l’Unità 21.6.10Dopo la manifestazione di Roma contro la manovra, nel partito si apre una nuova faseLe piccole schermaglie non cancellano il plauso raccolto dal discorso del segretario BersaniIl day after del Palalottomatica L’entusiasmo della base Pddi Maria ZegarelliIl giorno dopo il Palalottomatica Bersani insiste: «Mani cuore e cervello nei problemi della gente». Penati: «Con il suo intervento di ieri ha colto nel segno. Questa manovra non piace a nessuno».
Basta con le polemiche interne, «il paese ha bisogno di noi» ragion per cui il Pd deve mettere «mani, cuore e cervello» nei problemi della gente e riannodare i fili con la società. Pier Luigi Bersani sente che il cambio di passo è segnato, che si è usciti dal dibattito tutto interno al Pd, è convinto che adesso la priorità sia «trasformare la rabbia» che c’è nel Paese e in tanti cittadini delusi e sfiancati «in energia positiva». Ma sa anche che nel Pd la polemica è sempre dietro l’angolo, per questo il giorno dopo la manifestazione di Roma, non replica ai mal di pancia che pure si registrano in qualche democratico.
Beppe Fioroni, per esempio, era poco convinto della manifestazione contro la manovra e poco ha gradito gli accenti troppo «di sinistra», mentre in diversi hanno provato fastidio per quel «compagni e compagne» pronunciato dall’attore Gifuni. C’è anche chi ha notato tra gli assenti Franco Marini insi-
nuando prese di distanza, ma il presidente era in Finlandia, come hanno fatto sapere i suoi collaboratori, da dove è rientrato soltanto ieri pomeriggio.
L’ENTUSIASMO DI FACEBOOK
Su Facebook, intanto, l’entusiasmo per questa nuova linea del partito è alle stelle, «era ora», «finalmente Pier Luigi incomincia a sparare a zero, meglio tardi che mai».
«Ieri Bersani ha colpito nel segno dimostrando che si tratta di una manovra sbagliata e dannosa che non risolve i problemi del paese e non lo aiuta a ripartire dice Filippo Penati, capo della segreteria politica -. Non piace veramente a nessuno, tanto che neanche Berlusconi la difende preferendo attaccare l'opposizione per distogliere l’attenzione e fare un appello all’unità della sua maggioranza». Un messaggio «forte e chiaro» quello partito dal Palalottomatica, secondo Maria Pia Garavaglia:«Il Pd è una realtà viva di questo Paese che può dare un grande contributo a farlo uscire dalla crisi. Siamo in un’epoca post-industriale e molto dipenderà dalla capacità di leadership di Bersani di saper fare fronte alle sfide che in questa era si aprono». L’imprenditore Diego Della Valle, infine, si dice d’accordo con la proposta del segretario di chiederedipiùachiadipiù.
Critiche da Rodolfo Viola che, se apprezza «la voglia di fare proposte concrete e alternative per il Paese», annota che nessuna di queste parli a al mondo delle partite Iva o dei “piccoli”. Il Pd, dice Viola, deve decidere se «professionisti, artigiani, commercianti fanno parte dei complessi interessi sociali che devono essere valorizzati e tutelati».
Repubblica 21.6.10La Sinistra ritrovi se stessadi Marc LazarIl Pd ha organizzato una grande manifestazione per protestare contro una «manovra ingiusta e sbagliata», per criticare il governo e proporre le sue soluzioni economiche e sociali.
Il Pd assolve alla sua funzione di partito d´opposizione in una democrazia, come anche quando denuncia con forza, insieme ad altre formazioni, la «legge bavaglio». Con questa iniziativa, la direzione del Pd persegue anche altri obbiettivi: mobilitare i suoi iscritti per dare un senso e uno scopo alle loro azioni quotidiane, compattare le diverse sensibilità del partito, che hanno semmai la tendenza a litigare fra loro, rivolgersi ai cittadini mostrando determinazione e convincendoli della serietà delle proprie proposte. Quanto al segretario, Bersani, si sforza attraverso questa iniziativa di affermare la sua autorità all´interno del partito e costruire la sua reputazione di principale oppositore del presidente del Consiglio.
Ma questa manifestazione non può mascherare l´anemia politica e culturale del Pd. In un momento in cui la crisi obbliga i grandi partiti politici a uno sforzo d´immaginazione per rispondere ai dubbi dei cittadini, questa anemia spiega in parte la scarsa credibilità politica, i risultati elettorali negativi e il basso livello nei sondaggi del Pd. Quaranta o cinquant´anni fa, le sinistre italiane erano più o meno impotenti sul piano politico, ma avevano un´enorme e variegata creatività culturale, grazie agli scambi, difficili ma intensi, tra intellettuali, partiti e sindacati. Era così al Pci, con la rete degli Istituti Gramsci, e anche al Psi, in particolare negli anni 60 e 70 intorno alla rivista Mondo operaio, che polemizzava con i comunisti contribuendo a intaccare la loro egemonia culturale sulla sinistra. Diverse personalità esercitarono una forte influenza, come ad esempio Norberto Bobbio, Lelio Basso, Vittorio Foa, Bruno Trentin ecc. Le analisi delle mutazioni del capitalismo, della classe operaia, del lavoro, dell´Unione Sovietica, del socialismo, del sindacalismo o della democrazia spesso divergevano, ma alimentavano il dibattito. Oggi in gran parte quelle analisi sono superate (tranne Bobbio). L´inerzia attuale del dibattito all´interno della sinistra italiana ha diverse spiegazioni. La tradizione socialista è stata progressivamente dissipata a partire dagli anni 80, con il Psi che ha dimenticato il lavoro realizzato nel decennio precedente dagli intellettuali a lui vicini sul riformismo, la socialdemocrazia, la modernizzazione dell´Italia o il totalitarismo comunista. Quando il partito è scomparso, negli anni 90, si è trascinato dietro gran parte della tradizione intellettuale socialista o l´ha tendenzialmente, e ingiustamente, screditata. La trasformazione del Pci nel Pds, poi nei Ds e infine nel Pd ha fatto precipitare il gruppo che l´ha pilotata in un dilemma: proclamarsi fieri di essere stati comunisti comporta un prezzo in termini elettorali, ma rinnegare le proprie convinzioni precedenti è difficilmente sostenibile. Divisi al riguardo, gli ex comunisti non sanno più bene che cosa fare della propria storia e della propria tradizione. L´ascesa in politica di Berlusconi ha polarizzato tutta l´attenzione e le energie della sinistra. La conseguenza è che i dibattiti che la attraversano ruotano intorno a tematiche essenzialmente politiche: scongiurare i pericoli per la democrazia (ma senza riuscire, nelle due occasioni in cui il centrosinistra è stato al potere, a mettere a punto una legge sul conflitto d´interessi), trovare un sistema elettorale adeguato, rifiutare le riforme istituzionali proposte dal presidente del Consiglio, che rischierebbero di rafforzare il potere esecutivo, e proporne altre. E la creazione del Pd nel 2007 invece di incoraggiare il dibattito ha contribuito paradossalmente a soffocarlo.
