Repubblica 6.12.10
Bersani: un governo con chi ci sta via il premier, l´instabilità colpa sua
Pannella show dal popolo viola: silenzio sulla fiducia
di Mauro Favale
ROMA - Se il problema, come comincia a dire Berlusconi, è l´instabilità durante l´emergenza economica, Pier Luigi Bersani ribatte: «È lui la causa della crisi, è lui il simbolo dell´instabilità e non vogliamo che l´Italia venga travolta dalla sua debolezza». Dunque, il segretario del Pd conferma: il premier deve andare a casa. «Andiamo in piazza San Giovanni, sabato, proprio per dire questo. E lì presenteremo le nostre proposte per rinnovare il Paese».
Il passaggio successivo al 14 dicembre è quello che Bersani ha indicato fin dall´inizio. «Io spero in un governo con tutte le forze che sono in Parlamento e che abbiano la volontà di fare un passaggio di transizione». Non l´anticipo di una coalizione futura, solo un´alleanza temporanea per «cambiare la legge elettorale - dice il leader in un´intervista al Tg2 - e fare due o tre provvedimenti per contrastare la crisi economica». Il Partito democratico, per arrivare a questo traguardo, dovrà affrontare alcuni problemi nel suo campo. L´opposizione di Vendola e Di Pietro (più tenue la seconda), desiderosi di andare subito al voto in caso di caduta del governo. «Ma Vendola - risponde senza spocchia Bersani - non è in Parlamento. Noi ci rivolgiamo ai partiti che sono nelle Camere». Bersani è convinto che il voto vada escluso: «Non parlo di elezioni perché le elezioni non ci saranno. Andare alle urne adesso significa ripetere un referendum su Berlusconi sì Berlusconi no. Perderemmo un altro giro, un´altra occasione». In più, o meglio sempre di più, Bersani considera Berlusconi «pericoloso», vede la democrazia italiana rischiare «nuovi strappi», come spiega all´Unità. «Ma senza il Pd - avverte Bersani - non c´è né l´alternativa né la transizione». Il punto però è se il suo partito, al momento giusto, avrà il coltello dalla parte del manico. Se non si aprirà un nuovo caso al suo interno.
L´atteggiamento dei radicali in vista del voto di fiducia resta misterioso. Marco Pannella parla all´assemblea del Popolo Viola a Roma. Tira fuori l´accento romano: «A´ dritto! Te vuoi sape´ cosa fanno i radicali il 14? E io nun te lo dico». Giù sfottò, insulti, gente che si alza e va via: «Ma chi l´ha invitato Pannella?». Un´uscita nella tana degli ultrà anti-berlusconiani che non scioglie i dubbi che circolano da giorni sul comportamento dei sei radicali alla Camera (eletti nelle liste del Pd) sul voto di sfiducia. Pannella ruba la scena di questa convention, a un anno dal No B day, agli altri invitati: Diliberto, Ferrando, Bonelli, Staderini e, via skype, Vendola e Di Pietro. Per il Pd Vincenzo Vita e Sandro Gozi.
Pannella arriva a mezzogiorno, cappottone lungo, sigaro acceso, lunga coda di cavallo. Aspetta due ore seduto in platea: si parla di lavoro, conflitto di interessi, legge elettorale. Alza la voce quando dal palco si propone un ritorno al Mattarellum: «Quella è stata la truffa più grande». Ascolta un sondaggio di Ipr che stima le potenzialità elettorali del Popolo viola tra l´uno e il tre per cento. Si ricordano i cablogrammi di WikiLeaks, nei quali si cita il primo No B day e le preoccupazione di Berlusconi. Poi, verso le 14, Pannella è invitato a parlare. Ma lascia tutti con un pugno di mosche.
Corriere della Sera 6.12.10
Susanna Camusso: «Precari di oggi come le donne di We want sex»
di Enrico Marro
La Camusso e il film inglese sul lavoro: la parità per cui lottare ora è un impiego a tempo indeterminato
ROMA — La risata, in sala, è tutta al femminile e immediata quando, in una delle ultime scene del film, scorrono le immagini dei telegiornali inglesi di 42 anni fa e una delle vere operaie di Dagenham fulmina così i giornalisti perplessi sulla lotta delle operaie: «Non è abitudine delle donne scioperare senza un motivo!». A Susanna Camusso la battuta piace molto, come anche alle altre dirigenti della Cgil che le fanno compagnia mentre guarda il film We want sex dell’inglese Nigel Cole ( L’Erba di Grace), che racconta lo sciopero a oltranza e la vittoria delle 187 operaie dello stabilimento Ford di Dagenham nel 1968 per ottenere la parità salariale. Ridono, Camusso e le altre, non solo perché la battuta è riuscita, come molte altre di questo film importante e divertente allo stesso tempo. Ma anche perché sintetizza felicemente lo specifico femminile della lotta sindacale: che non prevede scioperi a perdere, inutili, di bandiera.
Ed è naturale quindi che Camusso si riconosca in questa filosofia, lei che ancora negli ultimi due giorni, al direttivo della Cgil, si è sforzata di convincere la Fiom e l’ala sinistra della confederazione che lo sciopero generale si fa solo se serve, se porta risultati. Le «ragazze» di Dagenham, come amavano definirsi, li ottennero. Magari un po’ rocambolescamente e nonost a nt e q ua l c he gaffe , come quando davanti al Parlamento inglese srotolarono male il loro striscione We want sex equality e rimasero visibili solo le prime tre parole, ma li ottennero. E, ottenendoli, inconsapevolmente fecero la storia, quella della parità salariale tra uomini e donne, sancita poi nel Regno Unito da una legge del ’70.
