Bersani: «Il premier riconosca la crisi e si affidi al Colle»
«Qualsiasi ennesimo tentativo di coprire la situazione con pezze a colori non potrebbe nascondere la crisi politica del centrodestra», dice Pier Luigi Bersani.
Il segretario del Pd commenta così l’incontro tra il premier Berlusconi e il leader della Lega Bossi fissato all’indomani del discorso di Fini a Mirabello: «Il rischio vero che abbiamo davanti è che questa crisi la paghi il Paese, a fronte di politiche di governo fino a qui inefficaci e da domani completamente impotenti. Meglio prendere la strada maestra e riconoscere la crisi politica, affidandosi
come la Costituzione richiede al Presidente della Repubblica e al Parlamento».
Domenica a caldo, dopo il discorso di Fini, il segretario del Pd aveva commentato: «Il problema è che il Paese non può subire traccheggiamenti». Per Bersani non va bene «il gioco del cerino», perchè «ci sono problemi seri di cui la politica non riesce a parlare». Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui» riferendosi a Gianfranco Fini i «Fini andava avanti il segretario oggi ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Per questo l’invito, rinnovato, a salire al Colle e affidare la crisi nelle mani di Napolitano.
l’Unità 7.9.10
Vendola chiama i suoi a raccolta: «Entro novembre le primarie»
Ieri riunito il vertice di SeL. Il governatore: «Le consultazioni dovranno servire a scegliere il candidato premier e a costruire l’alternativa» Nuovo Ulivo? Temo sia un’allenza di conservatori
di Simone Collini
Primarie del centrosinistra entro novembre, a prescindere da come andrà avanti la crisi aperta nel centrodestra e se si voterà o meno tra l’autunno e la primavera. Nichi Vendola riunisce a Roma i vertici di Sinistra ecologia e libertà, e la proposta che viene lanciata a Pd e soci è di fissare fin d’ora la data di una consultazione che, per dirla col coordinatore di Sel Claudio Fava, «dovrà servire a costruire un processo politico e rappresentare quali sono i nostri contenuti, valori, meriti politici, non solo a scegliere il candidato premier».
«Mentre seppelliamo il berlusconismo, il centrosinistra apra il cantiere dell’alternativa al berlusconismo», dice Vendola senza mostrarsi troppo entusiasta della proposta del «nuovo Ulivo» lanciata da Pier Luigi Bersani: «Non sono innamorato delle dispute nominalistiche, mi interessano le cose concrete. Io ho paura che si possa mettere in piedi un’alleanza di conservatori, che il vecchio ceto politico del vecchio centrosinistra finisca per concentrarsi sulla propria rendita di posizione».
Il leader del Pd vuole incontrare il governatore pugliese nei prossimi giorni per discutere i contorni della proposta, ma a quell’incontro Vendola si presenterà con una sua controproposta: fissare entro i prossimi 100 giorni la data delle primarie che, sottolinea lui che è stato il primo a scendere in pista per questa competizione, sono «una necessità assoluta»: «Non un capriccio di Vendola, di Veltroni o di Chiamparino. E nessuna oligarchia può togliere il potere agli elettori. C’è qualcuno che guarda alle primarie come una specie di male da evitare, invece per me la partecipazione popolare non è mai un danno». Gli attacchi a una parte del gruppo dirigente del Pd non mancano, e oggi il governatore della Puglia si sottoporrà al giudizio di militanti e simpatizzanti pd alla Festa di Torino, per un faccia a faccia con Rosy Bindi.
Vendola ci va intenzionato a non schiacciare il piede sul freno, anzi. Dice che «sarebbe un errore imperdonabile» se sotto la pressione della crisi economica si dia vita a «una santa alleanza che veda insieme Pd e Tremonti», o anche se qualcuno tra i Democratici «flirtasse» col ministro dell’Economia. Così come, per il governatore pugliese, è da evitare l’illusione che sia possibile dar vita a una maggioranza per cambiare la legge elettorale. O quella, ancora peggiore, di imbarcare Fini: «Sta rifondando la destra, come si fa a cooptarla in maniera immaginifica nel centrosinistra?». Per il leader di Sinistra e libertà in questo momento c’è bisogno di chiarezza. E ostenta distacco di fronte all’aut-aut incrociato in cui è finito il Pd, con Casini da una parte e Di Pietro dall’altra che si chiudono le porte a vicenda. «Dobbiamo mettere in discussione anche il centrosinistra, non basta fare “fioretti”, promettere di non fare più le sceneggiate che abbiamo visto durante il governo Prodi. E non si devono usare i veti, non bisogna dire mai con Vendola, mai con Di Pietro, mai con Casini». Se si vuole veramente costruire un’alternativa, «il centrosinistra deve dire qualcosa di diverso sulla politica internazionale, la società, il lavoro, i diritti, e sulla base di questi programmi si potranno costruire le alleanze». E le primarie, per Vendola, costituiscono una tappa fondamentale di questo percorso.
Corriere della Sera 7.9.10
La disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola
Il Pd ha il suo «futurista», Chiamparino
di Paolo Franchi
Nel giro di poche ore abbiamo appreso dal discorso di Gianfranco Fini a Mirabello che il Pdl ormai non esiste più, e dalle anticipazioni de La Sfida, il libro di Sergio Chiamparino in uscita da Einaudi, che il Pd non esiste da un pezzo, ridotto com’è a «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati in via Sant’Andrea delle Fratte».
La coincidenza temporale di queste due affermazioni (oggettivamente clamorose, visto che Fini del Pdl è il cofondatore, e Chiamparino è l’unica personalità del Pd spendibile al Nord) è, si capisce, dovuta al caso. Quella politica forse no. Il presidente della Camera e il sindaco di Torino sono entrambi, se non proprio dei sostenitori del bipartitismo, dei bipolaristi più che convinti. Ma tutti e due pensano, non senza buone ragioni, che il bipolarismo italiano incardinato su questo Pdl e su questo Pd sta vivendo una crisi probabilmente senza sbocchi. A meno che (ma qui i loro ragionamenti si fanno più vaghi) i due partiti cardine del sistema non ritrovino la loro anima smarrita, o se ne diano finalmente una. È quasi inutile sottolineare che tanto Fini quanto Chiamparino si candidano a capitanare, ciascuno nel proprio campo, questa ricerca. Il primo sfidando nientemeno che Silvio Berlusconi. Il secondo preannunciando la sua candidatura alle primarie, e lasciando intendere, seppure a giorni alterni, la disponibilità a formare un ticket con Nichi Vendola.
Qui finiscono le analogie, e vengono in chiaro le (radicali) differenze. Una su tutte. Fini pensa, al di là delle feroci vicende quotidiane della politica, a un centrodestra prossimo venturo finalmente emancipato dalla (straordinaria) eccezionalità di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, pienamente (e convintamente) «costituzionalizzato», una forza di sistema e del sistema: gli applausi più caldi dei bipolaristi di centrosinistra (fesserie sul «compagno Fini» a parte) li prende proprio per questo. Chiamparino, invece, non sembra per niente convinto che questa destra italiana sia solo un’anomalia da normalizzare, una parentesi da chiudere per «ritornare allo statuto». Se il Pd «vive sempre in difesa» ma non tocca palla, e, per restare ai tempi più recenti, riesce a perdere tre elezioni in tre anni con tre differenti segretari e con alleanze diverse, qualche ragione ci sarà pure. La principale, per Chiamparino, è che, agli occhi di chi «vive fuori del giardino del Welfare e subisce i rischi del mercato internazionale del lavoro» (dunque: in primo luogo agli occhi del Nord), sinistra e centrosinistra sono la conservazione, il centrodestra, la destra rappresentano «la contestazione del sistema»: sono loro «che prendono il palazzo d’Inverno, noi siamo lo zar che difende i privilegi e ammassa i comò contro la porta nell’estremo e disperato tentativo di fermarli», o «i banchieri della Bce», o «i vigili urbani che danno la multa a chi lascia l’auto in doppia fila perché deve correre a prendere i figli a scuola». Certo, il centrodestra, la destra, di questa gente interpreta soprattutto le paure, proponendo «una protezione dal resto del mondo» che non potrà mai offrire. Ma il Pd, se un simile cambiamento nemmeno lo vede, e quindi non ha né un’idea né un leader per un’area che va dal Veneto al Piemonte, è dannato, più che alla sconfitta, a una desolazione senza fine.