Il Pd ambiva a rappresentare un crogiolo delle sue varie componenti, quelle provenienti dal Pci, dal Psi e dalla Dc, senza trascurare l´ingrediente ecologista. Questo melting pot è fallito. Oltre alle rivalità personali, ai confronti fra diverse sensibilità, alle enormi difficoltà generate dalla fusione degli apparati di partito e dalla delicata spartizione dei posti, il Pd, per tenere insieme i diversi iscritti e definire la propria identità, ha scelto il minimo denominatore comune. Il risultato è stato un partito senza leader forte, dalla strategia tentennante, caratterizzato da un basso profilo e che fatica a nascondere un abissale vuoto culturale. Su tutti gli argomenti scottanti, economici, politici e sociali (in particolare la bioetica e la laicità), il partito si sforza innanzitutto di non collassare sotto il peso delle sue divergenze.
Certo, le varie sensibilità hanno i loro intellettuali e i loro esperti, anche di altissimo livello (basti pensare a Michele Salvati), che lavorano nelle fondazioni, come la Fondazione democratica o Italianieuropei. Ma generalmente queste fondazioni, pur lasciando libertà ai propri membri, sono al servizio innanzitutto di un leader, nel primo caso Veltroni e nel secondo D´Alema. Questo significa che non contribuiscono minimamente all´elaborazione collettiva di una cultura di partito. Obnubilato dal comportamento da adottare riguardo a Silvio Berlusconi, oscillante tra un´opposizione intransigente e la ricerca del compromesso, il Pd ha poco da dire sulle mutazioni della società italiana, sull´Europa e sulla globalizzazione.
Il suo deficit di elaborazione culturale paralizza il resto della sinistra. Al di fuori del Pd ci sono numerose riviste di centrosinistra espressione di tradizioni e generazioni diverse. Ma – e questo forse è uno degli elementi nuovi -, le loro produzioni, le loro polemiche e i cantieri che esplorano sembrano riuscire minimamente a influenzare il dibattito del Pd, e ancor meno il suo orientamento politico. La circolazione tradizionale fra partito e intellettuali è entrata più o meno in corto circuito, con i due mondi, quello dei politici e quello degli intellettuali, che conducono vite parallele, si ignorano quando addirittura non si criticano a vicenda, anche se tutto questo non impedisce che occasionalmente ci siano dei punti d´incontro o una strumentalizzazione degli intellettuali da parte dei politici. Il risultato è che la sinistra italiana oggi non rappresenta più una fonte d´ispirazione per il resto della sinistra europea.
Eppure, in un momento in cui Silvio Berlusconi è in declino e la sua egemonia politica e culturale si sgretola, il Pd ha tutte le carte in mano per apportare un contributo fondamentale alla riflessione in corso a sinistra. Occupa un posto centrale nell´opposizione. Il progetto iniziale da cui è nato era una risposta ingegnosa al fallimento storico e alla crisi della socialdemocrazia classica. Il Pd ambiva a svolgere la funzione di un laboratorio e a inventare un altro riformismo. Tocca a lui riallacciare il legame con questa ambizione annodando i fili di un dialogo e di un confronto con le forze vive della sinistra italiana ed europea.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 21.6.10"Non accettiamo la parola compagni"Giovani pd contestano il vocabolario comunista. Bersani. "Un pretesto"di Giovanna CasadioROMA - Colpa sua, di Fabrizio Gifuni, che ha interpretato tra l´altro Alcide De Gasperi in tv ma che sabato - invitato da Bersani alla mobilitazione anti-manovra del Pd al Palalottomatica - ha concluso un appassionato discorso sui tagli alla cultura con le antiche parole d´ordine della sinistra: «Compagne e compagni...è tanto che volevo dirlo!». Liberatorio. I militanti democratici presenti si sono spellati le mani. Eccetto quelli che ieri hanno deciso di protestare. Un gruppo di giovanissimi ha scritto a Bersani una lettera di fuoco. Per noi «nativi del Pd», cioè estranei alla tradizione comunista e a quella democristiana, «le parole compagni, festa dell´Unità, sono concetti che rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che facciamo fatica ad accettare... questo trapassato non ha noi come destinatari». Luca Candiano, uno dei firmatari (con Veronica Chirra, Matteo Cinalli, Sante Calefati e Marino Ceci, ventenni o poco più, giovani Democratici) sostiene che «è un´aria che si respira dall´inizio della segreteria Bersani» e che li fa sentire «fuoriposto», anche se non è una minaccia ad andarsene. Fanno eco Lucio D´Ubaldo, senatore, e Giorgio Merlo: per entrambi, ex Ppi, «con i Gifuni di turno il Pd si disegna un ruolo di eterna opposizione».
Anche il veltroniano Stefano Ceccanti su Facebook apre un dibattito sul tema: «Il leader dei cristiano sociali Gorrieri, agli stati generali del 1998 in cui nacquero i Ds, suscitò proteste chiedendo che la si smettesse di chiamarsi "compagni" così che ciascuno si sentisse a casa propria. Noi qui - commenta Ceccanti - torniamo al Pds e al Pci. Se l´avesse fatto un operaio nostalgico...ma lo dice Gifuni, è l´estremismo dei ricchi e uno specchio delle difficoltà del Pd destinato a essere minoranza».
Gifuni trasecola: «Pensavo che fossero parole ancora pronunciabili, né volevo suggerire linea o nostalgie. Ci si chiama così anche nella vita, mi è venuto dal cuore. Non ho tessere di partito, neppure del Pd». Dopo l´applauditissimo intervento, si sono complimentati con lui: «Bravo, hai avuto coraggio». Coraggio di denunciare «il genocidio culturale», credeva l´attore, figlio di Gaetano, ex segretario generale del Quirinale. Invece il coraggio gli serve ora che è finito nel tritacarne delle divisioni del Pd e degli attacchi del Pdl. Gasparri gli consiglia di occuparsi dei «parenti giardinieri». «Che tristezza», replica lui. «La parola compagno esiste», aveva assicurato Bersani a un operaio sardo. E adesso dalla segreteria sull´intera vicenda affermano: «È solo un pretesto». Pure Prodi non disdegnava parlare di «compagni». E Ivan Scalfarotto sbotta: «Lasciateci chiamare compagni che è parola piena di sentimento e solidarietà. La mancanza di innovazione sta nel fatto che D´Alema e Marini siano ancora dirigenti dai tempi di Pci e Dc. Gifuni è stato bravissimo». Debora Serracchiani: «Io voglio che al Pd vengano a dire amici, fratelli, compagni e che noi ascoltiamo cosa dicono».
Repubblica 21.6.10Le contese democratiche tra archeo-politica e nostalgia ideologicaNel 2007 il leader della Margherita Rutelli cercò la parola compagno nelle Sacre scritture I dc si chiamavano tra loro "amici" I neofascisti preferivano "camerati"di Filippo CeccarelliArcheo-politica, proto-invocazioni, vetero-linguaggi e dispute ideologiche fuori tempo massimo. Non che la questione paia destinata a mutare il paesaggio dell´opposizione tra la manovra e la legge-bavaglio, ma ad alcuni giovani del Partito democratico non è piaciuto per niente che l´altro giorno, durante la manifestazione del Palalottomatica, Fabrizio Gifuni abbia esordito con uno squillante: "Care compagne e compagni".
E perciò, non riconoscendosi in quella formula, hanno scritto a Bersani «perché vorremmo renderti cosciente del nostro disagio di fronte a parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato». Si tratta di espressioni anche rispettabili, ma a loro giudizio «trapassate».