In Italia, una volta tanto, eravamo arrivati prima. «Da noi furono le lavoratrici tessili a fare la battaglia, che in realtà già era stata lanciata durante la Resistenza nelle fabbriche del Milanese», ricorda Camusso. E nel ’56 la legge 741, che recepiva la convenzione Ilo (agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite), affermò la «parità di remunerazione tra uomini e donne». Certo, era un’uguaglianza formale mentre quella sostanziale era da conquistare e per certi versi lo è ancora. Ma il punto è che «quando una battaglia è su un principio giusto, su un diritto, non possono esserci mediazioni», dice la leader della Cgil. Una lezione valida ieri e sempre, aggiunge.
Oggi, dice Camusso, «un tema di principio per il quale lottare c’è ed è quello della fine della precarietà». Riguarda «i giovani e il loro futuro» e anche questa volta precipita nella «differenza salariale», perché il precario prende meno rispetto a un altro lavoratore che fa le stesse cose ma ha un contratto a tempo indeterminato. «Bisogna tornare ad affermare il principio che il rapporto di lavoro deve essere di regola a tempo indeterminato — dice il segretario della Cgil — e cancellare tutte quelle forme di precarizzazione figlie delle norme di questi ultimi anni, a partire dalla legge 30 (la legge Biagi, ndr) ». È una battaglia per la parità che come ieri spettava alle donne oggi tocca ai giovani. La Cgil è al loro fianco, spiega Camusso: «Come facevano le ragazze di Dagenham con le lavoratrici inglesi noi stiamo provando a dire ai nostri giovani che anche loro devono essere artefici del proprio futuro». È questo il senso della prima campagna lanciata dalla nuova leader sindacale giusto qualche settimana fa sotto lo slogan «Giovani non più disposti a tutto», che sta avendo notevole successo anche sul web. Certo, tutto questo non basta, continua Camusso. Ci vorrebbe, spiega, un ministro del Lavoro diverso da Maurizio Sacconi «magari come nel film, una Barbara Castle», il segretario di Stato per il Lavoro del governo Wilson, interpretato dalla bravissima Miranda Richardson, che prende in mano la situazione e decreta la vittoria delle ragazze di Dagenham.
Corriere della Sera 6.12.10
Pannella: deciderò all’ultimo minuto ma non vedo risposte
di Maurizio Caprara
Leader Marco Pannella, 80 anni, deciderà in extremis se far votare ai suoi 6 deputati la fiducia al governo Berlusconi
ROMA — Il patriarca dei radicali non smentisce se stesso. Mentre il governo traballa in attesa delle votazioni sulle mozioni di sfiducia, i sei deputati del suo partito aumentano di valore: potrebbero spostare l’ago della bilancia tra crisi e non crisi. Benché sia fuori da Montecitorio, Pannella, che ne ispira le mosse, viene consultato, corteggiato ed evita di scoprire del tutto le carte. «Ho incontrato nei giorni Ignazio La Russa, coordinatore del Pdl. Devo vedere Pier Luigi Bersani del Pd», racconta. «Per dialoghi sinceri, assolutamente senza nessuna trattativa», ripete. Senza sciogliere l’enigma sulla sua scelta, ma anche con uno scetticismo da tener presente. I suoi rapporti con Silvio Berlusconi sono stati alterni. Due esempi. Si va dal suo «tra noi c’è amicizia, stima e Silvio aggiunge che c’è anche dell ’ affetto » , anno 1995, a, sempre detto da lei, un giudizio del 1996 di segno opposto: «Berlusconi prende in giro la gente». Qual è lo stato attuale dei suoi rapporti con il presidente del Consiglio?
«È che Berlusconi, come spesso gli accade, si è stancato di continuare a perseguire un obiettivo. Da anni ho pubblicamente auspicato di tornare a parlarci. Ha sempre rifiutato. Ormai temo che sia troppo tardi, ma continuerò a provarci. Troppi disastri, che avrei potuto aiutarlo a scongiurare, sembrerebbero irreparabili». Quale obiettivo? Quali cose? «Il 7 aprile 1994, vinte le elezioni, Berlusconi venne da noi a dirsi convinto della "riforma americana della legge elettorale e dello Stato". Appoggiò poi le nostre richieste, anche referendarie, per separare le carriere dei magistrati, eliminare gli incarichi extragiudiziali, abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel 1999, sulla riforma della giustizia dichiarò: niente accette referendarie, la realizzerò appena sarò al governo. Undici anni fa».
Quale sarà il fixing dei vostri rapporti il 14 dicembre: dirà ai suoi deputati radicali di votare la fiducia al governo in carica, o, essendo stati eletti da indipendenti nel Pd, chiederà loro di negarla?
«Fino alla fine e fino all’ultimo minuto utile, anche durante le votazioni, cercheremo di tener presente, oltre al testo, il contesto: per almeno ridurre l’intollerabile, l’infame. Liberi fino alla fine di valutare. Insomma: niente trattativa. Coerenti nel ritenere necessario, e utile a tutti, il dialogo».