Il linguaggio è tutto diverso da quello inutilmente rassicurante caro ai leader del Pd quando si concedono una pausa nella guerriglia interna: provocatorio, aggressivo, verrebbe da dire persino futurista. Questo centrodestra è in crisi, sì, ma bisognerebbe lo stesso andarci a scuola, per dare risposte diverse, naturalmente, ma senza eludere le domande. Si può fare? Forse sì, a patto, naturalmente, di cambiare in tutta fretta e radicalmente Dna (impresa non facile) e senza provocare (impresa ancora più ardua) ulteriori sfracelli nel proprio elettorato, al momento l’unico che c’è. Se riuscissero a farlo, il Pd e il centrosinistra avrebbero qualche chance di successo in più? Può darsi, anche se resta da spiegare perché gli elettori dovrebbero preferire l’imitazione all’originale, il «leghismo gentile» (la definizione, che a Chiamparino non spiace, è di Luca Ricolfi) al leghismo che c’è; e, più in generale, che cosa possa mai essere un «leghismo gentile». E il «popolo delle primarie», quello che domenica è rimasto appeso alla tv per non perdersi neanche un passaggio del discorso di Fini, gradirebbe? Questo è più difficile ancora, e lo sa anche il Chiampa. Che però stavolta le sue carte sembrerebbe averle giocate davvero. Proprio come Fini.
l’Unità 7.9.10
Incentivo alla natalità solo per genitori italiani A Travate si può...
Il pacchetto sicurezza 2008 comprende al suo interno un articolo che attribuisce ai sindaci nuovi poteri in materia di sicurezza urbana. Il risultato è che, a più di due anni dall’approvazione di quella legge, si sono moltiplicate delibere ordinanze e regolamenti che spesso, ahinoi, hanno il sapore di procedure di esclusione rivolte agli stranieri. Spesso quei provvedimenti sono totalmente ridicoli e dimostrano la fervida immaginazione di amministratori locali che sembrano sollevati dall’idea di poter finalmente dar sfogo alle proprie peggiori fantasie in materia di discriminazione etnica. Si va dalle restrizioni ai locali commerciali stranieri, come phone center e kebaberie, al rifiuto dell’abbonamento ai mezzi pubblici, dalle limitazioni per l’accesso alle graduatorie delle case popolari, ai divieti di affitto di locali in cui pregare.
L’ultima trovata l’ha avuta il sindaco di Travate (Varese) che, con chiari intenti di «conservazione dell’identità europea» (come da sua stessa ammissione), ha emanato la seguente leggina: «Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani». Come dire, in questi tempi di calo demografico, un bel premio a chi assicura la purezza della razza. Cittadini e associazioni sono insorti, ottenendo dal Tribunale di Milano una sentenza che definisce il provvedimento discriminatorio. Il comune di Tradate ha presentato ricorso contro questa decisione.
A noi non resta altro da fare se non aspettare che siano i Tribunali, in questa come in tante altre situazioni, a fare l’interesse dei cittadini, ristabilire l’equità e placare un po’, almeno un po’, le velenose bizzarrie di questi solerti sindaci.
Corriere della Sera 7.9.10
Maroni rilancia la linea francese: l’Europa agisca unita
di Fiorenza Sarzanini
PARIGI — Evita accuratamente di pronunciare la parola rom e lo stesso fa il suo collega francese Eric Besson. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, volato in Francia per un seminario sul tema dell’immigrazione, sa bene che è proprio questo il tema in discussione. E non si sottrae, anzi rilancia la linea già attuata da Parigi: «Bisogna espellere i cittadini comunitari che non rispettano la direttiva europea sul soggiorno nei Paesi membri».
Posizione forte che certamente non mancherà di provocare nuove polemiche proprio perché è ai nomadi che i titolari dell’Interno — all’incontro partecipano anche i colleghi di Germania, Grecia, Gran Bretagna, Belgio e Canada, tutti in cima alla lista delle richieste d’asilo — pensano quando annunciano di voler formalizzare la richiesta nella riunione a Bruxelles la prossima settimana. E perché questa mattina il titolare del Viminale affronterà la questione con il sindaco di Roma Gianni Alemanno che ha già reso note le sue proposte: «Obbligare i Paesi di origine a fornire i precedenti penali creando una sorta di casellario europeo e introdurre il divieto di reingresso per i cittadini che hanno già subito un’espulsione».
Il documento cui si riferisce Maroni è la disposizione europea numero 38 del 2004 «che stabilisce la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione e regola in 3 mesi la permanenza di un cittadino comunitario all’interno di un altro stato membro». Ed ecco il problema posto dal ministro: «Chi non rispetta queste regole di fatto rimane impunito perché gli Stati non hanno gli strumenti per disporre l’allontanamento. Per questo ho già chiesto alla commissaria europea di prevedere sanzioni che servano a far rispettare le regole». In realtà la sanzione è solo una e Maroni la esplicita subito dopo: «Espulsione e rimpatrio». Vale a dire applicare il procedimento che già è previsto per gli extracomunitari.
Non a caso il titolare dell’Interno cita l’esempio della Libia «perché grazie all’accordo che abbiamo fatto con quel Paese siamo riusciti di fatto ad azzerare gli sbarchi» e quando un giornalista straniero gli chiede se intenda minacciare la Romania perché sono i suoi cittadini a non rispettare la direttiva risponde: «Noi non minacciamo nessuno, noi firmiamo trattati. Per questo ci appelliamo all’Unione europea affinché si arrivi ad una legislazione comune fra tutti gli Stati membri».
Maroni ha difeso energicamente le iniziative di Francia e Italia sostenendo di aver «incoraggiato l’esodo volontario di alcuni cittadini comunitari verso i loro Paesi dando loro una somma di denaro per consentire il rientro».
Non sfugge la scelta di procedere su una linea unitaria, anche per prevenire quelle che appaiono conseguenze inevitabili quando la linea dura viene messa in atto soltanto da alcuni Stati: migrazione verso il Paese confinante o comunque quello che ha una legislazione favorevole. Il timore neanche troppo velato è che i rom mandati via da Parigi possano decidere di trasferirsi in Italia. Besson assicura che «non c’è stata alcuna espulsione collettiva, ma è stato sempre rispettato il diritto francese e quello comunitario», però conferma la linea della fermezza. Tanto basta a far dilagare le proteste e le prese di posizione di chi ricorda che in passato l’allora commissario dell a Ue Jacques Barrot abbia già respinto analoghe richieste di sanzioni. L’asse italo-francese — con l’appoggio sicuro di Germania e Grecia — non sembra disposto ad arretrare.
l’Unità 7.9.10
Ore contate per Sakineh Il figlio: «Italia devi fare di più»
di Marina Mastroluca
Condannata alla lapidazione Il ragazzo, 22 anni: «Roma convochi il nostro ambasciatore»
Fine del Ramadan «La uccideranno venerdì». Frattini: l’Iran assicura, per ora nessuna esecuzione
«Grazie all’Italia ma non basta». Il figlio della donna iraniana condannata alla lapidazione chiede di più. «Si convochi l’ambasciatore». Timori di una possibile esecuzione alla fine del Ramadan, venerdì prossimo.
«Grazie all’Italia, grazie a tutti. Ma serve di più». Sajjad Ghaderzadeh parla con la forza della disperazione. Sua madre Sakineh Mohammadi Ashtiani è in isolamento da venti giorni, le visite si sono fatte più rade, più difficili. E la fine del Ramadan, venerdì prossimo, si avvicina come una minaccia: Sajjad teme che sarà questo il giorno dell’esecuzione, il giorno in cui sua madre verrà lapidata. «Il mese del Ramadan è alla fine e secondo la legge islamica le condanne possono di nuovo essere eseguite». Lo dice al telefono al filosofo francese, Bernard-Henri Levy, che sul suo sito ha raccolto 80.000 firme per salvare Sakineh. L’avvocato della donna, Javid Houtan Kian, nega che ci sia una data già fissata. Anche il ministro Frattini afferma di aver avuto assicurazioni da Teheran che «nessuna decisione è stata ancora presa». Ma ogni ora che passa, il filo che tiene in vita Sakineh sembra accorciarsi.