Vero è che sabato scorso Gifuni ha un po´ caricato la faccenda del "compagne e compagni" aggiungendo con la dovuta enfasi: «Vi chiamo così perché era tanto che volevo dirlo», motivazione che è suonata quasi liberatoria e come tale accolta da applausi scroscianti. A tale proposito va detto che i giovani del Pd romano, cui si sono ieri aggiunti esponenti di derivazione margheritina, quindi di ex osservanza popolare e perciò prima ancora democristiana, hanno trascurato la circostanza che ormai stabilmente al giorno d´oggi si fa ricorso alla gente di spettacolo per far partire la macchina emotiva, riscaldare la platea e magari prolungare l´evento con qualche curiosità del giorno dopo.
Eppure, posto che l´attore Gifuni ha svolto egregiamente il suo mestiere e anche il suo compito per così dire fusionale, è vero che la parola "compagno" viene dal latino delle corporazioni medievali ("cum panis", colui con cui si divide il cibo), ma da almeno un secolo sta piantata nella tradizione marxista. E se pure c´è qualche dubbio che quest´ultima sia oggi viva e vegeta, basta pensare agli inni del movimento operaio e dell´ultrasinistra - "Su fratelli, su compagni", "Compagni, avanti il gran partito", "Compagni, dai campi e dalle officine" - per comprendere il disappunto di chi quel mondo ha perfino combattuto e adesso se lo ritrova in casa con i suoi simboli e tutto l´armamentario espressivo.
Nostalgia. Pretesti. Perdita di tempo. Ma la questione non è nuovissima. Così, mentre a sinistra la parola fu a lungo veicolo di scomuniche ("Non è più un compagno") e ambiguità ("Compagni che sbagliano") nelle Acli degli anni 70, dove già convivevano marxisti e cristiani, la formula rituale d´inizio comizio si articolò in un articolato: "Compagni e amici" - e con questo titolo c´è pure un libro di Gabriele Ghepardi (Coines 1976).
Del resto "amici", sia pure con la dovuta ipocrisia, si chiamavano fra loro i dc; così come i neofascisti vicendevolmente si nominarono a lungo "camerati". Il termine "compagno" vivacchiò per tutti gli anni 80´ per poi sfumare nel decennio seguente, a riprova dell´erosione delle culture politiche e delle relative appartenenze. L´ipotesi è che fu la tecnologia, oltre al crollo ideologico, a dismettere l´uso di un termine che presupponeva un calore di vicinanza, un guardarsi in faccia, una reciprocità di rapporti. Quando i leader della sinistra approdarono in televisione non c´era la loro pur vasta tribù ad ascoltarli, ma sterminate masse di pubblico, non più "compagni". Pare di ricordare che fu D´Alema, allora presidente, a rifiutare per primo l´appellativo che incautamente gli aveva rivolto un povero segretario di sezione ds degradatosi a figurante in qualche Ballarò.
Dopo di che la parola fu in qualche modo subissata da un´onda di varia e beffarda dissacrazione, dai "Compagni di merende" (copyright Filippo Mancuso) fino al "Compagno Fini". Ma nessun colpo di grazia, come si intende anche oggi, ha impedito che nei tronconi costituitivi dell´imminente Pd, partito subito disponibile a spendersi e lacerarsi nelle più bislacche e autolesionistiche controversie, si riaprisse periodicamente la questione dei compagni o non compagni.
In questo senso vale rammentare che nel 2007 il leader della Margherita Francesco Rutelli concesse il suo benestare all´uso di "compagno", ma non senza aver commissionato un´indagine sulla parola nelle Sacre Scritture. La squadretta di filologi rutelliani scovò oltre cento ricorrenze. La più significativa era nel libro del Siracide: "Non è forse un grande dolore quando il compagno diventa un nemico?". Che si adatti abbastanza bene proprio a Rutelli, uscito dal Pd, dice molto sul potere delle parole e sulle vendette che a volte tengono in serbo.
Intervista a Mila Spicolal’Unità 21.6.10«Oggi è la scuola la vera emergenza democratica di questo Paese»Erano due anni che aspettavo quell’abbraccio dal Partito democratico». Il giorno dopo il l Palalottomatica Mila Spicola, l’insegnante di Palermo che ha raccolto gli applausi calorosi dei democratici arrivati a Roma, è ottimista: «Il Pd ha finalmente capito che la scuola deve essere al centro della politica». L’abbraccio più lungo Bersani l’ha dedicato proprio a lei. Un successone ieri. «Quell’abbraccio l’ha dedicato alla scuola e di questo sono felice perché per due anni è stato un argomento quasi dimenticato dal partito. Francesca Puglisi, responsabile scuola nell’esecutivo Pd, invece, ha mostrato un interesse reale, ci siamo visti insieme ad altri insegnanti molte volte mettendo in piedi un lavoro importante. Si è finalmente capito che la scuola è la vera emergenza democratica del Paese: se molliamo su questo potranno passare tutte le leggi bavaglio o comprimere qualunque diritto perché si perderebbe la capacità di esercizio critico, di socializzazione sana».
Ieri Fabrizio Gifuni ha definito la televisione, citando Pasolini, la nuova forma di fascismo. Esagerato? «Niente affatto, oggi la nostra agenzia educativa concorrente è la televisione. Ogni giorno in classe devo combattere con i miei ragazzi che puntano tutti a fare i ballerini, che mi chiedono di commentare “Amici” e quando rispondo che non ho la televisione mi guardano stupiti. In Sicilia noi ci battiamo per il tempo pieno non soltanto per togliere i ragazzi dalla strada, ma anche per sottrarli alla televisione».
Lei diventò «famosa» per una lettera scritta ad un quotidiano sul fondo schiena che prevale su tutto, anche su due lauree. «Quella lettera la scrissi d’impulso, leggendo un articolo sul Financial Times, ma la mia lotta quotidiana da sempre è per una scuola migliore, inclusiva. Sono stata precaria all’università per quindici anni, quando ho ottenuto il posto nella scuola media ho scelto di tornare a Palermo, nei quartieri dove è più complesso insegnare. Oggi insegno alla Quasimodo, nel quartiere Oreto, dove convivono realtà sociali diverse. In Sicilia c’è davvero il Vietnam, in molti luoghi lo Stato è ancora visto come un nemico».
Lei ha chiesto: cosa aspettate a scendere in piazza?. Lo chiedo a lei, cosa aspettano? «Qui la gente si accorge se ti batti nel loro interesse e sono con te, ma è molto più complesso riuscire a coinvolgerli in una battaglia che è anche politica. Per questo un partito come il Pd deve avere la forza di rimettere al centro proprio questo tema e far sentire agli 800mila insegnanti e alle famiglie che non sono soli». M.ZE.
l’Unità 21.6.10La guerra della destra alla Ru486di Gloria BuffoIl nostro non è un paese abituato a trattare bene le donne. E così passa sotto silenzio l’accanimento verso le italiane di questo governo che non solo vuole alzare l’età pensionabile e tagliare i servizi ma ostacola, ancora una volta la libertà (e la salute) delle donne.
