Terremoto: Settimanale "LEFT" su querela Prefetto L’Aquila
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http://www.agi.it/l-aquila/notizie/201004221529-cro-rt10216-terremoto_settimanale_left_su_querela_prefetto_l_aquila
l’Unità 23.4.10
Ratzinger chiamato in causa con Bertone e Sodano: hanno insabbiato
Lo scandalo travolge il tedesco Mixa e l’irlandese Moriarty
Vittima Usa denuncia il Papa Abusi, si dimettono due vescovi
Avvocato Usa attacca il Papa e i cardinali Sodano e Bertone per aver «insabbiato» le denunce contro preti pedofili. Si dimettono un presule in Irlanda e il vescovo di Augusta. Mea culpa della Chiesa d’Inghilterra e Galles.
di Roberto Monteforte
Papa Ratzinger, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’attuale segretario di Stato, cardinale Bertone e il suo predecessore, Angelo Sodano sono stati chiamati a rispondere per «frode e insabbiamento» davanti alla corte del tribunale di Milwaukee negli Usa. È l’avvocato delle vittime del clero pedofilo, Jeff Anderson che torna all’attacco contro la Santa Sede. L’accusa è di aver coperto le molestie sessuali di padre Lawrence Murphy, che avrebbe abusato di 200 ragazzini di una scuola per sordomuti. Questo è il terzo tentativo di chiamata in causa del Vaticano, del legale statunitense che denuncie analoghe, ancora pendenti, ha già avanzato davanti alle corti dell’Oregon e del Kentucky. L’avvocato Anderson è in possesso di lettere raccomandate della vittima al Vaticano in cui nel 1995 chiede aiuto per ridurre padre Murphy allo stato laicale. Anderson afferma che le lettere furono ricevute, ma rimasero senza risposta. Ora l’avvocato Anderson chiede che il Vaticano consegni le liste dei preti molestatori e i dossier segreti su tutti i casi di abuso da parte del clero. Contro la denuncia presentata in Oregon il Vaticano ha fatto ricorso alla Corte Suprema invocando l'immunità che spetta agli stati sovrani. Il giudizio è ancora sospeso.
Continuano le dimissioni di vescovi e le richieste di perdono alle vittime degli abusi. Il Papa ieri ha accolto le dimissioni del vescovo irlandese monsignor James Moriarty, portando così a tre il numero dei vescovi irlandesi che si sono dimessi a causa dello scandalo sugli abusi sessuali. Moriarty aveva presentato le sue dimissioni a dicembre, dopo un rapporto ufficiale che lo citava tra i prelati dell'arcidiocesi di Dublino che avevano coperto i casi degli abusi sessuali di preti su minori. Ieri monsignor Moriarty ha ammesso le sue responsabilità. «Avrei dovuto contrastare la cultura prevalente», ha detto. «Chiedo scusa a tutti i sopravvissuti e alle loro famiglie».
Dimissioni anche in Germania. Le ha presentate al pontefice il vescovo di Augusta, monsignor Walter Mixa, che ha ammesso dopo averlo negato di avere maltrattato bambini quando era sacerdote.
SI SCUSA LA CHIESA D’INGHILTERRA
Percorso di purificazione anche per la Chiesa d'Inghilterra e Galles. Ieri i vescovi cattolici hanno presentato le loro scuse ufficiali per lo scandalo degli abusi sui bambini, affermando che «non esistono scusanti» per quanto è accaduto. Il comunicato della conferenza episcopale inglese e gallese è stato presentato dall'arcivescovo di Westminster Vincent Nichols, che ne ha definito il contenuto «molto sentito» e «privo di ambiguità». Il testo, che verrà distribuito a tutte le diocesi in Inghilterra e Galles, afferma che i sacerdoti che si sono macchiati degli abusi hanno «gettato nella vergogna più profonda tutta la Chiesa». E prosegue: «Questi crimini terribili e la risposta inadeguata di alcuni leader ecclesiastici, addolorano tutti noi». I vescovi chiedono perdono alle vittime e «a chi si è sentito ignorato, non creduto o tradito» e sottolineano il dovere della Chiesa di evitare che gli stessi errori vengano ripetuti. «Le procedure che ora esistono nei nostri Paesi evidenziano ciò che si sarebbe dovuto fare subito. La piena cooperazione con gli organi competenti è essenziale».