Per questo Sajjad chiede di più. «È importante, grazie di cuore all’Italia e a tutti quelli che si sono mossi in queste ore. Ma non basta. Gli Stati devono mostrarsi più esigenti e severi verso il governo iraniano, servono
passi solenni, come la convocazione dell’ambasciatore, o l’inasprimento delle sanzioni. Purtroppo con Teheran funzionano soltanto i rapporti di forza». Non solo solidarietà e appelli, ma passi diplomatici concreti, questa la richiesta del figlio di Sakineh che ha apprezzato la disponibilità del ministro degli Esteri Franco Frattini ad incontrare il collega italiano Mottaki, a margine dell’Assemblea generale Onu a New York nei prossimi giorni. «Se Mottaki accetterà potrà essere un passo efficace per ottenere la liberazione di mia madre», dice Sajjad. Nei giorni scorsi Frattini aveva sollecitato l’opinione pubblica a farsi sentire e il governo di Teheran ad un «atto di clemenza». Lo stesso appello è stato fatto ieri dall’Osservatore romano. «In molti scrive il giornale vaticano in un breve articolo nel pieno rispetto della sovranità iraniana chiedono al governo di Teheran di compiere un atto di clemenza». Il Vaticano di solito preferisce strade più silenziose che prese di posizione pubbliche e anche stavolta potrebbe essere così. Ma per chi come Sajjad aspetta aiuto, il segnale dovrebbe arrivare più forte.
99 FRUSTATE
Frattini, intervistato dal Tg1, assicura di aver già avuto «molteplici rapporti» con l’ambasciatore iraniano e di aver fatto pressioni a favore di Sakineh. A Teheran pur «rispettando» le posizioni italiane, non sono «stati contenti». Nessuna risposta finora neanche all’offerta del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che si è detto pronto ad andare a Teheran «se potrà servire» a salvare Sakineh. Kouchner ha anche auspicato che la Ue possa trovare una posizione comune, una voce per farsi sentire. Proprio ieri Maja Kocijancic, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton, ha respinto le accuse di im-
mobilismo: «Abbiamo già sollevato la questione in molte, molte occasioni».
Ma «sollevare la questione» evidentemente non basta. «Bisogna fare presto», ha insistito ieri Bernard-Henri Levy convinto che le pressioni internazionali possano fare la differenza per Sakineh, spostando l’ago della bilancia nei difficili equilibri di potere a Teheran a favore di «quelli che sono pronti a trattare» contro chi ha fretta di chiudere la partita. Sakineh aspetta. Nel braccio della morte avrebbe già subito una condanna supplementare a 99 frustate, dopo la pubblicazione sul Times di una foto senza chador diffusa da Mostafei, con una mossa criticata senza mezzi termine dall’altro legale della donna. Non era lei, ma le è valsa l’accusa di indecenza. «La pena è stata eseguita dice il figlio di Sakineh -. Anche se le autorità del carcere non hanno voluto dirlo ufficialmente. Forse se ne vergognano».
l’Unità 7.9.10
4 domande a Shirin Ebadi
«L’Occidente non si fermi. Il regime deve fare un passo indietro»
di Maria Zegarelli
Shirin Ebadi, Nobel per la pace, esule dal suo paese l'Iran. Perché è costretta a questa continuo errare?
«Dal giugno del 2009, dalla repressione dei moti da parte del regime dopo le elezioni, non sono rientrata: non ci sono le condizioni per chi come me difende i diritti umani». Suo marito è stato arrestato, lo ha più sentito?
«È stato arrestato e torturato: quando era in carcere lo hanno costretto a leggere davanti alle telecamere un atto d'accusa contro di me e solo dopo lo hanno liberato. Ci ho parlato, gli ho detto: hai fatto bene, non devi morire. Ora spero lo lascino andare ma finora non ho buoni segnali».
Veniamo all'attualità: Sakineh rischia la lapidazione. L'Occidente alza la voce ma la reazione degli estremisti iraniani diventa sempre più aspra... «Non fatevi intimorire: la situazione di Sakineh non può essere peggiore di quella che è. L'Occidente non si faccia spaventare e continui, sono convinta che il regime sarà costretto a fare un passo indietro». Cosa bisogna fare?
«Protestare a voce alta, per Sakineh e contro le pene come la lapidazione: in Iran il codice prevede perfino la crocifissione e è stata introdotta persino la regola della vendetta. C'è un giovane uomo che sarà accecato con l'acido perché ha commesso la stessa cosa contro la ragazza che lo rifiutava. Ecco, il mondo deve chiedere che simili pene vengano abolite per sempre anche perché nel corano queste pene non sono scritte e chi si nasconde dietro la religione sa di mentire».
il Fatto 7.9.10
I volti di Sakineh
Il mondo mobilitato per l’iraniana condannata alla lapidazione. Ma la sua vicenda rimane incerta
di Stefano Citati
Il volto di Sakineh Mohammadi Ashtiani condensa da giorni l’intermittente solidarietà occidentale.
La donna iraniana condannata alla lapidazione smuove le coscienze e si moltiplicano le iniziative per salvarla. Ma il suo caso giuridico rimane opaco e le informazioni sulla vicenda giudiziaria incompleta. In buona parte per responsabilità delle autorità iraniane, ma anche per le voci non chiare e non univoche dei suoi difensori (l’avvocato rifugiatosi in Norvegia e uno dei due figli della 43enne che da Tabriz, città del Nord del Paese dove la madre è detenuta, continua a far sentire la sua voce, ma ha rotto i rapporti con il legale della madre). Sakineh nel 2005 è stata arrestata per una “relazione illecita”, fuori dal matrimonio e condannata a 10 anni di carcere e 99 frustate. Poi il suo caso sarebbe stato riaperto e condannata per adulterio, pena la lapidazione. Il suo amante in un primo tempo era stato condannato a morte per l’omicidio del marito; il giudice aveva poi invertito le condanne: lei incolpata per omicidio del marito e lui a 10 anni di carcere come amante della donna, confermando il diverso peso giuridico e sociale tra uomo e donna in Iran (e non solo).
Da quando il caso di Sakineh – a differenza dei molti altri passati sotto silenzio in questi de-
cenni di teocrazia islamica (pare 150 siano state le donne lapidate finora, e altre 150 in attesa di sentenza) – è diventato internazionale, la reazione della giustizia iraniana è stata prima quella di ignorare la pressione occidentale, poi quella di confermare la giustezza delle accuse (anche con un video, in cui la donna si autoaccusa, la cui autenticità lascia molti dubbi) e infine, in questi giorni spingendo verso la conclusione cruenta del caso: comminate altre 99 frustate e moltiplicazione delle voci di un imminente esecuzione (forse già venerdì) della condanna.
il Fatto 7.9.10
L’eccesso occidentale
di Massimo Fini
La mobilitazione internazionale a favore di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte per adulterio e complicità nell'omicidio del marito (i due fatti, se le accuse sono veritiere, sono, con tutta evidenza, collegati), sarebbe totalmente condivisibile se fosse stata centrata esclusivamente sulla modalità dell'esecuzione: la lapidazione. La lapidazione infatti va oltre la pena di morte, è una tortura. Una tortura, se si può dir così, a fuoco lento (le pietre non devono essere né troppo grosse, così da uccidere all'istante la condannata, né troppo piccole da non farle male). Ora, un uomo, in determinati e precisi casi, può essere lecitamente ucciso ma mai torturato o umiliato, tant'è che la tortura, almeno formalmente, non è legittimata in nessuno Stato del mondo nemmeno in tempo di guerra (anche se gli americani l'hanno usata a piene mani a Guantanamo – con l'ipocrito escamotage che era fuori del territorio degli Stati Uniti – e nel modo più sadico, ignobile e schifoso a Abu Ghraib dove è venuto a galla tutto il marciume morale della cosiddetta “cultura superiore”). Ma la mobilitazione internazionale, per meglio dire: occidentale, non contesta solo la lapidazione, ma anche la pena capitale inflitta alla donna e anzi la vuole “subito libera”. Davanti a una immagine di Sakineh che, per iniziativa del governo italiano, campeggia da tre giorni all'ingresso di Palazzo Chigi il ministro degli Esteri Franco Frattini e quello delle Pari opportunità Mara Carfagna hanno dichiarato “Finché Sakineh non sarà salva o libera il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano”.
