo presidente israeliano Weizman —. Anch’io ho provato ad andarmene, più d'una volta. Ma non ci sono mai riuscito. Se un giorno si presentasse la possibilità, credo che Grossman non sarebbe l’unico a farlo».

il Fatto 7.9.10
Prescrizione, una festa per tutti
Quali processi richiedono un sacco di tempo per arrivare a giudizio? Ma è ovvio, quelli che hanno un excursus breve, altrimenti B&C in quale modo si salverebbero dalla galera?
di Bruno Tinti

B&C continuano a pretendere il “processo breve”, si dice per evitare a B. la condanna per corruzione dell’avv. Mills. Anche se sanno tutti che di prigione non se ne parla: dopo pochi mesi dalla pronuncia della sentenza il reato sarà prescritto.
Questa “soluzione” (già ampiamente sfruttata da B.) è quella abitualmente ricercata dalle difese: i tempi dei processi sono così lunghi che arrivare a una sentenza di condanna è praticamente impossibile. Sotto questo profilo, dunque, il “processo breve” esiste già.
Praticamente impossibile... Ma quanti sono davvero i processi che si prescrivono? Questo veramente nessuno lo sa: l’amministrazione giudiziaria non ha uno strumento statistico che possa fornire questo dato; e, soprattutto, non è tecnicamente possibile prevedere quanti dei processi pendenti si prescriveranno. Questo perché la prescrizione dipende da situazioni processuali imprevedibili: un furto pluriaggravato si prescrive in 12 anni e mezzo; ma, se vengono concesse attenuanti e se queste sono considerate prevalenti sulle aggravanti, ecco che il termine di prescrizione scende a 7 anni e mezzo; e così, magari in Appello o in Cassazione, la precedente sentenza di condanna diventa una sentenza di “assoluzione” per prescrizione. Così è successo a B. in uno dei suoi processi: condannato in primo e secondo grado per corruzione, è stato assolto in Cassazione perché, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, il reato era prescritto. Non si può sapere dunque quanti processi si chiuderanno con la prescrizione; ma si può sapere quali. Ogni anno il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il ministro della Giustizia spiegano ai cittadini, quando inaugurano solennemente l’anno giudiziario (con cerimonie che somigliano sempre più a un funerale), qual è la durata media del processo penale. Attenzione, la parola chiave è “media”: alcuni processi si concludono prima e altri dopo: la media è 7 anni e mezzo. I processi più rapidi sono quelli semplici, per i quali non occorrono indagini complicate; e quelli più lenti sono i processi complessi. Giusto. Quindi, si potrebbe pensare, i termini di prescrizione tengono conto della complessità dei processi. Sbagliato. I termini di prescrizione non dipendono dalla complessità delle indagini ma dalla pena prevista per il reato: più è alta, più lunghi sono; per dire, l’omicidio si prescrive in 30 anni, il traffico di droga in 25, una rapina, un’estorsione, uno stupro, in 12 anni e mezzo; ma la truffa, la corruzione, la frode fiscale, il falso in bilancio, l’infedeltà patrimoniale, si prescrivono in 7 anni e mezzo. In effetti, tutti i reati puniti con una pena inferiore a 6 anni si prescrivono in 7 anni e mezzo; e, guarda caso, la quasi totalità dei reati cui la classe dirigente del nostro Paese è tanto affezionata sono puniti con una pena inferiore ai 6 anni.
Quel sogno della mancata condanna
ORA, SE I PROCESSI semplici, quelli che si possono concludere entro il termine di durata media del processo, coincidessero con quelli che si prescrivono in 7 anni e mezzo andrebbe tutto bene. Nessun processo si prescriverebbe: quelli semplici si concluderebbero prima della scadenza del termine di prescrizione e quelli complessi, che richiedono più di 7 anni e mezzo per essere definiti, avrebbero termini di prescrizione più lunghi. Solo che non c’è nessuna relazione tra pena prevista (e conseguente termine di prescrizione) e complessità del processo. Un traffico di droga, dopo un annetto di intercettazioni telefoniche, è un processo che si chiude in poche udienze; in un processo per omicidio, quasi sempre, o non si trova il colpevole oppure lo si individua dopo poche settimane; gli autori di una rapina, quasi sempre, sono arrestati mentre la stanno facendo o poco dopo. Insomma i processi per i reati puniti più gravemente sono spesso quelli più brevi. Per questi reati un termine di prescrizione lungo è inutile; tanto i relativi processi si concludono in fretta. E quali invece richiedono un sacco di tempo? Ma è ovvio, quelli che hanno una prescrizione breve, sennò B&C come si salverebbero dalla galera? In questi processi la linea d’indagine è sempre e solo una: seguire i soldi. Da dove vengono i soldi pagati al corrotto? E di chi erano? E questo dove li ha presi? È così che si indaga, da una banca all’altra, da una società all’altra, da una persona all’altra. Ma naturalmente è complicato. La prima banca magari è in Italia e qui si fa relativamente in fretta: i soldi vengono dalla Svizzera o da Montecarlo. A questo punto cominciano le rogatorie; e, se si scopre che i soldi arrivano da un’altra banca che sta alle isole Cayman, le cose si fanno difficili. E poi c’è il problema delle società e delle persone che le rappresentano; magari si tratta della donna delle pulizie e di suo marito; e questa società ha il solo compito di trasmettere la corrispondenza a un’al-
tra società che ha sede in un altro paese e che fa capo a un importante studio di commercialisti o di avvocati. Insomma, quando si è finito di accertare tutto questo, quanti anni sono passati? E, per finire, non è che questi reati si scoprono subito, come avviene per un traffico di droga o un omicidio. Qui c’è il morto, lì c’è un pusher che parla, le indagini cominciano immediatamente. Ma, per i reati di B&C bisogna aspettare che un commercialista inglese si senta chiedere da un avvocato che si è fatto corrompere con circa mezzo milione di dollari come deve regolarsi fiscalmente con questa somma (!); e che il commercialista in questione, indignato, denunci il fatto alle competenti autorità (!!!) Magari passano un paio d’anni; ma la prescrizione comincia a decorrere da quando l’avvocato si è preso i soldi.
E così, quando matura la prescrizione, il processo è arrivato sì e no in primo grado e restano ancora Appello e Cassazione. Alla fine c’è da chiedersi: ma perché B. ci tiene tanto a non farsi dichiarare colpevole di corruzione dell’avv. Mills?
In Appello il reato sarà prescritto; e lui si è già beccato tre “assoluzioni” per prescrizione, una per corruzione, una per finanziamento illecito e una per falso in bilancio; una più, una meno... Vale la pena di ammazzare tutti i processi penali italiani solo per questo?

Repubblica 7.9.10
Memorie di un ebreo laico
Ritratto dell´Italia attraverso una vita
di Eugenio Scalfari

Partecipa alla fondazione di "Repubblica", dirige "L´Europeo" e poi torna al quotidiano
Mario Pirani ha raccolto in "Poteva andare peggio" la sua biografia. Da Venezia al Pci, dall´Eni al giornalismo
Un lungo racconto che inizia nei dorati anni Trenta e che incrocia personaggi drammatici come Mattei

