venerdì 10 dicembre 2010

Repubblica 10.12.10
"I radicali voteranno la sfiducia"
Il Pd trova l´accordo con i sei deputati di Pannella. E prepara la manifestazione di domani
Bersani: "Quello è un partito che non si vende". E su Fini: "Non può smentirsi con un Berlusconi bis"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il Partito democratico dà per sicuri i sei voti radicali alla sfiducia. Marco Pannella insiste: «Decideremo all´ultimo minuto e faremo una scelta non scontata». Ma il piano per non perdere la pattuglia di Pr è già scattato. Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini ha incontrato i sei deputati, ha ascoltato le loro ragioni, ha offerto spazio e voce ai pannelliani sapendo bene che con loro la trattativa e la compravendita del Pdl non hanno cittadinanza. Di solito, ai radicali, il gruppo del Pd riserva in aula solo il tempo di un intervento a titolo personale. Cioè, un minuto. Stavolta invece un loro rappresentante parlerà all´interno della discussione generale, durante il tempo riservato ai democratici (40 minuti). Significa avranno a disposizione un discorso di 5 minuti. Un timing utile per articolare i motivi della sfiducia distinguendosi dalla posizione ufficiale del Pd. Ai radicali verrà quindi riconosciuta la loro specificità e autonomia.
Così il Pd può garantire, a meno di sorprese, 206 voti contro Berlusconi su 206 deputati complessivi. Il 100 per cento, con l´unica incognita di Federica Mogherini. Il tempo della sua gravidanza scade il 13 , da quel momento ogni minuto è utile per il parto. Ancora ieri pomeriggio gli uffici del gruppo democratico hanno contattato i deputati uno ad uno. Franceschini ha inviato un sms a tutti specificando che martedì è previsto un meteo pessimo. Perciò l´invito (obbligatorio) è: arrivate entro lunedì, il giorno prima del voto finale. In realtà il meteo del 14 non pronostica affatto bufera su nessuna parte d´Italia. Ma il messaggio è chiaro. Non sono ammesse defezioni e alibi.
Bersani conferma la sua fiducia nel voto radicale: «Quello è un partito che non si svende». Berlusconi però studia alcune contromosse per garantirsi almeno l´astensione dei 6. Nel suo discorso ci sarà un passaggio sulla situazione delle carceri e un riferimento all´applicazione della moratoria sulla pena di morte. Un po´ meno granitica è la sicurezza di Bersani sulle mosse di Futuro e libertà: «Non credo che Fini possa smentirsi appoggiando un Berlusconi bis». Il segretario del Pd ieri ha visto alcuni dirigenti di prima fila: Finocchiaro, Franceschini, Veltroni e D´Alema. Da questi incontri è venuta la conferma di una fiducia a rischio per il premier. E di una tenuta di Fli. «È solo il gioco del cerino», garantiscono i democratici. «Non dovrebbe avere il sì», dice Bersani. Ma le certezze vacillano. Bisogna prepararsi al dopo che potrebbe non essere il dopo Berlusconi. Si parte dalla manifestazione di domani a Piazza San Giovanni. Poi si metterà in conto un Berlusconi ancora vivo dopo il 14. E la definizione di una nuova strategia. «Le primarie? Non le ha mica ordinate il dottore», risponde Bersani preparandosi alla ristrutturazione del centrosinistra.

l’Unità 10.11.10
Tormenti radicali. Pannella tentato da Berlusconi Sei voti in bilico
«Deciderà la base» Il leader si è visto con il premier, «prima avevo incontrato Bersani»


Cosa faranno i radicali? Quello che sembrava improbabile sta prendendo corpo: un possibile voto favorevole a Berlusconi (no alla sfiducia, sì alla fiducia, a seconda del ramo parlamentare in questione). Marco Pannella è «assolutamente lieto» che Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano abbiano accettato di ascoltarlo ma non dissipa i dubbi sul voto della pattuglia dei Radicali a Montecitorio in vista della verifica del 14 dicembre prossimo: «Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all’ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato», scrive sulla sua pagina Facebook. Fatto sta che nei conti dei berlusconiani i voti dei radicali oscillano fra l’astensione e il favore.
«Da un anno almeno, da Radio Radicale e con pubbliche dichiarazioni afferma Pannella deprecavo il (mis)fatto del persistente rifiuto di Berlusconi di incontrarci e discutere insieme sulla situazione politica, nazionale, europea, globale. Ho ottenuto questo incontro, ne ho subito informato tutti così come dell`incontro con Bersani. Il “mondo radicale” ha così immediatamente avuto modo di reagire anche pubblicamente, su facebook e con interventi diretti da Radio Radicale. È in rivolta, su supposizioni infondate. Da giorni, da ogni parte, si esige di sapere se il 14 dicembre daremo fiducia o sfiducia. Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all`ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato. Le scontatezze appartengono a tutta “la politica” italiana, e non solo. Mai, ripeto mai, a noi Radicali».
Va ricordato che i radicali sono in parlamento con il Pd non avrebbero avuto i numeri per esserci con il loro partito e fino a poche settimane fa l’antagonismo fra loro e il modo di pensare (negazionista sui temi etici) del governo Berlusconi sembrava una distanza incolmabile.

il Fatto 10.12.10
La fame di Pannella e i “magnifici sei”
di Pino Corrias


DIAVOLO d’un Pannella. Ringalluzzito dal lungo sciopero dei capelli, il vecchio leader ha smesso di tormentare i Radicali per dedicarsi al Paese. Si è astutamente infilato nella compravendita dei voti per il 14 dicembre. Avendo in dote sei parlamentari da spendere, ha incontrato Bersani e Berlusconi. Con il primo ha parlato della fame nel mondo. Con il secondo della fame dei Radicali. Ha detto che lui si muove a destra, al centro, a sinistra. Segue solo i valori. Se ne frega delle macerie de L’Aquila, dei roghi di Terzigno, dei disoccupati sui tetti, degli studenti sulle strade e del sangue che cola dal nuovo plastico di Vespa, dove vorrebbe abitare almeno qualche volta. Respinge l’ipotesi dei governi tecnici con Draghi, oppure Monti, oppure Montezemolo, ma se è libero anche Alonzo. Non lo persuade l’ultima proposta dei finiani che offrono a Berlusconi dimissioni, ma con reincarico in 72 ore, purché su un piede solo, più un contratto con Gazprom e dodici nuove nipoti di Mubarak in sei comode rate. Pensando alle rate ha avuto l’illuminazione. La sintesi. Il Papa straniero che sta bene a tutti. Candidare David Mills a Palazzo Chigi che è libertario, liberista e off-shore.

l’Unità 10.11.10
Oggi a Oslo il conferimento del premio al dissidente paladino della democrazia
p Assenti una ventina di governi che hanno ceduto alle pressioni delle autorità cinesi
Liu in cella non ritira il Nobel Pechino censura la cerimonia
La maggioranza dei governi invitati saranno rappresentati oggi ad Oslo al conferimento del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Ma una ventina, cedendo alle pressioni di Pechino, diserterà la cerimonia.
di Gabriel Bertinetto


Non ci sarà Liu Xiaobo, trattenuto in carcere dalle autorità cinesi. Non ci saranno i rappresentanti di una ventina di Paesi, trattenuti a casa da svariate forme
di opportunismo politico. La cerimonia per il conferimento del Nobel per la pace si svolgerà oggi ad Oslo nel segno di due opposte assenze. Quella forzata del protagonista numero uno, il premiato, e quella del tutto volontaria di alcuni governi che hanno ceduto alle pressioni di Pechino affinché stessero alla larga dall’evento.
SEDIA VUOTA
La sedia riservata a Liu resterà vuota. Le autorità della Repubblica popolare non hanno permesso che a ritirare l’onorificenza andas-
sero altri in sua vece. La moglie Liu Xia è da mesi agli arresti domiciliari, così come altri parenti, amici e decine di dissidenti del movimento per la democrazia. Della loro sorte non ha voluto dire nulla ieri Jiang Yu, portavoce del ministero degli Esteri, che qualche giorno fa aveva sprezzantemente definito la cerimonia di Oslo una «farsa anti-cinese».
Jiang Yu ha insistito sulla tesi del suo governo, secondo cui «la maggioranza dei popoli del mondo» è contraria alla scelta del Comitato per il Nobel, e si è scagliata contro il Congresso degli Stati Uniti, accusandolo di «arroganza» per avere approvato una «cosiddetta risoluzione» a favore di Liu.
La lista degli assenti è lunga, ma fra i Paesi di maggior peso politico, economico e strategico, comprende solo la Russia. Ci saranno tutti i governi dei Paesi occidentali oltre a grandi Stati democratici emergenti, come India, Brasile, Sudafrica. Pechino è riuscita a convincere Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Colombia, Cuba, Egitto, Iraq, Iran, Kazakhstan, Marocco, Pakistan, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Venezuela, Vietnam. In un primo tempo avevano aderito a quello che era sostanzialmente un boicottaggio non dichiarato, anche Filippine ed Ucraina, che ieri però hanno fatto marcia indietro, annunciando la propria presenza.
CAMPAGNA SPROPORZIONATA
Liu Xiaobo è fra i firmatari di Charta O8, una petizione inviata due anni fa ai vertici del regime comunista, nella quale si perorava la causa di un cambiamento democratico. Anziché ottenere maggiore libertà per i concittadini, Liu e compagni hanno pagato il loro coraggio civico con l’arresto. Liu, 54 anni, docente di letteratura, è in carcere, condannato a 11 anni per istigazione a sovvertire i poteri dello Stato.
La mobilitazione cinese contro il Nobel a Liu è stata «un totale disastro», secondo l’attivista per i diritti umani Nicholas Becquelin, residente a Hong Kong. L’intensità degli attacchi cinesi è stata «del tutto sproporzionata», e secondo Becquelin ha fatto perdere a Pechino «le simpatie che si era conquistata in due o tre decenni di diplomazia cauta».
La veemenza della campagna governativa ha avuto risvolti al limite dell’assurdo, come il divieto imposto ai gestori dei ristoranti della capitale di accettare prenotazioni per più di sei persone nella giornata odierna. Il timore è che raduni conviviali si trasformino in celebrazioni della premiazione di Oslo.
I siti web di alcuni media internazionali, fra cui le reti televisive americana e britannica Cnn e Bbc, ieri in Cina sono stati oscurati. Intanto un comitato messo in piedi in gran fretta tre settimane fa, assegnava l’anti-Nobel, il premio «Confucio per la pace». Peccato che il vincitore, il politico taiwanese Lian Chen, non fosse al corrente ed abbia affermato di «non avere in programma» di accettarlo.