ORA, LA PENA DI MORTE è in vigore anche in Paesi considerati campioni della civiltà, come gli Stati Uniti, e nessuno Stato lascerebbe a piede libero un assassino. Quanto all'adulterio è considerato un reato meritevole della pena capitale non solo in Iran ma in molti altri Paesi islamici che hanno una cultura e una morale diversissime dalle nostre soprattutto per quel che riguarda la famiglia. La domanda è questa: le sentenze di un Tribunale iraniano su fatti che quel Paese considera reati gravi sono ancora sentenze di uno Stato sovrano o devono essere sottoposte ai Tribunali popolari dell'Occidente? E può Sarkozy dichiarare che Sakineh “è sotto la protezione della Francia”? Allora sia coerente e dichiari formalmente guerra all'Iran in nome dei principi in cui dice di credere, invece di continuare a farci cospicui affari (la Francia è il secondo partner commerciale europeo dell'Iran, dopo l'Italia).
Questo il quadro di principio. Ma dietro i principi ci sono le persone in carne e ossa. In questo caso una giovane donna di 42 anni che rischia da un momento all'altro di essere giustiziata. È l'eterno conflitto fra pietas umana e la legge (dura lex sed lex dicevano i Romani), fra Antigone che, contro la legge, seppellisce il fratello Polinice in terra consacrata e il re Creonte che quella legge deve far rispettare e la condanna a morte. È l'eterno dilemma fra Libertà e Autorità così profondamente scandagliato da Dostoevskij nell'apologo de Il Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov.
L'IRAN NON HA ALCUN obbligo giuridico di fornire all'Occidente le prove che la sentenza del suo Tribunale è giusta, anche perché qui non ci troviamo di fronte a un oppositore politico ma a una persona accusata di reati comuni e non si vede quale interesse avrebbe mai la giustizia iraniana ad accanirsi arbitrariamente su di essa. Ma l'Iran è però un grande, colto e civile Paese, molto più civile di quanto lo facciano gli occidentali, e dovrebbe avere la sensibilità, anche politica, di capire che su un caso che è comunque sotto gli occhi di tutto il mondo ha l'obbligo morale di dare sulla reale colpevolezza di Sakineh informazioni maggiori e più trasparenti di quante ne abbia date finora, sen-
za per questo sentirsi diminuito nella propria sovranità, anche se sappiamo benissimo che questa vicenda viene strumentalizzata in funzione della tambureggiante campagna contro Teheran di Stati Uniti e Israele. Perché, a questo punto, un'esecuzione al buio sarebbe altrettanto inaccettabile di quella liberazione al buio che vorrebbero il ministro Frattini e Bernard-Henri Lévy.
il Fatto 7.9.10
Reazione necessaria
di Giampiero Gramaglia
S alvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia Saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata – non sempre con successo, anzi – per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper – uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne – o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas. Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di Paesi specifici: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che indignano più d’altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima dei talebani, in Arabia o Nigeria). Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione.
NELL’ISLAM si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri. Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph O’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
NEL CASO DI SAKINEH , la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi – ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione tv – si presume estorta, magari con la tortura. Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo “Libera subito”, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese. Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.
l’Unità 7.9.10
Zero fondi contro la fame
L’Onu striglia l’Italia
La coordinatrice della campagna per il Millennio: «Berlusconi non ha mantenuto le promesse Siete il fanalino di coda negli aiuti allo sviluppo»
di Umberto De Giovannangeli
Il Cavaliere-Pinocchio alla prova dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Alla prova degli impegni internazionali sbandierati e mai mantenuti. Di «maglie nere» accumulate. «L'Italia mantenga le promesse e rispetti l'obiettivo di medio termine per raggiungere quelli che sono stati definiti gli “Obiettivi del Millennio”». È l'appello lanciato dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite a poche settimane dal Summit Onu di New York sugli «Obiettivi del Millennio» convocato per fare il punto della situazione. «Mancano poco più di cinque anni alla scadenza dei cosiddetti “Obiettivi del Millennio” fissati nel 2000 nel corso del Vertice del Millennio dell'Onu. In quell'incontro ricordano gli organizzatori della Campagna ben 189 Paesi sottoscrissero la Dichiarazione del Millennio ponendosi precisi obiettivi: combattere la fame, la disparità fra i sessi, la mortalità infantile e le malattie, come Aids e malaria, e migliorare la salute delle gestanti, l'istruzione primaria, la qualità della vita, il rispetto dell'ambiente e raggiungere un lavoro dignitoso per tutti...».
Tra i firmatari c’era l’Italia. Con al Governo Silvio Berlusconi. Impegni mai realizzati. La Campagna del Millennio lamenta il mancato rispetto degli impegni presi dall'Italia e afferma che entro il 2010 il nostro Paese o avrebbe dovuto devolvere lo 0,51% del Pil mentre attualmente denuncia la Campagna Onu del Millennio l'Italia dona solo lo 0,1%. «L'Italia resta il fanalino di coda per i fondi stanziati a favore della campagna delle Nazioni Unite per gli obiettivi del Millennio – rimarca Eveline Herfkens, coordinatrice internazionale della Campagna del Millennio -. Siamo davvero molto preoccupati per l'attuale tendenza al continuo ribasso degli aiuti allo sviluppo in Italia...L’Italia non ha agenzie né un apposito ministero per l'aiuto allo sviluppo, né tantomeno un dibattito politico su questi temi cruciali». Una tendenza al ribasso che era già stata segnalata dal documento elaborato dalla Commissione europea prima del vertice dei ministri dello Sviluppo tenutosi il 17 e il 18 febbraio in Spagna. La Commissione europea aveva elogiato Lussemburgo (1% del Pil) , Svezia (1,03%), Olanda (0,8%) e Danimarca (0,83%) per aver superato l’obiettivo dello 0,7% del Pil. Spagna (0,51%), Belgio (0,7%), Regno Unito (0,56%), Finlandia (0,55%), Irlanda (0,51%) sono sulla strada giusta e sono definiti attori chiave per far sì che l’Unione europea raggiunga i suoi obiettivi.
In base a recenti previsioni dell’Ocse, l’Italia (0,20%), insieme a Francia (0,46%), Germania (0,40%), Austria (0,37%), Portogallo (0,34%), Grecia (0,21%) è il Paese più lontano dal rispetto degli impegni presi per il 2010. Siamo al fondo del fondo. Triste fanalino di coda. Dati che attribuiscono al Cavalier Berlusconi l'Oscar del premier-Pinocchio, all'Italia quello della nazione peggior protagonista sulla scena europea quanto a impegni disattesi. A distanza di sette mesi dalla pubblicazione di quel rapporto, la situazione, quanto a impegni disattesi dall’Italia, è ancor più peggiorata. L’appello della Campagna del Millennio come il documento della Commissione europea supporta e arricchisce di ulteriori motivazioni la scelta compiuta negli scorsi mesi dal fondatore di Microsoft, Bill Gates di inserire l'Italia nella «Lista della Vergogna». «Nella comunità internazionale – aveva denunciato Gates c'è solo un Paese che ha ridotto gli aiuti allo sviluppo e questo è l'Italia». L'Italia – incalza ancora Gates – è un Paese «uniquely stingy» (particolarmente tirchio”). Una nuova maglia nera. Altro che «locomotiva» europea. L'Italia del Cavaliere rappresenta un pesante freno a mano.
Ancora più bassa la percentuale destinata in particolare agli aiuti sanitari dove l’Italia è ferma allo 0,025% del Pil contro lo 0,1% raccomandato dagli accordi internazionali. Berlusconi aveva promesso, durante la conferenza stampa conclusiva del G8 dell’Aquila ricorda Annalisa Stagni, Health advocacy officer di "Azione per la salute globale" di saldare la quota 2009, pari a 130 milioni euro,destinata al Fondo globale di lotta all’Aids, Tubercolosi e Malaria entro agosto scorso, alla quale sarebbero stati aggiunti ulteriori 30 milioni di dollari. Ma ad oggi non c’è traccia di nessuno di questi finanziamenti». «L’Italia inoltre si è impegnata a versare lo 0,7% del Pil in aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2015, ma come step intermedio nel 2010, cioè quest’anno, avrebbe dovuto versare lo 0,51% del Prodotto interno lordo. Purtroppo invece, dati del 2009 attestano l’Italia allo 0,17% e sottolinea salvo miracoli nei prossimi mesi, il nostro Paese resta fanalino di coda nelle statistiche sugli aiuti pubblici allo sviluppo». E ancora: « L’Italia ha versato appena lo 0,025% del Pil ponendosi agli ultimi posti, preceduta da Germania (0,030%), Francia (0,041%), Spagna (0,045%) e Gran Bretagna (0,058%), anch’esse comunque lontane dalla percentuale raccomandata.