Qualche tempo fa ho recensito un libro di Alfredo Reichlin intitolato Il midollo del leone superando dentro di me la difficoltà di parlar bene dell´opera d´un caro e vecchio amico. Quel libro, che univa insieme storia politica e vicende personali, era molto piaciuto e l´amicizia non credo abbia fatto ombra all´oggettività del giudizio.
Mi accingo ora ad affrontare un compito un poco più arduo: l´autore del libro del quale oggi voglio scrivere, e che si intitola Poteva andare peggio (Mondadori, pagg. 440, euro 20), non è soltanto un amico ma anche un collega che fu tra i fondatori di Repubblica, ci lasciò dopo tre anni, ritornò dopo altri sei e da allora è sempre rimasto con noi. «Ritorno a casa», si intitola l´ultimo capitolo del volume di Mario Pirani; questo giornale è stato dunque la sua casa e a me fa grande piacere sentirglielo dire anche se accentua la difficoltà di recensirlo col dovuto e oggettivo distacco.
Prometto ai lettori che ce la metterò tutta per esprimere un giudizio compiuto e motivato, ma era mio dovere avvertirli affinché prendano essi stessi le loro misure. E comincio subito col dire che il libro è bello quanto insolito.
Anche questo, come quello di Reichlin, mette insieme la storia del paese e la biografia dell´autore, ottant´anni raccontati con una prosa scorrevole, molto più da romanzo che da saggio. Descrive personaggi, vicende, episodi, passioni, amori, intrighi politici, strategie imprenditoriali. Su questo lungo percorso che ha il suo inizio negli anni Trenta dello scorso secolo incombe la personalità dell´autore che porta dentro di sé un deposito culturale di ebraicità e insieme di laicità che hanno profondamente connotato le sue scelte, i suoi comportamenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie. Insomma la sua vita, gli elementi di forza e quelli di debolezza.
L´esergo del libro è una frase di Camus che privilegia il dialogo rispetto al combattimento. In realtà Camus dialogò combattendo con gli scritti, con i pensieri e con l´azione. Pirani, anche lui ha dialogato combattendo ma il "combat" l´ha subito, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stato una sua libera scelta.
Il libro descrive il nucleo dominante di questa vicenda e della personalità del protagonista: un ebreo laico, tanto più ebreo perché laico e tanto più laico perché ebreo. Chi per tanti anni l´ha avuto compagno di lavoro giornalistico, quella sua duplice dominante l´ha vista all´opera e può dunque testimoniarne l´autenticità.
* * *
La prima parte ha inizio con l´autore bambino e si chiude con i suoi vent´anni, alla fine dell´adolescenza: il decennio degli anni Trenta e gli anni della guerra fino al 1946, con l´approdo al Partito comunista italiano.
Sono le pagine più vive, più innocenti, nelle quali la gioia di vivere propria dell´età infantile è rafforzata dagli agi di cui gode la famiglia del protagonista, la madre bellissima ed elegante, il padre al vertice d´una prestigiosa carriera di amministratore della società Ciga, proprietaria di grandi alberghi a Venezia, a Roma, a Firenze. L´ambiente e l´aria che vi si respira sono quelle dell´età del jazz, entrato in Italia e a Venezia in particolare dalla fessura aperta dal giovane Galeazzo Ciano e dal suo gusto di frequentare le famiglie di grande lignaggio per notorietà o per ricchezza e potenza del "business".
È in questi luoghi di opulenza che i Pirani vivono quegli anni, in una società separata dal resto di un´Italia chiusa in se stessa, immiserita dall´autarchia oltre che dalla crisi economica mondiale, confinata nel suo provincialismo, nel suo "dopolavorismo" di regime, nel suo mediocre obiettivo di potere avere "mille lire al mese" di stipendio.
Le canzoni dell´epoca sono lo specchio più verace di quell´Italia piccolo-borghese e il contrasto è perfettamente raccontato e vissuto dal bambino di otto anni che frequenta con i genitori il Lido, le lussuose tende che costellano la spiaggia, gli spettacoli della Fenice, i caffè di San Marco e dei campielli di Dorsoduro.
Passano gli anni e affiorano le prime pulsioni erotiche che l´autore racconta con disarmante e pruriginosa innocenza, i primi vestiti da ometto, le musiche americane che fino all´inizio degli anni Quaranta riuscirono a filtrare attraverso le colonne sonore dei film in concorso alla Mostra del cinema, Armstrong e Gillespie invece di Rabagliati e di Natalino Otto, Dino Grandi e il conte Volpi anziché Starace e i gerarchi del Foro Mussolini.
Ma d´improvviso il tono del racconto cambia e da deliziosamente futile e leggero diventa cupo e drammatico: le persecuzioni razziali, la guerra, il trasferimento a Roma e poi in Abruzzo di paese in paese, mentre aumentano la paura e le ristrettezze economiche, i bombardamenti, le deportazioni. Insomma il nazismo in tutta la sua orrenda crudeltà che il bambino degli anni dorati vive da adolescente braccato, accanto ad una madre ormai sfiorita e un padre costretto a fuggire in Francia sperando di potersi nasconder meglio a Parigi che non nelle montagne inospitali della Maiella.
Infine la liberazione, l´arrivo della divisione polacca che combatteva con l´Ottava armata di Montgomery, il ritorno a Roma e la scelta del giovanissimo protagonista di iscriversi al Partito comunista.
Scelta obbligata? No, perché le abitudini e l´aria che circolava in quella famiglia erano cosmopolite, occidentali, liberali. E tuttavia l´ebreo errante che viveva dentro la corteccia di quel giovane aveva bisogno di un approdo solido, d´un rifugio sicuro, di certezze protettive. Un bisogno di assoluto che gli consentiva di avanzare, assumere responsabilità e poteri di comando. Obbedire per poter comandare.
Questa è la motivazione reale di quella scelta. Pirani non la confessa perché le sue motivazioni razionali sono diverse, ma il racconto così radicalmente e candidamente sincero conduce chi lo legge a questa conclusione che lo impigliò, come piccolo funzionario prima e poi come dirigente, dentro le maglie dell´ideologia ma soprattutto in quella sorta di tagliola psicologica dell´obbedire per comandare che emerge dalle pagine del libro. In particolare da quelle, coloritissime e godibilissime, del Festival della gioventù a Praga, pieno di impreviste peripezie, dove il gregario svela una vocazione di leader che spesso lo conduce a passi arrischiati cui seguono richiami all´ordine e ricerche di nuove amicizie politiche dentro la complessa struttura del centralismo comunista.
Racconti analoghi li scrisse Enzo Bettiza che fece analoga esperienza sulle terre della sua Istria, ma l´ambiente era diverso, diverse le dinamiche e soprattutto le personalità dei due protagonisti.
* * *
I fatti d´Ungheria portarono rapidamente Pirani fuori dal Pci insieme a Fabrizio Onofri e ad Antonio Giolitti. La coscienza liberale non poteva accettare una ferita così palese e un tradimento allo spirito democratico che il partito di Gramsci aveva promesso ai giovani che erano entrati nel ´45 nelle sue file, motivati dall´antifascismo e dalla Costituzione repubblicana.
Mario però non entrò, come altri suoi compagni fecero, nel Partito socialista. Aveva maturato, dopo l´iniziale infatuazione, un´idiosincrasia verso i partiti. Non verso la politica, che è sempre rimasta la sua passione dominante, ma verso ideologie che sconfinavano nell´utopia di futuribili inconcreti.
L´amico Giorgio Ruffolo, che dirigeva da tempo il servizio delle comunicazioni esterne dell´Eni, gli propose di affiancarlo con il mandato specifico di coltivare i rapporti con il Fronte di liberazione algerino. Gli presentò Enrico Mattei. Il colloquio con il capo dell´Eni è una delle pagine più avvincenti del libro. Fu assunto e cominciò la mattina dopo. Gli fu offerta la "stazione" che l´Eni aveva aperto in Tunisia e da lì, per alcuni anni, fu lui a tessere la rete con gli algerini affrontando i rischi d´un compito clandestino e avventuroso
* * *
Enrico Mattei morì nel 1963. Le circostanze sono note anche se una versione univoca dei fatti ancora non c´è stata, tra la tesi dell´incidente e quella dell´omicidio premeditato. Mi è sembrato di capire che Mario propenda più per la seconda che per la prima. Comunque la scomparsa di Mattei faceva comodo a molti nel mondo politico, in quello dei servizi segreti, nella mafia, in Francia, in Israele, in America, in Gran Bretagna.
Con la sua scomparsa molte cose cambiarono nella Dc e all´interno dell´Eni. Spuntava la procellosa stella di Eugenio Cefis. Pirani era stato troppo intimo del fondatore dell´Eni per continuare con il suo successore. Fu invitato a restare ma si rese conto che era un invito a fior di labbra e preferì farsi trasferire al Giorno dove ebbe inizio la sua stagione giornalistica che dura tuttora.
Ha passato quarantasette anni, più di metà della vita in questa professione, ma ad essa dedica poco spazio. In realtà il suo libro-diario si ferma con la morte di Mattei. Ciò che viene dopo è annotato con pochi tratti di penna, quasi per pura completezza d´informazione, salvo due vicende. Una, privata e sentimentale, il suo rapporto amoroso con Barbara Spinelli; l´altra la direzione de L´Europeo che gli fu affidata dall´editore Rizzoli con la malleveria politica di Claudio Martelli e del Psi. Correva l´anno 1979, Pirani lasciò Repubblica per tentar la sorte con quel settimanale che era stato fondato tanti anni prima da Arrigo Benedetti ma che non aveva più niente a che vedere con quel glorioso passato.
Ci restò pochi mesi, la sua uscita coincise con l´arrivo della P2 al Corsera e a quel che ne seguì. Francamente mi riesce difficile capire il perché del sostanziale silenzio dell´autore su un arco di anni così ricco anche per lui d´incontri e di tumultuose vicende giornalistiche, politiche, economiche, culturali. Faccio solo pochi nomi che esercitarono grande influenza su quel periodo e dei quali Pirani si occupò come giornalista, editorialista e scrittore: Fanfani, Moro, Andreotti, Gianni Agnelli, Guido Carli, Nenni, Craxi, Romiti, Cefis, Cossiga, Berlinguer, Berlusconi, D´Alema, Veltroni, Fini.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere e Pirani ne ha scritto ininterrottamente, ma in questo suo libro non ce n´è praticamente traccia. Credo che il motivo di questo silenzio riguardi un problema di distacco. Molte di quelle vicende sono ancora in corso e l´autore deve aver pensato che gli mancasse la lontananza necessaria per filtrarle con la lente della memoria, dell´ironia, del racconto e infine di quella realtà romanzata e romanzesca che è il pregio delle autobiografie. Ed è infatti il pregio di questo libro che il riserbo su fatti ancora troppo caldi ha salvaguardato.

Repubblica 20.8.10
Curarsi con l' Lsd, la medicina ci (ri)prova
di Elena Dusi

ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l' Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l' acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l' uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore. «Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell' umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell' ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l' autocoscienza, facilitano l' accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia. Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L' Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent' anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l' acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segalee lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l' Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile». Gli "psichedelici" anni ' 60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d' arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l' effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l' arma antica degli allucinogeni. L' Lsd, scrive,è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell' umore - scrive lo psichiatra - contro le 23 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi. La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharmaèa corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell' università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.

Repubblica 13.8.10
Ricerche truccate e Harvard sospende l' uomo delle scimmie
di Nicholas Wade

L' origine della moralità sta creando grossi problemi a Marc Hauser, il noto studioso dell' università di Harvard autore di un libro sull' argomento e sospeso dopo un' inchiesta interna legata proprio alle sue ricerche. Hauser, che si è specializzato nello studio comparato della mente umana e di quella degli animali, è autore del noto libro Menti morali. Le origini naturali del bene e del male. Jeff Neal, portavoce di Harvard, all' inizio non ha confermato né che Hauser sia in aspettativa né che l' università ha condotto un' indagine. La segreteria telefonica del laboratorio del professore, però, fa sapere che lui sarà in aspettativa fino ad autunno. In un articolo pubblicato dalla rivista Cognition nel 2002, Hauser e altri autori sostenevano che le scimmie tamarino edipo fossero in grado di apprendere alcune regole, analogamente a come le apprendono i bambini. La rivista scientifica ora sta per pubblicare una rettifica specificando che un riesame interno del paper dell' Università «ha riscontrato che i dati non corroborano le scoperte vantate» e che pertanto, Cognition «ritratta quell' articolo». «Marc Hauser», prosegue la rettifica, «si assume la responsabilità dell' errore». Il silenzio di Harvard suscita preoccupazioni anche tra altri ricercatori nel campo che temono un discredito generalizzato finché i fatti non saranno stati chiariti. «A mio avviso, Harvard deve rendere pubblici i risultati della sua indagine», dice Herbert Terrace, professore di psicologia presso la Columbia University. «Stando all' Università, essa sta agendo così per proteggere se stessa e Hauser, ma non sarebbe meglio proteggere invece tutto quest' ambito di studio?». Hauser è uno degli studiosi di Harvard più noti,è citato frequentemente in altri articoli scientifici che trattano del linguaggio, delle capacità cognitive degli animali e delle basi biologiche della moralità. Nel suo campo è considerato un luminare. Nel suo libro del 2006, Menti morali, Hauser sosteneva che nella mente umana, a livello genetico, è presente una grammatica morale universale, analoga alla grammatica universale con la quale Noam Chomsky spiega il linguaggio. Hauser sta attualmente lavorando a un altro libro, Evilicious: Why We Evolved a Taste for Being Bad, che analizza come l' uomo abbia sviluppato una propensione alla malvagità. Il professore di Harvard è uno scrittore prolifico e persuasivo. Il suo errore in questa ricerca sembra riguardare gli esperimenti, molti dei quali basati su riprese di scimmie tamarino edipo dalla chioma bianca. Per un essere umano, tuttavia, è facile individuare nelle risposte degli animali, delle scimmie in questo caso, ciò che egli vuole vedere e di essere quindi tratto in inganno dagli animali. Terrace riferisce che è da un certo tempo che sono sorti dei problemi con il lavoro di Hauser: «Innanzitutto c' è stata un' interpretazione arbitraria delle riprese video per far sì corroborassero l' ipotesi. Il secondo problema riguarda la validità dei dati. Molti dei suoi lavori si basano su riprese video che ora devono essere nuovamentesottopostea valutazione per accertare la validità dei dati». A quanto riferisce un articolo pubblicato da The Boston Globe martedì, lo studioso Gordon G. Gallup Jr. della State University di New York ad Albany, che aveva chiesto a Hauser il materiale video nel quale, secondo il ricercatore di Harvard, i tamarini edipo dalla chioma bianca si riconoscevano in uno specchio, dopo averlo analizzato non aveva trovato prove di tale comportamento. Un altro dei paper che presenta dei problemi è quello pubblicato da Science magazine nel 2007 sulla capacità dei tamarini, dei macachi rhesus e degli scimpanzé di intuire le intenzioni delle persone. A giugno la redazione ha ricevuto a una lettera del coautore senior della ricerca. In essa, Justin Wood, dell' Università della California del Sud, scrive che, dopo che Harvard nel suo riesame dell' articolo non aveva trovato allegati né delle note sugli esperimenti sul campo né altri dati legati alla ricerca in merito alla parte sul macaco rhesus, lui e Hauser avevano ripetuto l' esperimento arrivando gli stessi risultati, mentre non c' erano stati problemi con i dati riguardanti i tamarini e gli scimpanzé. In autunno, quando si concluderà l' aspettativa, Hauser potrebbe riprendere in pieno la sua attività a Harvard, ma le nuvole che si sono addensate sui suoi esperimenti, tuttavia, non spariranno probabilmente finché non saranno state chiaritela naturae l' entità del problema. «Gli studenti non sono proprio soddisfatti di come Harvard sta gestendo la faccenda: hanno la sensazione che l' Università stia spazzando i problemi sotto il tappeto». ©The New York Times La Repubblica Traduzione di Guiomar Parada