l’Unità 10.11.10
Intervista a Guido Samarani
«Evitato il ko. Ma per la Cina è una sconfitta»
Il docente di storia cinese: «Pesa l’assenza di Mosca ma Pechino avrebbe potuto cantare vittoria solo in caso di defezioni europee»


Per il professor Guido Samarani, che insegna Storia della Cina all’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Nobel a Liu Xiaobo ed il
fatto che la maggior parte dei grandi Paesi oggi non disertino la cerimonia di Oslo, è per Pechino una sconfitta, anche se “ai punti”.
Come spiega, professore, una così forte e plateale irritazione della Cina al Nobel per il dissidente Liu? «Effettivamente ho trovato anch’io molto marcata la loro reazione. Anche mettendosi dal loro punto di vista, secondo cui la scelta del Comitato di Oslo è una strumentalizzazione politica, mi sembra che in questo modo loro ingigantiscano ulteriormente la portata dell’evento, anziché cercare di sminuirla come potrebbero fare dandogli una limitata importanza. Tra l’altro Liu Xiaobo, che meriterebbe piuttosto un Nobel per la democrazia, se esistesse, piuttosto che un Nobel per la pace, non è certo un pericolo per lo Stato, anche se l’accusa formale a suo carico è proprio quella di sovversione. Sono un po’ sorpreso dal comportamento delle autorità della Repubblica popolare, che in altri casi hanno dimostrato di essere molto più sagge e riflessive».
La moderazione cinese di fronte ai grandi temi della politica e dell’economia internazionali viene meno quando devono affrontare questioni interne, riguardanti i diritti civili e umani. È questo il problema?
«In parte sì. Tra l’altro se con Taiwan o il Tibet entrano in gioco questioni che riguardano la sovranità nazionale e l’integrità territoriale, non è questo il caso dei dissidenti. Credo che ai dirigenti cinesi disturbi comunque in modo particolare quella che ritengono un’interferenza esterna nei propri affari domestici». Fino a quando durerà l’illusione che un’impetuosa crescita produttiva e tecnologica possa convivere con un sistema autoritario?
«Di fatto quella convivenza sinora c’è stata. Nel breve periodo non prevedo cambiamenti significativi. Ci sarà piuttosto una trasformazione graduale e guidata, “alla cinese”, fatta di aperture pezzo per pezzo. Sarà un processo più lento di quanto non sia stata e sia la modernizzazione economica. Il dibattito in corso nel partito e nei think-tank collegati ipotizza varie opzioni, tranne quella di un pluralismo democratico di tipo occidentale. Verrà introdotta sempre più democrazia nel partito, maggiore collegialità decisionale, come primo passo verso modifiche da estendere poi alle istituzioni, a partire dalle aree periferiche, con le elezioni nei villaggi ad esempio. È uno scenario che poggia su un prerequisito però, quello della stabilità politica. Se dovesse aprirsi una fase di gravi turbolenze interne, se i conflitti sociali si acuissero, allora diventerebbe davvero difficile pronosticare i passaggi successivi». Contano di più i venti Paesi che disertano la cerimonia di Oslo o gli oltre quaranta che hanno resistito alle pressioni di Pechino?
«I governi che non saranno rappresentati hanno tutti bisogno per diverse ragioni di mantenere buoni rapporti con la Cina. Qualcuno magari pensa che in futuro potrebbe ritrovarsi in una situazione simile e quindi prende contromisure preventive. Pesa certamente l’assenza della Russia. Vuol dire che per Mosca la partnership cinese è davvero importante. E magari nella decisione di non mandare nessuno a Oslo hanno considerato anche la loro situazione interna. Gli altri grandi Paesi però ci saranno. Pechino avrebbe potuto cantare vittoria, se fosse riuscita a convincere qualche governo dell’Unione Europea. Stando così le cose, può solo accontentarsi della relativa ampiezza numerica del gruppo di coloro che hanno aderito all’invito di disertare la cerimonia. È la soddisfazione di chi perde ai punti anziché subire un ko».

l’Unità 10.11.10
Si astengono dal lavoro tecnici, impiegati, costumisti, dirigenti. Aderiscono anche i giornalisti
Laprotesta contro i tagli del direttore generale. Dalla mobilitazione si sfila solo la Cisl
Una giornata senza Rai Sciopero contro il piano Masi
Oggi la Rai si ferma: sciopero di 24 ore dei lavoratori, tecnici, impiegati e quadri. Promosso dalla Cgil e da tutti i sindacati, meno la Cisl. Aderiscono anche i giornalisti dell’Usigrai. Tg ridotti e nessuna diretta.
di Natalia Lombardo


Oggi la Rai si ferma 24 ore per lo sciopero dei tecnici, dagli operatori ai costumisti, degli impiegati e dei quadri dirigenti. Si ferma la macchina, il cuore tecnologico della tv pubblica, per protestare contro il piano industriale da lacrime e sangue che «impoverisce l’azienda» in condizioni mai così disastrose, denunciano da tempo i sindacati. E la novità è l’adesione dei giornalisti dell’Usigrai alla giornata di sciopero «audio-video», anche se saranno presenti sul posto di lavoro. con telegiornali ridotti,
Lo sciopero è promosso da tutti i sindacati, dalla Cgil allo Snaters, con lo schema ormai consueto della dissociazione della Cisl, alla quale plaude il direttore generale, Mauro Masi che pure dice di «rispettare» la protesta. La protesta mira a «rilanciare l’azienda» e a non far pagare la crisi solo a chi lavora. I sindacati sono «disponibili a sedersi intorno a un tavolo», spiega Emilio Miceli, segretario generale della Slc Cgil, «purché si tolgano le esternalizzazioni», soprattutto quelle delle «torri» di RaiWay, gli impianti di trasmissione.
Le sigle promotrici sono tante: Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Tlc, Snater, Libersind-Confsal; l’Adrai, l’associazione dei dirigenti Rai, solidarizza e partecipa con una autotassazione devoluta a Telethon. La Filt-Cisl non aderisce perché
giudica la protesta «fuori tempo» e «controproducente in questa dinamica fase di discussione con l'azienda». La dinamica fase di dialogo, per la verità, è iniziata molto in ritardo perché il dg Masi ha quasi «criptato» per lungo tempo il piano industriale, tanto che gli stessi vicedirettori generali hanno per due volte sollecitato maggiore discussione proprio con i sindacati, per non arrivare a delle rotture. E il consigliere del Pdl, Verro, auspica «il dialogo» ma critica Barenboim: «Inopportuno leggere l’articolo 9» alla Scala.
LO SLOGAN DELLO SCIOPERO
«Non paghi il costo della crisi quella parte produttiva della Rai, quella di chi si alza la mattina e lavora», spiega Miceli a l’Unità, «ma si intervenga con tagli agli sprechi, alla “marea nera” delle consulenze, dei contributi, delle società che non danno un ritorno all’azienda»; in due parole, «i costi della politica che, tra fino al 2006 pesavano per 2 terzi sul bilancio, l’anno scorso erano di 2 miliardi, ora il Cda sostiene di aver ridotto a 1 miliardo e 400mila». A pagare, secondo il piano, saranno solo i lavoratori, con esuberi, blocco dei contratti e degli aumenti. Insomma, la Rai è a «rischio Alitalia», conclude il sindacalista. E resta il mistero: la Rai ha più ascolti di Mediaset ma meno pubblicità. Alla Cisl, infine, dice: «Quando tornerete sacrificheremo l’agnello migliore»,
Dalle 6 di mattina di oggi fino alle 6 di domani non dovrebbero andare in onda i programmi in diretta (La vita in diretta,Piazza Italia, Uno Mattina), i tg dureranno 6 minuti, letti in studio e senza servizi; non si vedranno le rubriche regionali Buongiorno Regione e Buongiorno Italia. I giornalisti si ridurranno dalla retribuzione lorda per il 45% di 1/26 della retribuzione mensile.
E stamattina dalle undici i lavoratori protestano a Viale Mazzini con l’Orchestra nazionale della Rai; parleranno tutti i rappresentanti e saranno presenti le associazioni delle troupe, del broadcast e del sindacato attori, intellettuali e politici.
Santoro ha annunciato lo sciopero a Annozero, riportando i dati del bilancio Rai: «i giornali dicono che perderà 100 milioni nel 2011, 200 nel 2012 e che in due anni avrà circa 650 milioni di debiti». L’azienda smentisce: «Dati non veri».

l’Unità 10.11.10
La Rai si è fermata a Daverio
La cultura secondo viale Mazzini
di Vittorio Emiliani