Cinque anni fa, a Gleneagles, ricordano Oxfam e Ucodep i leader del G8 si impegnarono ad aumentare gli aiuti ai Paesi del Sud del mondo di 50 miliardi di dollari (40 miliardi di euro) entro il 2010. Di questi, 25 miliardi di dollari (20 miliardi di euro) sarebbero andati all’Africa. Tuttavia, il G8 registra un ammanco di 20 miliardi di dollari (16 di euro). L’Italia è il fanalino di coda del G8 in materia ad aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ed è il Paese che più di tutti ha tradito le promesse fatte a Gleneagles. In seguito ai ripetuti tagli alla cooperazione allo sviluppo, infatti, l’APS italiano ha registrato nel 2009 un calo complessivo pari al 31%. «L’impegno finanziario italiano è ormai sceso ai suoi minimi storici rimarca l’ultimo rapporto Ocse . L’ultimo taglio degli stanziamenti ammonta al 56%, mettendo di fatto in ginocchio la cooperazione pubblica bilaterale. Attualmente le possibilità discrezionali italiane su come spendere i soldi sono ridotte al minimo visto che i quattro quinti delle risorse sono dovute ad impegni già presi, in particolare per i contributi obbligatori verso le agenzie internazionali. Nel 2010 l’APS italiano sarebbe dovuto essere dello 0,51% del Pil, invece non supererà lo 0,19%. E per gli anni a venire la manovra del Governo prevede tagli ulteriori.
Corriere della Sera 7.9.10
Grossman si confessa: «Tentato di lasciare Israele»
Lo scrittore: «Ci ho pensato e ci penso ancora, ma lo farò solo quando scomparirà la democrazia»
di Francesco Battistini
GERUSALEMME — Il venerdì, lui c’è. Quasi sempre. Da mesi. A Gerusalemme Est, David Grossman non si perde i sit in davanti alle case del quartiere arabo di Sheikh Jarrah. Una protesta pacifica, cartelloni e slogan contro lo sgombero di alcune famiglie palestinesi. Un gruppetto di pacifisti testardi, molti che arrivano apposta dall’Europa. Qualche settimana fa, per ripararsi dal caldo, Grossman è arrivato vestito di nero alle solite tre del pomeriggio e s’è seduto su una panchina, sotto un grande ulivo. Stanco. Nessuna voglia di parlare. Per l’afa soffocante, per la delusione che da un po’ gli soffoca le parole: «Non chiedetemi niente. Mi sembra di ripetere certe cose da cent’anni...».
A un cerbiatto somiglia il suo dolore. Un cerbiatto in fuga. Lo scrittore è stanco. Lo confidava da un po’ di tempo, in privato. L’altra sera, a Londra, dove in questi giorni si trova per promuovere una nuova edizione inglese del suo ultimo libro, per la prima volta ha deciso di rendere pubblico il suo disagio.
D’intellettuale. D’israeliano. Dice d’avere una «tentazione» forte: «Ho soppesato l'idea di lasciare Israele e devo riconoscere che la tentazione c’è sempre». Lo sfogo è arrivato in un’intervista a una tv inglese, Canale 10: «Parte della tragedia degli ebrei come individui, ma anche come collettività, è che non abbiamo mai trovato una vera casa nel mondo. Oggi, abbiamo Israele. L’abbiamo da 62 anni. E non è la patria che pensavamo sarebbe stata». C’entra l’ultima disillusione, ovviamente, su negoziati di pace destinati — pure nella visione di Grossman — alla galleria delle inutili cerimonie: «Non sono sicuro che i nostri due leader, quello israeliano e quello palestinese, siano tanto coraggiosi da fare i passi giusti per raggiungere la pace. Dopo cent’anni di morte, forse abbiamo perso il momento giusto». Il disagio però va oltre e riguarda, più che l’inconcludente agenda del domani, la paura del dopodomani: «Sì, ho sempre pensato di poter abbandonare questo Paese e questa possibilità c’è sempre. Ma so che me ne andrò solo quando Israele smetterà d’essere una democrazia».
È un’inquietudine che Grossman spiegò già nel 2006, l’anno di Uri, il figlio ucciso in un tank mentre combatteva in Libano: «La nostra famiglia — disse nel commovente ricordo del ragazzo —, questa guerra in cui sei rimasto ucciso, l’abbiamo già persa... Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi, ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi». «Dopo il lutto — dice ora lo scrittore —, io sono tornato subito a scrivere. Quel che è cambiato, è solo la consapevolezza di ciò che significa perdere un figlio. E la consapevolezza della realtà in cui viviamo».
Questa consapevolezza divide. E imbarazza. Perché viene da un uomo di sinistra che non ha mai esitato a condividere le fondamenta d’Israele. Qualche giorno fa, Grossman ha aderito al boicottaggio culturale degl’ intellettuali che si rifiutano di partecipare a dibattiti nelle colonie. «E allora — ha replicato un opinionista di destra —, non dovrebbe più vendere nei Territori palestinesi nemmeno i suoi libri. Perché non succede?». Adesso, arriva il commento d’un falco delle colonie come Noam Arnon: «Grossman se ne vuole andare? S’accomodi. Capisco il ragionamento che lo porta a questa conclusione. Questi scrittori vivono dentro la Linea Verde e si sentono nel giusto. Dimenticano che la guerra dei Sei giorni non fu voluta da Israele, e che le colonie nacquero allora. Dimenticano che Israele si fonda su quelle cose in cui loro non si vogliono più riconoscere. È gente che si costruisce un’idea di mondo completamente scollata dalla realtà». C’è chi capisce, però: «Per andarsene, David non deve aspettare che in questo Paese finisca la democrazia — dice Jonatan Gefen, scrittore e nipote del primo presidente israeliano Weizman —. Anch’io ho provato ad andarmene, più d'una volta. Ma non ci sono mai riuscito. Se un giorno si presentasse la possibilità, credo che Grossman non sarebbe l’unico a farlo».
il Fatto 7.9.10
Prescrizione, una festa per tutti
Quali processi richiedono un sacco di tempo per arrivare a giudizio? Ma è ovvio, quelli che hanno un excursus breve, altrimenti B&C in quale modo si salverebbero dalla galera?
di Bruno Tinti
B&C continuano a pretendere il “processo breve”, si dice per evitare a B. la condanna per corruzione dell’avv. Mills. Anche se sanno tutti che di prigione non se ne parla: dopo pochi mesi dalla pronuncia della sentenza il reato sarà prescritto.
Questa “soluzione” (già ampiamente sfruttata da B.) è quella abitualmente ricercata dalle difese: i tempi dei processi sono così lunghi che arrivare a una sentenza di condanna è praticamente impossibile. Sotto questo profilo, dunque, il “processo breve” esiste già.
Praticamente impossibile... Ma quanti sono davvero i processi che si prescrivono? Questo veramente nessuno lo sa: l’amministrazione giudiziaria non ha uno strumento statistico che possa fornire questo dato; e, soprattutto, non è tecnicamente possibile prevedere quanti dei processi pendenti si prescriveranno. Questo perché la prescrizione dipende da situazioni processuali imprevedibili: un furto pluriaggravato si prescrive in 12 anni e mezzo; ma, se vengono concesse attenuanti e se queste sono considerate prevalenti sulle aggravanti, ecco che il termine di prescrizione scende a 7 anni e mezzo; e così, magari in Appello o in Cassazione, la precedente sentenza di condanna diventa una sentenza di “assoluzione” per prescrizione. Così è successo a B. in uno dei suoi processi: condannato in primo e secondo grado per corruzione, è stato assolto in Cassazione perché, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, il reato era prescritto. Non si può sapere dunque quanti processi si chiuderanno con la prescrizione; ma si può sapere quali. Ogni anno il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e il ministro della Giustizia spiegano ai cittadini, quando inaugurano solennemente l’anno giudiziario (con cerimonie che somigliano sempre più a un funerale), qual è la durata media del processo penale. Attenzione, la parola chiave è “media”: alcuni processi si concludono prima e altri dopo: la media è 7 anni e mezzo. I processi più rapidi sono quelli semplici, per i quali non occorrono indagini complicate; e quelli più lenti sono i processi complessi. Giusto. Quindi, si potrebbe pensare, i termini di prescrizione tengono conto della complessità dei processi. Sbagliato. I termini di prescrizione non dipendono dalla complessità delle indagini ma dalla pena prevista per il reato: più è alta, più lunghi sono; per dire, l’omicidio si prescrive in 30 anni, il traffico di droga in 25, una rapina, un’estorsione, uno stupro, in 12 anni e mezzo; ma la truffa, la corruzione, la frode fiscale, il falso in bilancio, l’infedeltà patrimoniale, si prescrivono in 7 anni e mezzo. In effetti, tutti i reati puniti con una pena inferiore a 6 anni si prescrivono in 7 anni e mezzo; e, guarda caso, la quasi totalità dei reati cui la classe dirigente del nostro Paese è tanto affezionata sono puniti con una pena inferiore ai 6 anni.