Repubblica 11.3.08
Nel peccato originale la coscienza dell' uomo
di Eugenio Scalfari

Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell' albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell' Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza. Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all' inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato - non cancellato - e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio. Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest' affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l' assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell' al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta. Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l' ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione? Dov' è la bilancia della giustizia? Dov' è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all' Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. è la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato. Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell' uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto. Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch' io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l' innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto. Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all' Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l' Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall' animalità. Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari. Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell' albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio. La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l' atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all' accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo. Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l' abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. è possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un' idea assai mediocre e bislacca della modernità. Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto. Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni. Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l' erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana. Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell' uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l' Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l' Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello. Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l' Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza. La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. è oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. è colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l' assume. Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un' innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto. <* * * & Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti? Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l' altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento. Dunque siamo liberi, almeno stando all' insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell' insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell' Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio? Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l' uomo, ma è pur vero che anche l' uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell' inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell' «es» per distinguerla dall' io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all' interno dell' individuo. L' io non è una figura psichica separata dall' «es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l' io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l' istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini. Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l' intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi. La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell' individuo e quella della specie, l' egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l' individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto. Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell' egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate. Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.

lunedì 6 settembre 2010

l’Unità 6.9.10
Il segretario del Pd «La maggioranza è arrivata al capolinea. Non abbiamo mesi da perdere»
RosyBindi: «Serve una destra europea». Fassino: «Berlusconi venga in Parlamento»
Bersani: «Confermata la crisi Ora basta col gioco del cerino»
La maggioranza è arrivata al capolinea. Lo ha detto Bersani, dopo aver ascoltato Gianfranco Fini a Mirabello. Per Rosy Bindi il discorso dell’ex An è coerente con la costruzione di una destra moderna.
di Maria Zegarelli

La maggioranza è arrivata al capolinea. Ne è convinto Pier Luigi Bersani, dopo aver ascoltato il lungo discorso di Gianfranco Fini a Mirabello. A questo nuovo patto di legislatura, dice il segretario Pd, «non ci crede neanche lui», perché la sostanza di tutto è che «Fini ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Se i due cofondatori del partito imploso si passano di mano, appunto, il cerino acceso, sfidandosi l'un l'altro ad assumersi la responsabilità di conclamare la crisi di governo davanti al parlamento, è evidente che ormai siamo di fronte «ad un assurdo tentativo di galleggiamento, ma non abbiamo mesi da perdere sennò va a fondo il Paese», un Paese che «non può subire traccheggiamenti». Dunque bisogna fare un passo avanti e guardare al «dopo» e in questo senso, secondo il segretario, l'ex leader di An, attuale leader di Fli, può essere «un interlocutore per le regole del gioco: ha detto delle cose che interessano il nuovo Ulivo, ad esempio, sulla legge elettorale che va cambiata». Bersani rilancia di fatto la fase di transizione che dovrebbe traghettare il Paese verso nuove elezioni ma non con questa legge elettorale e dopo quello che ha detto Fini, trovare la convergenza e i numeri in parlamento per cambiarla, potrebbe essere un obiettivo difficile sì ma non impossibile.
La presidente del Pd, Rosy Bindi, trova «coerente» il discorso di Fini, «che ha confermato la determinazione a costruire in Italia una destra moderna e europea. Fini con la sua battaglia politica offre un contributo importante al superamento dell’anomalia berlusconiana e a far maturare una seria democrazia bipolare, nel solco della nostra cultura costituzionale». Una destra differente e distinta, aggiunge, dal Pd, su «cui competere per il governo del paese», ma che non mette in discussione la Costituzione, come invece fa il premier.
Piero Fassino invita Berlusconi a prendere atto della fine non solo del Pdl ma della stessa maggioranza davanti alle Camere. «Un discorso chiaro ed esplicito quello di Fini dice che certifica il dissolvimento della maggioranza di governo.
Quello che è certo è che dopo questo discorso Berlusconi non può fare finta di niente e cercare di convincere gli italiani che è tutto come prima. Nulla è come prima. Non c'è più il Pdl e dunque non c'è più la maggioranza, Fini ha detto non alle leggi ad personam, ha definito vergognosa questa legge elettorale, il Pdl come una caserma. A questo punto l'unica conseguenza è che Berlusconi venga in Parlamento». Beppe Fioroni si rivolge al Pd: «L’intervento di Fini ci pone di fronte a una maggioranza e a un governo che saranno sempre piu' conflittuali e sempre a maggior rischio di voto anticipato. Per questo il Pd deve trovare la forza di rifondarsi e rilanciare il proprio progetto originario».

l’Unità 6.9.10
«Sergio, datti da fare»
Chiamparino prepara lo sbarco a Roma
Bagno di folla per il sindaco di Torino. Domani in edicola il libro «La sfida», una sorta di manifesto che prepara la candidatura alle primarie del Pd. «Questa maggioranza è finita, prepariamoci»
di M. Ze.

Walter Veltroni lo ha chiamato, «Sergio, mi farebbe piacere presentare il tuo libro». Idem Piero Fassino, con il quale si è incontrato ieri proprio a Torino, alla Festa democratica. Sergio Chiamparino se voleva far discutere c’è riuscito. Martedì uscirà in libreria «La sfida, oltre il Pd per tornare a vincere anche al Nord», scritto con Paolo Griseri ed edito da Einaudi. Analisi amara la sua, il Pd «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati a Sant’Andrea Delle Fratte. Quando ci arrivi è come se ci fosse una segnaletica stradale cheti indica i diversi piani e corridoi con i nomi delle correnti e delle loro varie componenti».
Ma quando arriva in Piazza Castello l’attenzione è già puntata avanti, in questa girandola impazzita della politica italiana dove il cofondatore del partito di maggioranza sta dichiarando la morte di quel partito di cui non fa più parte. «Hai sentito Fini? Dobbiamo prepararci, Sergio datti da fare», gli dice un signore che lo avvicina. Ne arriva un altro e un altro ancora, perché l’idea che proprio il loro sindaco possa sbarcare a Roma, be’, «a noi piace e non poco».
Chiamparino risponde che sì, bisogna mettersi al lavoro. Lui è pronto, un ticket con Nichi Vendola, attraverso le primarie, chi vince è il leader, chi arriva secondo fa il vice, proprio come è successo in America, con Obama e Clinton. E chissà che i tempi non si accorcino, dopo il Fini di Mirabello.
«Dai toni che ho sentito ho l’impressione che questa maggioranza di governo è finita dice Chiamparino -. Questo nuovo patto di fine legislatura mi sembra scritto sulla sabbia perché i toni e la durezza non so quanto siano compatibili con la serenità necessaria ad una maggioranza che deve governare il Paese». E allora ecco il ruolo del Pd: mettersi «rapidamente» al lavoro per creare un’alternativa da spendere o «per una campagna elettorale o per un governo di transizione».
I due cerchi di Bersani? «Vanno bene se questo è un modo molto interno per dire che non dobbiamo andare verso la strada dell’Unione e dell’autosufficienza, ma dobbiamo tradurre questo concetto per i mille bar sport dove va la gente comune». Ma prima bisogna uscire dalle logiche autoreferenziali, ripartendo «da chi lavora e non è tutelato, chi sta fuori dal giardino: gli operai, i tecnici, gli imprenditori che vivono esposti alla concorrenza internazionale. Sono loro che combattono tutti i giorni», scrive nel suo libro e ripete qui aggiungendo che deve finire il suo lavoro da sindaco, «poi sono pronto a dare una mano a costruire un dibattito sui contenuti per dare corpo all’alternativa e ad un alleanza».
Ma deve essere il Pd, aggiunge, il perno, «non può essere subalterno né al terzo polo a cui pensa Rutelli», né ad Antonio Di Pietro. «È sempre più difficile costruire una prospettiva di un progetto più ampio se il suo atteggiamento è quello che ha avuto rispetto alle contestazioni dei grillini l’altro giorno qui a Torino. Mi stupisco meno dei grillini, sono nati per quello, mi stupisco di Di Pietro che li difende, ma questo è un suo problema». Chiamparino torna anche su un tema a lui caro, il partito federale, «una forza che le caratteristiche per poter parlare anche al di fuori di se stessa», di uscire dal giardino, appunto, accelerando il processo «di rigenerazione del partito».
Come hanno reagito i big del partito? «Mi hanno chiamato soltanto i miei amici», risponde. Poi, dopo il dibattito sulla sicurezza, se ne va ai Giardini Reali a fare «coccardaggio». Un bagno di folla e di «dai Sergio, non mollare».
I commenti da Roma, invece, sono come al solito complessi. I dalemiani sono critici, anche se, dicono, l’annunciata candidatura del «Chiampa» non sarà un’insidia per la leadership di Bersani, mentre i veltroniani, come Valter Verini lo ritengono un fatto positivo

Repubblica 6.9.10
Il manifesto di Fini per un’altra destra
di Massimo Giannini

Forse è davvero finita un´epoca, per l´anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un´"altra destra". Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.
Era enorme l´attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l´assalto del "Giornale". Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.
Con un discorso di un´ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato. La "macchina del fango" messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei "Tg ridotti a fotocopie dei fogli d´ordine del Pdl", quelle "campagne paranoiche e patetiche", quegli "atti di lapidazione islamica" e quegli "atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia": era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell´aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell´inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.
Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell´elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non c´è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l´essenza di un vero "partito liberale di massa". C´è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall´idea malintesa della "riforma della giustizia" fatta nell´interesse di un singolo e del garantismo come "impunità permanente", coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere "meno uguale" degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa "il Parlamento come dependance dell´esecutivo". Dalla mancata difesa dei diritti degli "extracomunitari onesti", praticata da chi declina l´immigrazione come pura "guerra ai clandestini", alla mancata difesa dei veri valori dell´Occidente, svenduti per bieca "realpolitik" nella "genuflessione" di fronte a Gheddafi. Nell´aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c´è conflittualità "congiunturale" che non nasconda anche un´evidente incompatibilità culturale.
E questo non vale soltanto per la "cifra" identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l´azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le "proteste sacrosante" delle forze dell´ordine e dei precari della scuola al ridicolo "ghe pensi mi" col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come "favore a Bossi" alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell´incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro "fisico" tra i due. E cioè che si sente ormai "altro" da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a "contorno del leader", a "coro di plaudenti" o a "popolo di sudditi". Ha fatto regredire a rozzo "partito del predellino", o a versione scadente di "Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An" pronto a servire qualunque generale.
Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che "il Pdl è morto il 29 luglio", con quell´atto autoritario di marca "staliniana" con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l´epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l´atto fondativo di un nuovo corso. Non c´è ancora l´annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c´è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all´Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno "sdoganamento" repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la "rivolta di Mirabello" del 2010 con la "svolta di Fiuggi" del 1995. Come se il Cavaliere - in questi quindici anni di "traghettamento" dell´ex Movimento sociale, dalle "fogne" di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi - fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.
Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. "Né ribaltoni, né cambi di campo", quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe "un fallimento per tutti noi") né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo "avventurismo politico"). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un "patto di legislatura", per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su "un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi", dove i parlamentari non sono in vendita "come i clienti della Standa" e dove le grandi riforme "in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l´opposizione". Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca "il diritto di governare" senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.
Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c´è più, e che "non si rientra in una cosa che non c´è più", allora è ancora più vero che non c´è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata l´aveva fatta quell´animale politico che risponde al nome di Bossi: "Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato…". Il Senatur è stato fin troppo ottimista. Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato. E´ un rischio mortale. Il "pifferaio di Arcore" ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po´ meno anche gli italiani.
m.gianninirepubblica.it

Corriere della Sera 6.9.10
Bersani: «La crisi è certificata Bene l’apertura sulle regole»
di R. P.