l’Unità 23.4.10
La scienza di Ipazia e la violenza cristiana
Il film di Amenabar sulla filosofa del IV secolo trucidata da San Cirillo Non è Hollywood: è uno splendido affresco sull’intolleranza religiosa
di Alberto Crespi
Non capitava da secoli. Si è parlato molto, in questi giorni, di Ipazia: filosofa e matematica, nonché donna attiva in politica nell’Egitto del IV secolo dopo Cristo provincia romana che, prima dell’Impero, era stata non a caso governata da una donna, Cleopatra. La memoria di Ipazia è da sempre parte integrante del «pantheon» femminista, ma stavolta il motivo scatenante è un film: Agorà, fuori concorso a Cannes 2009, solo ora sugli schermi italiani. E se da un lato il dibattito filosofico e scientifico ferve, dall’altro l’uscita del film è accompagnata da un assordante silenzio della Chiesa, che ha deciso di boicottare Agorà sui suoi mezzi di comunicazione.
Bisogna capirli, poveretti: hanno già troppi problemi, di questi tempi, per commentare un film che per altro racconta un’incontrovertibile verità storica. Ipazia, «pagana» non convertita, fu uccisa dai parabolani, la guardia armata del vescovo Cirillo. Costui, poi fatto santo e tutt’ora venerato come tale, era uno spietato uomo di potere i cui sgherri ammazzavano allegramente tutti coloro che rifiutavano di adeguarsi ai nuovi costumi. Nel film, i parabolani ricordano i talebani, e possiamo capire che per la Chiesa avere simili criminali fra i propri «padri» sia fonte d’imbarazzo.
ORBITE ELLITTICHE
Il film di Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro) è molto bello. È un raro esempio di film spettacolare e speculativo al tempo stesso. Non date retta a chi lo liquida come un prodotto hollywoodiano: non lo è. Ipazia è interpretata dall’inglese Rachel Weisz, figlia di genitori austro-ungheresi, e la produzione è quasi totalmente spagnola. Negli Usa, per la cronaca, non è nemmeno uscito. Lavorando sulle immagini ricorrenti del cerchio e dell’ellissi (Ipazia potrebbe aver intuito, qualche secolo prima di Keplero, le orbite ellittiche dei pianeti), Amenabar realizza una «falsa biografia» di un’eroina sulla cui vita ben poco sappiamo. Più che di Ipazia, Agorà parla di un’epoca in cui le religioni si combattono con violenza per assicurarsi il dominio sulle menti dei semplici. Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione.
Un aggiornamento: gli articoli usciti su Agorà dal 16 al 22 aprile
Mario Cirillo
Ipazia Immaginepensiero
16 aprile
Amenabar su Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/16/visualizza_new.html_1763470646.html
17 aprile
Aldo Lastella su Repubblica http://lastella.blogautore.repubblica.it/2010/04/17/
Tiziana Attili su Agoravox http://www.agoravox.it/Agora-e-Ipatia-la-grande-filosofa.html
18 aprile
Claudia Fiume su Newnotizie http://www.newnotizie.it/2010/04/18/agora-ipazia-il-film-che-litalia-finalmente-vedra/
19 aprile
Il silenzio della chiesa su Ansa http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs471.ash1/25822_118954021449590_100000049773227_300576_1285116_n.jpg
Agorà Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/19/visualizza_new.html_1764389552.html
Il Secolo XIX http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/p/spettacolo/2010/04/19/AMm6sjcD-cattolici_ipazia_amenabar.shtml
Davide Monastra su Eco del Cinema http://www.ecodelcinema.com/agora-amenabar-a-roma-racconta-la-sua-idea-di-cristianita.htm
20 aprile
Maria Pia Fusco su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs436.ash1/24102_414709111807_605131807_5419781_5991188_n.jpg
Leonardo Jattarelli su Il Messaggero http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=98782&sez=HOME_CINEMA
Giulia Battafarano su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/20/rachel-weisz-dalla-filosofa-ipazia-di-agora-a-jackie-kennedy/
Oscar Cosulich su Il Mattino http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs376.snc3/24102_414714961807_605131807_5419918_5708958_n.jpg
Agorà su Genovapress http://www.genovapress.com/index.php/content/view/36764/46/
Agorà a Milano su C6 TV http://www.c6.tv/archivio?task=view&id=8933