Quel sogno della mancata condanna
ORA, SE I PROCESSI semplici, quelli che si possono concludere entro il termine di durata media del processo, coincidessero con quelli che si prescrivono in 7 anni e mezzo andrebbe tutto bene. Nessun processo si prescriverebbe: quelli semplici si concluderebbero prima della scadenza del termine di prescrizione e quelli complessi, che richiedono più di 7 anni e mezzo per essere definiti, avrebbero termini di prescrizione più lunghi. Solo che non c’è nessuna relazione tra pena prevista (e conseguente termine di prescrizione) e complessità del processo. Un traffico di droga, dopo un annetto di intercettazioni telefoniche, è un processo che si chiude in poche udienze; in un processo per omicidio, quasi sempre, o non si trova il colpevole oppure lo si individua dopo poche settimane; gli autori di una rapina, quasi sempre, sono arrestati mentre la stanno facendo o poco dopo. Insomma i processi per i reati puniti più gravemente sono spesso quelli più brevi. Per questi reati un termine di prescrizione lungo è inutile; tanto i relativi processi si concludono in fretta. E quali invece richiedono un sacco di tempo? Ma è ovvio, quelli che hanno una prescrizione breve, sennò B&C come si salverebbero dalla galera? In questi processi la linea d’indagine è sempre e solo una: seguire i soldi. Da dove vengono i soldi pagati al corrotto? E di chi erano? E questo dove li ha presi? È così che si indaga, da una banca all’altra, da una società all’altra, da una persona all’altra. Ma naturalmente è complicato. La prima banca magari è in Italia e qui si fa relativamente in fretta: i soldi vengono dalla Svizzera o da Montecarlo. A questo punto cominciano le rogatorie; e, se si scopre che i soldi arrivano da un’altra banca che sta alle isole Cayman, le cose si fanno difficili. E poi c’è il problema delle società e delle persone che le rappresentano; magari si tratta della donna delle pulizie e di suo marito; e questa società ha il solo compito di trasmettere la corrispondenza a un’al-
tra società che ha sede in un altro paese e che fa capo a un importante studio di commercialisti o di avvocati. Insomma, quando si è finito di accertare tutto questo, quanti anni sono passati? E, per finire, non è che questi reati si scoprono subito, come avviene per un traffico di droga o un omicidio. Qui c’è il morto, lì c’è un pusher che parla, le indagini cominciano immediatamente. Ma, per i reati di B&C bisogna aspettare che un commercialista inglese si senta chiedere da un avvocato che si è fatto corrompere con circa mezzo milione di dollari come deve regolarsi fiscalmente con questa somma (!); e che il commercialista in questione, indignato, denunci il fatto alle competenti autorità (!!!) Magari passano un paio d’anni; ma la prescrizione comincia a decorrere da quando l’avvocato si è preso i soldi.
E così, quando matura la prescrizione, il processo è arrivato sì e no in primo grado e restano ancora Appello e Cassazione. Alla fine c’è da chiedersi: ma perché B. ci tiene tanto a non farsi dichiarare colpevole di corruzione dell’avv. Mills?
In Appello il reato sarà prescritto; e lui si è già beccato tre “assoluzioni” per prescrizione, una per corruzione, una per finanziamento illecito e una per falso in bilancio; una più, una meno... Vale la pena di ammazzare tutti i processi penali italiani solo per questo?
Repubblica 7.9.10
Memorie di un ebreo laico
Ritratto dell´Italia attraverso una vita
di Eugenio Scalfari
Partecipa alla fondazione di "Repubblica", dirige "L´Europeo" e poi torna al quotidiano
Mario Pirani ha raccolto in "Poteva andare peggio" la sua biografia. Da Venezia al Pci, dall´Eni al giornalismo
Un lungo racconto che inizia nei dorati anni Trenta e che incrocia personaggi drammatici come Mattei
Qualche tempo fa ho recensito un libro di Alfredo Reichlin intitolato Il midollo del leone superando dentro di me la difficoltà di parlar bene dell´opera d´un caro e vecchio amico. Quel libro, che univa insieme storia politica e vicende personali, era molto piaciuto e l´amicizia non credo abbia fatto ombra all´oggettività del giudizio.
Mi accingo ora ad affrontare un compito un poco più arduo: l´autore del libro del quale oggi voglio scrivere, e che si intitola Poteva andare peggio (Mondadori, pagg. 440, euro 20), non è soltanto un amico ma anche un collega che fu tra i fondatori di Repubblica, ci lasciò dopo tre anni, ritornò dopo altri sei e da allora è sempre rimasto con noi. «Ritorno a casa», si intitola l´ultimo capitolo del volume di Mario Pirani; questo giornale è stato dunque la sua casa e a me fa grande piacere sentirglielo dire anche se accentua la difficoltà di recensirlo col dovuto e oggettivo distacco.
Prometto ai lettori che ce la metterò tutta per esprimere un giudizio compiuto e motivato, ma era mio dovere avvertirli affinché prendano essi stessi le loro misure. E comincio subito col dire che il libro è bello quanto insolito.
Anche questo, come quello di Reichlin, mette insieme la storia del paese e la biografia dell´autore, ottant´anni raccontati con una prosa scorrevole, molto più da romanzo che da saggio. Descrive personaggi, vicende, episodi, passioni, amori, intrighi politici, strategie imprenditoriali. Su questo lungo percorso che ha il suo inizio negli anni Trenta dello scorso secolo incombe la personalità dell´autore che porta dentro di sé un deposito culturale di ebraicità e insieme di laicità che hanno profondamente connotato le sue scelte, i suoi comportamenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie. Insomma la sua vita, gli elementi di forza e quelli di debolezza.
L´esergo del libro è una frase di Camus che privilegia il dialogo rispetto al combattimento. In realtà Camus dialogò combattendo con gli scritti, con i pensieri e con l´azione. Pirani, anche lui ha dialogato combattendo ma il "combat" l´ha subito, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stato una sua libera scelta.
Il libro descrive il nucleo dominante di questa vicenda e della personalità del protagonista: un ebreo laico, tanto più ebreo perché laico e tanto più laico perché ebreo. Chi per tanti anni l´ha avuto compagno di lavoro giornalistico, quella sua duplice dominante l´ha vista all´opera e può dunque testimoniarne l´autenticità.
* * *
La prima parte ha inizio con l´autore bambino e si chiude con i suoi vent´anni, alla fine dell´adolescenza: il decennio degli anni Trenta e gli anni della guerra fino al 1946, con l´approdo al Partito comunista italiano.Sono le pagine più vive, più innocenti, nelle quali la gioia di vivere propria dell´età infantile è rafforzata dagli agi di cui gode la famiglia del protagonista, la madre bellissima ed elegante, il padre al vertice d´una prestigiosa carriera di amministratore della società Ciga, proprietaria di grandi alberghi a Venezia, a Roma, a Firenze. L´ambiente e l´aria che vi si respira sono quelle dell´età del jazz, entrato in Italia e a Venezia in particolare dalla fessura aperta dal giovane Galeazzo Ciano e dal suo gusto di frequentare le famiglie di grande lignaggio per notorietà o per ricchezza e potenza del "business".
È in questi luoghi di opulenza che i Pirani vivono quegli anni, in una società separata dal resto di un´Italia chiusa in se stessa, immiserita dall´autarchia oltre che dalla crisi economica mondiale, confinata nel suo provincialismo, nel suo "dopolavorismo" di regime, nel suo mediocre obiettivo di potere avere "mille lire al mese" di stipendio.