E a quali condizioni appoggerebbe il governo, in cerca di nuovi apporti dopo il distacco di Gianfranco Fini e dei suoi?
«Ad esempio, sulla giustizia e le carceri denunciamo una situazione gravissima. Si tratta, ormai, di spaventosi nuclei di Shoah, vere metastasi neonaziste nella democrazia "reale" italiana. Le loro risposte sono leghiste o dipietriste. Ho incontrato La Russa, vedrò Bersani: per cercare di convincerli».
Il paragone con la Shoah è suo, per me si è trattato di una mostruosità unica. Cercherà di convincere La Russa e Bersani fino all’ultimo secondo valido?
«Ma ormai mi riesce difficile immaginare che dalla maggioranza vengano delle risposte al livello dei problemi che incombono».
Considera compatibile con l’elettorato radicale il Berlusconi che sostiene sia meglio preferire le belle donne all’essere omosessuali?
«Le prendiamo come battute di un qualsiasi altro poveraccio. Se vuole può chiamarci come i suoi amici padani "frocio", piuttosto che gay o omosessuale. Ora dice agli studenti: meglio studiare che manifestare. Aveva proprio ragione Veronica ad ammonirlo sugli esempi e i valori che si propongono ai giovani e ai figli. Ma sembra che fosse inutile».
Pannella, lei è stato per decenni il politico più disubbidiente, con un termine abusato più «trasgressivo»: la condanna dopo aver fumato hashish per disobbedienza civile, i transessuali nei vostri congressi... Quale effetto le fa sapere che un capo di governo organizza cene che la diplomazia americana definisce «festini selvaggi»?
«Nessuno. Comunque c’è un detto popolare: se un adulto si stanca della sua vita "se ne va a puttane"».
Repubblica 6.12.10
Mario Pepe: ho indicato loro la strada di Berlusconi
"Così vado a caccia di voti radicali"
di Antonello Caporale
Ricercatore in senso proprio e in senso figurato.
«Tecnicamente perfetta la sua presentazione».
L´onorevole Mario Pepe vide spenta anni fa una promettente carriera accademica. Oggi quella sua abilità è convertita alla ricerca di voti.
«Capisco al volo se tradisci o ti tormenti».
Se fuggi o ascolti.
«Se hai necessità di un sostegno o mi fai perdere solo tempo a tampinarti».
Lei ha fiuto e sembra avere lo stesso naso di Mastella.
«Modestamente ho fatto io l´operazione con i radicali».
E´ Pepe che ha aperto la porta di Pannella e gli ha indicato la strada verso Berlusconi.
«Sono radicale, mi sento uno di loro».
Lei è berlusconiano.
«Al cento per cento, non c´è alcun dubbio».
E continuamente alla ricerca.
«Colgo olive».
Bella metafora. Ne ha raccolte molte di queste olive preziose?
«Io produco olio».
Sono ore cruciali e lei si ritira in campagna?
«Week end, poi però si riprende».
Non bisogna perdere un minuto.
«Infatti non mi fermo mai. Corro, ascolto, guardo. Amico mio, questi colleghi che dovrebbero sfiduciare il governo se la stanno facendo sotto».
Ma se hanno firmato la mozione!
«Firmato? Qualcuno l´avrà fatto per loro. Li vedo tormentati e tristi, disperati».
Eppure non si ribellano.
«Vogliono campare in pace un´altra settimana. Sa cosa succederebbe se uno di loro gridasse: la mia firma è falsa!».
Lei ha fiuto.
«Sono medico, e ho la predisposizione tipica all´ascolto».
Intercetta?
«Capto, intravedo, a volte origlio, spesso intuisco. E´ garantito: Fini non l´avrà vinta. Sconquassi in vista nella sua parte».
Coniuga scienza e sapienza.
«So stare in campo».
Ha fantasia. In campagna elettorale misurò la pressione a una famiglia intera pur di racimolare qualche voto.
«Era il 2001 e mi capitò il collegio rosso dei Colli Albani, appena fuori Roma. Andai a cercar voti tra i contadini di quelle terre, ma tutti erano comunisti. Allora mi feci coraggio».
Ecco, qui c´è tanto da riflettere per i suoi colleghi.
«Dissi al capostipite, un vecchio comunista. A lei serve un medico più di ogni altra cosa. E io sarò a disposizione. Per convincerlo misurai la pressione a lui, agli undici fratelli e ai nipoti. Un pomeriggio intero con l´apparecchio, ma grazie a quei voti...».
Lei è un mago.
«Sono gagliardo».
Corriere della Sera 6.12.10
Fistarol al Pd: al Senato mezzo gruppo può fare come me
di M. Gu.