Di Pietro: Fini dovrebbe scegliere ma fa il furbo

MILANO — Per una volta concordano tutti: con il suo discorso di Mirabello, Gianfranco Fini ha ratificato la fine della maggioranza e sarebbe pertanto ora che il premier Silvio Berlusconi riferisse in Parlamento.
Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui». È questa l’interpretazione del pensiero del presidente della Camera tracciata dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani: «Fini ha dichiarato la fine del Popolo della libertà certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Quanto alla possibilità che si corra verso le elezioni anticipate, spiega Bersani, «vedo un assurdo tentativo di galleggiamento, ma non abbiamo mesi da perdere altrimenti va a fondo il Paese». Uno spiraglio, però, i riformisti lo individuano nelle parole che l’ex leader di An ha dedicato al sistema di voto: «Il presidente della Camera — sostiene il segretario democratico — può essere un interlocutore per le regole del gioco: ha detto delle cose che interessano il nuovo Ulivo, ad esempio, sulla legge elettorale che va cambiata». Si riapre così la strada a quell’ipotesi di alleanza allargata per «la salvaguardia della democrazia» che il Pd aveva già avanzato nei giorni scorsi: «Quella elettorale è una riforma che non possiamo fare da soli ma con chi è disponibile a restituire la scelta agli elettori».
Francesco Rutelli giudica «largamente condivisibile nel merito» l’intervento dal palco di Mirabello anche se, aggiunge, «Fini resta nella maggioranza e noi all’opposizione. Ma certamente oggi il nuovo polo è piu vicino». L’analisi del leader dell’Alleanza per l’Italia investe la fine del «bipolarismo come lo abbiamo conosciuto in questi anni. E non mi riferisco al ’93, quando io e Fini ci siamo contrapposti a Roma, ma ancora a due anni fa. Nell’attuale coalizione di centrodestra sono ora tre i soggetti — Pdl, Fli e Lega — che definiranno la politica della maggioranza». Chi invece non fa sconti è il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Fini non può giocare a fare il furbo con gli italiani, né non può pensare di essere uno e bino. Deve fare una scelta: o sta all’opposizione o sta al governo. Ha appena criticato la fallimentare politica di questo esecutivo, proprio come fa tutti i giorni l’Idv. Ma con coerenza, noi chiediamo che il governo vada a casa al più presto mentre lui dopo aver denunciato il conflitto d’interessi e il menefreghismo di Berlusconi, il ricatto e il tentativo di comprare i parlamentari, il disastro economico e sociale procurato al Paese, comunica agli italiani che sosterrà il governo, appoggiando i cinque punti che il Cavaliere vuole portare all’ordine del giorno. Si decida: o manda a casa quello che lui stesso ha definito un despota oppure, se rimane in questo esecutivo, è complice anche lui».
Infine, la sinistra radicale invoca subito il ricorso alle urne: «Il Pdl non esiste più — rileva Claudio Fava di Sinistra e libertà —. Fini resta a destra com’era comprensibile, l’attuale Parlamento è sempre più ingovernabile. Il voto adesso sarebbe un atto di verità e di decenza politica».


l’Unità 6.9.10
L’idea Maroni «Espulsioni di comunitari non in regola»
di Salvatore Maria Righi

Oggi a Parigi il ministro dell’Interno avanzerà la proposta in un vertice con colleghi europei
Per il capo del Viminale va cacciato chi non rispetta la direttiva Ue. Milano, un caso Moschea

Pochi giorni dopo il caso Sarkozy-rom, il ministro Maroni a Parigi chiederà ai colleghi europei «gli strumenti» per espellere dall’Italia i cittadini comunitari senza dimora, reddito o autosufficienza.

Il ministro dell’Interno non costruisce moschee, ha spiegato Roberto Maroni all’arcivescovo Dionigi Tettamanzi che ne ha chiesta una per le migliaia di islamici che vivono a Milano, in nome dell’elementare principio della libertà di culto. Il ministro dell’Interno fa un altro mestiere ed evidentemente la pensa un po’ diversamente dal presule, sul fatto che l’anima non abbia dogane o cancelli. Se fosse per lui, anzi, bisognerebbe tirarne su altri, e non per la fede, ma per tenere alla larga liberi cittadini di questo continente. Il caso Sarkozy-rom gli ha dato l’assist, e stamattina Maroni avrà un palcoscenico perfetto, proprio in Francia, al Seminario ministeriale dedicato all’asilo e alla lotta contro l'immigrazione clandestina. Il capo del Viminale, dalle intenzioni manifestate ieri, vuole andare molto oltre al titolo dell’appuntamento. Chiedendo ai suoi colleghi degli altri paesi di poter espellere dall’Italia non clandestini, criminali o persone politicamente indesiderate, ma cittadini comunitari. Cioè persone che appartengono legalmente e idealmente al continente che ha abbattuto le frontiere e azzerato le nazionalità. Ha promesso più durezza di quella usata dall’Eliseo contro il gruppo di rom, ma era difficile immaginare dove vuole arrivare il capo del Viminale. Secondo Maroni, basta applicare la direttiva comunitaria del 2004. Il ministro dell’Interno vuole «gli strumenti per applicare», alla lettera, quella normativa che richiede un reddito, una dimora e un’autosufficienza per chi vivere in uno degli stati dell’Unione europea. Li chiederà agli altri ministri seduti al tavolo dell’Assemblea nazionale, sotto la torre Eiffel. Precisando, come ha già fatto a suo tempo, che si parla proprio di una cacciata, non di «rimpatri assistiti e volontari». Ci aveva già provato, Maroni, chiedendo a Bruxelles le mani libere per metterle addosso, viene da pensare, a cittadini dell’area Ue. Il commissario Jacques Barrot gli aveva detto no, perché l’Europa in questi casi ammette al massimo un invito ad uscire dal paese, non certo i calci nel sedere che forse ha in mente il governo italiano e che suona come una bestemmia per la libertà di circolazione su cui è stata costruita la Ue. «Oggi se le condizioni non ci sono, non possiamo fare altro che dire: te ne devi andare» ha ricordato Maroni da Cernobbio.
SVOLTA DA ROMA
Troppo poco, per Maroni, che ribadisce la premessa: «Abbiamo dei cittadini europei che in base alla direttiva Ue non possono risiedere stabilmente in un Paese». Vista l’aria che tira e il polverone Sarkozy, il ministro precisa che non c’entrano i rom e che lui non è affatto malvagio, come magari lo disegna qualcuno. «Non è che il ministro dell'Interno è cattivo, ma ci sono delle regole europee da rispettare e se questo non accade gli Stati sono impotenti. Chiederemo di poter espellere i cittadini comunitari che non rispettano queste regole per poterle applicare veramente». Uno spettro si aggira per l’Europa, insomma, il torpore di Bruxelles sulle leggi. Meno male che c’è Maroni.

l’Unità 6.9.10
L’«amico» Gheddafi riapre la caccia all’eritreo
Ventuno giovani migranti rinchiusi nei lager libici. Due sono invalidi Dimenticati i 205 arrestati a luglio. Qualcuno ha ritentato la fuga in Italia
di Umberto De Giovannangeli