Il bell’articolo di Luca Del Frà su l’Unità di ieri conferma i gravi limiti e gli alibi sbagliati della Rai odierna. Il più strategico? Vedrete, col digitale terrestre e la moltiplicazione dei canali, quanta cultura faremo... Favole. Intanto gli ascoltatori su Rai5 per la “Walkiria” della Scala sono stati molti di meno, e serviti peggio, di quelli che a suo tempo seguirono su Rai3 il tanto contestato “Macbeth” verdiano, una “prima” scaligera in diretta che costò al presidente musicofilo Enzo Siciliano un “crucifige” permanente nonostante “prendesse” ben un milione e mezzo di telespettatori.
Allora in Rai si chiamavano specialisti come Guido Barbieri, Piero Gelli e altri. Ora sembra che ci sia soltanto Philippe Daverio, buono per ogni trasmissione. Il troppo stroppia e induce a commettere qualche svarione. Sere fa Daverio è comparso da Santoro ad Annozero dove si parlava di post-terremoti. Confesso di aver visto soltanto qualche passaggio, quando peraltro si mettevano in evidenza gli errori marchiani commessi nel costruire tutt’attorno all’ancora atterrato capoluogo abruzzese le cosiddette “new towns” e altre strutture. Purtroppo Philippe Daverio assentiva dicendo che anche in Umbria si era costruito molto intorno. In realtà nel post-terremoto umbro-marchigiano come già in quello del Friuli il Ministero per i beni Culturali, con Mario Serio direttore, si tenne la regìa del tutto usando la Protezione Civile quale braccio esecutivo, e fece subito partire anche la ricostruzione. Vennero usati i container perché la stagione era già avanzata (fine settembre). Ma si passò nella primavera-estate alle casette prefabbricate in legno di tipo siberiano mantenendo in loco le comunità. Nel contempo furono adeguatamente finanziati i lavori (ministro Walter Veltroni), reclutati i migliori specialisti: strutturisti, Giorgio Croci e Paolo Rocchi, storici dell’arte e architetti delle Soprintendenze e dell’Università, Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti, Marisa Dalai, Bruno Toscano, Giuseppe Basile, ecc. per un’area terremotata vastissima, da Assisi a Urbino, con 1500 chiese colpite nelle sole Marche e con la Basilica assisiate di San Francesco a rischio di rovina totale.La Rai seguì allora così da vicino quest’ultimo formidabile recupero da dedicarvi 40 ore di filmati tecnici. Risultato: la Basilica integralmente restaurata venne riconsegnata in un biennio ai frati francescani e con attenzione venne realizzato il graduale ripristino, in sicurezza, di centri storici come Foligno, Tolentino, Nocera Umbra, Gualdo, la stessa Assisi. Con un eccellente rapporto MiBAC-Regioni-Enti locali. Un rapporto oggi cancellato e sostituito dal “ghe pensi mi” di Berlusconi&Bertolaso. Con risultati in ogni senso desolanti. Questa la realtà vera dei fatti.

Repubblica 10.12.10
Non agiremo mai contro il Vaticano"
Berlusconi pranza con Bertone: lavoro perché il Papa possa andare a Mosca
All´incontro per i nuovi cardinali l´assenza di Bagnasco conferma il gelo con la Cei
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO - «Caro ambasciatore, lei ora lascia l´incarico di rappresentare l´Italia presso la Santa Sede per andare a Mosca, dove c´è il mio amico Vladimir Putin. Io vengo criticato per questo rapporto. Mi accusano. Mi attaccano. Ma non capiscono che il mio vero obiettivo è quello di portare la Russia in ambito occidentale. E che grazie a questa relazione privilegiata sto lavorando anche con il patriarca ortodosso Kirill perché si creino le condizioni affinché il Papa possa andare un giorno a Mosca».
Sono passate le 14 a Palazzo Borromeo, sede della legazione italiana presso il Vaticano, quando il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si rivolge all´ambasciatore Antonio Zanardi Landi, padrone di casa e organizzatore dell´incontro. Mezzo governo è schierato sulla lunga tavolata che domina la sala grande. Ci sono Letta, Bonaiuti, Frattini, Tremonti, Alfano, Bondi, Fazio, Fitto, Romani, Gelmini. C´è anche il consigliere per la politica internazionale del premier, il deputato del Pdl, Valentino Valentini, uomo di collegamento di Berlusconi con la Russia. E dall´altro lato del tavolo i commensali sono il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, e 9 dei 10 nuovi cardinali italiani usciti dal recente Concistoro in cui Benedetto XVI ha creato 24 porporati.
Palpabile l´attesa per un evento che, se è una tappa ormai di prammatica dopo ogni Sacro collegio (fu Prodi a presenziare nel 2007), cade ora a pochi giorni dal decisivo voto di fiducia del 14 dicembre per il governo, con un presidente del Consiglio alla ricerca di appoggi autorevoli. Un momento delicato, a cui la Segreteria di Stato vaticana ha risposto in maniera positiva.
Ai cardinali di fresca nomina il premier ha fatto i complimenti e regalato una croce pettorale. E a tutti ha espresso ottimismo per l´imminente passaggio in aula, confidando di poter ottenere i numeri richiesti. «Da parte mia - ha assicurato prima di ricordare gli anni trascorsi dai salesiani (guardando Bertone che appartiene a quell´ordine) - non verrà mai nulla contro il Vaticano». E dopo alcune frasi del sottosegretario Gianni Letta, il collaboratore del Papa ha risposto ringraziando il governo di aver condotto una politica a favore della Chiesa. Con i giornalisti Bertone si è poi schernito («era solo un pranzo di cortesia, io ero ospite, prego per l´Italia e prego per il futuro di ogni Paese con cui siamo in relazione perché i problemi toccano tutto il mondo, non solo l´Italia»).
Della delegazione ecclesiale facevano parte i cardinali Ravasi, Romeo, De Paolis, Sardi, Amato, Piacenza, Monterisi, Sgreccia e Bartoloni. Assente giustificato Baldelli. Spiccava piuttosto l´assenza del presidente dei vescovi, Angelo Bagnasco, che aveva un impegno precedente a Genova, sua arcidiocesi cui tiene molto. Al suo posto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata.
E´ da tempo del resto che i vescovi italiani non nascondono malumore verso Berlusconi. Il loro quotidiano di riferimento, Avvenire, l´altro giorno in un editoriale si è schierato contro il voto anticipato se in Parlamento si trovasse un´altra maggioranza. C´è chi guarda al dopo. Tremonti (che ieri si è speso sulla necessità di sostenere la famiglia), gode di grande stima. Stuzzica l´idea di un Ppe italiano prospettata da Formigoni. L´ingresso dell´Udc nella maggioranza offrirebbe qualche rassicurazione. Ma non convince la prospettiva di un partito di centro con il ‘laicista´ Fini.
All´uscita del palazzo bocche cucite, comunque, per i porporati. «Meno litigi e scosse ci sono, meglio è», commenterà più tardi uno dei cardinali che ha partecipato alla colazione di lavoro. «Gli uomini di governo devono perseguire il bene comune, non quello del proprio partito», aggiungeva un altro. Nei saloni in cui, fra pochi giorni, Zanardi Landi sarà sostituito dal nuovo ambasciatore Francesco Greco, Berlusconi si lasciava infine andare su una poltrona: «Se poi non otterrò la fiducia - diceva scherzando - vorrà dire che mi riposerò».

il Fatto 10.12.10
I sospetti della Bindi su Renzi: vuole un futuro fuori dal centrosinistra
Cattolici entrambi, ora lei non perdona la visita ad Arcore
di Giampiero Calapà


Sinalunga-Rignano sull’Arno. Ci sono una ottantina di chilometri tra la città di Rosy Bindi e quella dove è cresciuto a pane, politica e scout, Matteo Renzi, non lontano dalla Firenze di cui oggi è sindaco. Ma, ormai, anni luce separano la politica dei due pur sempre “compagni” toscani del Pd. Entrambi provengono dalla tradizione cattolico democratica di quella parte della Democrazia cristiana che guardava a sinistra. Gli scout lui, appunto, e l’Azione cattolica lei. Proprio per questo motivo, per l’origine comune, l’onorevole Rosy Bindi non perdona a Renzi le ultime mosse, dalla fondazione dei Rottamatori fino al “sacrilegio” della visita ad Arcore: “Renzi dice di aver superato le ideologie. Ma è proprio questo il punto? Il berlusconismo non ha alcuna ideologia. È un comportamento”, e Renzi “andando ad Arcore è caduto nel berlusconismo”, ha detto la Bindi ieri all’Unità, arrivando a definire il sindaco di Firenze appartenente alla categoria degli “apparenti viventi, che in realtà sono anime morte perché sono il frutto della politica di questi quindici anni”.
INSOMMA, per Rosy Bindi il rottamatore Renzi andando ad Arcore non ha fatto altro che svelare la sua natura. Che agli occhi della presidente del Pd era già chiarissima in precedenza, almeno dai tempi delle primarie, nel momento in cui Renzi, per correre da solo, voltò le spalle a quello che era considerato il suo “padrino” politico: Lapo Pistelli, altro ex della Margherita che poi ha abbracciato il veltronismo. Autunno 2008, la corsa per le primarie a Firenze diventa rovente, e il giovane presidente della Provincia ha la sua sponda politica più importante in città in quell’assessore-sceriffo che rispondeva al nome di Graziano Cioni, comunista doc empolese , pronto a sostenere l’amico cattolico: “O vinco io o vince Renzi e va bene... o vince Pistelli ed è un’epoca secondo me di quelle micidiali... quindi bisogna che si corra tutti e due, Renzi e io: se vince lui gli fo da vicesindaco, se vinco io fa il vice-sindaco lui”. Poi Cioni fu travolto da vicende giudiziarie, indagato per corruzione e violenza privata, costretto a ritirarsi da quelle primarie in cui era dato per favorito e che poi vinse Renzi. L’amicizia che intercorse tra i due è testimoniata da alcune intercettazioni finite nell’inchiesta sull’area fiorentina di Castello. (Quando Cioni chiama Renzi, presidente della Provincia, per informalo che “all’Isolotto ci s’ha una fedifraga. La Sonia Innocenti: sta con Pistelli”. Renzi: “Quanti voti sposta”. Cioni: “Pochi, ma questo volta-spalle lo deve pagare. La mia porta la trova chiusa oggi, domani e domani l’altro”. Qualche giorno dopo, Renzi: “Ascolta due cose al volo: alla Sonia quel messaggio che mi dicevi ieri gliel’ho fatto dare in modo molto brutale”. Cioni: “A chi l’hai dato”. Renzi: “Al suo capo e a voce tramite Filippo Vannoni, che me l’ha portata a pranzo una settimana fa”). Renzi non esitò a prendere le distanze da Cioni, però, appena lo “sceriffo” finì sotto scacco: “Il passo indietro di Graziano Cioni è un fatto utile e positivo”. Ieri, invece, Renzi nel difendersi ancora dalle accuse sulla visita ad Arcore ha scritto: “Mi dicono che sembro arrogante e forse lo sono. Ma se c’è una cosa che proprio non sento come problema è questo: ho sempre avuto una sola parola. E una sola faccia , che non sarà granché, ma che non cambio”.
Rosy Bindi è indispettita, quindi, da un atteggiamento che considera lontanissimo dalla scuola e dalla tradizione di lealtà politica che ha in Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951 al ‘64, il più importante “padre nobile”. Rosy Bindi, addirittura, sospetta che Renzi non disdegni di prepararsi la strada per un futuro politico fuori dai confini del centrosinistra. Ma il sindaco, sempre nella nota di ieri, pare rispondere indirettamente anche a questo sospetto: “A chi mi dice così ti bruci come leader della sinistra, dico che io ho preso l’impegno a fare bene il sindaco di Firenze. Se lo faccio bene, ok. Se lo faccio male, mi brucio. E soprattutto se lo faccio male mi vergogno, che è peggio di bruciarsi, perché tengo alla dignità più che alla mia carriera”.
NEL FRATTEMPO a Firenze esplode un altro caso. Dopo Renzi ad Arcore si discute della sovrintendente del Maggio Fiorentino, Francesca Colombo, che ha preferito essere presente alla prima della Scala piuttosto che a quella del “suo” teatro, subito difesa dal sindaco: “La sovrintendente del Maggio ha fatto benissimo ad andare alla prima della Scala. È stata una scelta che abbiamo preso insieme”. Valdo Spini, l’ex ministro ora consigliere comunale della “sinistra” d’opposizione, critica il sindaco su questa scelta, perché “un capitano non abbandona mai la nave, e la sovrintendente Francesca Colombo ha sbagliato a non essere presente alla prima del Maggio”.