ROMA — Bersani ha provato a trattenerlo e altrettanto ha fatto Veltroni. Maurizio Fistarol ha parlato con entrambi, ha ascoltato idee, lusinghe e forse anche profferte, ha ringraziato per «sincerità e simpatia» il segretario e il suo predecessore, ma non ha cambiato idea. Ha preso il suo bagaglio di esperienza politica — che lo ha visto per otto anni sindaco di Belluno, deputato e senatore — e, «non certo a cuor leggero», ha traslocato nel gruppo misto. Non per mettersi sul mercato dei parlamentari in vista della fiducia, quando voterà no. Ma per aderire al «nuovo polo di Fini e Casini come senatore di Verso Nord, il movimento politico che ho fondato con Massimo Cacciari e che vanta adesioni in tutte le province del Settentrione». Lo ha scritto nella lettera ai «carissimi amici» del Pd, in cui li informava che sarebbe sceso dal treno: «Ritengo che una diversa stagione, di cui il nostro Paese ha urgenza, possa nascere solo con l’iniziativa del nuovo polo che sta prendendo forma...». In onore alle sue linee guida, «coerenza e correttezza», ha informato gli ex compagni di strada di non aver contattato «un solo iscritto al Pd» per convincerlo ad aderire a Verso Nord. Adesso dovrà modificare il suo sito Internet, cancellando la voce «Democratici» e le insegne del ramoscello d’ulivo che ancora richiamano la stagione di Prodi. Di cui «Bersani è stato uno dei protagonisti meno peggiori». È il ventunesimo addio di un parlamentare al Pd e, a quanto racconta l’ormai ex coordinatore nazionale dei Forum tematici, rischia di non essere l’ultimo. «Se dovessi fare una previsione dopo le chiacchierate con i colleghi senatori, dovrei pensare che mezzo gruppo del Pd è in procinto di uscire», sorride amaro Fistarol. Uno che ama i silenzi delle cime dolomitiche e, per temperamento, non sbatte porte. La critica è forte, ma prova a esprimerla con garbo: «Il Pd non ha alcuna capacità espansiva al di fuori degli steccati della sinistra. Come si fa a pensare di andare al voto con Vendola e Di Pietro, magari rifacendo l’Unione?». Avanti il prossimo.
Repubblica 6.12.10
Sondaggio Demos-Coop
Questa povera scuola
di Ilvo Diamanti
La riforma Gelmini è solo la scintilla che ha acceso il risentimento degli studenti. Contro una scuola e un´università che funzionano sempre peggio E che li fa sentire derubati del futuro
Per l´Osservatorio sul Capitale Sociale il 70% degli italiani dice che la scuola è peggiorata
Le proteste hanno avuto un consenso maggioritario tra i cittadini
Un disagio profondo e generalizzato. Che va ben oltre i contenuti della riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo. Ecco cosa c’è al fondo della protesta degli studenti.
Il rinvio del voto al Senato, in attesa della fiducia (o della sfiducia) al governo, il prossimo 14 dicembre, non ha fermato la protesta contro la riforma dell´Università, firmata dal ministro Gelmini. In molte città, le occupazioni continuano. Nelle sedi universitarie ma anche nei licei e negli istituti superiori. Non intendiamo entrare nel merito della riforma, ma valutare il sentimento verso le politiche del governo, sull´università e sulla scuola. Parallelamente, ci interessa l´atteggiamento della popolazione nei confronti delle manifestazioni e delle polemiche che, da settimane, agitano il mondo studentesco. A questi argomenti è dedicato il sondaggio dell´Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi.
I dati suggeriscono che, al fondo della protesta, vi sia un disagio profondo e generalizzato. Che va oltre, ben oltre i contenuti e i provvedimenti previsti dalla riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico nell´insieme, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo.
Circa il 60% del campione, infatti, ritiene che negli ultimi dieci anni l´università italiana sia peggiorata. Lo stesso giudizio viene espresso dal 70% (circa) riguardo alla "scuola" nel suo complesso. In entrambi i casi, meno del 20% della popolazione sostiene il contrario. Che, cioè, scuola e università negli anni 2000 sarebbero migliorate. Metà degli italiani, peraltro, ritiene che la riforma delineata dal ministro Gelmini peggiorerà ulteriormente la situazione, un terzo che la riqualificherà.
Naturalmente, i mali del sistema scolastico hanno radici profonde e una storia molto lunga. Quanto all´università, è appena il caso di rammentare che, dalla riforma avviata dal ministro Berlinguer, alla fine degli anni Novanta (quindi da un governo di centrosinistra), è stata sottoposta a un processo di mutamento continuo e non sempre coerente. Che ha prodotto una moltiplicazione dei corsi di laurea e delle sedi assolutamente incontrollata. È da allora che gli studenti - e, in diversa misura, anche gli insegnanti - hanno cominciato a mobilitarsi. Oggi, però, il disagio ha superato il limite di guardia. E la protesta si è riprodotta per contagio, un po´ dovunque. Per ragioni che vanno oltre la riforma stessa, lo ripetiamo. Perché è diffusa e prevalente l´impressione che l´università e la scuola, nell´insieme, ma soprattutto quella pubblica, abbiano imboccato un declino senza fine e senza ritorno.
La fiducia nella scuola, negli ultimi dieci anni per questo, più che calata, è crollata: dal 69% al 53%. Sedici punti percentuali in meno. Un quarto dei consensi bruciato in un decennio. Per diverse cause e responsabilità, secondo i dati dell´Osservatorio Demos-Coop. Due su tutte: la mancanza di fondi e di investimenti (32%), lo scarso collegamento con il mondo del lavoro (22%).
In altri termini: la scuola e l´università non attirano risorse e non promuovono opportunità professionali. Anche i "baroni", secondo gli italiani, hanno le loro colpe. Ma in misura sicuramente più limitata (9%) rispetto a quanto vorrebbe la retorica del governo e del ministro. Peraltro, le responsabilità dei "baroni" appaiono ulteriormente ridotte, nel giudizio degli studenti e di coloro che hanno, in famiglia, uno o più studenti. Il che (lo dice un "barone", personalmente, senza quarti di nobiltà e con pochi poteri) appare fin troppo generoso.