La vicenda della pillola RU486 è emblematica. In un paese dove c’è una buona legge, la 194, che ha dimezzato il ricorso all’aborto e dove, per l’alto numero di medici obiettori, è facile incappare in lunghe liste di attesa, l’arrivo di un farmaco che può sostituire un intervento chirurgico dovrebbe essere un sollievo. Non è la panacea di tutti i mali ma è un metodo sperimentato da molti anni in tanti paesi ed è un’alternativa, in molti casi, per le donne e per i medici. Qui, invece, diventa una via crucis. Per ragioni politiche ed ideologiche, l’Agenzia per il Farmaco, il Ministero, il Consiglio Superiore di Sanità, l’indagine parlamentare ad hoc, partoriscono un iter lunghissimo che non è riservato a nessun altro farmaco. Deve essere ben chiaro: anche se è meno «glamour» della legge bavaglio e dell’attacco alla magistratura (entrambi gravissimi), siamo di fronte a un fatto inconcepibile.
In Italia la destra fa la guerra ad una medicina. Gli stessi che volevano fosse gratis e per tutti la cura Di Bella, priva di qualsiasi validazione scientifica, adesso non vogliono la RU486. Altro che il ’68 o il «sei politico», qui c’è il «farmaco politico»! Cura Di Bella sì, pillola abortiva no. E senza un solo argomento scientifico o giuridico: la RU486, infatti, viene adoperata nel rispetto pieno della 194. Non contenti, i campioni del «farmaco politico», una volta ammesso per forza questo preparato, hanno cominciato la guerriglia sulla sua somministrazione. E, per ostacolarla, hanno inventato l’obbligo del ricovero per tre giorni, intromettendosi in una scelta, che compete al medico e alla donna. Cota e Zaia, appena eletti presidenti di regione, hanno tuonato contro la RU486, la Polverini ne impedisce l’uso, altre regioni si adeguano, per fortuna non tutte. È ora di sollevare scandalo per il fatto che ciò che è normale e utile alla salute di tutte le donne qui viene impedito. Accade anche per la fecondazione assistita, per la pillola del giorno dopo, spesso per la legge 194. Sinistra Ecologia Libertà vuole contribuire a rendere visibile questo scandalo e ha messo a disposizione un telefono 331.3937224 per denunciare abusi, arbitri, lacune e disservizi in questa materia. Si chiama «Salute e Libertà», due obiettivi che in Italia sono diventati difficili, soprattutto per le donne. Non pensiate, non pensiamo, che sia solo il Vaticano ad ostacolare il principio, civile e umanissimo, della scelta e della libertà. C’è una destra che si nutre di una idea perversa della morale, su cui tra l’altro non ha alcun titolo o coerenza da rivendicare. Riprendiamoci quello che ci è dovuto.
l’Unità 21.6.1025 giugno 2 luglo 2010Contro una manovra sbagliata, per lo sviluppo e l’occupazioneSciopero generale CGILLa manovra economica del governo è grave, perché toglierà spazio a qualsiasi ipotesi di ripresa. È iniqua e sbagliata: sbagliata, perché non vi sono provvedimenti di sostegno all’occupazione, alla crescita e allo sviluppo; iniqua, perché divide il paese caricando i costi della manovra stessa sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, gli enti locali e sui cittadini più deboli ed esposti. Sono queste le ragioni dello sciopero generale proclamato dalla CGIL per venerdì prossimo 25 giugno nella maggior parte delle regioni, e per venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Il segretario generale della CGIL, Guglielmo Epifani, ha espresso molto chiaramente, in una intervista all’Unità, le ragioni della confederazione: “Non contestiamo – ha detto – la necessità di intervenire per correggere i conti pubblici, anche se lo si fa per colpa del governo che ha sbagliato le previsioni e sottovalutato la crisi. Ma non è condivisibile una manovra di tagli pesanti, fatti senza equità, senza pensare allo sviluppo, all’innovazione, all’occupazione”. “Pagano – ha aggiunto il leader CGIL – i lavoratori pubblici e della scuola e anche del settore privato, pagano i lavoratori in mobilità che solo in parte potranno andare in pensione senza incappare nello slittamento delle finestre. Pagano i cittadini, perché i dieci miliardi tolti a regioni e comuni avranno come conseguenza un taglio dei servizi alle persone. Al contrario, non pagano un centesimo i cittadini che guadagnano da 150 mila euro l’anno in su, che possiedono barche, patrimoni, case lussuose, ville, così come non paga nulla l’impresa”. Lo sciopero sarà, in linea di massima, di otto ore (e quindi per l’intera giornata) nei settori pubblici e di quattro ore nel settore privato. In Emilia Romagna, Lombardia, Abruzzo, Marche, Molise e Umbria, e nella provincia di Cagliari, lo sciopero sarà di otto ore sia nei settori pubblici sia in quelli privati. In Calabria l’astensione sarà di otto ore, oltre che nel pubblico, nei settori del lavoro portuale e delle costruzioni. Il 2 luglio lo sciopero sarà di otto ore in tutti i settori in Toscana. Alla luce del differimento dello sciopero del trasporto pubblico locale e nelle ferrovie, la Filt CGIL ha annunciato la partecipazione allo sciopero generale nella giornata del 9 luglio. Lo sciopero sarà di otto ore anche in numerose categorie del terziario, della distribuzione, dei servizi e del turismo, e nel settore domestico. I servizi essenziali saranno ovunque garantiti. Manifestazioni si svolgeranno in molte città italiane con cortei e comizi dei leader della CGIL.O
l’Unità 21.6.10In Italia nuove prove generali del conflitto capitale e lavoroAlla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma la politica. La globalizzazione non ha portato più diritti ma più bassi salari. Non esiste una rete sindacale internazionaledi Loretta NapoleoniLa globalizzazione ha prodotto un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro, che gli economisti definiscono la corsa dei salari verso il basso. Grazie alla delocalizzazione la forza lavoro a disposizione del capitale occidentale si è raddoppiata. Dall’Est europeo fino al sud est asiatico, l’impresa ha così usufruito di salari decrescenti. Ciò significa che quello minimo percepito, ad esempio in Cina, è diventato un metro di comparazione internazionale. Si chiama «arbitraggio globale del lavoro», lo spostamento della produzione da un paese all’altro in base al costo del lavoro.
La corsa dei salari verso il basso ha messo in ghiacciaia il costo del lavoro in occidente, e spesso per evitare la delocalizzazione i sindacati hanno accettato condizioni monetarie che non coprivano l’aumento del costo della vita. Ciò significa che in termini reali, e cioè al netto dell’inflazione, oggi il salario medio dell’operaio occidentale è più basso che vent’anni fa.
Naturalmente non era questo l’obiettivo che ci si prefiggeva globalizzando. Il fenomeno ha messo in aperta concorrenza tutti i lavoratori senza però creare la rete di connessione tra i sindacati. I lavoratori della Fiat polacchi non hanno alcun collegamento con quelli di Pomigliano, e scoprono il potenziale trasferimento della fabbrica dai giornali. Ci troviamo quindi in presenza di una concorrenza sleale. A detta dei polacchi fino alla scorsa settimana il ministro dell’economia negava che la Fiat avesse intenzione di spostare la produzione in Polonia. Ma non basta. La Fiat ha ottenuto finanziamenti dalla Ue per produrre la Panda in Polonia, accordi che ora dovrà infrangere. È vero che queste cose non succedono da nessun altra parte al mondo, difficile infatti trovare un’impresa che per riportare la produzione in patria rompa accordi internazionali ed imponga ai lavoratori di abrogare la Costituzione per accettare condizioni di lavoro «a la cinese».