I riflettori si sono spenti. Gli indignati dell’ultima ora sono tornati in letargo. Ma in Libia le retate sono riprese. I lager a riempirsi. Ai «dimenticati di Brak» si aggiungono i deportati di Kuifia. Storie agghiaccianti. Che chiamano in causa, ancora una volta, le responsabilità di un Governo, quello italiano, che dopo aver celebrato gli show romani del Colonnello, continua a ignorare gli appelli disperati che giungono dalla Libia. Dell’odissea degli oltre 200 eritrei segregati per giorni e giorni nel lager di Brak, nel deserto libico, l’Unità ne ha dato conto a più riprese, grazie, soprattutto, al contributo di un sacerdote indomito: don Mussie Zerai, eritreo, responsabile dell’ong Habesha, un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani. Don Zerai ci aggiorna sulla vicenda dei 205 «liberati» da Brak: «Alcuni di loro rivela a l’Unità hanno cercato di raggiungere l’Italia. Ma non ce l’hanno fatta». Altri continuano a chiedere di avere un incontro con qualche funzionario dell’Ambasciata italiana a Tripoli, in modo da poter illustrare la loro storia e veder riconosciuto il diritto all’asilo. Ma anche questa richiesta è caduta nel vuoto.
Per il Governo italiano la «pratica è chiusa», Definitivamente. Con affari miliardari in fase di definizione, guai a innervosire l’«amico Muammar» tirando fuori il dossier sui diritti umani. Meglio chiudere gli occhi. E occuparsi d’altro. E poco importa che le retate sono riprese. Che è ripresa la caccia all’eritreo. A Tripoli, a Bengasi...Quella raccontata da Mussie Zerai, sulla base di contatti diretti con alcune delle vittime, è la storia di sedici ragazzi e cinque ragazze di nazionalità eritrea, tutti profughi, prelevati dalle autorità libiche dalle loro abitazioni nella
città di Bengasi: «Li sono andati a cercare sottolinea Zerai andavano a colpo sicuro...». È la sera del 3 settembre. L’incubo ha inizio. E nelle testimonianze raccolte dal fondatore di Habesha, si «arricchisce» di particolari agghiaccianti. «I ragazzi racconta don Zerai mi hanno detto di essere stati messi assieme a persone che hanno commesso reati quali omicidi, stupri, spaccio di droga...Trattati alla stregua di criminali comuni». Questo avviene nel centro di detenzione di Algedya, mentre le cinque ragazze sono state condotte nel carcere di Kuifia, nei pressi di Bengasi. «La situazione più grave prosegue il suo racconto Mussie Zerai riguarda due ragazzi: uno che ha una gamba amputata e ha bisogno di cure continue. Invoca assistenza, che gli viene negata».
L’altra emergenza riguarda un ragazzo con problemi mentali. «Da quanto mi hanno riferito dice il sacerdote eritreo questo ragazzo continua a sbattere la testa contro il muro. È in una condizione di totale confusione. Avrebbe bisogno di cure specifiche, andrebbe tolto da quella cella...». Così non è. Quel ragazzo con disturbi mentali e l’altro con una gamba amputata, e gli altri quattordici loro compagni di sventura, per le autorità libiche sono «migranti illegali» e dunque da trattare alla stregua di criminali.
Non basta. Ad allarmarli ulteriormente è stata una visita indesiderata: quella di un rappresentante dell’Ambasciata eritrea a Tripoli, il quale ha comunicato loro che presto, molto presto, a causa della mancanza di un passaporto valido saranno deportati nel Paese d’origine. Quel Paese da dove erano fuggiti. «Al che i ragazzi hanno chiamato per chiedere aiuto», spiega Mussie Zerai. «Ho parlato con gli esponenti di diverse organizzazioni umanitarie e con Laura Boldrini (portavoce in Italia dell’Unhcr, ndr)afferma il sacerdote -. A tutti loro ho chiesto di attivarsi non solo per impedire la ventilata deportazione di queste persone, ma anche perché si arrivi a una soluzione globale». Una speranza che si scontra con la colpevole inerzia della diplomazia italiana. E del suo responsabile: Franco Frattini. «Tutto questo accade in conseguenza dell’Accordo Italia-Libia, secondo il quale il leader Gheddafi si impegna a fermare nel suo Paese i profughi richiedenti asilo, impedendo loro di beneficiare della Convenzione di Ginevra e di godere dunque dei propri diritti fondamentali», sottolineano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione per i diritti umani EveryOne. «Chiediamo pertanto aggiungono al Governo italiano, in particolare al ministro Frattini, di attivarsi al più presto per scongiurare un’imminente deportazione che potrebbe mettere in serio pericolo di vita i profughi...».
«La soluzione per noi insiste il responsabile di Habesha continua a rimanere quella di avviare un programma di reinsediamento. Per tutti i rifugiati e i richiedenti asilo che sono in Libia, l’unica soluzione vera è di essere reinsediati in un Paese che garantisce i loro diritti. È quello che continuano a chiedere: vogliamo essere accolti in un Paese democratico che rispetta i nostri diritti di richiedenti asilo e di rifugiati». Tra questi Paesi c’è l’Italia. Un Paese il cui ministro dell’Interno non perde occasione per esaltare i successi (leggi respingimenti forzati) ottenuti con l’Accordo di Bengasi. Un Paese che ha assistito tra l’incredulo, l’indignato e il compiaciuto ai recenti show del Colonnello «convertitore». Un Paese che nel nome degli affari miliardari con Tripoli è venuto meno al rispetto di Convenzioni ratificate e ai più elementari principi di umanità.
Il forziere del Rais. È questo che fa gola. Secondo alcuni, ricorda il corrispondente di El Pais a Roma, Miguel Mora Gheddafi dispone di una liquidità di circa 65 miliardi di dollari, e punta a nuove partecipazioni in Eni, Impregilo, Finmeccanica, Terna e Generali. Oltre ad essere, con il 7% del pacchetto azionario, il primo azionista di Unicredit, il più grande gruppo bancario italiano, che a sua volta controlla Telecom, Rcs e Assicurazioni generali.

l’Unità 6.9.10
La violenza contro le donne
di Anna Costanza Baldry, risponde Luigi Cancrini

Da donna e da cittadina, mi domando e domando perché gli uomini si accaniscono così contro di noi. Da psicologa e criminologa, vorrei tanto che almeno uno di questi uomini violenti riconoscesse di avere un problema e si facesse aiutare a capire che la sua violenza è il tentativo di gestire un suo diritto che non c’è.
RISPOSTA La violenza dell’uomo sulla donna nella coppia moderna, è stata spiegata in molti modi. Per ciò che riguarda l’Italia e la Spagna, molto si è insistito sulla brusca mutazione antropologica che ha restituito pari opportunità ai due sessi in tutte le società occidentali: cogliendo impreparati troppi uomini che hanno difficoltà a trasformarsi da mariti in compagni. Nel rapporto con i figli, d’altra parte, quella che è difficile accettare per la donna è la parità rivendicata con fatica e spesso inutilmente dagli uomini: un elemento di conflitto alla base di molti dei delitti più gravi. Difficile, da una parte e dall’altra, aiutare le persone a guardarsi dentro, a riconoscere ed a controllare la irrazionalità dei comportamenti più aggressivi in una situazione in cui il divorzio è un’impresa ed in cui la partecipazione emotiva degli avvocati (e, a volte, dei giudici) tende ad esacerbare la rabbia e l’aggressività di chi, vivendo comunque un fallimento e un lutto, difensivamente ne attribuisce la colpa all’altro. Rendendo impossibile, spesso, il lavoro potenzialmente utile a tutti (e soprattutto ai figli), dei terapeuti: personali e di coppia.

Repubblica 6.9.10
Obama taglia le tasse sulla ricerca
Sgravi da 100 miliardi di dollari alle aziende che investono
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Barack Obama ci prova e per rilanciare l´economia americana mette sul piatto il suo piano di tagli alle tasse: un programma di sgravi alle aziende che si impegnano a fare ricerca. Costo? Cento miliardi di dollari. E un braccio di ferro con l´opposizione che sarà inevitabile.
Il meccanismo sarebbe un boccone che in teoria anche i repubblicani dovrebbero imboccare. Gli sgravi sulla ricerca che Obama chiederà al Congresso di approvare sono un ritornello bipartisan, e provvedimenti a tempo sono stati rilanciati dalle amministrazioni di ogni colore negli ultimi trent´anni. Perfino uno studio della Camera di Commercio - l´associazione che corrisponde alla nostra Confidustria e che ha dichiarato guerra alla Casa Bianca - sostiene che il credito sulla ricerca permette la creazione di numerosi «posti di lavoro americani» e ben pagati: perché almeno il 70% dei benefici vanno ai salari di chi fa ricerca e perché gli sgravi sono concessi solo a chi fa ricerca negli Usa.
Ma il clima di tutti contro tutti alla vigilia del voto di novembre rende problematica qualsiasi previsione sul provvedimento. Il presidente è nel mirino per la decisione di non rinnovare i tagli fiscali regalati all´America da Bush che scadranno alla fine dell´anno. Barack ha già annunciato che conserverà soltanto i tagli per il ceto medio: i nuclei familiari che non superano i 250mila dollari all´anno. John McCain dice in tv che questa è "guerriglia di classe", ma il presidente sostiene che gli Usa non possono più permettersi quel regalo ai ricchi che rischia di dissestare ancora di più le casse dello Stato disperatamente bisognose di cash con un deficit pubblico che è ormai un decimo del Pil. I critici dicono invece che i tagli sono necessari per rilanciare l´economia che cresce troppo lentamente: la domanda è inchiodata al palo da una disoccupazione salita in agosto al 9,6%. E i sondaggi minacciano: sei americani su 4 sono delusi da come Obama gestisce l´economia.
Obama aveva già annunciato venerdì che dopo il lungo ponte del Labour Day - oggi l´America si ferma per la festa del lavoro di qui - avrebbe rivelato i suoi piani. E´ stato il New York Times ad anticipare il progetto degli sgravi sulla ricerca. L´Amministrazione pensa anche all´estensione di altri sgravi minori per le medie imprese e a un rilancio delle infrastrutture per favorire l´occupazione. Ma se gli sgravi sulla ricerca sono così popolari perché in tutti questi anni non sono stati istituzionalizzati? Il problema è appunto il loro costo. Ma i tecnici del presidente avrebbero già identificato il bacino dove andare a pescare i 100 miliardi: l´Amministrazione tasserà i guadagni all´estero delle sue multinazionali e colpirà anche le grandi compagnie del petrolio e del gas. Che non godono certo di grande popolarità dopo la macchia nera nel Golfo e che sono già insorte: ieri gli spot miliardari a difesa dell´industria che "crea energia per l´America" hanno inondato le tv.

Repubblica 6.9.10
Francia, oggi la scuola in piazza contro i tagli voluti da Sarkozy
E domani sciopero generale contro la riforma delle pensioni
di A. G.

Il ministro del Lavoro Woerth deve affrontare anche lo scandalo Bettencourt

PARIGI – Una protesta continua. La Francia riscopre la sua voglia di contestazione, in una settimana ad alta tensione per il presidente Nicolas Sarkozy. Le polemiche per il corteo di sabato contro il razzismo non sono ancora terminate, che è già tempo di nuove mobilitazioni. Domani infatti i sindacati francesi hanno indetto lo sciopero nazionale contro la riforma delle pensioni, in discussione al parlamento. Una tappa decisiva per il capo dello Stato. «Non lascerò l´Eliseo – ha ribadito Sarkozy - senza aver prima fatto approvare questa riforma». Già oggi gli insegnanti delle primarie scioperano, mentre le organizzazioni sindacali, spalleggiate dalla sinistra, promettono di portare in piazza due milioni di persone.
Secondo un sondaggio dell´Ifop, sette francesi su dieci sostengono la contestazione di domani, a soli tre giorni da quella contro la cacciata dei rom e la linea dura sull´immigrazione. Sabato, centomila persone hanno sfilato a Parigi e in altre città. Il governo minimizza. «I francesi non hanno creduto ai falsi slogan» dice Eric Besson, ministro dell´Immigrazione, che però ha dovuto spostare la data del suo matrimonio proprio a causa delle proteste. Besson doveva sposarsi il 16 settembre con la sua giovane fidanzata tunisina. Ma un appello su Facebook a manifestare durante la cerimonia lo ha costretto a rinviare. Oggi Besson ha convocato un vertice europeo a Parigi, al quale parteciperà anche il ministro Roberto Maroni. L´obiettivo di alcuni paesi dell´Ue, tra cui Francia e Italia, è riuscire ad applicare in modo più restrittivo il principio di libera circolazione dei cittadini comunitari.
Sull´altro fronte aperto, la riforma delle pensioni, toccherà invece a Eric Woerth andare avanti. Il ministro del Lavoro, al centro dello scandalo Bettencourt, deve difendere in parlamento la nuova legge. La sinistra ha già chiesto le sue dimissioni, i sindacati lo considerano un interlocutore "delegittimato", mentre il 60% dei francesi pensa che non dovrebbe più occuparsi di questa riforma. Il governo vuole innalzare l´età pensionabile da 60 anni a 62 anni entro il 2018. In testa al corteo di domani, i sindacati metteranno le foto della miliardaria Liliane Bettencourt, che ha elargito doni e finanziamenti alla destra. «Sarkozy non è il presidente dei ricchi» commenta il segretario generale dell´Eliseo, annunciando alcune concessioni, per esempio nel caso di lavori usuranti. «Mi aspetto proteste» aveva detto Sarkozy, approvando la riforma. «Ma se dobbiamo ritirare un progetto utile per il paese ogni volta che c´è una manifestazione, non faremo mai niente».