Perché le colpe del corpo docente, all´Università, sono molte. Una fra tutte: non aver esercitato un controllo di qualità nel reclutamento. E nella valutazione dell´attività scientifica e didattica. Anzitutto della propria categoria. (Anche per queste ragioni, forse, oggi appaiono perlopiù silenziosi, di fronte alla riforma).
Ma ridurre il problema dell´Università - e della scuola - alla stigmatizzazione dei professori, oltre a essere ingeneroso verso coloro - e sono molti - che hanno continuato a operare con serietà e, spesso, con passione, risulta semplicistico e deviante. Basti considerare, semplicemente, le risorse pubbliche destinate all´Università e alla ricerca. Le più basse in Europa. Basti considerare che, a questo momento, mentre sta finendo il 2010, il governo non ha ancora stabilito (non si dice erogato) il finanziamento (FFO) alle Università del 2010. Non è un errore di battitura. Si tratta proprio dell´anno in corso, o meglio, tra poco: dell´anno scorso. Difficile, in queste condizioni, discutere seriamente della riforma universitaria.
A non crederci, per primi, sono gli italiani. Anche così si spiega il largo sostegno alla protesta contro la riforma Gelmini - maggioritario, nella popolazione. Espresso dal 55% degli italiani, ma dal 63%, tra coloro che hanno studenti in famiglia. E dal 69% fra gli studenti stessi. Il consenso alla protesta studentesca diventa, non a caso, quasi unanime in riferimento alla carenza di fondi alla ricerca (81%). Mentre è più circoscritto (per quanto maggioritario: 53%) riguardo alle occupazioni. È significativa, a questo proposito, la minore adesione che si osserva fra gli studenti universitari stessi. Attori della protesta, ne sono anche penalizzati. Vista la difficoltà di svolgere l´attività didattica e quindi di "studiare".
La riforma Gelmini, per queste ragioni, più che l´unico motivo della protesta giovanile, appare la miccia che ha acceso e fatto esplodere un risentimento profondo, che cova da tempo. Nelle famiglie, tra gli studenti, tra coloro che lavorano nella scuola e nell´università (in primo luogo, fra i ricercatori, categoria a esaurimento, secondo la riforma). "Risentimento" e non solo "sentimento", perché scuola e Università sono un crocevia essenziale per la vita delle persone. A cui le famiglie affidano la formazione e la "custodia" dei figli. Dove i giovani passano una parte della loro biografia sempre più lunga. Dove coltivano amicizie e relazioni. La scuola e l´università: che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani. Non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente. (Come emerge dal XIII Rapporto su "Gli Italiani e lo Stato", di Demos-la Repubblica, sul prossimo numero del Venerdì). C´è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell´università.
Da ultimo: la riforma Gelmini. Non è un caso che i più reattivi non siano gli universitari, ma i liceali. Gli studenti che hanno meno di vent´anni e frequentano le superiori. Si sentono senza futuro. Una generazione sospesa. Precaria di professione. Professionisti della precarietà. Tanto più se nella scuola, nell´Università e nella ricerca si investe sempre meno. Questi studenti (secondo una recente ricerca dell´Istituto Cattaneo e della Fondazione Gramsci dell´Emilia Romagna) oggi appaiono spostati più a destra rispetto ai giovani degli anni Settanta. E, quindi, ai loro genitori. Ma, sicuramente, sono molto più incazzati di loro. A mio personale avviso, non senza qualche ragionevole ragione.
Repubblica 6.12.10
Il 66% degli universitari e il 75% dei liceali approva le manifestazioni
Pochi fondi e precariato le ragioni della protesta
Negli atenei solo una minoranza (il 3%) sottolinea la scarsa qualità dei docenti
di Luigi Ceccarini
La scuola, l´Università e la riforma Gelmini sono oggi temi al centro dell´attenzione (e della preoccupazione) degli studenti. Sono loro che hanno vissuto e subito le politiche di riforma dell´istruzione degli ultimi anni. Quando guardano al decennio passato – e ai continui interventi sui corsi di laurea nelle università o, nella scuola primaria, sul tempo pieno, sui maestri unici o prevalenti, sull´insegnamento della geografia e sui grembiuli – vedono un sostanziale peggioramento del sistema. E se guardano al futuro non ritengono che la situazione sarà migliore. Sono particolarmente arrabbiati e per questo si sono mobilitati, anche con occupazioni di grande impatto mediatico: sui tetti delle facoltà e sui monumenti nazionali di mezza Italia. Gli studenti e le famiglie con studenti, che vivono quotidianamente l´esperienza dell´istruzione pubblica, sono i più critici.