Cinzia Romani su Il Giornale http://www.ilgiornale.it/spettacoli/il_mio_film_attacca_intolleranze_passato/20-04-2010/articolo-id=439002-page=0-comments=1
Paola Azzolini su Il Giornale di Vicenza http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Cultura%20&%20Spettacoli/144941_martirio_da_laica_per_ipazia/
Achille Della Ragione su Napoli.com http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=33804
21 aprile
Armando Besio su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs396.snc3/24102_414712096807_605131807_5419899_6820372_n.jpg
Franco Cardini su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/21/il-film-%C2%ABagora%C2%BB-di-alejandro-amenabar-autocritica-in-nome-di-dio/
Sergio Frigo su Il Gazzettino http://www.gazzettino.it/articolo.php?id=98878&sez=CINEMA
Clauda Costa su l'Essenziale http://www.essenzialeonline.it/cinema/Esce-in-sala-Agor-di-Amenabar_14443.html
22 aprile
Federico Orlando su Europa Quotidiano http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/117981/da_agora_a_ronconi_di_conformismo_si_muore
Laura Frigerio su Milano Web http://www.milanoweb.com/notizie/cinema-e-spettacolo/8673_-agora-la-vera-storia-di-ipazia-di-alessandria
Agorà su Liguria oggi http://www.liguriaoggi.it/2010/04/22/genova-presentato-il-film-agora-di-alejandro-abenabar/
l’Unità 23.4.10
Il cosmo rivelato dagli scrittori
Filosofia naturale Una «ininterrotta linea galileiana» da Dante all’Ariosto, da Leopardi a Calvino, fino a Gadda... I poeti sono strumenti di diffusione democratica del sapere. Ci spiega il perché un saggio del filosofo Mario Porro
di Pietro greco, Gaspare Polizzi
Se avesse scritto il suo saggio per la Letteratura italiana diretta da Asor Rosa per Einaudi – ricorda Mario Porro nel suo Letteratura come filosofia naturale (Medusa, Milano 2009) – Calvino lo avrebbe intitolato La letteratura e la filosofia naturale, e in un saggio del 1969 definiva Gadda l’ultimo «filosofo naturale». L’espressione per molto tempo è stata sinonimo di «scienza»: Newton scrisse i Principi matematici della filosofia naturale e ancora nel 1970 Monod sottotitolava la sua opera più nota – Il caso e la necessità – Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Ma la corrispondenza tra letteratura e «filosofia naturale» apparve allora, e lo è ancor oggi, provocatoria, forse soltanto perché molti «intellettuali» trascurano di guardare alla dimensione «naturale» presente in ogni narrazione.
Basterebbe ricordare come il rapporto tra cosmologia e letteratura permetta di ricostruire – è ancora Calvino che scrive – «una ininterrotta linea galileiana», che si estende da Dante ad Ariosto, Galileo, Leopardi e Calvino stesso, tutti scrittori cosmici e «lunari».
LUCREZIO
Dante è, con Lucrezio, il «poeta della scienza». Perché nella sua Commedia riesce a raccontare, come Lucrezio, tutta la scienza e tutto il dibattito scientifico del suo tempo. Un esempio per tutti: nel secondo Canto nel Paradiso ci sono tutte le conoscenze del tempo sulla Luna e sulla sua natura. Il Paradiso stesso è un compendio della cosmologia di Aristotele. Ma Dante è anche il primo e il più potente teorico di quel ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza di cui parla Calvino. E basta leggere il Convivio per rendersene conto. La conoscenza, inclusa la conoscenza della natura, spiega Dante, è l’aspirazione più nobile della natura umana: quella, razionale e angelica, che rende l’uomo simile a Dio. Purtroppo molte ragioni impediscono all’uomo di indossare «l’abito di scienza». La letteratura e, in particolare la poesia, sono strumenti utili a coloro che sono impediti se non proprio di sedersi al tavolo degli angeli, almeno di gustare le briciole del pane della scienza che vi viene spezzato. Il poeta, dunque, è strumento di diffusione democratica del sapere.
Anche Galileo si porrà il tema della diffusione della scienza – della filosofia naturale – tra il pubblico dei non esperti. E soprattutto dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, il 12 marzo 1610, svilupperà la sua pericolosa idea: «comunicare tutto a tutti». Perché intuisce che o la filosofia naturale diventerà patrimonio di quell’opinione pubblica che proprio nel Seicento inizia a nascere o rischierà di perdere la sua partita.