Repubblica 6.9.10
La capienza regolamentare è di 44.000 persone. L'allarme del Sappe: "Alfano ha l'obbligo di trovare una soluzione"
Emergenza carceri, quasi 70.000 i reclusi superato il limite in tutti i penitenziari
di E. V.

ROMA - Carceri, è allarme in tutte le regioni. Con 68.345 detenuti presenti il 31 agosto scorso nei 207 penitenziari italiani «si è ampiamente superata la capienza ‘regolamentare´, quella per cui si è stimato che un istituto possa funzionare correttamente seguendo i dettami della Costituzione». Gli spazi sono esauriti. A denunciarlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato penitenziario Sappe.
Le celle fatiscenti con quattro detenuti in nove metri quadrati non bastano più: il Consiglio d´Europa ha già richiamato all´ordine l´Italia ma la situazione anziché migliorare si è fatta agghiacciante. Che il rischio di collasso stava per trasformarsi in emergenza nazionale, lo aveva ammesso lo stesso ministro della Giustizia, Angelino Alfano, annunciando in gennaio un piano edilizio per la costruzione di nuovi istituti di pena. La capienza regolamentare di 44 mila detenuti era stata sforata da tempo ma è quest´anno che si è superata la quota di tollerabilità massima. Ammassando i carcerati si ricavavano poco più di 66.550 posti. In marzo erano oltre 67 mila. Adesso in cella non si respira più.
«E´ solo grazie alla professionalità e al senso dello Stato che hanno le migliaia di poliziotti penitenziari, carenti in organico di più di seimila unità, che si riescono a contenere i disagi e le proteste delle quasi 69 mila persone detenute», prosegue Capece, che torna a sollecitare misure urgenti. La previsione del piano Alfano è di investire 1,4 miliardi per 24 nuovi istituti da realizzare con procedure d´emergenza, come quelle piuttosto discusse del G8. Ma si è partiti con 700 milioni e nuovi padiglioni per espandere le strutture già esistenti. La promessa è di 21 mila posti in circa sei anni. Tuttavia basta visitare qualunque galera per capire che il problema non sono solo le strutture. Il sistema penitenziario italiano non regge l´ondata di ingressi, quasi metà dei detenuti è in attesa di giudizio.
«Alfano e i parlamentari che hanno visitato le celle a Ferragosto - scrive il Sappe in una nota - hanno l´obbligo politico e morale di trovare al più presto una soluzione, magari ascoltando anche le proposte di chi, come la polizia penitenziaria, in carcere ci lavora 24 ore al giorno tutto l´anno. Le passerelle non ci interessano».
(e.v.)

Repubblica 6.9.10
Come salvarsi dal populismo nel mondo senza confini
di Ulrich Beck

Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all´assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L´incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull´economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali. Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all´occupazione precaria in rapida diffusione promuove l´ideale della piena occupazione, offende l´umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l´umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l´umanità. Chi, nell´era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l´industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l´umanità.

Per gentile concessione dell´editore anticipiamo parte della premessa dell´ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell´età globale" in uscita per Laterza

Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l´una rispetto all´altra sono diventate irreali al più tardi con l´introduzione dell´euro. Nella misura in cui c´è l´Europa non esistono più la Germania, la Francia, l´Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all´interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?
(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea – la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità – vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita – ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d´urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.
Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d´ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...).
In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata – riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi – come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l´internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).
Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell´ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto – è questo l´argomento di questo libro – subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell´economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.
Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell´economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell´economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell´ambiente?
L´importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell´economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell´economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?
(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a – e capace di – vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell´altro, dell´alterità, cioè quando l´evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest´ultima sarà diventata quotidiana .
(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.

Repubblica 6.9.10
La politica della paura
di Anais Ginori

Il catalogo aumenta spaventosamente. Al mercato della paura, l´offerta non manca mai. Nuovi virus, animali impazziti, attentatori sempre più bizzarri. Aziende che non riescono a fermare i suicidi dei loro dipendenti, borse mondiali che crollano in qualche nanosecondo. Sequestri lampo, terremoti, uragani, maremoti, vulcani che si risvegliano. Micro e macro criminalità, senza capire più la differenza. E noi sempre lì, quasi paralizzati. Si chiama "L´administration de la peur", ovvero come il sentimento più umano e irrazionale che ci sia - la paura - viene ormai provocato e strumentalizzato dalla politica. È il nuovo saggio del filosofo Paul Virilio, già studioso della velocità come fattore di cambiamento dell´umanità. Un tempo, ricorda Virilio, le grandi paure erano riservate alle guerre e alle epidemie. Adesso, in un mondo nel quale sono state abolite le distanze, ogni giorno ha la sua dose quotidiana di terrore. In presa diretta con qualsiasi piccola o grande minaccia. Un "live" perpetuo, sul quale si costruiscono leader e governi. Attaccate le cinture di sicurezza, siamo ormai nella democrazia delle emozioni.

Corriere della Sera 6.9.10
Frustate a Sakineh, «condanna eseguita»
di Cecilia Zecchinelli

Il figlio accusa: «Una atrocità che mi indigna»
«La condanna è già stata eseguita » , ovvero Sakineh Mohammadi Ashtiani ha già ricevuto la punizione di 99 frustate per aver «sparso corruzione e indecenza» diffondendo una sua foto col capo scoperto. Foto non sua — si è poi scoperto —, di cui lei non sapeva niente, pubblicata per errore da un giornale di Londra a migliaia di chilometri dal carcere di Tabriz dove la prigioniera più famosa d’Iran attende l’esecuzione da quattro anni. Ma tant’è, il regime reagisce con rabbia alla campagna mondiale per liberarla e si vendica, ancora una volta.
La notizia dell’avvenuta flagellazione è stata data ieri da una ex compagna di cella di Sakineh, intervistata da Radio Farda e unico contatto dell’avvocato e dei figli con la prigioniera. «E’ stata un’atrocità ingiustificata», ha detto all’Adnkronos il primogenito 22enne Sajad, che non vede né sente la madre da 20 giorni ma riesce ad avere sue notizie dalle detenute liberate. Sajad dice di vivere nel terrore. «Ho paura per me e per mia sorella soprattutto. Abbiamo ricevuto in questi giorni varie telefonate del ministero dell’Intelligence, ci chiedeva di presentarci alla sede di Tabriz ma per ora non l’abbiamo fatto perché abbiamo paura, non sappiamo cosa ci vogliano fare».
Il giovane, che ha avuto il coraggio e la bravura di dare il via a una campagna internazionale ogni giorno più vasta, aggiunge che lui di giorno lavora ma la sorella Farideh, 17 anni, «resta in casa da sola e ogni volta che esco spero non le succeda niente». E poi, ancora un volta, si appella alla comunità internazionale perché non si tiri indietro: «In Iran siamo soli, nessuno ci sostiene tranne il nostro avvocato Javid Kian», nominato dalle autorità ma poi convintosi dell’innocenza della donna condannata per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. «Non ci sono sviluppi processuali — conclude Sajad — ma sembra che vogliano ancora lapidarla: mia madre è sola la prima vittima, stanno usando il suo caso per spianare la via ad altre esecuzioni e valutare le reazioni internazionali».
Reazioni che si stanno facendo sempre più dure: non solo per Sakineh e (molto meno) per i 22 iraniani (tra cui 4 uomini) in attesa della lapidazione. Ma per l’arroganza del regime che critica e minaccia tutti. Anche ieri Ahmadinejad, dal Qatar, ha tuonato contro Israele sostenendo che «qualsiasi attacco all’Iran porterà alla distruzione dell’entità sionista». Pochi giorni fa aveva «profetizzato» la cancellazione dalle carte geografiche dello Stato ebraico. Perfino il coinvolgimento del Cairo e di Amman nei negoziati sulla Palestina sono stati definiti «tradimenti» da Teheran, con toni e contenuti che nemmeno i Paesi arabi tollerano più.

Repubblica 6.9.10
Parla la storica della psicanalisi Roudinesco, firmataria dell´appello per la donna iraniana
"È un simbolo dell´oppressione porta su di sé il peso della barbarie"
Quello che accade non è Medioevo, perché in quell´era almeno le idee potevano circolare. È vero oscurantismo
di Anais Ginori

PARIGI - «Novantanove frustate?». Elisabeth Roudinesco fa una leggera pausa, come se stesse provando ad immaginare l´orrore della pena corporale inflitta a Sakineh. «Ma non è il Medioevo, perché almeno in quel periodo potevano circolare alcune idee. Questo è l´oscurantismo, piuttosto». La storica della psicoanalisi, autrice di una biografia di Lacan, ha firmato l´appello per salvare la donna iraniana, insieme ad altri intellettuali europei. Un appello che ha già raccolto oltre 110mila firme sul sito di Repubblica. Roudinesco non è sorpresa. «E´ diventata un simbolo – dice - ma non dimentichiamoci che è anche una donna in carne e ossa».
La mobilitazione cresce. E´ intervenuto anche il Vaticano. Sarà possibile salvare Sakineh?
«E´ una domanda che non bisogna mai porsi. Non credo alla prudenza in queste situazioni. Certo non firmerei una petizione contro il piano nucleare iraniano, perché è una questione delicata, tra l´altro al centro di complessi negoziati diplomatici. Ma questo è un caso emblematico, davanti al quale non ci si può tirare indietro. Sakineh porta su di sé il peso della barbarie».
Cosa accomuna tutte le persone che stanno protestando attraverso il mondo?
«Io non ho avuto esitazioni, anche se ho firmato l´appello insieme a persone che magari non la pensano come me su altri temi. Ci sono molte aspetti orribili in questa vicenda. Sakineh è stata condannata per adulterio, un delitto che per fortuna non esiste più in Occidente. Le autorità iraniane hanno estorto da lei una confessione con metodi degni dell´Inquisizione».
Qual è la sua conoscenza dell´Iran?
«So per esempio quello che scrivono di personaggi come Freud, Sartre, Simone de Beauvoir. Ne ho parlato nel mio libro Retour sur la question juive. Per loro, sono intellettuali che rappresentano Satana. L´Iran è un paese che non autorizza la libertà sessuale. Una società ancora patriarcale, nella quale donne e omosessuali sono perseguitati. Anche Darwin è bandito in Iran, dove si insegna ancora il creazionismo. Per questo non mi stupisce la reazione che ha avuto la stampa di regime nei confronti di chi si mobilita».
Fa riferimento agli insulti e alle minacce a Carla Bruni?
«Se la sono presa anche con Simone Veil e Martine Aubry, che pure avevano espresso il loro sostegno a Sakineh e sono persone molto diverse dalla Bruni. Guarda caso, però, si tratta sempre di donne. Come Sakineh. Credo veramente che lei possa rappresentare il segnale di una svolta. E se anche Sakineh fosse lapidata, non bisognerà mai arrendersi. Sono convinta che l´Iran sarà costretto ad abbandonare una barbarie ormai fuori dal tempo. Ci vorrà del tempo, ma accadrà. E´ inevitabile».