È quanto emerge dall´ultima indagine Demos-Coop, che si è concentrata sul tema proprio nei giorni in cui la riforma è in corso di approvazione in Parlamento. Il primo problema degli atenei, secondo gli studenti universitari, è il collegamento con il mondo del lavoro (38%, +16 punti percentuali rispetto alla media). Aspetto non da poco quando la precarietà e l´incertezza fanno da sfondo al presente e da prospettiva al futuro. La scarsa qualità dei docenti viene sottolineata solo da una minoranza degli universitari (3%). Anche se quasi nove su dieci ritengono che i professori andrebbero valutati e i migliori premiati. L´indagine fa osservare che il 66% degli universitari e il 75% dei liceali si ritiene d´accordo con la protesta, ben più di quanto si registra tra gli italiani (55%). Le occupazioni piacciono di più ai liceali (74%) e meno agli universitari (46%). La protesta invece per la mancanza di fondi destinati alla ricerca è ampiamente condivisa: 90% degli universitari, 84% dei liceali e 81% dei cittadini. I liceali, nell´85% dei casi, ritengono che la scuola sia peggiorata nell´ultimo decennio, ben più di quanto si registra tra gli universitari (60%) o nella popolazione (69%). Sono più critici verso la scuola, anche perché la conoscono, visto che la stanno attualmente frequentando. Per quanto riguarda l´università si osserva un comune sentire tra studenti e cittadini. In sei casi su dieci ritengono che l´accademia negli ultimi dieci anni abbia vissuto una fase di declino. Tuttavia, anche la riforma, agli occhi degli studenti e delle loro famiglie, non porterà a miglioramenti nel sistema dell´istruzione. Infatti, il 70% dei liceali ritiene che la scuola peggiorerà. Il 73% degli universitari lo pensa per gli atenei. Anche il 60% dei genitori degli studenti la vede in questo modo, sia per la scuola che per l´università.
Repubblica 6.12.10
Il razzismo del dolore
di Chiara Saraceno
C´era da aspettarselo. Quando si è saputo che un nordafricano è stato arrestato perché sospettato di aver ucciso Yara, è esploso il razzismo. Senza neppure aspettare conferme.
E tanto meno la conferma di un giudizio. Quasi un gesto liberatorio: questa volta non è "uno di noi", ma "uno di loro". Dopo Avetrana, ove una quasi coetanea di Yara è stata uccisa da zio e cugina che era andata a trovare fiduciosa, dopo Pinerolo, dove una donna è stata uccisa dall´ex amante del marito con la complicità del figlio, finalmente le cose sono tornate a posto: i cattivi sono gli altri (anche in Calabria dove sono morti sette ciclisti), doppiamente sconosciuti, perché non familiari e soprattutto perché stranieri. Una auto-rassicurazione che cerca capri espiatori su cui rovesciare l´ansia che produce l´insicurezza derivante dal non sentirsi più in controllo del territorio e delle condizioni della vita quotidiana. Non perché ci sono gli immigrati, ma perché sono cambiate molte regole del gioco, ma molti comportamenti, e molte teste, sono rimaste le stesse. Specie per quanto riguarda i comportamenti nei confronti delle donne, incluse le ragazzine.
Essere genitori oggi, specie di una figlia, è spesso fonte di ansie e paure. Non è sufficiente sapere che la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia, da parte di familiari (italiani e no). Oggi come un tempo ogni genitore sa che una figlia femmina è più vulnerabile. Non perché sia più debole di un figlio maschio (per altro anch´esso non del tutto protetto dalle attenzioni improprie e violenze, anche da parte di insospettati, come ha segnalato il grande scandalo della pedofilia da parte di ecclesiastici). Ma perché più di un maschio è considerata preda cacciabile da parte di uomini che si credono in diritto di prendere ciò e chi desiderano. È questo timore che ha legittimato in passato la maggiore sorveglianza cui sono state sottoposte le figlie rispetto ai figli, riducendo i loro spazi di libertà, il raggio delle loro esperienze. Chiudendo in un recinto la potenziale preda, perché non si può controllare il cacciatore. Anche se non sempre neppure il recinto è un luogo sicuro, come ha dimostrato appunto l´omicidio di Avetrana ed è documentato quasi quotidianamente dalle cronache che parlano di fidanzati, mariti, fratelli che macellano le donne che per qualche ragione considerano loro proprietà.
Ogni genitore conosce il batticuore con cui aspetta il rientro dei figli, maschi o femmine che siano, ma con un pizzico di ansia in più se sono femmine. Si è stretti tra il desiderio di dare fiducia e autonomia e la consapevolezza di non potere prevedere ed evitare tutti i rischi. L´ansia rischia di diventare divorante di fronte a casi come quello di Yara: sparita in pieno giorno, mentre torna a casa, in un paese dove si conoscono tutti e dove apparentemente il controllo sociale sul territorio dovrebbe essere maggiore che in una grande città. Invece di cercare un capro espiatorio nell´immigrazione, come se il problema dell´insicurezza e della violenza riguardasse solo o prevalentemente gli immigrati, bisognerebbe riflettere sul persistere di queste condizioni di insicurezza per le donne, che costituiscono una gabbia invisibile per tutte, ma che in molti, troppi, casi tolgono la dignità e la vita.
Soprattutto, ora, mentre le speranze di ritrovare Yara viva si stanno spegnendo, sarebbe il caso di rispettare lei, la sua vita e il sorriso bambino, e la dignità dolorosa dei genitori, che non si sono offerti al circo mediatico pronto a documentarne ogni sospiro e ogni lacrima. Che si eviti la caccia agli immigrati, ma anche di fare di una tragedia l´ennesima occasione per uno spettacolo per guardoni. Niente processi e ricostruzioni in pubblico, con o senza modellini ed esperti sempre in servizio. Niente appostamenti per spiare il dolore dei familiari. Nessuna solleticazione del narcisismo più o meno ingenuo di amici e conoscenti. Sobrietà, silenzio e molta autoriflessione.