il Fatto 10.12.10
“Una vergogna i sindaco, un fighetto che lavora solo per la sua setta”
Lo sfogo del destrissimo Buttafuoco: “Ormai è spacciato”
di Beatrice Borromeo


Il più arrabbiato per la parentopoli del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è uno che nell’efficacia della destra sociale al potere ci aveva davvero creduto, prima di vedere come è stata gestita la Capitale in questi due anni e mezzo: Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista di Panorama, cresciuto da irregolare tra le file del Movimento sociale e il Secolo d’Italia. “Sono deluso come uno che scopre violenze terrificanti dentro casa sua e si chiede: e io, povero fesso?”.
Buttafuoco, i numeri sono da ufficio di collocamento: 854 assunti all’Atac e 1400 all’Ama da quando Alemanno ha vinto le elezioni.
È tipico della sua cultura che ha radici settarie. È la vergogna dell’Alemannismo, anzi la vergognissima.
Si aspettava qualcosa di diverso?
Hanno cercato di farsi demo-cristiani a suon di clientele familistiche. Non ci sono giustificazioni, a maggior ragione per chi è cresciuto in questo mondo. Chissà come starà soffrendo Pino Rauti.Anche quella destra, quindi, al potere si è comportata come tutti gli altri.
Eppure erano quelli che mordevano la realtà, che andavano sui marciapiedi, ma per altre storie.
Come reagisce, secondo lei, la base elettorale di Alemanno a questa politica delle clientele?
Non esiste più un’area culturale di riferimento. Gli attivisti del Movimento sociale non votano più per nessuno.
Neanche lei?
No.
Ma che destra era quella da cui viene Alemanno?
La destra sociale è solo un artificio, non c’entra col conservatorismo né col moderatismo: è una dottrina politica che nasce nel solco del Novecento e che ha avuto una sua ragione d’essere nella militanza in favore del popolo e delle sue priorità. L’idea di farne una destra arriva a posteriori, è posticcia.
Era poco destra e molto sociale.
Per dirla con Antonio Pennacchi, è stata un’esperienza politica assolutamente di sinistra. Fondata sull’emancipazione, la tutela dei lavoratori e l’idea di dare un futuro a chi aveva difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella società italiana.
Esiste ancora questa visione ?
Solo in certe analisi di Gianni De Michelis o di Massimo Fini, nelle pagine di Pennacchi, nelle atmosfere di qualche ambiente. Ma è un mondo che è finito nel secolo scorso, che forse sopravvive da qualche parte fuori dal perimetro europeo.
Un bel cambiamento rispetto alla parentopoli di oggi?
Già. Non è certamente il Movimento sociale di Beppe Niccolai, né quello di Giorgio Al-mirante e tantomeno di Pino Rauti.
Hanno piazzato figli, nipoti, mogli e persino una ex cubista nelle municipalizzate.
Tipico. Si sono ritrovati fra le mani un giocattolo che è diventato l’arma con cui si stanno massacrando.
Colpa dell’influenza berlusconiana del bunga bunga?
No, assolutamente. Si fanno del male da soli.
Qual è la differenza tra Alemanno e l’altro uomo di destra che ha guidato il Lazio, Francesco Storace?
Storace non aveva la tribù, è più simpatico, più ruspante. Alemanno si è infighettito parecchio e i suoi uomini sono sempre stati settari... Chissà ora quanti anatemi mi lanceranno.
Qual è stato l’errore più grande di Alemanno?
Il sindaco di Roma deve fare il sindaco di Roma. Invece che fa? Politica: costruisce il suo gruppo, piazza i suoi uomini, coltiva il suo giardino di consensi. Avrebbe dovuto occuparsi delle strade, delle buche, del traffico.
Chiudere le buche porta più consensi di qualche centinaio di assunzioni?
Certo! Ma Gianni si ubriaca facilmente: è bastato che gli arrivasse all’orecchio che forse il Cavaliere voleva lui come erede. O che i delusi di Fini intasassero i centralini del municipio urlando “Gianni aiutaci tu”. E la fine risulta imbarazzante. È diventato un interventista politico, politiche-se e politicuzzo. Flavio Tosi, per dire, è un sindaco di tutt’altro livello.
Cadono già le prime teste, come quella del capo-scorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli.
Marinelli è stato un vero signore ad andarsene. Ma sono altri che si devono dimettere.
Cioè Alemanno?
Certo. Marinelli gli ha dato una bella lezione. Ma io, che amo molto i retroscena, sono convinto che dietro questa operazione si debba temere un’aggressione più dall’interno che dall'esterno.
Complottista.
No, hanno fatto tutto da soli. Ma c’è chi è pronto ad approfittarne.
Facciamo i nomi.
L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Aspetta in un angolo, con l’acquolina in bocca, immaginandosi già la campagna elettorale come prossimo sindaco di Roma. Ho notato strane mobilitazioni. È nell’aria: non può stare con le mani in mano.
E chi lo dice?
Se ne parla negli ambienti di città, dove ci si annusa, ci si cerca, ci si dà appuntamento: dove si decidono le cose più concrete.
Quindi Alemanno è considerato spacciato?
Ha preso una brutta botta. Pari all’appartamento di Montecarlo di Fini.
Qui i favori ai parenti sono molti di più.
Lo dico col cuore, è una vergogna totale. Dalla casa di Montecarlo, alle suocere in Rai, a Parentopoli sono colpi durissimi. Ti hanno levato un mondo, un partito. Con chi ne parli? Cosa fai? È fi-ni-ta!
Ma Fini potrebbe ancora intercettare i delusi?
Sì, se intende Massimo. È l’unico Fini che riconosciamo. Gianfranco no.

l’Unità 10.12.10
La fecondazione il Nobel e l’anatema
Oggi la consegna del Premio a Edwards
di Maurizio Mori


Il Nobel per la medicina che oggi viene consegnato a Bob Edwards è il sigillo che la scienza considera la scoperta della fecondazione in vitro una delle tappe fondamentali per il progresso della civiltà. Il Vaticano, invece, già dal 1986 ha condannato la fecondazione assistita con la Istruzione Donum Vitae, ed ora, all’annuncio del conferimento ad Edwards del più alto riconoscimento scientifico, ha protestato osservando che si è trattata di una scelta ideologica dal momento che la scoperta di Edwards avrebbe favorito «l’indebolimento della dignità della persona umana».
Il contrasto non è da poco. In primis perché impedisce di vedere che la fecondazione in vitro non è tanto o solo una “terapia della sterilità”, ma è piuttosto una tecnica che amplia enormemente il controllo sulla riproduzione umana, aprendo nuovi orizzonti alle scelte generative. È una nuova forma di riproduzione che consente per esempio di estendere la capacità riproduttiva della donna anche dopo la menopausa o di operare la diagnosi pre-impianto. Grazie ad Edwards è aumentata la libertà di scelta delle persone circa le modalità di trasmissione della vita.
Si obietta che non di autentica libertà si tratta, ma di arbitrio, perché la vera libertà si esercita seguendo i binari stabiliti dalla natura, per la quale «i figli devono essere il risultato di un atto d’amore non di un atto medico». Questo perché «la vita umana è sacra perché fin dal suo inizio comporta “l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore» (Donum Vitae). La fecondazione in vitro profanerebbe la sacralità della generazione umana perché «solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio».
Emerge così che la radice del contrasto tra scienza e teologia cattolica è sempre la stessa. Come Galileo è stato condannato perché, scoprendo col cannocchiale che la Luna è un corpo celeste come la Terra, ha tolto sacralità al cosmo operando la secolarizzazione come disincanto circa il mondo astronomico, così Bob Edwards viene oggi criticato e ostacolato perché, rendendo accessibile e controllabile il processo riproduttivo umano, ha proseguito l’opera di secolarizzazione come disincanto circa il mondo della generazione umana e spogliato l’inizio della vita umana della sacralità in cui era avvolta. Come Galileo fu criticato in base al «Fermati o Sole!» (Gs. 10,12), così Edwards viene criticato in base al «i due saranno una sola carne» (Gn. 2, 24). La condanna della scoperta di Edwards è una riedizione in piccolo del più celebre processo a Galileo, ma le conseguenze non sono meno dure e nefaste, come mostra la ben nota legge 40.