Molti si domanderanno se dietro questa strategia non ci sia un fine politico che nulla abbia a che vedere con la globalizzazione. In termini economici viene spontaneo domandarsi che senso ha trasferirsi da una fabbrica che funziona bene a Pomigliano. Forse dietro questo braccio di ferro ci sono problemi strutturali, di imprese che da decenni sopravvivono solo grazie all’abbattimento dei costi di produzione, problemi oggi pressanti. La corsa dei salari verso il basso sta infatti per raggiungere il traguardo, già in Cina le lotte operaie costringono l’impresa a farli gravitare, è solo questione di tempo ma anche nel resto del mondo succederà lo stesso. A quel punto sarà difficile per le imprese contenere le richieste di aumento dei salari reali e sociali.
È dunque possibile che in Italia si stiano svolgendo le prove generali di un braccio di ferro tra capitale e lavoro che potrebbe vedere riaccendersi le lotte operaie in occidente dovunque esista un’industria che produce solo grazie a condizioni particolari. Ed è anche probabile che ciò succeda perché sullo fondo c’è una crisi del debito sovrano, che equivale a dire che lo stato si trova nell’impossibilità di iniettare, come sempre, in queste industrie contante sotto forma di sovvenzioni.
Se questo è vero allora il problema è strutturale e non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. In Germania o in Giappone operai e sindacati dell’auto non vengono messi alle strette come da noi, la Merkel non chiede l’abrogazione degli articoli costituzionali sul lavoro. Né in Germania e né in Giappone ci si lamenta della scarsa produttivita della manodopera, ma ricordiamolo in questi paesi le assunzioni non avvengono su sollecitazione politica. Tutti gli operai scrutatori di Pomigliano che durante le elezioni hanno preso il permesso hanno presentato regolare certificato con firma di politici. Domandiamolo a loro se erano veramente nei seggi non al sindacato. Se questa analisi è corretta allora alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma politica, ed impresa e sindacato faranno bene a tenerlo presente.
Repubblica 21.6.10Chi svuota la Costituzionedi Stefano RodotàIn questa stagione torbida le prove di decostituzionalizzazione si susseguono e si infittiscono. Per la prima volta nella storia della Repubblica un governo vuole modificare un articolo della parte iniziale della Costituzione, l´articolo 41.
Una norma contigua, l´articolo 40 che disciplina il fondamentale diritto di sciopero, viene messo concretamente in discussione dal documento della Fiat riguardante i lavoratori di Pomigliano d´Arco. Non a caso dall´attuale maggioranza si è affermato perentoriamente che è venuto il momento di cambiare lo stesso articolo 1, considerandosi anacronistico che si parli di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ancora il Governo propone di modificare l´articolo 118, altri ritengono che si deve porre mano all´articolo 81 e si è addirittura pubblicamente sostenuto che si debba ammettere il referendum sulle leggi tributarie, escluso dall´articolo 75. In questo clima si dice apertamente che deve cadere il tabù della prima parte della Costituzione, e che è tempo di cambiarne persino i principi fondamentali. Ho parlato di decostituzionalizzazione, e non di modifiche, perché siamo di fronte a tentativi dichiarati di liberarsi della Costituzione. Sembra così giungere a compimento un vecchio progetto, che attraversa tutta la storia della Repubblica e che finora era stato sventato. Il caso dell´articolo 41 illustra bene lo stato delle cose. In questi giorni sono state ricordate la genesi e la portata della norma: storia nota, consegnata da anni a studi impeccabili, che smentiscono sia la tesi di una sua ascendenza comunista, sia quella dell´impossibilità di introdurre regole più flessibili per le imprese senza modificare quell´articolo. L´ignoranza della storia sta divenendo una sua continua falsificazione. Non si leggono gli atti dell´Assemblea costituente né la giurisprudenza costituzionale, si inventano inesistenti "vuoti" costituzionali, che dovrebbero essere colmati con le parole "mercato" e "concorrenza", necessarie perché l´Italia si allinei all´Europa e all´ultima generazione di costituzioni. Un´altra falsificazione. La concorrenza non figura più tra i principi di base del Trattato europeo di Lisbona: piaccia o no, questo è il risultato di una iniziativa di Sarkozy, che l´ha confinata in uno dei tanti protocolli che accompagnano il Trattato. Tutte le costituzioni europee prevedono il diritto dei poteri pubblici di regolare il funzionamento del mercato e quando questa parola compare, come nella costituzione spagnola, la si accompagna con la previsione esplicita del potere dello Stato di sottoporla a pianificazione. E ricordo per l´ennesima volta quel che è scritto nella costituzione tedesca: "La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività" (art. 14); "la proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività o essere sottoposti a altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell´indennizzo").
Peraltro, bisogna pure ricordare che l´articolo 41 si apre con le parole "l´iniziativa economica privata è libera", che sono una evidente descrizione del mercato. Diventa così evidente il carattere strumentale e ideologico dell´operazione che si sta conducendo intorno all´articolo 41. Si addita questa norma come un ostacolo per fornire alla maggioranza un alibi per la sua perdurante incapacità di dare regole ragionevoli e per giustificare spallate pubbliche o private. Si cerca un collante per una maggioranza a pezzi, e si apre un inquietante scenario. Se la modifica costituzionale andrà in porto, sarà inevitabile un referendum su di essa e i costumi ormai noti del Presidente del consiglio lo indurranno a esasperare i toni, a gridare che si deve scegliere tra libertà e collettivismo, a evocare tutti i possibili "spiriti animali", facendo sempre più terra bruciata, spazzando via ogni ragionevolezza, immergendoci sempre più profondamente nella regressione culturale.
Di questa regressione cogliamo ogni giorno i segni. Si ripropone una identificazione tra mercato e libertà che ignora persino la polemica che divise Croce e Einaudi, e che ci riporterebbe ai tempi in cui Adolphe Thiers, nel 1831, scriveva che "alla proprietà non possono darsi giudici migliori di essa stessa". Si cade in contraddizione proponendo modifiche dell´articolo 41 insieme alla rievocazione dell´economia sociale di mercato. Si ignora una realtà nella quale la crisi finanziaria ha provocato autocritiche anche da parte di sacerdoti del mercato come Richard Posner. Si trascura proprio la planetaria discussione in corso sulle regole del mercato. E così non ci si accorge che proprio lì, nell´articolo 41, si trovano le indicazioni per collocare l´azione economica dei privati nella sua giusta dimensione, subordinandola agli ineludibili principi di dignità, libertà e sicurezza e riconoscendo che il mercato non è uno spazio separato della società. O siamo tornati a Margaret Thatcher e al suo "la società non esiste"?
Sui rischi dell´altra modifica annunciata dal Governo, quella dell´articolo 118, ha già richiamato l´attenzione Salvatore Settis. L´intenzione di sottrarsi alle lungaggini nella materia urbanistica, in nome dell´efficienza, può portarci a travolgere le garanzie necessarie per la tutela del territorio e del paesaggio, di cui parla esplicitamente l´articolo 9 della Costituzione, che così verrebbe fortemente depotenziato. Ma può il bisogno di efficienza travolgere ogni garanzia? È quello che dobbiamo chiederci davanti a quella forma di decostituzionalizzazione di fonte privata rappresentata dalla limitazione del diritto di sciopero contenuta nel documento della Fiat. L´articolo 40 della Costituzione, infatti, prevede che le modalità del diritto di sciopero possano essere regolate solo dalla legge. Siamo di fronte a un diritto indisponibile, necessario perché la democrazia non si fermi "ai cancelli della fabbrica" e che, se pure venisse negato in un solo caso, perderebbe la sua universalità e potrebbe essere negato in ogni altra situazione. Per contrastare gli abusi, se provati, esistono altre vie e altri strumenti.