Corriere della Sera 6.12.10
Se Prometeo indica il futuro
L’attualità di un testo classico che invita a riflettere sul progresso e sui limiti della scienza
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli
di Eva Cantarella
Prometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo, Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo, immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace, condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente, quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato (parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva, rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è soprattutto il contenuto dell’opera.
Rispettando la regola della «distanza tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l’incivilimento del genere umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L’uomo dal mito alla vita artificiale, Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un’epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l’energia originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque a rileggere la storia del figlio di Giapeto.
Personaggio ambiguo, astuto, preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura sterminare mandandoli nell’Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l’agricoltura, né le stelle, né i numeri e i segni dell’alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare l’elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell’umanità, che si conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti ( technai) dei mortali vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506).
A dimostrare l’importanza del tema, nella Atene dell’epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido, primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se erano passati meno di trent’anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle, invece, il rapporto tra l’essere umano e il progresso è visto in termini problematici: l’umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l’inventiva della techne, che è saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La civiltà e il progresso sono il frutto dell’ingegno umano. L’uomo, «la più mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo. Il valore morale del progresso dipende dall’uso che l’essere umano ne fa. Il dio è scomparso. È un’etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi concittadini a discutere, con questi versi. Un’etica che pone l’uomo davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli.
Corriere della Sera 6.12.10
Il diario pubblico del cronista Bocca
di Francesco Cevasco
Più o meno la sua ricetta è così: alzare il culo, andare, guardare, vedere, (tentare di) capire, congegnare un’idea quanto più vicina possibile a quella giusta, raccontare, spiegarsi in maniera semplice e diretta senza inutili giochi di parole (è ammesso sbagliare ma non per ideologia e/o malafede). Giorgio Bocca, a novant’anni battuti, ci regala un altro libro; sempre con la stessa ricetta ( Fratelli Coltelli, 1943-2010 L’Italia che ho conosciuto, Feltrinell i , pp. 329, 19). Sembra un’antologia dei suoi scritti che, su quegli anni, ha sparpagliato negli articoli e nei libri che ha firmato. Ma è molto di più, perché negli «snodi» che collegano un capitolo all’altro, un brano all’altro, è il Bocca di oggi che ti parla. E non lo fa per mettere le cose e le persone che ha raccontato nel contesto giusto — non c’è bisogno, va da sé — lo fa per dirti che cosa resta e non resta degli anni che hanno segnato nel bene e nel male il nostro Paese. E così la fuga a Pescara del re, all’alba del 9 settembre ’43 è dipinta «come qualcosa di peggio che una manivatoi e Thundelbolt ultimo modello, maglie, camicie, lambrusco e busti di Lenin tra fiori di plastica... la Ferrari dodici cilindri in piazza e l’amante a Correggio, il popolo lavoratore che dice "no al fazismo" e i "milioun" e magari i miliardi di tutti ’sti fenomeni».
E bum! Esplode il Sessantotto, sit-in e assemblee: «Non ero il solo a non capire. Non capivano neppure Mario Moretti e Giorgio Semeria, due futuri brigatisti rossi spettatori di quelle assemblee, a cui pareva, come a me, che far politica e preparare rivoluzioni in assemblee confuse, isteriche fosse una presa in giro di una seria volontà rivoluzionaria. A un provinciale uscito dalla guerra partigiana che era stata fatta con una selezione dei migliori, la disciplina dei militanti e queste chiacchiere in libertà, questo ondeggiare della masse, questo attivismo frenetico parevano fini a se stessi».
Al Sessantotto seguono — almeno cronologicamente — gli anni di piombo. All’inizio del terrorismo, secondo Bocca: «Un quadro preciso, una dichiarazione di guerra datata, non esistono. Esiste il fiume carsico della violenza che riemerge questa volta contro il potere statale, della borghesia d’ordine». E alla fine, nel momento della sconfitta: «I rivoluzionari hanno sempre l’argomento dei tempi lunghi, tanto lunghi che nessuno dei viventi può contestare o verificare». Un venticello in qualche modo da rivoluzione del buonsenso Bocca lo ha visto nella Lega. Qui la data bisogna scriverla: 8 giugno 1993 sulla «Repubblica»: «Ho votato per la Lega come da dichiarazioni di voto pubblicate dalla stampa, per ragioni che a me sembrano di comune buonsenso politico. Chi come me pensa che il sistema dai partiti abbia fatto il suo indecoroso tempo, chi è convinto che bisogna arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova Costituzione, a facce nuove, in pratica a Milano non aveva scelta». Una Lega «rozza», con «comportamenti da mucchio selvaggio», con un leader dalla «navigazione spesso contraddittoria», ma che, per essersi saputa ribellare alla corruzione della prima repubblica, fa (fece) dire a Bocca: «Grazie barbari».
Bastiancontrario per settant’anni di giornalismo già compiuti, il Vecchio Leone non si addolcisce certo adesso, ma accanto a quel pessimistico «Coltelli» del titolo c’è anche un «Fratelli» che nasconde un pizzico di fiducia negli italiani. «Se non altro quando tutto sembra perduto sappiamo ritrovarci per non cadere nel baratro. Forse è questa la nostra peculiarità: dobbiamo ancora imparare a vivere in società, a essere Stato, inutilmente furbi, inguaribilmente infantili ma molto umani nelle debolezze come nelle virtù, in un certo senso rassegnati a questa nostra umanità: capaci di fermarci prima della ferocia e del fanatismo».