Galileo ha un legame molto stretto – da autentico studioso, da critico direbbe Panofsky – con Dante e con Ariosto. Peraltro anche il legame tra Galileo, Leopardi e Calvino è intrigante: Calvino esalta la dimensione cosmica e «lunare» di Leopardi, confessando ad Antonio Prete (1984) che le Operette morali «sono il libro da cui deriva tutto quello che scrivo» (e pensava alle Cosmicomiche), ma impara anche da Leopardi a scegliere tra i passi galileiani, come avviene con il saggio Le livre de la nature chez Galilée (1985), nel quale alcune scelte corrispondono a quelle di Leopardi nella Crestomazia della prosa (1827), la prima antologia letteraria italiana, contenente a sua volta la prima antologia di prose di Galilei.
Per Calvino «l’opera letteraria come mappa del mondo dello scibile» è «una vocazione profonda della letteratura italiana», effetto di «una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria» (1968). Ma non si tratta di una vocazione solo italiana. Lo dimostra il prezioso Piccolo atlante celeste. Racconti di astronomia, curato da Giangiacomo Gandolfi e Stefano Sandrelli (Einaudi, Torino 2009), che ci conduce alle più diverse forme di narrazione cosmica, dall’Atlante celeste al Sentimento del cielo, alle figure di Astronomi e ai racconti di Cosmologie, in compagnia di Asimov, Bellamy, Bradbury, Collins, Cortázar, Daudet, Høeg, Lem, Munro, Queneau, Stifter, Theuriet, Updike, Vukcevich, Wells (per citare soltanto gli stranieri), «un piccolo atlante per orientarci negli abissi dello spazio, in bilico tra finta scienza, vera scienza, delicate emozioni, artificio poetico, conquista tecnologica e inventiva luddista» (p. VIII), nella convinzione che ciò che accomuna scienza e letteratura è «cercare la misura dell’uomo», «adagiare su un foglio l’incommensurabile», «guardare in faccia il mondo» (p. XIV).
GADDA E LEIBNIZ
Ma la «filosofia naturale» è ancora più ampiamente letteraria nelle grandi narrazioni, nel grand récit (proposto da Michel Serres), che ha da sempre convissuto con la scienza, bisognosa, quando esce dal formalismo algoritmico, di ricorrere al pensiero figurale, all’analogia e alla metafora. E lo dimostra bene ancora Porro seguendo Gadda nel suo pensiero della complessità, modellato su Leibniz e illuminato dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica, o Primo Levi nel suo materialismo chimico.
Abbiamo bisogno di nuove mitografie, per comprendere meglio qual è il nostro posto nella natura e per cancellare il mito di una scienza esente dal mito. E la letteratura ha visto bene come le costanti mitiche irrorano la conoscenza e la scienza, come l’immaginario viene sempre rinnovato e rimodellato dai nuovi spazi aperti dalla «filosofia naturale».
A sessant’anni dalla scoperta del laser, sarebbe curioso leggere nuove «osmicomiche», che narrino ad esempio la vicenda della valigia coperta di specchi speciali, depositata sulla superficie della Luna da Amstrong e Aldrin il 20 luglio 1969, e che ancora riflette i raggi laser lanciati dalla Terra per misurarne la distanza al centimetro.
il Fatto 23.4.10
La Sindone
Dialogotra ateo e cristiano
Su MicroMega le tesi di Odifreddi e don Ghiberti su falso storico e simbolo della fede
Caro don Ghiberti, propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica.
Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medievali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie.
[...] Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella “miracolosa” di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della Rivoluzione francese.
LA PRIMA APPARIZIONE
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel Primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al Papa, dichiarando che il telo era stato “artificiosamente dipinto in modo ingegnoso”, e che “fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto”. Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di “dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario”.
Alla testimonianza storica del Pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore.
Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre.
Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani. Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa “maschera di Agamennone”, che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone. Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile.[...]
Fantasia e Ragione.
A ciascuno dei fatti oggettivi che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracolo-
so non sussiste. Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io.
Piergiorgio Odifreddi
Caro professor Odifreddi, vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono “quelli del gozzo” (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. [...] A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazareth si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita.
Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescientifica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).
DEVOZIONE E DISTRUZIONE
Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente dalla consistenza della sua natura (la scritta “senso unico” ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno.
Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù.
[...] Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una
particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri.
Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dell’insegnamento del Papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.
Giuseppe Ghiberti
il Fatto 23.4.10
La proprietà e la Carta
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione con il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa?
di Lorenza Carlassare
La nostra Costituzione è il “risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano sociale con quella liberale classica” (Bobbio). Lo si vede in particolare nel titolo III che, dopo le norme a protezione dei lavoratori (artt. 35-40), tutela la libertà economica: all’affermazione di un diritto e di una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e l’attività economica può essere indirizzata “a fini sociali” (art. 41). Della proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) la legge stessa può determinare i modi d’acquisto, di godimento e i limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Lo schema è costante; anche alla proprietà terriera privata (art. 44) la legge “impone obblighi e vincoli” al fine di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali”, fissa “limiti alla sua estensione... promuove e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà”. L’obiettivo di fondo non è eliminare l’iniziativa economica e proprietà privata – costituzionalmente riconosciute e come tutti i diritti (a partire dall’art. 13) limitabili soltanto con legge del Parlamento – ma renderle “accessibili a tutti” (l’art. 42 riecheggia la Rerum Novarum). Un pensiero unitario domina la Costituzione economica: allargamento del numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica. Non par dubbio che la dottrina sociale cattolica abbia esercitato un influsso preminente: il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, non porterebbe infatti a una società socialista con un’economia diretta dallo Stato, e neppure a una società dominata dalle grandi imprese private, ma ad una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata. Gli articoli successivi ne sono la riprova: la Repubblica promuove la cooperazione a carattere di mutualità e lo sviluppo dell’artigianato (art. 45), riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende “nei modi e limiti stabiliti dalla legge” (art. 46), incoraggia e tutela il risparmio favorendone l’accesso “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese” e, a tali fini “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” (art. 47). Norma quanto mai opportuna, visto le recenti ‘gesta’ delle istituzioni bancarie e il poco o nullo rispetto per i risparmiatori!
Dagli atti dell’Assemblea costituente risulta chiaro come tutti, al di là delle differenti visioni dell’economia, dai comunisti ai democristiani ai liberali fossero concordi nella lotta alle “concentrazioni monopolistiche”. Alle parole di Togliatti e Fanfani si aggiungono quelle di Einaudi, economista liberale, per il quale i monopoli sono “il male più profondo”, “il danno supremo dell’economia moderna”, “vera fonte della disuguaglianza, vera fonte della diminuzione dei beni prodotti, vera fonte della disoccupazione delle masse operaie”. In questo clima fu approvato l’art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano preminente interesse generale”. Due le condizioni, dunque, perché le imprese possano essere espropriate: che “abbiano preminente interesse generale”; che siano relative “a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio”. La previsione di forme autoritative d’intervento pubblico ha quindi carattere eccezionale, la Costituzione non ha inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Tuttavia il comma 3 dell’art. 41 “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” implica, almeno, un indirizzo di politica economica che tenga conto dei fini sociali.
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione col “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa? Molto ne hanno discusso giuristi ed economisti. L’opinione che non siano incompatibili parte dalla libertà d’iniziativa economica che, data la pluralità e coesistenza di più soggetti che ne usufruiscono, è legata al principio della libera concorrenza , a un mercato “regolato” (come vuole l’Europa) da una disciplina antitrust. Una disciplina “che predetermini le regole del gioco valide per tutti”, assicurando la libera esplicazione su un piano di parità delle capacità imprenditoriali di tutti gli operatori: “La libertà di pochi è potere, non libertà” dice Alessandro Pace. Del resto una disciplina antimonopolistica è già implicita nell’intento di evitare il rischio di monopoli espresso alla Costituente da tutte le parti politiche e formalizzato nell’art. 43. Un mercato ‘regolato’, una libera concorrenza che non incida però su altri interessi primari tutelati dallo stesso art. 41 che fonda la libertà economica. Negli ultimi decenni l’idea del primato dell’economia sulla politica ha inciso sul nostro sistema mettendo in ombra valori essenziali. L’alternativa (scrive Natalino Irti) è tra “ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici” dove gli Stati, in concorrenza, offrono alle imprese benefici e immunità per attirare gli affari entro le rispettive sfere anziché rivendicare il primato delle decisioni politico-giuridiche e assumere il governo dell’economia.