mercoledì 17 novembre 2010

Repubblica 17.11.10
La giustizia negata
di Adriano Prosperi


Per la strage di Piazza della Loggia non ci sono colpevoli. Dopo due anni di dibattimenti e una lunghissima serie di udienze con una interminabile sfilata di testimoni, i giudici della Corte d´Assise di Brescia hanno mandato assolti i cinque imputati.
Erano il generale dei carabinieri Francesco Delfino, l´ex deputato, senatore e segretario dell´Msi Pino Rauti, il medico Carlo Maria Maggi, l´imprenditore Delfo Zorzi, l´ex militante missino e informatore del Sid Maurizio Tramonte, detto in codice «Tritone». Leggiamo allibiti e increduli la notizia. Chissà quanti giovani oggi saprebbero dire di che cosa si parla quando si ricorda quella strage del 28 maggio 1974. Da allora il nome di Piazza della Loggia è entrato nella mappa italiana della politica del terrore.
Quel giorno ci fu in quella bellissima piazza di Brescia una manifestazione pacifica per reagire alla violenza fascista. Andare in piazza era una reazione istintiva alle trame occulte di forze invisibili che volevano uccidere con le stragi il diritto e la voglia di fare politica. Scoppiò una bomba, morirono otto persone, ci furono più di cento feriti. Il sangue fu ripulito subito e, con singolare sollecitudine, si fecero scomparire i detriti della bomba. Lo ricordava su questo giornale Benedetta Tobagi: una figlia degli anni di piombo, orfana per terrorismo. Per lei si tratta di un dato storico ascoltato, conquistato, rivissuto con fatica e dolore. Ma anche per la generazione che fu quella del padre suo non è facile ricordare. I ricordi sbiadiscono, si perdono: si fa uno sforzo per riportare a galla la memoria di quell´Italia in un paesaggio come quello attuale.
Ma una cosa è certa: se il paesaggio italiano è quello depresso e deprimente che abbiamo sotto gli occhi è proprio perché è mancata la giustizia. Non si è fatto quel che era necessario per riconciliare gli italiani col loro paese. Si parla spesso a sproposito di riconciliazione, di costruzione di quella che viene definita una memoria condivisa. Ma non è con la chirurgia estetica di qualche mago delle illusioni che potranno sparire le rughe e le fratture del corpo del paese. Che sono profonde. Sulle piazze del nostro paese quel che accadde in quegli anni lontani suggerisce un confronto per differenza con Ground Zero. In Italia l´attacco fu portato con uno stillicidio di attentati stragisti, per l´azione sotterranea di un nemico interno. E il confronto con quello che è accaduto oltre Oceano aiuta a capire perché oggi la tenuta morale e politica della società italiana appare tanto più fragile, tanto più esposta ai pericoli della demagogia e alle logore magie di avventurieri politici rispetto a quella degli Stati Uniti. Se l´evento terroristico di Ground Zero ha saldato quel paese proiettandolo nell´avventura della guerra contro un nemico esterno, in Italia è accaduto il contrario. Il nemico interno è rimasto sconosciuto e, anche se, non ci sono incertezze nel giudizio storico e politico – come ha detto Paolo Corsini – è un fatto che con questa sentenza si chiude la ricerca giudiziaria della verità.
Di questa sentenza attendiamo naturalmente di leggere le motivazioni: ma colpisce intanto il fatto che la Corte abbia fatto riferimento all´articolo 530 comma 2. In parole povere si tratta di insufficienza di prove. Chi ha cancellato, nascosto, fatto mancare le prove? Ogni volta, davanti all´argomento della insufficienza delle prove, ci si chiede a che cosa siano serviti o chi abbiano realmente servito quei servizi che da noi si chiamano di sicurezza.
Nei commenti a caldo il primo pensiero è andato ai morti rimasti senza giustizia: così ha detto Manlio Milani, il presidente dell´associazione dei familiari delle vittime della strage. In Italia ci sono diverse associazioni di questo tipo. C´è in questo qualcosa di singolare che dovrebbe far riflettere: che padri e madri, mogli e mariti, figli e figlie, siano costretti a diventare un soggetto collettivo e a dedicarsi assiduamente al perseguimento della giustizia è giusto e inevitabile. Ma è la lunga durata dell´impegno di queste associazioni, che va ormai al di là delle vite dei singoli: la persistenza di quell´impegno nel tempo lungo appare mostruoso e intollerabile e fa risaltare per contrasto la debolezza se non la totale assenza di un impegno dello Stato nelle sue autorità e nei suoi ultimi terminali al fine di assicurare la consegna alla giustizia e all´opinione pubblica dei responsabili e soprattutto dei mandanti. Davanti al banco di prova della saldezza del vincolo che lega una società alle sue istituzioni, che fa di un insieme di individui un corpo di cittadini unito dal rispetto di regole comuni, quello che è mancato è stato proprio lo Stato italiano.
C´è oggi una evidente e drammatica questione della giustizia in Italia: ma non è quella conclamata da chi vuole sfuggire alle sue responsabilità indebolendo l´opera della magistratura. La giustizia che ci manca è quella che deve far luce sulla storia recente del paese. C´è stato in Italia un protagonista nascosto che con le stragi di cittadini inermi ha cercato di far deragliare dai suoi binari la vita del paese . Ha cercato e in una certa misura vi è riuscito: perché se la società italiana oggi si disgrega in accozzaglie casuali e se appare sempre più incerta la prospettiva del futuro, se i principi del patto costituzionale nato dalla resistenza al fascismo vengono messi in dubbio o negati, è perché lo Stato italiano ha mostrato ambiguità e incertezze intollerabili nel reagire alle voglie golpiste delle forze attive dietro le stragi. È mancato all´appuntamento di quella verifica del rapporto di lealtà e di fiducia tra istituzioni e cittadini senza il quale una società si disgrega in accozzaglia casuale e il patto politico entra in crisi. Ma senza la verità non può esserci giustizia, senza giustizia non può esserci riconciliazione. La nebbia che circonda i nemici della Repubblica impedisce di fare chiarezza sulla strada che abbiamo davanti, allontana i cittadini dalla responsabilità delle scelte che li attendono.