Le canzoni dell´epoca sono lo specchio più verace di quell´Italia piccolo-borghese e il contrasto è perfettamente raccontato e vissuto dal bambino di otto anni che frequenta con i genitori il Lido, le lussuose tende che costellano la spiaggia, gli spettacoli della Fenice, i caffè di San Marco e dei campielli di Dorsoduro.
Passano gli anni e affiorano le prime pulsioni erotiche che l´autore racconta con disarmante e pruriginosa innocenza, i primi vestiti da ometto, le musiche americane che fino all´inizio degli anni Quaranta riuscirono a filtrare attraverso le colonne sonore dei film in concorso alla Mostra del cinema, Armstrong e Gillespie invece di Rabagliati e di Natalino Otto, Dino Grandi e il conte Volpi anziché Starace e i gerarchi del Foro Mussolini.
Ma d´improvviso il tono del racconto cambia e da deliziosamente futile e leggero diventa cupo e drammatico: le persecuzioni razziali, la guerra, il trasferimento a Roma e poi in Abruzzo di paese in paese, mentre aumentano la paura e le ristrettezze economiche, i bombardamenti, le deportazioni. Insomma il nazismo in tutta la sua orrenda crudeltà che il bambino degli anni dorati vive da adolescente braccato, accanto ad una madre ormai sfiorita e un padre costretto a fuggire in Francia sperando di potersi nasconder meglio a Parigi che non nelle montagne inospitali della Maiella.
Infine la liberazione, l´arrivo della divisione polacca che combatteva con l´Ottava armata di Montgomery, il ritorno a Roma e la scelta del giovanissimo protagonista di iscriversi al Partito comunista.
Scelta obbligata? No, perché le abitudini e l´aria che circolava in quella famiglia erano cosmopolite, occidentali, liberali. E tuttavia l´ebreo errante che viveva dentro la corteccia di quel giovane aveva bisogno di un approdo solido, d´un rifugio sicuro, di certezze protettive. Un bisogno di assoluto che gli consentiva di avanzare, assumere responsabilità e poteri di comando. Obbedire per poter comandare.
Questa è la motivazione reale di quella scelta. Pirani non la confessa perché le sue motivazioni razionali sono diverse, ma il racconto così radicalmente e candidamente sincero conduce chi lo legge a questa conclusione che lo impigliò, come piccolo funzionario prima e poi come dirigente, dentro le maglie dell´ideologia ma soprattutto in quella sorta di tagliola psicologica dell´obbedire per comandare che emerge dalle pagine del libro. In particolare da quelle, coloritissime e godibilissime, del Festival della gioventù a Praga, pieno di impreviste peripezie, dove il gregario svela una vocazione di leader che spesso lo conduce a passi arrischiati cui seguono richiami all´ordine e ricerche di nuove amicizie politiche dentro la complessa struttura del centralismo comunista.
Racconti analoghi li scrisse Enzo Bettiza che fece analoga esperienza sulle terre della sua Istria, ma l´ambiente era diverso, diverse le dinamiche e soprattutto le personalità dei due protagonisti.
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I fatti d´Ungheria portarono rapidamente Pirani fuori dal Pci insieme a Fabrizio Onofri e ad Antonio Giolitti. La coscienza liberale non poteva accettare una ferita così palese e un tradimento allo spirito democratico che il partito di Gramsci aveva promesso ai giovani che erano entrati nel ´45 nelle sue file, motivati dall´antifascismo e dalla Costituzione repubblicana.Mario però non entrò, come altri suoi compagni fecero, nel Partito socialista. Aveva maturato, dopo l´iniziale infatuazione, un´idiosincrasia verso i partiti. Non verso la politica, che è sempre rimasta la sua passione dominante, ma verso ideologie che sconfinavano nell´utopia di futuribili inconcreti.
L´amico Giorgio Ruffolo, che dirigeva da tempo il servizio delle comunicazioni esterne dell´Eni, gli propose di affiancarlo con il mandato specifico di coltivare i rapporti con il Fronte di liberazione algerino. Gli presentò Enrico Mattei. Il colloquio con il capo dell´Eni è una delle pagine più avvincenti del libro. Fu assunto e cominciò la mattina dopo. Gli fu offerta la "stazione" che l´Eni aveva aperto in Tunisia e da lì, per alcuni anni, fu lui a tessere la rete con gli algerini affrontando i rischi d´un compito clandestino e avventuroso
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Enrico Mattei morì nel 1963. Le circostanze sono note anche se una versione univoca dei fatti ancora non c´è stata, tra la tesi dell´incidente e quella dell´omicidio premeditato. Mi è sembrato di capire che Mario propenda più per la seconda che per la prima. Comunque la scomparsa di Mattei faceva comodo a molti nel mondo politico, in quello dei servizi segreti, nella mafia, in Francia, in Israele, in America, in Gran Bretagna.Con la sua scomparsa molte cose cambiarono nella Dc e all´interno dell´Eni. Spuntava la procellosa stella di Eugenio Cefis. Pirani era stato troppo intimo del fondatore dell´Eni per continuare con il suo successore. Fu invitato a restare ma si rese conto che era un invito a fior di labbra e preferì farsi trasferire al Giorno dove ebbe inizio la sua stagione giornalistica che dura tuttora.
Ha passato quarantasette anni, più di metà della vita in questa professione, ma ad essa dedica poco spazio. In realtà il suo libro-diario si ferma con la morte di Mattei. Ciò che viene dopo è annotato con pochi tratti di penna, quasi per pura completezza d´informazione, salvo due vicende. Una, privata e sentimentale, il suo rapporto amoroso con Barbara Spinelli; l´altra la direzione de L´Europeo che gli fu affidata dall´editore Rizzoli con la malleveria politica di Claudio Martelli e del Psi. Correva l´anno 1979, Pirani lasciò Repubblica per tentar la sorte con quel settimanale che era stato fondato tanti anni prima da Arrigo Benedetti ma che non aveva più niente a che vedere con quel glorioso passato.
Ci restò pochi mesi, la sua uscita coincise con l´arrivo della P2 al Corsera e a quel che ne seguì. Francamente mi riesce difficile capire il perché del sostanziale silenzio dell´autore su un arco di anni così ricco anche per lui d´incontri e di tumultuose vicende giornalistiche, politiche, economiche, culturali. Faccio solo pochi nomi che esercitarono grande influenza su quel periodo e dei quali Pirani si occupò come giornalista, editorialista e scrittore: Fanfani, Moro, Andreotti, Gianni Agnelli, Guido Carli, Nenni, Craxi, Romiti, Cefis, Cossiga, Berlinguer, Berlusconi, D´Alema, Veltroni, Fini.
Ce ne sarebbero di cose da scrivere e Pirani ne ha scritto ininterrottamente, ma in questo suo libro non ce n´è praticamente traccia. Credo che il motivo di questo silenzio riguardi un problema di distacco. Molte di quelle vicende sono ancora in corso e l´autore deve aver pensato che gli mancasse la lontananza necessaria per filtrarle con la lente della memoria, dell´ironia, del racconto e infine di quella realtà romanzata e romanzesca che è il pregio delle autobiografie. Ed è infatti il pregio di questo libro che il riserbo su fatti ancora troppo caldi ha salvaguardato.