Corriere della Sera 10.12.10
La voce della solidarietà israelo-palestinese
di Ian Buruma


Da oltre un anno, ogni venerdì pomeriggio, centinaia di ebrei israeliani si raccolgono all’imbrunire in una piazzetta polverosa, nel cuore del quartiere arabo di Gerusalemme. Vi sono anche alcuni palestinesi, compresi un paio di ragazzi che vendono spremute d’arancia. La gente nel quartiere di Sheik Jarrah si raduna per protestare contro lo sfratto delle famiglie palestinesi costrette ad abbandonare le loro abitazioni per lasciar spazio agli insediamenti israeliani. Questi sgomberi forzosi sono umilianti, talvolta vessatori, e terrorizzano le altre famiglie. Gli studenti israeliani sono stati i primi a organizzare la protesta, conosciuta come Movimento di Solidarietà Sheik Jarrah. Poi si sono aggiunti anche professori rinomati, celebri scrittori, ex magistrati.Sulle prime, la polizia ha fatto ricorso alla forza per disperdere i manifestanti, benché tali proteste siano perfettamente legittime in Israele. Ma tale è stato il clamore che la polizia ha dovuto fare marcia indietro, pur mantenendo i posti di blocco. Ai manifestanti non resta che agitare cartelli, picchiare sui tamburi, cantare slogan e dimostrare la solidarietà con la semplice presenza.
I retroscena di questi sgomberi non sono chiari. È vero che alcuni ebrei vivevano nel quartiere prima di esserne scacciati nel corso della guerra per l’indipendenza di Israele nel 1948. Ma un numero assai maggiore di palestinesi è stato spodestato della propria abitazione in diversi settori di Gerusalemme ovest, per trasferirsi successivamente in zone come Sheik Jarrah sotto la giurisdizione giordana, finché gli israeliani non si sono impadroniti anche di Gerusalemme est nel 1967. I palestinesi sono stati lasciati in pace, nella maggior parte dei casi, fino a qualche anno fa, quando gli ebrei hanno cominciato a rivendicare il possesso delle proprietà alienate nel ’48. Tuttavia, i palestinesi che volessero fare altrettanto per le loro case a Gerusalemme ovest, oggi non possono. (...)
Sheik Jarrah, però, non rappresenta il caso peggiore. Altri quartieri palestinesi a Gerusalemme si ritrovano tagliati fuori dal resto della città dal cosiddetto «muro di sicurezza», il che significa che gli abitanti, pur soggetti alle imposte comunali, non godono di alcun servizio pubblico. (...) La situazione è di gran lunga peggiore in località più distanti, nelle cittadine come Hebron, dove i coloni israeliani si comportano spesso da pistoleri del Far West, e — infischiandosene delle leggi del loro stesso Paese — scacciano i palestinesi, tagliando i loro alberi, avvelenando il bestiame, o escogitando altre forme di angherie e vessazioni. (...)
Lo scopo finale, a quanto pare, è quello di rendere ebraica tutta Gerusalemme, facendo leva sia sulle acquisizioni che sulle rivendicazioni storiche e, se necessario, senza escludere il ricorso alla forza. Tale spinta è talmente sistematica, e appoggiata all’unanimità dal governo, che ben poche sono le speranze che uno sparuto manipolo di manifestanti, per quanto rinomati, riesca a fermarla. Che la protesta sia un semplice spreco di tempo? Oppure una sorta di ricevimento radical-chic? Un signore palestinese non la pensa così. Oggi vive a poche strade di distanza dal punto dove si raduna il corteo. «Se non fosse per la vostra presenza», mi dice con un sorriso ottimistico, «sarebbe la fine per tutti noi». Forse si aspetta chissà che cosa, ma non c’è dubbio che la solidarietà ebraica contribuisca a far sentire meno soli i palestinesi. Anche perché a loro non è consentito protestare, pena la perdita del prezioso permesso di residenza in città.
Esiste un’altra ragione per far sentire la propria voce: perché è nell’interesse di Israele. Le contestazioni contro le imposizioni del governo, o la resistenza civile, ben di rado hanno effetti immediati e tangibili. Sotto le dittature, rischiano di essere addirittura controproducenti, perché scatenano rappresaglie feroci, specie nel caso della lotta armata. Ma Israele non è una dittatura, bensì l’unica vera democrazia del Medio Oriente. Malgrado i problemi di segregazione, discriminazione, tensioni etniche e religiose, Gerusalemme rimane l’ultima città davvero diversa nella grande regione mediorientale. Oggi ben pochi ebrei sono rimasti a vivere in città come Teheran, Damasco o il Cairo, mentre la popolazione araba di Gerusalemme ammonta al 36% ed è in costante crescita.
Israele è poi costretto a difendersi inoltre dalla tenace ostilità degli arabi. Ma l’umiliazione sistematica dei palestinesi, quando si dà mano libera ai coloni anche nel caso dei peggiori abusi, ha un effetto corrosivo sulla società israeliana. La cittadinanza si è abituata ad assistere a episodi di brutalità ingiustificata ai danni di una minoranza, e non ci fa più caso. Anche se la maggior parte degli israeliani non vede mai un posto di blocco o il muro di sicurezza, né la gente che viene estratta con la forza dalle case, l’abitudine a girarsi dall’altra parte, a far finta di non sapere, è già una forma di corruzione.
Ecco perché le proteste del venerdì sera, per quanto inefficaci nel breve termine, svolgono un ruolo essenziale. Questa dimostrazione di solidarietà è la voce della società civile di Israele, che mantiene vivo il senso di giustizia e la speranza in una società migliore, sia per i palestinesi che per gli stessi israeliani.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 10.12.10
Il bambino costretto a diventare italiano
Peripezie di un triestino sloveno: dagli studi liceali in seminario alla maturità presa sotto le bombe
di Boris Pahor