Corriere della Sera 6.9.10
Nietzsche, profeta senza enigma
di Armando Torno

Fu un erede della cultura classica tedesca insofferente a bugie, ipocrisia e illusioni

Ma Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche è opera filosofica o profetica? L’inizio di una nuova mitologia o il sogno di un solitario innamorato dei greci? Una risposta non c’è, ma si può cominciare a cercarla ricordando quanto scrisse quell’esibizionista di Thomas Edward Lawrence, agente segreto, militare, archeologo, autore de I sette pilastri della saggezza, noto ai più come Lawrence d’Arabia: lo considerava uno dei cinque libri titanici dell’umanità. Noi aggiungiamo che è una sorta di vangelo della purezza, concepito per combattere quello cristiano, fondato invece sulla caritas; in esso si canta l’esaltazione della vita nella sua tragica caducità, contro ogni forma di trascendenza. Il nome dello studioso che ci ha suggerito tali parole? Sossio Giametta. A sua cura è appena uscita una notevole edizione di Così parlò Zarathustra, con saggio introduttivo e un commento senza eguali (Bompiani, «Il pensiero Occidentale», testo a fronte, pp. 1.228, 30).
Oltre ad aver curato edizioni di Schopenhauer, Spinoza e Goethe, Sossio Giametta è autore di numerosi libri e dagli anni Cinquanta si occupa di Nietzsche. Formidabile conoscitore del tedesco, Giorgio Colli e Mazzino Montinari lo chiamarono nel gruppo che a Weimar lavorò sui manoscritti del filosofo, realizzandone la prima edizione critica, oggi punto di riferimento. Di Nietzsche ha tradotto e chiosato otto volumi per Adelphi, tre nei «Classici» Utet, nove nella Bur, un Ecce homo per la Biblioteca di via Senato di Milano. E ora questo Zarathustra dal superbo commento.
I più accreditati esegeti amano ripetere che Nietzsche è autore difficile; Curt Paul Janz e Karl Jaspers, Rüdiger Safranski o il fascinoso poeta e scrittore Gottfried Benn credettero che non bisogna cercare di capirlo, giacché non è riducile. Giametta sostiene l’op-posto. Sottolinea che c’è un criterio unitario che lo spiega: questo pensatore, di animo nobile, fu un erede della cultura classica tedesca insofferente a bugie, ipocrisia e illusioni. Il meccanismo che muove le sue idee è la ribellione contro le falsificazioni (da intendersi: sistemi filosofici, religioni, tradizioni, istituzioni). Con una radicalità scevra da compromessi, ha creato un terremoto. Atteggiamento — vera e propria dismisura teutonica — che lo portò a risultati disastrosi. Si mise in mente di scrivere un’opera fondamentale per porsi accanto ai sommi, ma naufragò in quel marasma di frammenti che è la Volontà di potenza. Giametta lo vede più come moralista e poeta nutrito di pensiero tragico, giacché non possedeva i mezzi del filosofo nel senso concettuale del termine. Puntò tutto sulla vita nella sua caducità — i tentativi contrari portano al nichilismo — con la medesima lealtà del figlio che non giudica la madre. Era, tra l’altro, convinto che da Copernico in poi l’uomo rotoli dal centro verso una «X», e questa incognita sarebbe la realtà, che non è pensabile, non è conoscibile.
Negando la realtà come una qualsiasi costituzione stabile delle cose, Nietzsche ritenne che la verità non esiste, e quella che chiamiamo con questo nome è l’errore di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Si scagliò contro la logica considerandola una macchina autoaffermativa, che rende pensabile quello che tale non è, ovvero la realtà. Giametta ricorda un altro elemento per il quale resta un enigma: si è notato che seguì un percorso strettamente solitario e filosofico, ma non si è capita la sua coincidenza con la crisi dell’Occidente. Nietzsche, tolto il valore a realtà e verità, afferma il bisogno di gerarchia e selezione naturale; urta gli animi ricordando che è necessaria la schiavitù come condizione di ogni alta civiltà, anzi è indispensabile per il suo innalzamento; esalta lo sfruttamento, accetta la sopraffazione. Se si viola il gioco selvaggio della natura, si i mpedisce l a nasci t a del l a grandezza. Trasfigurò la crisi storica del mondo occidentale in visione poetica, dionisiaca; ma, così facendo, l’ha legittimata, accelerata.
Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo.

Corriere della Sera 6.9.10
Nuova frontiera della morfina. Farmaco etico o solo una droga?

La morfina sembra rallentare la crescita del tumore. Avrebbe un potere anti-angiogenesi, bloccherebbe cioè lo sviluppo dei vasi sanguigni che il cancro crea ex novo per «alimentarsi». Un sospetto agli specialisti in terapia del dolore era già venuto, la conferma sperimentale viene ora da uno studio pubblicato in agosto dalla rivista scientifica The American Journal of Pathology. Notizia passata inosservata, non come per altri farmaci con lo stesso effetto che hanno sempre trovato ampio spazio sui media. Perché? Forse perché si tratta di morfina (la cultura oppiofobica è diffusa, specie in Italia, perfino nel campo del dolore) o forse perché alla fine la morfina come cura costa poco o nulla?
Un passo indietro. Che cosa si è visto in alcuni Hospice per malati terminali canadesi e statunitensi? Semplice: la vita dei pazienti trattati precocemente con morfina o suoi derivati, prima cioè che il dolore comparisse in modo insopportabile, si allungava rispetto alle attese. Dosi più basse, pazienti attivi e non «intontiti», e giorni in più guadagnati. Si pensava fosse il risvolto di una qualità di vita prolungata. Si è invece scoperta una dote inaspettata: la morfina, potente anti-dolorifico, sembra essere anche un’arma «intelligente» contro il tumore. In dosi clinicamente rilevanti è stata somministrata a topi geneticamente modificati in modo da avere il carcinoma del polmone di Lewis.
I risultati? Rallentata significativamente (se non bloccata) la crescita del cancro, rispetto al gruppo trattato con il placebo (niente farmaco), grazie alla riduzione, sia in lunghezza sia in ramificazione, dei vasi sanguigni tumorali. Bene anche la controprova con un farmaco che blocca l’azione della morfina a livello cellulare: l'effetto anti-angiogenesi svanisce. Il meccanismo? La morfina sembra inibire la chinasi p38, una proteina attivata dalla mancanza di ossigeno a livello cellulare e che comanda la formazione di neo vasi.
Se funziona anche sull’uomo, si avrebbe un buon farmaco a basso costo. E, allora, la morfina verrà finalmente «nobilizzata» a farmaco etico? O resterà solo e sempre demonizzata definendola, e pensandola, solo come droga (e non riferendosi al concetto di farmaco)?

Corriere della Sera 6.9.10
Ebook, l’editore cambia mestiere
di Antonio Carioti

«Una nuova missione per riscoprire il nostro ruolo creativo»

Nulla sarà più come prima per l’editoria con la rivoluzione digitale. Tra gli addetti ai lavori è diffusa la consapevolezza che, come osserva Paolo Zaninoni, direttore editoriale di Rizzoli, «entriamo in una fase di sperimentazione ricca d’incognite». A suo avviso però è anche un ritorno all’antico. «Bisogna recuperare — sostiene Zaninoni — il ruolo creativo che l’editore aveva una volta e si era in parte smarrito con il prevalere di logiche industriali. Con l’ebook ridiventa prioritaria la ricerca del talento e della qualità, mentre perdono importanza obiettivi come stampare più in fretta, distribuire in modo rapido e capillare, riempire gli scaffali dei rivenditori. L’editore del futuro sarà un produttore di contenuti declinati in forme diverse, non più soltanto testuali. Ad esempio con Dada, una società della Rcs specializzata in multimedialità, svilupperemo un’applicazione per iPad con i contenuti delle Storie della Bibbia, un’opera che abbiamo realizzato con i migliori disegnatori di libri per ragazzi».
Tra i meglio piazzati in fatto di ebook c’è il gruppo Giunti: «Abbiamo un catalogo digitale di un centinaio di titoli — spiega il vicepresidente Bruno Mari — e contiamo di superare i 700 entro la fine dell’anno. Siamo partiti in anticipo perché crediamo che sia in corso una trasformazione profonda. Nel 2009 si diceva che ci sarebbero voluti dieci anni perché l’ebook raggiungesse una quota del 10 per cento del mercato. Oggi nessuno ripeterebbe una valutazione così limitativa. Ma l’aspetto più interessante è la possibilità di organizzare nuovi for-mati editoriali, disponibili su supporti mobili agevolmente trasportabili, che offrano gli stessi contenuti complessi del volume di carta, ma con caratteristiche di ipertestualità , multimedialità e interattività. Per esempio noi stiamo lavorando a una guida turistica di Roma per smartphone con tutti i contenuti di quella classica del Touring Club, più diverse opportunità multimediali e interattive. Tutto il settore della manualistica si presta a un numero sconfinato di applicazioni. Di fatto dovremo imparare un altro mestiere».
Un compito non facile, secondo Ernesto Ferrero, direttore del Salone del libro di Torino: «Ho colto notevoli preoccupazioni tra gli operatori perché l’avvento dell’ebook tende a conferire un’assoluta libertà di manovra agli autori di bestseller. Se gli scrittori più redditizi potranno gestirsi da soli, come ha prospettato in America Andrew Wylie, instaurando un rapporto diretto con la distribuzione per via telematica, gli editori si vedranno sottrarre una parte consistente dei loro guadagni».
Tuttavia Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro del ministero dei Beni culturali, invita a diffidare degli scenari apocalittici: «Al momento il business dei libri riguarda in larghissima prevalenza la carta e lo scenario non cambierà a breve termine, diciamo per i prossimi cinque anni. Però si avvicina una radicale trasformazione, nella quale il ruolo degli editori non verrà meno, ma sarà insidiato da altri soggetti come gli attori della tecnologia e gli agenti letterari. La funzione mediatrice tra chi crea e chi fruisce della creazione non scomparirà, anzi verrà esaltata dall’aumento della complessità, ma bisogna vedere come cambierà. Ci attende una fase di transizione che va affrontata senza troppa paura. Anche il pericolo della pirateria digitale nel campo dei libri, che qualcuno paventa indicando l’esempio della musica, mi sembra lontano finché il mezzo elettronico resta minoritario in fatto di consumo dei libri».
Il problema però, sottolinea Riccardo Cavallero, direttore generale di Mondadori Libri Trade, va oltre il passaggio dalla carta ai bit: «In realtà l’ebook è un singolo aspetto di una rivoluzione nella quale a divenire digitale non è soltanto il libro, ma soprattutto il rapporto con il pubblico. Il nostro lavoro consiste sempre più nell’interagire con comunità di lettori sorte sul Web: gruppi in continua trasformazione, poco sensibili alla promozione pubblicitaria o alle recensioni sulla stampa. Per l’editore si pone l’esigenza di fornire agli autori un sostegno efficace nel loro sforzo di comunicare con questa platea esigente e frammentata. Inoltre diventa fondamentale conferire un’identità riconoscibile non solo ai diversi marchi di un gruppo come Mondadori, ma anche alle singole collane, che devono parlare direttamente al pubblico. Ciò esige mutamenti anche nella organizzazione aziendale, che va ripensata puntando sulle piccole unità».
Una svolta che Daniele Di Gennaro, fondatore dell’editrice Minimum fax, sostiene di aver anticipato: «Per noi si tratta di proseguire sulla strada che abbiamo intrapreso sin dal 1992. Abbiamo capito che l’editore non poteva più porsi in modo autoritario, come colui che cala la cultura dall’alto, ma doveva piuttosto mettersi in ascolto, sondare gli orientamenti del pubblico, cogliere la nascita di nuovi linguaggi, recepire le esigenze manifestate dai lettori e i loro suggerimenti. Il Web ha moltiplicato le opportunità e l’ebook è un ulteriore passo in avanti. C’è il rischio che si sviluppi la pirateria digitale, ma sarebbe un errore chiudersi a riccio. Bisogna invece accettare la sfida e puntare sulla qualità: attraverso la cura della grafica si può fare del volume cartaceo un oggetto importante, con cui si sviluppa un legame affettivo. E poi occorre esaltarne al massimo le potenzialità, senza paura di contaminare le forme comunicative: intorno a un buon libro si può organizzare un evento, quindi ne può nascere uno spettacolo teatrale da cui si può trarre un dvd e così via».
Più scettico Elido Fazi, fondatore dell’omonima casa editrice: «L’ebook sembrava all’ordine del giorno già nel 2000. All’epoca creai una società, Libuk, che doveva curarne lo sviluppo, ma non ebbe alcun successo e ho finito per cederla. La rivoluzione digitale nel campo dei libri sarà epocale, ma in Italia e in Europa, rispetto ai ritmi incalzanti degli Stati Uniti, avrà uno sviluppo molto più lento. In ogni caso è sbagliata l’idea di Wylie che gli agenti letterari possano scavalcare gli editori e vendere direttamente sul Web le opere dei loro autori in formato ebook. Questo può valere per libri già lanciati o di personaggi famosi. Non certo per le novità».
Intanto l’editore Mursia, nell’era della virtualità, ha cercato il contatto fisico con il lettori, girando l’Italia con la libreria mobile Passpartù: «Andare controcorrente — nota la presidente Fiorenza Mursia — è un po’ una nostra caratteristica. Le nuove tecnologie rendono più facile confezionare libri e c’è il rischio che i distributori online tendano a rubarci il mestiere come fanno le catene di supermercati, che mettono in vendita pasta e biscotti con il loro marchio accanto a quelli dei produttori storici. Di fronte alla rivoluzione digitale non ci si deve preoccupare tanto dell’ebook quanto del potenziale utente, di quello che potremmo chiamare e-lettore: chi è, che cosa si aspetta? Per me la priorità è lavorare sul catalogo, puntare sulla riconoscibilità di una linea editoriale. Il libro non è un prodotto standardizzato, perciò la capacità progettuale dell’editore resta un fattore fondamentale».