Repubblica 6.12.10
L´oroscopo della scienza "Carattere deciso dal sole"
di Elena Dusi
E la scienza ammise: la data di nascita influenza il carattere
I test americani sui topolini di laboratorio svolti in diversi mesi dell´anno
IL MESE di nascita influenza il carattere. Era ovvio per l´astrologia, ora lo è anche per la scienza. Ma lungi dal dare il suo avallo alla lettura degli astri, la ricerca della Vanderbilt University ottiene l´effetto contrario. In uno studio su Nature Neuroscience i ricercatori dimostrano che la quantità di luce assorbita nelle prime settimane di vita produce effetti indelebili sui neuroni ancora vergini dei bebè.
La lunghezza delle giornate che è diversa in estate e in inverno si imprime sul cervello dei bambini appena nati, influenzando per sempre il loro ritmo circadiano e producendo effetti futuri - deboli ma misurabili - su umore, propensione alla depressione e alla schizofrenia.
Gli esperimenti americani sono stati condotti sui topolini in laboratorio, regolando la durata dell´illuminazione artificiale. Ma il fatto che le prove siano state ripetute in diversi mesi dell´anno, e che test simili sull´uomo in passato si siano svolti contemporaneamente nell´emisfero nord e in quello sud (dove agli stessi mesi corrisponde un livello di illuminazione capovolto), dimostrano che è la quantità di luce, non la data di nascita a influenzare il carattere. E che l´unico astro la cui posizione in cielo conti per il nostro futuro è il Sole.
«Ci teniamo a dirlo, anche se il nostro lavoro assomiglia all´astrologia, non lo è affatto. Si tratta di biologia stagionale» precisa Doug McMahon che ha condotto lo studio. La ricerca Usa si è concentrata sugli effetti della luce su una piccola area del cervello ribattezzata "orologio biologico". È questo grappolo di neuroni situato dietro agli occhi a dettare all´organismo i ritmi circadiani, regolando sonno, veglia, appetito, pressione sanguigna, voglia di quiete, movimento e molto altro. Nei topolini vissuti per le prime 4 settimane a un ritmo di 16 ore di luce per 8 di buio, l´orologio biologico si è tarato sul regime estivo, e su questo è rimasto tutta la vita. Il contrario è accaduto ai topolini tenuti al buio per 16 ore al giorno. «Questi ultimi - spiega McMahon - hanno dimostrato di risentire molto dei cambiamenti stagionali. Questo spiega come mai gli uomini nati in inverno siano più spesso affetti da depressione invernale», causata dalla riduzione delle ore di luce.
Gli effetti di questo imprinting riguardano ritmi circadiani e tono dell´umore, ma non solo. «Il mese di nascita influenza anche la tendenza a diventare gufi o allodole» spiega Vincenzo Natale, docente di ritmi del comportamento e ciclo veglia-sonno all´università di Bologna, che da anni si dedica a questo campo di studi. «Per chi è nato in estate le giornate non finirebbero mai. Ecco da dove nasce la tendenza a diventare gufi. I nati in inverno sono invece mattutini doc. Ovviamente si tratta di statistiche e all´interno dei vari gruppi le differenze sono grandi». Nessun risultato invece è stato mai ottenuto dai ricercatori che si sono sforzati di legare data di nascita a tratti della personalità più complessi, come estroversione, socievolezza o addirittura livello di intelligenza.
Repubblica 6.12.10
Il Cicap e le stelle "L´astrologia? Un fallimento a contare è il sole"
di E. D.
Ma non sono gli astri ad essere determinanti, piuttosto la quantità di luce assorbita dai neuroni del neonato Secondo una ricerca su "Nature Neuroscience" la diversa lunghezza delle giornate condiziona il cervello
ROMA - «La luce ha sicuramente un effetto sul cervello e sulla personalità, ed è interessante che la scienza indaghi il loro rapporto. Ma questo cosa c´entra con l´influenza che possono avere gli astri in cielo?». Secondo Massimo Polidoro, segretario del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), uno studio come quello di Nature Neuroscience non aggiunge proprio nulla alla validità dell´astrologia.
Lasciamo stare l´oroscopo del giorno. Ma forse l´astrologia ha qualcosa da dire nella descrizione della personalità dei segni zodiacali?
«Se prendiamo due persone nate nel nord Europa e in un paese del Mediterraneo notiamo la differenza. Tant´è che per gli individui allegri ed espansivi abbiamo coniato la definizione di "carattere solare". Questo vuol dire che è soprattutto l´esposizione alla luce ad avere importanza, non la posizione degli astri al momento della nascita».
Può darsi che l´astrologia avesse colto per via indiretta delle intuizioni che oggi la scienza riesce a confermare.
«Molti test sono stati condotti su questa ipotesi. Agli astrologi è stato chiesto di definire i tratti della personalità di un individuo senza avere nulla a disposizione se non la data di nascita. I risultati sono stati sempre fallimentari. Mai nessuno è riuscito a confermare la validità delle conclusioni dell´astrologia. Teniamo distinta la scienza da questa disciplina».
(e.d.)