L’importanza delle lingue Nel lager alsaziano riuscii a salvarmi soltanto perché conoscevo il tedesco, avevo studiato anche il francese e me la cavavo con russo e polacco
Il poeta perseguitato Dedicai la mia tesi a Edvard Kocbek che era stato osteggiato dai fascisti e poi fu attaccato anche dai comunisti perché ne aveva denunciato i delitti
Da giovane mi è capitato di essere studente senza esserlo. Tutto comincia quando fummo improvvisamente costretti a diventare italiani. Dopo quattro classi di scuola slovena e senza capirne il motivo, in quinta elementare, ci viene imposto di cambiare lingua, di scrivere, parlare e pensare in italiano; cambiare lingua però non bastava: bisogna «diventare» italiani. Mi viene imposto di cambiare il mio essere, di annullare la mia identità. Mio padre mi iscrive all’istituto commerciale, e per due anni di seguito vengo bocciato. Non era un problema di intelligenza: ero come bloccato, forse perché ero stato costretto a diventare italiano e non capivo come questo fosse possibile. Mi chiedo: «Come faccio a diventare un altro?».
Esercitazione in uniforme in una scuola di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (1930) e, a destra, la copertina di un quaderno di un balilla (banca dati Indire)
Per fortuna qualcuno pensa di mandarmi in seminario; vado così a Capodistria, Koper, dove finalmente riesco a spiegarmi il motivo del mio malessere: vengo infatti a sapere che l’Italia, già nel 1918, aveva conquistato un pezzo dell’entroterra della Slovenia e che Mussolini pensava di annetterne un altro, come poi effettivamente accade nel 1941. Finalmente, comunque, sono contento, perché almeno adesso capisco: in apparenza dobbiamo essere fedeli — esteriormente italiani — per poter essere promossi. Prendo in questo modo coscienza della doppiezza della mia identità, che diventerà una costante della mia vita. Insieme ad altri che si trovano nella mia stessa condizione cerchiamo di mantenere nell’intimo la nostra identità di sloveni, trovandoci nelle gite in montagna, durante le vacanze; dato che la gran parte dei libri in sloveno che si trovano nelle biblioteche sono stati bruciati, li cerchiamo dai privati, li studiamo di nascosto facendoli passare per la frontiera di contrabbando, come le sigarette. Prendendo atto di questa situazione, anche il mio rendimento cambia e vengo promosso con ottimi voti alla maturità: l’unica insufficienza era in tedesco. «Ma come — mi dicevo — mi proibiscono di essere sloveno, devo diventare italiano e adesso devo pure imparare il tedesco: una lingua non nostra, bensì di un popolo che per secoli ci ha sottomessi?». Guai però se non lo avessi studiato! Capire il tedesco è stato di vitale importanza per la mia sopravvivenza nei campi di concentramento in Germania.
Passano intanto due anni e Mussolini, capendo che doveva avere la Chiesa dalla sua parte, riesce a stringere un patto con la Santa Sede, annullando così le forti tensioni che si trascinavano fin dal 1870, quando Roma era stata liberata dal potere temporale del Papa. Si poteva perciò anche comprendere che il Duce fosse visto come «mandato dalla Provvidenza». Il Vaticano si trova sottomesso al regime, che adesso comanda anche in chiesa, e così le funzioni religiose devono essere in italiano o in tedesco. I nostri sacerdoti, che sono in minoranza, si trovano in grossa difficoltà: vengono allontanati, mandati via. Una situazione brutta: anche se mi sento un traditore, decido di lasciare i miei compagni di seminario, che vanno in chiesa a lottare contro il fascismo.
Lasciando il seminario non sono più dispensato dal servizio militare: ormai ho 27 anni, ma vengo mandato in Libia, dove c’è la guerra. Si spara, si bombarda; la cosa interessante però è che durante quell’anno di guerra ho fatto tutto il necessario per affrontare l’esame di Stato. Sì perché, pur avendo conseguito la maturità in seminario, questa non era riconosciuta dallo Stato e dunque non valeva niente.
Porto con me tutti i libri, sperando di riuscire a fare l’esame a Tripoli; arriva invece l’ordine di imbarcarci per andare prima a Bengasi, poi fino al confine egiziano. Appena raggiunta Derna, un villaggio vicino al confine, arriva l’ordine di consentire a chi vuol fare l’esame di maturità il ritorno a Bengasi, che non era certo vicina! Bisogna fare l’autostop e tutta la strada a ritroso. Per mia gran fortuna, però, l’esame viene rinviato di 15 giorni. Pensate: di notte, per scampare ai bombardamenti, ci rifugiavamo sotto la Banca d’Italia lì vicino, lungo il mare, e di giorno andavamo fuori a dare gli orali. Nel 1941 insomma, mentre cadono le bombe delle incursioni alleate, io riesco finalmente a dare l’esame di maturità classica.
Intanto Bengasi viene circondata dagli inglesi e io, che sono ammalato al fegato, vengo imbarcato su una nave ospedale. Il primo anno sotto le armi era trascorso, e con il diploma di maturità decido di iscrivermi alla facoltà di lettere a Padova. Una volta guarito torno a Cremona, dove c’è il mio reggimento, e scopro che sul lago di Garda c’è bisogno di un interprete ufficiale di serbo-croato per i prigionieri di guerra jugoslavi. Chiedo così di essere trasferito sul Garda: all’università avevo infatti studiato il serbo-croato con Arturo Cronia, professore di slavistica, sostenendo due esami. Dal 1941, fino a parte del 1943, faccio dunque l’interprete al seguito di 150 ufficiali jugoslavi prigionieri di guerra, tre dei quali sloveni. Sono anni tranquilli ed è da qui che inizia davvero il mio rapporto con Padova. Come ho già detto, mi iscrivo all’università, a dire il vero più per accontentare mio padre, che mi voleva con il classico «pezzo di carta» in tasca. Essendo ancora militare non posso frequentare le lezioni ma, grazie a un tenente colonnello, ottengo i permessi per sostenere gli esami.
Se non ci fosse stato l’8 settembre mi sarei laureato; due settimane prima però il Sim (il Servizio informazioni militare) aveva dato l’ordine di mandare via tutti gli interpreti perché non familiarizzassero con i prigionieri. Pensate l’assurdità: dopo tre anni passati come interpreti in continuo contatto con i prigionieri, improvvisamente ci ordinano di andarcene per non fare amicizia con loro! Vengo mandato a Bergamo e in quei giorni apprendiamo dell’armistizio; faccio dunque ritorno a Trieste e qui mi capita la «pegola» («sfortuna» in triestino, ndr) della deportazione, per colpa di alcuni sloveni che collaborano con i tedeschi. Vengo imprigionato e comincia il mio peregrinare tra i vari campi di concentramento: Dachau, Bergen Belsen, Dora; è il 1˚giugno del 1944, partiamo in 600.
I campi come quelli in cui andai e di cui parlo nei miei libri, ad esempio in Necropoli, erano destinati ai deportati politici, erano campi di lavoro; nulla a che vedere con quelli in cui si compirono le stragi degli ebrei. Si doveva lavorare e di ebrei ce n’erano ben pochi, restavano solo quelli sani; non c’erano forni crematori né camere a gas, si moriva per lo più per le malattie, tifo o dissenteria. Se non si riusciva a guarire e non si era più in grado di lavorare, non si riceveva più da mangiare e, se non si moriva di stenti, si veniva mandati nei campi come Auschwitz, con le camere a gas. La mia prima meta è Dachau, poi mi portano in Alsazia, presso un campo in montagna sui Vosgi, a 50 km da Strasburgo (Natzweilwer, ndr), che è stato mantenuto ancor oggi come «Centro europeo del deportato resistente».
I miei studi universitari, in particolare due esami di lingua e letteratura francese, mi tornano in questo frangente molto utili: li avevo sostenuti con Diego Valeri, un poeta davvero in gamba, non come quelli di oggi, che non si capiscono e per i quali ci vuole l’interprete! Un giorno, a seguito di un’epidemia di tifo, dobbiamo sgomberare una baracca e ho la fortuna di conoscere un ufficiale francese prigioniero di nome Jean, con il quale mi arrangio a parlare, grazie appunto all’esame sostenuto con Valeri. Jean si stupisce molto di come io riesca comprenderlo e a comunicare. All’inizio, vedendo la «I» sulla giacca, pensa che io sia italiano; quando però gli spiego che sono italiano solo di cittadinanza, da un punto di vista politico insom- ma, ma che all’interno delle mura di casa mia, dove posso, sono sloveno, mi chiede se capisco anche il russo, il polacco e il ceco. Trattandosi di lingue slave con radici simili, le capivo certo meglio di lui. Dovete sapere che in questi campi di lavoro c’erano degli ospedali, anche molto ben strutturati, dove si effettuavano soprattutto operazioni chirurgiche. Molti medici, anche prigionieri e di diverse nazionalità, dovevano intervenire sui feriti. Jean capisce subito che la mia conoscenza delle lingue è preziosa e così corre al comando e mi propone come interprete. In particolare divento interprete di un medico norvegese, deportato come me, che non conosceva né l’italiano, né il francese, né il polacco, né il russo. Adesso potete capire perché la conoscenza del francese e di Jean mi hanno salvato la vita!
Nel momento in cui arrivano i liberatori in Alsazia, vengo mandato con gli altri di nuovo a Dachau, poi portato dalle SS a Dora, dove venivano costruiti i missili. A Dora incontro alcuni sloveni che mi conoscono, perché avevo già iniziato a scrivere qualcosa: poiché lì ero ancora una volta una nullità, mi fanno diventare infermiere. Durante l’arrivo dell’armata sovietica da una parte e di quella occidentale dall’altra, i tedeschi cominciano a svuotare diversi campi. Iniziano così veri e propri «viaggi della morte» su treni di 40 vagoni, che avevano principalmente come destinazione Bergen Belsen, il campo dove morì anche Anna Frank.
Si trattava di un campo destinato a chi doveva morire: qui venivano mandati i deportati che erano troppo malati e questo permetteva che altri campi rimanessero più «puliti». Ed è proprio qui che gli inglesi mi liberano: malato di tisi, con due amici francesi, un po’ a piedi e un po’ in autostop, arrivo in Olanda e da qui, su un treno pulitissimo e fra mille attenzioni, a Parigi. Vengo mandato in sanatorio, restandovi un anno e mezzo, e riprendo lo studio della lingua e della letteratura francese, disteso tutto il giorno al sole su una sedia a sdraio. È un ritorno alla vita ed è in quel periodo che nasce il mio amore per Parigi e la Francia.
Quando torno a Trieste decido di cominciare a lavorare sulla tesi. Inizialmente mi rivolgo al professor Valeri, il quale però mi dice che molto del materiale necessario si trova in Germania. Figuratevi se, appena tornato dai campi di concentramento, avevo intenzione di tornarci! Non avevo voglia di avere a che fare con nulla di tedesco. Di conseguenza sono costretto a cambiare i miei piani, scegliendo il professore di slavistica Arturo Cronia; era un croato italianizzato, iscritto — come tutti d’altronde — al partito fascista, ma era comunque un uomo di larghe vedute: molti infatti erano gli sloveni di Trieste che si laureavano con lui, scegliendo un argomento di letteratura slovena.
Scelsi il poeta Kocbek: lo consideravo un amico, anche se ci conoscevamo solo per lettera; era già famoso, avendo scritto un’opera intitolata Zemlja, «Terra». Arrivo alla laurea, come già detto, più che altro per fare un favore a mio padre che ci teneva tanto, e decido che la mia tesi deve avere un’impronta polemica: la sinistra diceva che Kocbek fosse un autore legato alla tradizione cattolica, ai simboli religiosi, all’espressionismo. Io al contrario sostengo che non è affatto così, che anzi si tratta di un precursore del neorealismo. Il professore mi dà carta bianca e finalmente un anno dopo il mio ritorno a Trieste, nel settembre del 1947, a 34 anni, mi laureo.
Kocbek è un grande poeta; purtroppo è poco conosciuto in Italia, benché sia stata tradotta una sua opera: Compagnia. Ha avuto una sorte infausta pagando, come è successo ad altri letterati, lo scotto di essere inviso prima ai fascisti e poi ai comunisti. Istigato anche da me, Kocbek rende noto l’eccidio ingiustificato di decine di migliaia di prigionieri avvenuto subito dopo la guerra ad opera dei comunisti. Viene «condannato» così non solo dal governo di Belgrado ma anche dagli altri Paesi che considerano in modo positivo la Jugoslavia, trattandosi di un Paese non allineato. Per il suo valore Kocbek meriterebbe di essere rivalutato: io, nel mio piccolo, ci ho provato.

Corriere della Sera 10.12.10
Modigliani La pietra e l’anima
Il fascino misterioso delle opere scolpite da un artista vittima della sua leggenda


Amava presentarsi a mercanti e collezionisti come scultore ancor più che pittore. Quasi a sottolineare quella vocazione antica nata negli anni giovanili quando era rimasto abbagliato dai marmi inondati di luce di Carrara e dai capolavori dei grandi maestri che aveva ammirato nei suoi viaggi in Toscana, a Roma, a Napoli, a Venezia. Una passione rafforzatasi dopo l’incontro a Parigi con Constantin Brancusi e a cui si era dedicato con impegno straordinario, privilegiando la tecnica del taglio diretto, sbozzando cioè e scolpendo direttamente la materia scultorea, in aperta antitesi alla lezione del modellato di Rodin. Eppure quelle stupefacenti opere, quelle teste, quelle cariatidi realizzate in soli ventiquattro mesi, tra il 1911 e il 1913, sono state a lungo avvolte nel mistero, travolte da quella leggenda di genio e sregolatezza, da quelle fantasticherie e colpi di scena che a lungo hanno segnato l’esistenza e la parabola artistica di Modì.
«È così un racconto nuovo quello a cui questa mostra vuole oggi dar voce», ha dichiarato Gabriella Belli, direttrice del Mart e curatrice dell’evento insieme a Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo. «Un racconto critico di ben altro spessore, nato da lunghe ricerche, da attente ricostruzioni storico artistiche e analisi filologiche che hanno portato anche all’identificazione di tre nuove sculture oltre alle venticinque già catalogate nel 1965 da Ambrogio Ceroni. Se si escludono le due esposizioni curate personalmente da Modigliani, quella del 1911 nello studio di Souza Cardoso e quella del 1912 al Salon d’Automne, la mostra del Mart è la prima al mondo interamente dedicata alla sua vicenda di scultore, la numero zero».
Delle 25 sculture documentate dal Ceroni oggi soltanto di 15 si conosce l’ubicazione: il Mart ne presenta otto, ed è un record perché finora nessuna mostra era riuscita a raccoglierne tante insieme. Tra i capolavori presenti, le due teste di Minneapolis ( mai prestata finora) e di Washington o quella del 1912 proveniente dal Centre Pompidou di Parigi. Un numero ragguardevole per la fragilità della pietra in cui vennero realizzate e che insieme agli studi grafici, agli acquerelli, ai dipinti consente di mettere in luce gli esiti altissimi da lui raggiunti nella ricerca plastica. «Sarà proprio l’esperienza della scultura a trasformare Modigliani da pittore ancora legato a un postimpressionismo d’impronta cézanniana in un grande artista dalle soluzioni assolutamente innovative. Senza la scultura non avrebbe scoperto l’arte moderna, non sarebbe arrivato alla padronanza del segno, alla sintesi, a quella nuova purezza formale così gradita alla Parigi del tempo. Non sarebbe diventato Modigliani», ha sottolineato Flavio Fergonzi. Ed è proprio attraverso la scultura che Modì riuscirà a mettere a punto quell’iconografia fatta di colli allungati, di ovali del volto accentuati, di occhi carichi di profondità e mistero, di quegli archetipi di una bellezza universale senza tempo né luogo che trasporrà anche nei dipinti successivi e che costituiranno il suo originale, personalissimo linguaggio artistico.
Grande merito della mostra è l’aver delineato la mappa delle influenze culturali, dei tanti motivi antichi e moderni che a tale linguaggio contribuirono. I capolavori del Trecento e del Rinascimento italiano (di squisita perfezione, nel suo aristocratico distacco, il busto di Battista Sforza di Francesco Laurana) e quelli di arte egizia, indù, khmer e africana che aveva potuto studiare nelle visite al Louvre, al Guimet, al Trocadéro e che qui sono messi a dialogare, in un confronto di forte impatto, con i suoi lavori. E poi le opere dei contemporanei, scultori come Zadkine, Archipenko e Brancusi, in mostra con Il bacio e Adamo ed Eva, ma anche Picasso, con quel Nudo femminile del 1907 dai tratti che si ritroveranno nelle sculture di Modì.
Ma sarà il progetto delle cariatidi a condurre la ricerca di Modigliani verso ancora più ambiziosi obiettivi: una scultura che si fondesse con la forza, le leggi espressive, l’armonia dell’architettura in un grande insieme decorativo, in un’opera d’arte totale. Un’impresa da risultare quasi impossibile e che contribuirà all’improvviso venir meno, in Modì, di quella passione a cui si era dedicato con febbrile energia. Mentre una stagione creativa si chiudeva, un’altra si apriva nello stesso 1913 sulla scena artistica parigina, quella del giovane Boccioni e delle nuove sperimentazioni plastiche dell’avventura futurista.