Repubblica 6.9.10
Rigoletto in tv, grande spettacolo così la lirica fa 3 milioni di ascolti
La mondovisione dell´opera da noi sabato ha avuto il picco con il saluto di Napolitano
di Angelo Foletto

Una media di quasi tre milioni di spettatori (2milioni e 659mila), il 14.30% di share. Non un trionfo ma un buon risultato quello del Rigoletto a Mantova, l´opera realizzata per la mondovisione che da noi si è vista su RaiUno sabato col primo atto e ieri con gli altri due (per queste le percentuali di ascolto si sapranno oggi): certo, su Canale 5 Le Velone hanno fatto in contemporanea il 21,7 per cento, ma i primi numeri (si aspettano anche quelli della mondovisione) soddisfano gli sforzi dell´eccellente cast da Placido Domingo a Vittorio Grigolo e della produzione che ha ideato questo kolossal in diretta mondovisione con 148 reti collegate e una platea virtuale di 5miliardi (la stima realistica è di 1 miliardo). Operazioni spettacolari precedenti, Traviata e Tosca, avevano fatto registrare qualcosa più in fatto di ascolti, rispettivamente il 21% e 16%. Ma Andrea Andermann, il produttore, sta già lavorando alla prossima opera, Cenerentola (alla Reggia di Venaria), con la regia di Luca Ronconi e la direzione di Riccardo Chailly.
Preziosamente anticata dalla fotografia di Storaro, la Mantova scelta dal regista Marco Bellocchio per questo Rigoletto ha dato fascino d´ambiente al racconto verdiano e l´ha resa un set cinetelevisivo perfetto. Senza fare cartolina turistica; sfruttando le sale affrescate e i cortili di Palazzo Te o stanze e corridoi del piano nobile di Palazzo Ducale (per il II atto, ieri pomeriggio) come scenografie solenni ma non soffocanti: la macchina da presa è stata usata in chiave quasi intimista, non mollando i primi piani sui protagonisti. Così anche la fatica fisica e i sudori del protagonista Placido Domingo, gran debuttante nel ruolo baritonale, erano parte intensa del racconto, preparando le lacrime del finale, già intraviste nel secondo drammatico duetto con la figlia.
La macchina tecnica messa in campo per questo Rigoletto in diretta (oltre 50cinquanta addetti e 30 telecamere) ha volutamente lasciato i particolari ambientali dentro l´opera, come il volo dei pipistrelli che hanno contrappuntato il duetto Rigoletto-Sparafucile (Domingo e Ruggero Raimondi) o i fastidiosi insetti che hanno disturbato il "Caro nome" di Gilda (Novikova, voce sorprendente e presenza di notevole efficacia). Quel che conta è che alla fine la musica di Verdi in questo modo s´è rivolta a una platea che corrisponde a quasi 200 tutti esauriti all´Arena di Verona o 1300 in Scala. Molti forse avranno ascoltato la prima volta il capolavoro ambientato a Mantova: a questi in particolare era destinata la proposta. Come ha ricordato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio d´augurio introduttivo (picco d´ascolto 3 milioni e 268mila, pari al 19,01 per cento), «l´opera è patrimonio nazionale: un biglietto da visita unico della vocazione dell´Italia a essere paese d´arte».

Corriere della Sera 6.9.10
Rigoletto, un kolossal che non sfonda in tv
Parte con 3,5 milioni di telespettatori, poi cala
di Chiara Maffioletti

MILANO — Gli ascolti non sono stati certo da kolossal, ma il giorno dopo la messa in onda di «Rigoletto a Mantova», la Rai ha parlato comunque di «buon risultato». Sabato, il primo atto (gli altri due sono andati in onda ieri) del film in diretta da Mantova nei luoghi e nelle ore dell’opera verdiana è stato seguito da 2 milioni 659 mila spettatori, pari al 14,3% di share.
Numeri che saranno anche buoni visto che si parla di opera lirica — genere a cui il pubblico della tv è di certo poco addomesticato — ma comunque ben lontani dal 21,7% fatto registrare alla stessa ora (le 20.30) da «Velone», su Canale 5. Anche i precedenti esperimenti di film tratti da opere, sempre firmati da Andermann, avevano convinto di più: nel 2000 «La Traviata» toccò il 21,39% (il primo atto era andato in onda sempre di sabato alle 20.30 ma era durato mezz’ora) mentre nel 1992, il primo atto della «Tosca» (in onda un sabato dalle 12 alle 12.30) arrivò al 16,88%. L’altro ieri, calato il sipario sul primo atto, il protagonista, Placido Domingo, aveva sospirato: «È meraviglioso, speriamo che il pubblico abbia apprezzato». Scorrendo i dati si scopre che i telespettatori hanno amato di più le prime arie, seguite da oltre 3 milioni 500 mila telespettatori. Numeri a cui si devono però aggiungere anche quelli (non calcolati) del web: nonostante il criptaggio della Rai, poche ore dopo la diretta tutti i filmati di «Rigoletto a Mantova» erano stati caricati da pirateschi fan su YouTube. E in alta definizione.

Corriere della Sera 6.9.10
Spettacolo ibrido, ma la Rai fa bene a sostenerlo
Bellocchio evita ampollosità e ghirigori. Purtroppo il mezzo televisivo aggiunge enfasi al racconto
di Aldo Grasso

Chiariamo subito una cosa: la Rai fa benissimo a sostenere un’operazione come «Rigoletto a Mantova», spalmandola su due giornate e fregandosene degli ascolti (Raiuno, sabato sera in prima serata, domenica alle 14 e alle 23.30). Preceduta da un messaggio del presidente Giorgio Napolitano la celebre opera di Giuseppe Verdi è stata trasmessa in diversi Paesi e ben 148 se ne sono assicurati i diritti. Altro è promuovere il melodramma, altro è, invece, dare spazio a operazioni culturalmente modeste come i «Promessi sposi» di Michele Guardì.
Negli anni, Andrea Andermann ha messo a punto un format da evento mediatico. Tutto è iniziato nel 1992 a Roma con la messinscena di «Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca», è proseguito nel 2000 con «La Traviata à Paris» e si conclude, per ora, con «Rigoletto». L’idea di fondo è questa: per ridare vita all’immagine un po’ appannata dell’opera lirica (almeno nel gradimento popolare), il format di An-dermann prevede che gli interpreti cantino e recitino in diretta usando come location non il teatro ma i luoghi storici in cui si immagina sia stata ambientata la storia che Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi hanno tratto da «Le roi s’amuse» di Victor Hugo.
Dunque, mentre dal teatro Bibiena il maestro Zubin Metha dirige con le cuffie in testa l’Orchestra nazionale della Rai (una volta ce n’erano tre modeste adesso finalmente ce n’è una buona), i cantanti si muovono nelle splendide cornici di Palazzo Ducale, di Palazzo Te, della Rocca di Sparafucile, antico presidio militare dei Gonzaga, di alcune strade cittadine, anche se, per la diffusione delle note, ai moderni auricolari sono stati preferiti i più tradizionali altoparlanti. La regia è di Marco Bellocchio, meno incline rispetto a Franco Zeffirelli («Tosca») e Giuseppe Patroni Griffi («Traviata») all’ampollosità scenografica.
Andermann parla di film live, un film in diretta, che suona un po’ come un assurdo; forse televisione gli pare troppo poco. Ma questa è tv, ibridata con altri media, ma pur sempre tv. Ciò che cambia è la convenzione drammaturgica: la compressione teatrale (ambientazione, tempi e modi) si snoda qui per le strade di Mantova, in una sorta di turismo culturale, di divulgazione animata.
«Rigoletto a Mantova» è il superamento del concept «Arena di Verona», ovvero la ricerca di quel difficile punto di incontro tra la musica «colta» e il pubblico generalista; è una forma raffinata di kitsch, se così si può dire, ma è pur sempre kitsch. Niente di male, s’intende; più correttamente si potrebbe far riferimento a quella sensibilità «camp» su cui ha scritto pagine definitive Susan Sontag.
La tv, infatti, non fa che aggiungere l’enfasi del primo piano al già necessario decorativismo dell’opera lirica, con le sue macchine piene di addobbi, colori, movimenti mimici, ingegnose scenette a latere, figuranti: un esercizio di naturalismo spinto, anche nelle scene più «intime», agli estremi. Per fortuna la fotografia di Vittorio Storaro e la regia di Marco Bellocchio si sono dimostrate rispettose della lettera del discorso musicale, non eccedendo mai in inutili ghirigori.