Repubblica 20.8.10
Curarsi con l' Lsd, la medicina ci (ri)prova
di Elena Dusi
ROMA - Dove fallisce il Prozac potrebbe arrivare l' Lsd. Dalla Svizzera - paese dove l' acido lisergico nacque nel 1943 - lo psichiatra Franz Vollenweider propone oggi l' uso di Lsd, chetamine e psilocibina (il principio attivo dei "funghi magici") come antidoti contro depressione, ansia, dipendenze, comportamenti ossessivo-compulsivi, dolore cronico e come cura palliativa per i malati di tumore. «Le sostanze psichedeliche possono riequilibrare i circuiti del cervello coinvolti nei disturbi dell' umore e ridurre i sintomi di queste gravi malattie» scrive Vollenweider, dell' ospedale psichiatrico di Zurigo, in uno studio denso di dettagli farmacologi su Nature Reviews Neuroscience. «Queste sostanze rafforzano l' autocoscienza, facilitano l' accesso ai ricordi carichi di emotività, aiutano i pazienti a valutare i loro problemi in una prospettiva diversa». Condizioni perché la cura funzioni: dosi molto basse, assunzione limitata a poche settimane e presenza di un medico che dello stato di "libera coscienza" sappia trarre profitto trasformando il trip in terapia. Vollenweider in realtà non propone nulla di nuovo. L' Lsd e i suoi fratelli furono subito guardati con interesse dalla psichiatria. Nel 1965 esistevano già mille studi scientifici sulla sua efficacia contro ansia e depressione e il farmaco era stato sperimentato su 40mila volontari. La sua capacità di alterare la coscienza rappresentava una miniera per svelare i misteri delle psicosi, schizofrenia in primis. Eppure erano passati solo poco più di vent' anni da quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò l' acido lisergico partendo da alcuni funghi che infestavano la segalee lo testò su se stesso. Quel giorno, in cui per la prima volta "gli parlò", l' Lsd divenne per Hofmann «il mio bambino difficile». Gli "psichedelici" anni ' 60 e la messa al bando degli allucinogeni segnarono una battuta d' arresto per la ricerca. La curiosità è riaffiorata solo ora, con nuovi strumenti che offrono immagini vivide del cervello sotto l' effetto di allucinogeni e informazioni fresche sulla chimica della mente. Su queste nuove basi, e in un panorama che vede il fallimento di molti farmaci tradizionali contro le malattie psichiatriche, Vollenweider torna alla carica con l' arma antica degli allucinogeni. L' Lsd, scrive,è in grado di agire su neurotrasmettitori come il glutammato e la serotonina: è proprio il loro equilibrio a risultare alterato nei casi di depressione e ansia. «Bastano tre ore per avere un miglioramento dell' umore - scrive lo psichiatra - contro le 23 settimane dei farmaci tradizionali». E le cure palliative adottate contro il cancro, dimostra uno studio sul New England Journal of Medicine, oltre a migliorare la qualità della vita ne allungano la durata di circa tre mesi. La proposta di Vollenweider arriva in un momento in cui la mancanza di nuovi farmaci in psichiatria è molto sentita. "Il cervello di Big Pharmaèa corto di idee" titolava Science a fine agosto, in un dossier sul fallimento della ricerca nel campo delle malattie mentali e sulla chiusura di molti laboratori. E sempre Science - non sospetta di combine con la rivale Nature - dà enfasi oggi a una sperimentazione dell' università di Yale, che ha usato chetamine per combattere la depressione.
Repubblica 13.8.10
Ricerche truccate e Harvard sospende l' uomo delle scimmie
di Nicholas Wade
L' origine della moralità sta creando grossi problemi a Marc Hauser, il noto studioso dell' università di Harvard autore di un libro sull' argomento e sospeso dopo un' inchiesta interna legata proprio alle sue ricerche. Hauser, che si è specializzato nello studio comparato della mente umana e di quella degli animali, è autore del noto libro Menti morali. Le origini naturali del bene e del male. Jeff Neal, portavoce di Harvard, all' inizio non ha confermato né che Hauser sia in aspettativa né che l' università ha condotto un' indagine. La segreteria telefonica del laboratorio del professore, però, fa sapere che lui sarà in aspettativa fino ad autunno. In un articolo pubblicato dalla rivista Cognition nel 2002, Hauser e altri autori sostenevano che le scimmie tamarino edipo fossero in grado di apprendere alcune regole, analogamente a come le apprendono i bambini. La rivista scientifica ora sta per pubblicare una rettifica specificando che un riesame interno del paper dell' Università «ha riscontrato che i dati non corroborano le scoperte vantate» e che pertanto, Cognition «ritratta quell' articolo». «Marc Hauser», prosegue la rettifica, «si assume la responsabilità dell' errore». Il silenzio di Harvard suscita preoccupazioni anche tra altri ricercatori nel campo che temono un discredito generalizzato finché i fatti non saranno stati chiariti. «A mio avviso, Harvard deve rendere pubblici i risultati della sua indagine», dice Herbert Terrace, professore di psicologia presso la Columbia University. «Stando all' Università, essa sta agendo così per proteggere se stessa e Hauser, ma non sarebbe meglio proteggere invece tutto quest' ambito di studio?». Hauser è uno degli studiosi di Harvard più noti,è citato frequentemente in altri articoli scientifici che trattano del linguaggio, delle capacità cognitive degli animali e delle basi biologiche della moralità. Nel suo campo è considerato un luminare. Nel suo libro del 2006, Menti morali, Hauser sosteneva che nella mente umana, a livello genetico, è presente una grammatica morale universale, analoga alla grammatica universale con la quale Noam Chomsky spiega il linguaggio. Hauser sta attualmente lavorando a un altro libro, Evilicious: Why We Evolved a Taste for Being Bad, che analizza come l' uomo abbia sviluppato una propensione alla malvagità. Il professore di Harvard è uno scrittore prolifico e persuasivo. Il suo errore in questa ricerca sembra riguardare gli esperimenti, molti dei quali basati su riprese di scimmie tamarino edipo dalla chioma bianca. Per un essere umano, tuttavia, è facile individuare nelle risposte degli animali, delle scimmie in questo caso, ciò che egli vuole vedere e di essere quindi tratto in inganno dagli animali. Terrace riferisce che è da un certo tempo che sono sorti dei problemi con il lavoro di Hauser: «Innanzitutto c' è stata un' interpretazione arbitraria delle riprese video per far sì corroborassero l' ipotesi. Il secondo problema riguarda la validità dei dati. Molti dei suoi lavori si basano su riprese video che ora devono essere nuovamentesottopostea valutazione per accertare la validità dei dati». A quanto riferisce un articolo pubblicato da The Boston Globe martedì, lo studioso Gordon G. Gallup Jr. della State University di New York ad Albany, che aveva chiesto a Hauser il materiale video nel quale, secondo il ricercatore di Harvard, i tamarini edipo dalla chioma bianca si riconoscevano in uno specchio, dopo averlo analizzato non aveva trovato prove di tale comportamento. Un altro dei paper che presenta dei problemi è quello pubblicato da Science magazine nel 2007 sulla capacità dei tamarini, dei macachi rhesus e degli scimpanzé di intuire le intenzioni delle persone. A giugno la redazione ha ricevuto a una lettera del coautore senior della ricerca. In essa, Justin Wood, dell' Università della California del Sud, scrive che, dopo che Harvard nel suo riesame dell' articolo non aveva trovato allegati né delle note sugli esperimenti sul campo né altri dati legati alla ricerca in merito alla parte sul macaco rhesus, lui e Hauser avevano ripetuto l' esperimento arrivando gli stessi risultati, mentre non c' erano stati problemi con i dati riguardanti i tamarini e gli scimpanzé. In autunno, quando si concluderà l' aspettativa, Hauser potrebbe riprendere in pieno la sua attività a Harvard, ma le nuvole che si sono addensate sui suoi esperimenti, tuttavia, non spariranno probabilmente finché non saranno state chiaritela naturae l' entità del problema. «Gli studenti non sono proprio soddisfatti di come Harvard sta gestendo la faccenda: hanno la sensazione che l' Università stia spazzando i problemi sotto il tappeto». ©The New York Times La Repubblica Traduzione di Guiomar Parada
Repubblica 11.3.08
Nel peccato originale la coscienza dell' uomo
di Eugenio Scalfari
Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell' albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell' Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza. Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all' inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato - non cancellato - e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio. Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest' affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l' assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell' al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta. Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l' ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione? Dov' è la bilancia della giustizia? Dov' è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all' Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. è la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato. Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell' uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto. Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch' io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l' innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto. Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all' Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l' Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall' animalità. Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari. Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell' albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio. La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l' atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all' accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo. Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l' abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. è possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un' idea assai mediocre e bislacca della modernità. Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto. Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni. Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l' erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana. Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell' uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l' Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l' Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello. Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l' Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza. La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. è oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. è colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l' assume. Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un' innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto. <* * * & Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti? Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l' altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento. Dunque siamo liberi, almeno stando all' insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell' insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell' Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio? Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l' uomo, ma è pur vero che anche l' uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell' inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell' «es» per distinguerla dall' io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all' interno dell' individuo. L' io non è una figura psichica separata dall' «es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l' io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l' istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini. Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l' intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi. La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell' individuo e quella della specie, l' egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l' individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto. Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell' egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate. Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.