Corriere della Sera 10.12.10
L’altra bellezza delle sculture tribali Ecco la madre delle prime avanguardie
Il «colpo di fulmine» degli intellettuali d’inizio ’900 per il primitivismo
di Vincenzo Trione


I conservatori. A paragone con i canoni consolidati dell’impressionismo e dei postimpressionisti, quelle inquietanti testimonianze di un’estetica rivoluzionaria suscitarono timori e angosce

La seduzione Dalle opere africane e oceaniche nasce lo «scandalo» del cubismo, a partire da «Le demoiselles d’Avignon» di Pablo Picasso, incipit dell’arte contemporanea
Questa è una storia di scoperte e di rivelazioni. Comincia a Parigi nei primi anni del Novecento. Esattamente alla fine del 1906, quando il fauve Maurice de Vlaminck, durante una passeggiata sulle rive della Senna, entra nella bottega di un mercante di anticaglie. Lì si imbatte in una serie di strani feticci in legno eseguiti da anonimi creatori dell’Africa francese. «Grotteschi e rozzamente mistici», verranno definiti. Qualche mese più tardi — è l’estate del 1907 — Pablo Picasso è in visita al Musée de l’Homme, al Trocadéro: ricco archivio di icone esotiche. Un incontro che inciderà in maniera determinante su «Les demoiselles d’Avignon», il quadro considerato da molti come l’incipit dell’arte contemporanea.
Parigi, o cara Una rara immagine del Salon d’Automne del 1912, dove Modigliani presentò sette sculture. L’artista aveva già partecipato nel 1907 all’esposizione, organizzata con cadenza annuale a Parigi dal 1903 come alternativa più progressista al Salon ufficiale e ad altri spazi espositivi. Sotto, la sua «Cariatide con vaso», acquerello in arrivo dalla Tate di Londra.
Questi due episodi sono all’origine di quella che Guillaume Apollinaire chiamerà «melanomania e melanofilia». Siamo dinanzi a una vera moda, che contagerà artisti, scrittori, intellettuali, galleristi. In una stagione segnata da forti disagi — gli inizi del XX secolo —, molti avvertono l’esigenza di guardare altrove. Ci si richiama a una espressività sorgiva, incorrotta; a una sapienza riscaldata dal divino; al mito del buon selvaggio. Ci si spinge al di là del recinto protettivo della cultura europea, per misurarsi con il fascino del diverso: si vuole riscoprire quel che non è stato corrotto dalla civiltà. Tra i «melanofili», Blaise Cendrars, che pubblica un’Antologia negra; Ricciotto Canudo, che auspica l’avvento di un nuovo primitivismo; Tristan Tzara, che loda le qualità delle opere «coloniali»; André Breton, che invita i francesi a «negrizzarsi». Fino ad Apollinaire e Picasso, collezionisti di statue e di maschere apotropaiche provenienti dal Gabon, dalla Guinea, dall’Egitto. Sarà proprio Apollinaire ad annotare: «La curiosità, dedicandosi alle sculture d’Africa e d’Oceania, ha trovato un nuovo alimento».
Una curiosità che stimola mercanti come Paul Guillaume. Ma risveglia anche paure segrete. Perché quei «testimoni inquietanti» suscitano timori, angosce, ossessioni. Ma possono anche sedurre. Non si tratta solo di costruzioni dal valore antropologico. Sono «attrezzi» dotati di profonda qualità estetica, che indicano una strada per uscire dagli schemi impressionisti e postimpressionisti. A differenza degli artisti occidentali, quelli esotici non rappresentano le apparenze: di una faccia, ad esempio, ritraggono non ciò che vedono, ma ciò che sanno. Conducono una ricerca esclusivamente plastica. Per sfiorare la struttura nascosta dietro il visibile, compiono semplificazioni estreme. Non inseguono una bellezza simmetrica e classica. Non temono il brutto, inteso come il lato perturbante del bello: esasperano dettagli, sperimentando anamorfosi. Quasi istintivamente, elaborano una poetica della deformazione. Plasmano silhouettes drammaticamente ieratiche, caratterizzate da verticalità, da equilibrio geometrico, da essenzialità volumetrica, da purezza compositiva. Architetture che non rimandano a un asettico calcolo, ma rispondono solo a regole interne. Questo bisogno di riduzione è sempre sorretto da tensione spirituale. Pur privi di consapevolezza artistica, gli scultori negri marcano una netta distanza dal reale, per avviarsi verso un inatteso preconcettualismo. Senza rispettare i principi della verosimiglianza, modellano visi e corpi disarticolati. Liberi da condizionamenti esteriori, non replicano la natura. Vogliono qualificare, come ha ricordato Michel Leiris, le forme, «secondo un movimento (...) che va dall’idea (...) alla figura».
Importanti momenti dell’avanguardia parigina primonovecentesca nascono da qui. Da queste lontane memorie traggono origine gli scandalosi gesti dei cubisti, impegnati a portarsi verso una sorta di realismo analitico. Picasso e Georges Braque pensano l’arte non come racconto, né come descrizione, ma come deformazione, tesa a mettere in rilievo alcune unità linguistiche finite e costanti, prive di riferimenti denotativi. Disarticolano identità, scompongono fisionomie, mandano in frantumi anatomie, propongono smontaggi: raffigurano i volti contemporaneamente, da molteplici punti di vista, da molti lati, secondo angolazioni dissonanti. Dal dialogo con i feticci muoverà anche Amedeo Modigliani, per elaborare un’originale ipotesi di arcaismo moderno: uno stile barbarico e, insieme, elegante. Forse, l’ultima figurazione possibile. Ecco le sue compatte e austere teste: solenni e antichissime. Blocchi di pietra grezza, su cui sono incisi lievi tratti: visi inclinati, con palpebre chiuse, occhi senza pupille, nasi aguzzi. Massi grezzi, da cui affiorano sagome ancora etrusche. Silenti cariatidi, ritagliate nella scabra pietra. Custodiscono una trattenuta sensualità. Ma presentano anche aspetti densi di consonanze con i totem africani. Una monumentalità decostruita, fatta di volti ben definiti ma asimmetrici, di proporzioni alterate, di arti lievemente sconnessi.
Anche Modigliani sogna il Paradiso perduto. Anch’egli è sedotto da una struggente nostalgia per l’infanzia e per la giovinezza. Una nostalgia che, come ha scritto Ernst Gombrich, tende a fondersi «facilmente nella mente dell’uomo con il desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente».

Repubblica 10.12.10
Il narcisismo non è più malattia
Così la psichiatria “scagona” chi ama troppo se stesso
di Massimo Ammaniti


Da Freud in poi lo studio dell´egoismo patologico è stato per anni al centro della psicanalisi
Tra le ragioni del "declassamento" la necessità di più evidenze ma anche interessi corporativi
Seicento esperti riscrivono l´intero sistema diagnostico dei disturbi della personalità. Con qualche novità e molte polemiche