La lotta per i diritti, dunque, riguarda ormai anche l´ambito dell´economia, si aggiunge alle rivendicazioni riguardanti il diritto della persona di governare liberamente la propria vita ed alla opposizione contro la legge bavaglio. Queste non sono iniziative figlie di una "egemonia borghese" da respingere in nome dei diritti del lavoro. Sul terreno costituzionale l´indebolimento pure di un solo diritto ha effetti negativi su tutti gli altri.
La decostituzionalizzazione deve essere fermata perché sta accompagnando la decomposizione del paese, le dà forma, la legittima. Ma, proprio perché violentemente aggredita, la Costituzione sta generando anticorpi sociali che la difendono in forme nuove e efficaci, che hanno messo in difficoltà gli aggressori, come dimostra la vicenda della legge bavaglio. Insistiamo.
Repubblica 21.6.10Escono i "Quaderni laici": saggi e documenti sui grandi temi di oggi La libertà di coscienza e il dibattito pubblicoLa discussione su alcuni argomenti non riguarda solo i rapporti con la Chiesa, ma è una questione aperta che va dalla bioetica all´aborto, fino alla difesa delle minoranze religiosedi Massimo L. SalvadoriNel marzo 1947 l´Assemblea costituente diede voce ai diversi punti di vista circa la decisione se recepire o no nella Costituzione repubblicana i Patti lateranensi del 1929. Nel dibattito intervennero tra i favorevoli Dossetti, La Pira, De Gasperi e Togliatti, tra i non favorevoli Calamandrei, Nenni e Croce; e il voto di 350 sì contro 149 no sancì la vittoria dei primi sui secondi. Inutile dire che gli interventi decisivi nello schieramento che decretò la continuità della politica religiosa dal fascismo alla repubblica furono quelli di De Gasperi, il quale invocò il diritto ad un regime privilegiato per la Chiesa romana fondato sul dato statistico secondo cui la stragrande maggioranza degli italiani si dichiarava cattolica, e di Togliatti, che fece appello alla necessità di respingere il pericolo di un conflitto religioso che avrebbe minato l´unità delle masse lavoratrici. Calamandrei protestò con estremo vigore che «i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale», in inconciliabile contrasto con «il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza».
Sono passati oltre sessant´anni dal varo della Costituzione, che Bobbio e Pierandrei dissero aver conferito al nostro Stato un carattere semi-laico, e da anni si afferma che è opportuno cambiarla in questo e quell´aspetto. Ma una revisione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – solo parzialmente modificati dal compromesso raggiunto con il Concordato del 1984 – che dia allo Stato un volto compiutamente e coerentemente laico è un obiettivo che viene ignorato da tutti i maggiori partiti, interessati a non toccare il Vaticano detentore di grandi privilegi e dotato di una determinante influenza sulla politica nazionale. A porselo sono soltanto gruppi minoritari, accusati perciò di essere fastidiosi "laicisti" ovvero disturbatori della quiete pubblica. Ciò nonostante, non passa giorno senza che i problemi della laicità o non laicità tocchino in maniera profonda la vita della collettività e delle singole persone. Sono in ballo – per limitarci ad alcuni tra i temi più importanti – le quote di risorse pubbliche attribuite alla Chiesa cattolica, l´insegnamento della religione nelle scuole, il diritto di famiglia, le coppie di fatto, l´approccio alla bioetica, l´aborto, la fine della vita, la libertà di nuove minoranze religiose come anzitutto quella islamica ridotta ai margini. Bisogna far comprendere anche agli italiani che la difesa della laicità costituisce una componente cruciale delle loro libertà.
E proprio per dare un contributo a questa battaglia è iniziata a Torino, presso la casa editrice Claudiana, la pubblicazione semestrale dei Quaderni laici, promossa dal Centro di Documentazione, Ricerca e Studi sulla Cultura Laica "Piero Calamandrei", in collegamento con la Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e con altre associazioni consimili. Della rivista sono usciti il numero zero e il numero uno, il primo dedicato a Costituzione, laicità e democrazia, il secondo a Natura, vita, persone, corpi, ai quali hanno collaborato Bellini, Di Giovine, Flamigni, Garrone, Giorello, Lariccia, Monti, Piazza, Pocar, Remotti, Rodotà, Sbarberi, Viano, Volli, Zagrebelsky e chi scrive. Ciò che anima la rivista che si propone – di pubblicare saggi, ricerche e dossier di documenti – lo ha chiarito Viano nella sua Introduzione ai Quaderni: «Il riconoscimento che quella della laicità è una questione aperta e urgente della nostra vita pubblica, che non può restare in attesa di operazioni politiche o trasformazioni sociali capaci di risolverla automaticamente».
Non si tratta soltanto di offrire testimonianze di spirito di laicità, ma di opporsi fattivamente a chi la laicità contrasta con l´intento di ridurla a parola vuota praticamente inefficace. Ha scritto bene in proposito Rodotà nel suo libro Perché laico: «Non è tempo di laicità flebile, timida, devota. È tempo, pieno e difficile, di laicità senza aggettivi o, se vogliamo comunque definirla, semplicemente democratica».
Repubblica 21.6.10Jiulia KristevaSolo un nuovo umanesimo può fermare il nichilismo"Domani sarà a Massenzio dove leggerà un testo su Santa Teresa d´Avila: "Il suo esempio ci serve anche oggi, contro l´integralismo e il vuoto di valori"
PARIGI. «Il bisogno di credere è un bisogno prepolitico e prereligioso, sul quale poggia il desiderio di sapere. Riconoscendo l´importanza di tale bisogno, noi atei possiamo favorire il dialogo tra credenti e non credenti, per combattere da un lato il nichilismo e dall´altro l´integralismo». Linguista e psicanalista, saggista e romanziera, Julia Kristeva, dopo Il genio femminile, la trilogia dedicata a Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette, ha pubblicato Bisogno di credere (Donzelli), un testo in cui, pur senza rinunciare alle sue convinzioni figlie dell´illuminismo, si confronta con l´universo della fede. Un dialogo che attraversa anche Teresa mon amour. Santa Teresa d´Avila: l´estasi come un romanzo (Donzelli), un libro a metà strada tra romanzo e saggio, che analizza la personalità e gli scritti della santa spagnola del XVI secolo. Proprio di Teresa d´Avila, la studiosa francese parlerà domani alla Basilica di Massenzio in chiusura del Festival Letterature. «Ho iniziato ad occuparmi di Teresa quasi per caso, scoprendo un personaggio estremamente complesso, ricco e attuale», spiega Kristeva, in questo momento alle prese con la stesura di un nuovo romanzo. «Oggi lo scontro di religioni è una realtà che non possiamo ignorare. Il dialogo quindi è necessario. L´Europa – forse perché ha conosciuto la violenza e l´orrore legati alle religioni, dalle crociate alla Shoah – ha intrapreso, prima con l´illuminismo e in seguito con le scienze umane, un percorso di attraversamento della religione. Non per ghigliottinarla, come ha fatto la Rivoluzione francese, o per rinchiuderla nei gulag, come è accaduto in Unione Sovietica, ma per tentare di "transvalutarla", come direbbe Nietzsche. Attraverso il caso concreto di Teresa, io ho cercato di dare il mio contributo a questo percorso di attraversamento».