Il narcisismo non è più un disturbo della personalità. Sono 600 psichiatri ad affermarlo, proprio nel momento in cui il fenomeno sembra sempre più diffuso. Nel maggio 2013, infatti, verrà pubblicato il "DSM 5", una sigla che sintetizza il sistema diagnostico più diffuso al mondo in campo psichiatrico. Fin dalla sua prima edizione, del 1952, ha impegnato le migliori menti della disciplina per stabilire quali disturbi psichici includere e quali escludere dalla complessa classificazione. Quest´ultima versione, frutto di un lavoro di anni, ha coinvolto 600 specialisti ed è costata 25 milioni di dollari.
Molti disturbi sono stati eliminati, altri sono stati riformulati secondo nuovi criteri: nel sito dell´American Psychiatric Association si possono leggere le proposte di revisione dei disturbi di personalità che, semplificando, sono stati ridotti da 10 a 5. E mentre è rimasto il disturbo borderline di personalità, è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità. Una scelta che ha scatenato molte polemiche. Sull´American Journal of Psychiatry un gruppo di eminenti psichiatri americani e inglesi, fra cui Otto Kernberg, presidente della Società Psicoanalitica Internazionale, ha scritto che in questo modo non è più rappresentato adeguatamente lo spettro dei disturbi di personalità che si possono osservare.
D´altra parte il disturbo narcisistico di personalità ha ricevuto una minore attenzione nella ricerca clinica di questi anni: non è facile riconoscere "campioni" con caratteristiche generali anche perché non si dispone di metodi di indagine adeguati. A questo punto il clinico che tratta questi pazienti nel proprio studio non avrebbe un riferimento diagnostico a cui rifarsi. Ma resta importante chiedersi perché il disturbo narcisistico di personalità sia stato escluso nonostante il narcisismo patologico abbia rappresentato per molti decenni un tema centrale nel pensiero psicoanalitico fin dal saggio di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo. Freud aveva messo in luce che il narcisismo, ossia l´investimento e l´amore per sé, permea la nostra vita quotidiana dall´amore dei genitori per il proprio figlio all´amore sentimentale fino alle preoccupazioni ipocondriache per la propria salute.
Nel corso degli anni il concetto di narcisismo ha assunto anche una dimensione sociale, riflettendo orientamenti e comportamenti quotidiani descritti dal sociologo americano Christopher Lasch nel suo famoso libro La cultura del narcisismo, del 1979. Lasch parlando della società americana di allora raccontava come si fossero affermati, con la caduta delle grandi ideologie, modelli di individualismo esasperato che spingevano verso le pratiche di autocoscienza o verso il culto del proprio corpo o verso la liberalizzazione sessuale, per sconfiggere le paure e le ossessioni della vecchiaia e della morte. Il libro di Lasch aveva anticipato tendenze che si sono via via affermate nel mondo occidentale, basti pensare alla pratica di Facebook attraverso cui ci si presenta agli occhi degli altri per confessarsi e ottenere conferme in un intreccio infinito che esalta la propria individualità.
Era questo il contesto in cui ha preso corpo il concetto di narcisismo patologico, caratterizzato da un senso grandioso di sé e dal costante bisogno di conferme da parte degli altri. Inevitabilmente la vita emotiva dei narcisisti è particolarmente povera e superficiale, con un bisogno di costanti rassicurazioni e una incapacità a provare empatia per gli altri, soprattutto per le loro sofferenze. Se il narcisismo è divenuto la coloritura fondamentale della vita quotidiana sfuma il confine fra normalità e patologia. È così diffuso nei comportamenti di tutti i giorni da divenire una costante della personalità umana, secondo l´affermazione dello psicoanalista americano Heinz Kohut. Il termine narcisista, poi, fa parte del lessico comune non solo negli scambi quotidiani con gli altri, ma anche per descrivere i comportamenti di molti governanti, presi solo dai propri interessi ed egoismi. Togliendo il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni psichiatriche non si verrebbe inevitabilmente a sancire la normalità dei comportamenti dei politici e a giustificarli?
Non credo che queste considerazioni abbiano influenzato la task force che si è occupata dei disturbi di personalità. E allora in base a quali criteri è stata costruita la nuova classificazione? In primo luogo il panorama della ricerca psichiatrica è in rapida evoluzione, studi in campo genetico e neurobiologico stanno ridisegnando i confini dei disturbi psichici e allo stesso tempo occorrono evidenze forti per stabilire che un disturbo realmente esista. Rileggendo i casi clinici di Freud, ad esempio quelli di isteria, difficilmente si potrebbe fare oggi la stessa diagnosi di allora. E poi le scuole psichiatriche più prestigiose, soprattutto americane, vogliono ottenere un adeguato riconoscimento nella nuova classificazione del DSM. Dalla prima edizione si è verificato un profondo cambiamento del paradigma scientifico, da un modello psicoanalitico dominante negli anni ´50 a un approccio basato sulle evidenze, per cui una sindrome clinica, al pari delle malattie internistiche, può essere riconosciuta solo con indagini effettuate nella popolazione generale oppure in gruppi selezionati di pazienti che si rivolgono ai servizi psichiatrici.
Anche altre ragioni, meno scientifiche, pesano sulle decisioni di includere o escludere un disturbo, ad esempio il ruolo delle società di assicurazione americane che coprono le spese psichiatriche dei propri assistiti. Se si amplia troppo l´ambito dei disturbi psichici le assicurazioni dovrebbero affrontare costi crescenti. Infine vi è il ruolo ancora più importante delle industrie farmaceutiche. Qui l´interesse è esattamente il contrario, ossia allargare sempre di più l´ambito delle persone che fanno uso di psicofarmaci. Se la psichiatria dilata la definizione dei disturbi psichici la potenziale utenza può ampliarsi a dismisura, basti pensare che le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate in Gran Bretagna del 171% nel decennio 1991-2001, dice il Department of Health. È probabile che l´approccio farmacologico abbia influenzato anche la revisione nel DSM 5 dei disturbi di personalità. Nella nuova proposta rimane il disturbo borderline di personalità che viene curato con prolungati trattamenti farmacologici, mentre è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità, per cui venivano consigliati trattamenti psicoterapici. Ma forse il mondo sta cambiando: il narcisismo non solo aiuta a vivere, può addirittura, se assume un carattere di grandiosità personale, predisporre verso una carriera politica.

l’Unità 10.12.10
Il bambino con le braccia all’aria
La storia di Paolo corre quasi parallela alla lunga lotta di Franco Basaglia per rinnovare la psichiatria. A raccontarla è il fratello Carlo, dalle prime stranezze al progredire della malattia, in un libro capace di commuovere e di indignare
di Oreste Pivetta


Paolo rivela appena ragazzo la sua diversità, all’inizio ovviamente in modi lievi, a tratti, a tratti recuperando la sua normalità, manifestando là dove ci si attende che lo faccia, cioè a scuola, la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua diligenza. Paolo cammina «con le braccia larghe», con le braccia all’aria come volesse prendere il volo, liberarsi: è il primo sintomo di una precarietà e dà il senso di un bisogno ma anche di una disponibilità. È il fratello Carlo che osserva quel particolare modo di incedere di Paolo: «Il giorno in cui mi accorsi che Paolo camminava tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo, rimasi più che altro sorpreso. Non capivo se era un gioco o qualcosa di più misterioso. Avevo allora nove anni e mio fratello ne aveva uno e due mesi di più...». È il fratello Carlo che ricorda e che la vicenda di Paolo ha raccontato in un libro, Il bambino con le braccia larghe (edito da Ediesse), titolo splendido per un libro bello, intenso, capace di commuovere e di indignare, e l’ha scritto con semplicità, senza retorica, cronista di due vite accanto, la sua di felice padre di famiglia e quella di Paolo, sofferenza continua sino alla morte, un anno fa. Carlo Gnetti è giornalista, lavora per Rassegna sindacale, il settimanale della Cgil, è autore di molti saggi.
Carlo e Paolo sono figli di una famiglia che gode di qualche benessere economico, il padre ufficiale della marina militare (diventerà ammiraglio), medaglia d’oro per aver condotto in salvo tutto l’equipaggio della sua nave affondata in un episodio di guerra, la madre donna religiosa, con aspirazioni di cultura. Vivono tra Portoferraio, Spezia, Portovenere, Lerici, i luoghi d’origine della famiglia, La Maddalena, Napoli, i porti dove il padre marinaio viene via via trasferito per servizio, e infine Roma. Un’infanzia lieta – siamo tra i Cinquanta e i Sessanta , ci sono anche due sorelle, la scuola, i giochi, gli amici, le vacanze, le prime gite in macchina, stipati nella Millecento verde. E poi il mare e le navi, che resteranno sempre nella fantasia di Paolo. Finché appunto, dopo le prime stranezze, s’avverte il progredire della malattia. A quel punto la vita di Paolo e dei suoi, dei genitori e del fratello, diventa una peregrinazione alla ricerca di una soluzione, che è difficile definire: guarigione è una chimera, alleviare la pena è una speranza, come è una speranza condividere la sofferenza o sentire attorno a sé aiuto. Si comincia con la psicoanalista, che «scopre» le colpe dei genitori e poi rimanda ad altri, si continua con gli psichiatri, si conosce il manicomio, si passa dalle case di cura private, si prova la comunità, si precipita nel pozzo degli psicofarmaci... rare voci fraterne, alcuni esperimenti coraggiosi quando il coraggio supplisce alla povertà delle risorse, soprattutto indifferenza, superficialità, ignoranza (anche dei primari) fino alla brutalità e lo scandalo di una sanità consegnata alla speculazione. L’incontro obbligato con le cliniche psichiatriche romane è un itinerario infernale tra squallore, abbandono, insipienza, violenza: il malato non si sa difendere. Carlo s’illumina d’entusiasmo quando un giovane psichiatra (che non rivedrà più, presto allontanato) gli dirà che i medici non possono «mettere le esigenze degli infermieri davanti a quelle dei pazienti». Sembra Basaglia, quando denunciava nel manicomio una struttura burocratica organizzata a sua difesa e per la sua prosperità sulle spalle dei malati. Anche Carlo Gnetti cita Basaglia. Per ragioni storiche. La vicenda di Paolo corre quasi parallela alla lunga, contrastata lotta di Franco Basaglia e di tanti come lui per rinnovare in Italia la psichiatria, cominciando dalla cancellazione dei manicomi e dalla costruzione di una rete di servizi, che potesse aiutare il malato se non a guarire almeno a ridurre il danno per sé, contro l’emarginazione, l’esclusione, strutture adatte all’assistenza a tempo pieno e a lungo termine, il più possibile umane, il più possibile orientate sulla terapia e sul recupero sociale. Questo doveva consentire la legge 180, la cosiddetta legge Basaglia, approvata nel 1978, come ci ricorda Carlo Gnetti: una legge rimasta in sospeso, applicata male e tardi, peggio in alcune regioni, meglio in altre, rimessa in discussione infinite volte, contestata dalle stesse famiglie che si sono ritrovati a casa i malati. Carlo Gnetti non è tra i critici: riferisce la sua odissea e nel riferire documenta una pessima applicazione che riconduce il malato all’oscurità dei manicomi (tali sono quelle costose e pompose cliniche private, dove capita che un urologo faccia il direttore psichiatrico e dove l’unica terapia è la dose quotidiana, sempre più alta, di psicofarmaci) e che lascia i parenti (e pochi altri volonterosi con loro) alla solitudine e all’impotenza di fronte al dissesto della mente, il mistero che non possono comprendere. Siamo di fronte a una storia familiare che «materializza» condizioni e responsabilità collettive, il peso di una riforma mancata, di una sanità che s’affida al mercato, di una marcia a ritroso nella civiltà, e che rappresenta la tragedia di una società che continua a escludere e che lascia prosperare alcuni sull’esclusione di altri, i più deboli tra tutti, come possono essere Paolo e gli altri.