Per questo, Monsignor Gianfranco Ravasi l´ha invitata a partecipare al dialogo tra credenti e non credenti. Le sembra un´opportunità?
«Oggi, più ancora del dialogo interreligioso, occorre promuovere il dialogo tra chi crede e chi no, soprattutto in Europa. Appartengo a coloro che, per dirla con Tocqueville e Hannah Arendt, hanno reciso il filo della tradizione. Mi considero una discendente dell´illuminismo e della secolarizzazione che ci hanno messo in guardia contro i rischi della religione: la nevrosi, le illusioni, gli abusi, le guerre. Il filo reciso della tradizione ci ha consentito di muoverci verso la libertà, senza la quale non ci sarebbero il mondo della scienza né quello dell´arte, l´avventura dell´impresa né quella dei nuovi amori. Il filo reciso della tradizione è una conquista importante, ma occorre evitare la deriva verso un nichilismo senza valori e senza autorità. Ecco perché abbiamo bisogno di "transvalutare" la tradizione. Vale a dire ripensarla e attraversala, cercando di trarne tutto ciò che può essere positivo per noi contemporanei. Ciò vale per tutta la tradizione, le tre religioni monoteistiche, ma anche la cultura classica, il taoismo o il confucianesimo».
A chi spetta questo compito?
«Agli intellettuali, ma anche agli artisti, visto che considero la letteratura e le arti delle vere e proprie forme di pensiero. Senza il confronto con la tradizione rischiamo di perderci in un nichilismo depressivo. Sul piano della religione, tale confronto ci consente di capire che la fede non è solamente un vicolo cieco, come diceva Diderot. Condannando la fede, la filosofia dell´illuminismo ha privato il bisogno di conoscenza di un fondamento importante. Per me il bisogno di credere è il fondamento del sapere. È una necessità antropologica che la storia delle religioni ha capitalizzato attraverso le varianti cristiana, islamica, ebraica, taoista. Noi atei dobbiamo riscoprire le radici di tale bisogno, favorendo in questo modo il dialogo tra credenti e non credenti, un dialogo alla pari dove ciascuno possa spiegare e difendere le proprie posizioni».
Il bisogno di credere come si manifesta in Teresa d´Avila?
«Teresa vive una fede sovrannaturale, che esalta il legame amoroso nascosto nella fede. Lo esalta in maniera ideale, ma anche concretamente con tutte le fibre del suo corpo di donna, come testimonia la statua del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Teresa si esilia nell´alterità divina, rivelando una profondità estrema della vita psichica, che Lacan è stato il primo a mettere in evidenza, parlando del piacere femminile. Nelle sue estasi non c´è solo la felicità dell´incontro con Dio, ma tutta la violenza del piacere, l´annullamento di se stessi e del proprio corpo. Mettendo per iscritto i suoi stati di estasi, Teresa riesce però ad allontanare la loro dimensione mortuaria. Più li descrive, più diventa lucida, agendo nel mondo in maniera concreta».
Nell´abbandono dell´estasi, Dio – per Teresa – cessa d´essere un´entità esterna, diventando una realtà interiore e immanente. È così?
«Nel suo viaggio verso l´altro, Teresa indica un dato importante per la cultura europea. Perché l´io esista, il cogito di Descartes non è sufficiente. L´io ha bisogno dell´altro da sé, con il quale instaura un legame indispensabile. L´io e l´altro s´identificano, si confondono e si portano a vicenda. Teresa crea tale legame con la divinità. Per lei la trascendenza diventa immanenza. In questo modo si colloca sulla via dell´umanesimo cristiano che darà luogo l´umanesimo moderno. Proprio perché Dio e l´infinito sono in lei, Teresa diventa una persona e un linguaggio infinito. Anche per questo affascinò tanto Leibniz».
È per questo che lei la considera una nostra contemporanea?
«Certo. Teresa è una donna eccezionale, un genio femminile che ha innovato la fede cattolica, anticipando la rivoluzione barocca. La sua esperienza parla alle donne moderne e in particolare a quelle che si consacrano alla creazione artistica, lavorando con le immagini e il linguaggio».
Lei è stata una delle voci del femminismo francese. Teresa d´Avila può interessare le femministe?
«Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa c´insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell´altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all´avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l´umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. E´ questo l´insegnamento di Teresa».
l’Unità 21.6.10Il comico confessa le sue «questioni di salute mentale» in occasione di «Impazzire si può»A Trieste un convegno sul tema della «guarigione» e un codice etico per i giornalistiVergassola: «Noi, quelli che... il Lexotan lo teniamo in tasca»di Dario VergassolaLa «confessione» di Dario Vergassola ai microfoni di «La terra è blu» di Radio Fragola Trieste e Radio Popolare Milano, programma ideato e condotto da Massimo Cirri con Agnese Ermacora e Antonello Dinapoli.
Ho avuto le mie questioni di salute mentale, e me ne vanto, ne sono fiero. In fondo chi non ha mai avuto un piccolo disagio, anche minimo, è sempre un po' più antipatico, un po' più rozzo, un po' più duro. E quindi non solo ammetto i disagi miei, ma me la tiro anche un po', come se portassi eroiche ferite di battaglia ...
La mia «iniziazione» all'ansia risale ai tempi di gioventù, quando al primo giramento di testa mi son chiesto: «Che sarà? Morirò? Avrò qualche malattia strana?». Insomma, mi son lanciato in uno screening da manuale dell’ipocondriaco, e naturalmente questa china ansiosa è andata di pari passo con la depressione, come di regola succede ... La sera entravo al pronto soccorso e dicevo «ho un infarto»: me ne son venuti circa venti al mese, di infarti, e ogni volta, mentre andavo all’ospedale, ricordo che mi davano delle ottime gocce, non di Lexotan però, di Valium normale, che in effetti sa di chewing gum ... «È arrivato Vergassola», si dicevano appena entravo, e intanto portavano il carrellino dell'elettrocardiogramma, mi rilassavano un po’, e me lo facevano: sempre inutile, naturalmente. Ma intanto era partita la mia rincorsa all’ansia e al panico.
IL BRUNETTA MALTESE
«Se vai a lavorare passa tutto», mi dicevano qualche volta: un classico, probabilmente. Ma io a lavorare ci andavo, solo che non sapevo spiegare quello che mi stava succedendo. E d’altra parte, come si fa a spiegare ai propri genitori, che nel mio caso lavavano le scale e andavano a scaricare, che si sta male senza un perché? Ero quello privilegiato, io, avevo la macchina e facevo lo statale, e se in casa dicevo «sto male» e mi chiedevano «cosa c'hai?», cosa potevo rispondergli?
«Niente. Sto male, ma non capisco perché». E loro mi rispondevano, «ma se non fai una mazza, come fai a star male?». Poveracci, forse i miei rifiutavano l’idea di avere un figlio un po' problematico, figurarsi, ero anche uno «statale», facevo il marinaio di coperta all'arsenale militare a La Spezia e mi consideravo una specie di reincarnazione di Corto Maltese. Sarà perché «corto» mi si addice abbastanza, diciamo il «Brunetta maltese». Certo, era una situazione pesante quella, uno spazio militare chiuso e ristretto, roba da crisi di claustrofobia. Non era un lavoro faticoso, o fisico: in fondo, come dice Brunetta, noi statali non siamo poi così oberati di lavoro. Solo in caso di guerra saremmo diventati operativi, e se Dio vuole non ce n’è mai stato bisogno. Però nel quotidiano era una dimensione alienante e aveva innescato i suoi meccanismi perversi ... Ricordo bene le serate in cui io pensavo di essere solo un po' triste, e invece chissà, forse era una sorta di depressione ... Magari anche lieve, però tutte quelle notti in macchina a sentire le cassette ... Oddio, se uno sta anche benissimo e mette Lolli è impossibile che non gli venga la depressione, un po' come gli Intillimani che hanno rovinato la sinistra ...
Allora frequentavo un bar dove eravamo tutti un po' così, diciamo ... ignorantelli, e questo tipo di malattia era trattata con sufficienza: dicevano, «se non hai niente cosa rompi le balle ...» Ma alla fine ho visto che altri facevano capolino un po’ come me, ci si parlava e con un’occhiata scoprivamo di avere tutti il Lexotan in tasca ... Come essere parte di un associazione segreta, ti accorgi che più sei e meglio è ...
E poi c’era l’ansia a quattro ruote a bordo della mia macchinetta, la 127. Facevo il tratto La Spezia Sarzana, 15 chilometri, e mi prendeva una strana paura, come non mi fidassi di me al volante. Una specie di bizzarra auto prevenzione: lo stesso mi succedeva i mesi in cui cercavo casa per sposarmi ed evitavo di vedere gli appartamenti che superavano il secondo piano. Pensavo, se fra due anni mi sento male poi che succede da quell’altezza ...
Un sintomo evidente di insicurezza ... Ma poi, finalmente, ho cominciato a fare questo lavoro da pelandrone in cui vai e ti racconti alla gente. Ho preso la macchina e ho cominciato ad andare verso Milano, la sera, con la nebbia. Mi aspettavano allo Zelig, quando lo Zelig era ancora un bar, e la mattina dopo dovevo presentarmi al lavoro, magari tornando alle cinque, alle sette ... E facevo la Cisa, che per me era un viaggio oscuro e tenebroso con i monti, la nebbia... Con tutti i miei ansiolitici in macchina che sembravo una farmacia ambulante. Però m'è servito quel periodo, è stata veramente terapeutica la possibilità di girare e raccontare al pubblico cose mie, senza vergognarmi. E ho imparato che, in questo genere di cose, è più facile riconoscersi che prendere le distanze.
l’Unità 21.6.10È in Italia il terapeuta familiare Jesper Juul per lanciare il Family-lab a sostegno dei genitoriAlla base di tutto la critica ai metodi pedagogici che mirano a creare cittadini obbedientiW la famiglia senza tetto né leggedi Manuela TrinciSi chiama Jesper Juul, è danese e si batte contro i tradizionali metodi pedagogici. È in Italia col nuovo libro «La famiglia che vogliamo» e col progetto «Family-lab» (www.family-lab.com.)
Una voce morbida, calda, dal ritmo veloce. Mani grandi come uno zio d’America e una bella pancia
rotonda, accogliente come un cuscino. Jesper Juul si presenta così, placido e rassicurante, come un abitante del paese dei cerchi. Danese, terapeuta della famiglia, autore di vari libri, tra cui gli imperdibili long-seller: Il bambino è competente (Feltrinelli, 2001), e Ragazzi, a tavola! (Feltrinelli 2005), Juul è da un paio di mesi in Italia per presentare la sua ultima fatica La famiglia che vogliamo (Urra) e lanciare i Family-lab (www.family-lab.com), un progetto familiare al servizio dei ge-
nitori, peraltro già molto diffuso in Europa (Germania, Austria, Danimarca, Svezia ecc...).
PER MAMMA E PAPA’
Con una premessa importante. Il celebre terapeuta non crede affatto che esistano metodi «educativi» esterni che garantiscono il successo o che sia possibile istruirsi o qualificarsi come padre e madre frequentando corsi. Tuttavia, questa «officina di famiglia», a fronte della grande solitudine dei genitori di oggi, tra conversazioni, dialoghi, serate a tema, riescono ad offrire «ispirazione, counselling e soprattutto condivisione». Un progetto elastico, dove ai genitori, «costruttivamente insicuri e consapevoli», si propone la ricerca di altri modi di fare, di altre scelte possibili e si valorizzano sogni e voglie per raggiungere la famiglia che si desidera. Perché la famiglia che Juul vuole è un luogo di mediazione, di negoziati, di rispetto reciproco, di incoraggiamento dell'individualità. Un luogo senza recinzioni, di soggetti imperfetti e volenterosi, di errori, di incontri e di scontri.
ABBASSO LE REGOLE
Alla base di tutto, una fortissima critica sia ai metodi pedagogici più tradizionali basati su regole e regolamentazioni con l’obiettivo di creare futuri cittadini obbedienti quanto acefali, sia all’attuale potentissima manipolazione che, a tutto tondo, viene usata sui bambini tanto da violarne l’integrità emozionale ed esistenziale. E via anche dal vocabolario del versatile analista il sostantivo «educazione», sostituito dall' espressione «guida empatica».
Il bambino, sostiene Juul, nasce competente e dispone già di nozioni, valori e criteri di valutazione che orientano concretamente la sua esperienza. Il neonato è un sentimentale: neuroscienze e osservazioni psicoanalitiche lo confermano da anni. Comunemente, invece, ci si comporta con lui come se fosse una specie di tabula rasa su cui i genitori devono imprimere le conoscenze necessarie per un regolare sviluppo umano e sociale. Sembra difficile impostare da subito un rapporto paritario, fra soggetti. Il piccolo è un «centro attivo di competenze», collabora. Occorre osservarlo. E non basta incoraggiare, sostenere, facilitare il bambino; è indispensabile anche aiutarlo in situazione sociale come la nostra, più orientata verso il «fare» e il «non pensiero» a «esistere», a «sentirsi bene con se stesso».
Quelle di Jesper Juul sono idee semplici: stare di più tutti insieme, con cellulari, televisioni e computer spenti! Nessuno è un’isola, e allora cucinare, in maniera attenta e creativa, con i figli si rivela una gran risorsa. Le famiglie hanno bisogno di valori più sostanziali del «veloce, a buon mercato e facile». Anche per affrontare i problemi individuali c’è necessità di valori: pari dignità, integrità, autenticità, responsabilità come pure il ruolo di leadership dei genitori o la solidarietà sociale, nella scuola, dappertutto.
Ma non disdegna Juul di sovvertire bonariamente, di conferenza in conferenza, tanti luoghi comuni: la paghetta? E perché mai! Nelle relazioni gratuite d'amore, in cui c'è rispetto, l'aiuto lo si dà volentieri senza chiedere nulla in cambio! E i genitori? Che dire? Sempre d’accordo di fronte ai ragazzini? Solo se la famiglia è autoritaria replica, ancora, Juul. Diversamente non c'è alcun bisogno di essere d'accordo. I bambini non sono turbati dalle nostre differenze ma dai nostri litigi sulle differenze!
In ogni modo tranquilli: né i family-lab né i suoi libri si presentano come un prontuario terapeutico, anzi. Jesper Juul è il primo a suggerire, sornione, che «se con i vostri figli fate qualcosa che funziona e che è diverso da quello che dico io, continuate a fare come state facendo!»