Repubblica 17.11.10
Trentasei anni tra spie e depistaggi il cuore nero della strategia della tensione
Cinque fasi istruttorie e otto di giudizio, ma nessuna condanna in via definitiva
Nel terzo processo, il cui primo grado si è concluso ieri, c´erano proprio le "veline" del Sid
di Benedetta Tobagi


La vicenda giudiziaria (lunga ormai 36 anni) relativa alla strage di Piazza della Loggia è un labirinto composto di 5 fasi istruttorie e 8 fasi di giudizio. Nessun colpevole è stato condannato in via definitiva, ma le sentenze hanno via via sedimentato un patrimonio di conoscenza circa uno degli episodi più gravi della strategia della tensione.
Innanzitutto, inquadriamo il contesto: la strage avvenne in un momento politico delicatissimo - poco dopo la sconfitta del fronte conservatore nel referendum per il divorzio - e in un quadro di profonda instabilità politica (la formula di governo di centro-sinistra è ormai quasi del tutto esaurita). Altre inchieste giudiziarie hanno rivelato come in quell´anno 1974 si agitassero nell´ombra trame golpiste: dalla vicenda della "Rosa dei venti" al cosiddetto "Golpe Bianco" di Edgardo Sogno. La bomba del 28 maggio colpì al cuore una manifestazione antifascista indetta per protestare contro una serie di attentati di marca fascista, culminati nella morte del giovanissimo terrorista di destra Silvio Ferrari, legato al gruppo "La Fenice", nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1974, ucciso dall´esplosivo che lui stesso stava trasportando in motorino nel centro di Brescia, a Piazza del Mercato.
Il giudice istruttore Giampaolo Zorzi (infelice omonimia con l´ordinovista Delfo), che ha lungamente indagato sulla strage dagli anni Ottanta, ha usato per descrivere la progressione delle cinque istruttorie l´immagine dei cerchi concentrici prodotti da un sasso gettato nell´acqua: dal primo filone investigativo, incentrato su figure del neofascismo locale, le indagini si sono allargate, fino a inserire l´azione bresciana in una rete operativa eversiva ben più ampia, inquadrando compiutamente la strage bresciana nel contesto della "strategia della tensione" da piazza Fontana (dicembre 1969) all´attentato sul treno Italicus (agosto 1974).
Il primo filone d´indagine (prima e seconda istruttoria) inizia nel 1974 e si conclude con la sentenza di Cassazione del settembre 1987; si focalizza principalmente su una pista locale: s´indagano piccoli delinquenti e giovani estremisti di destra della Brescia-bene, sulla base di dichiarazioni e confessioni. Figura chiave dei processi della "pista bresciana" fu Ermanno Buzzi, un oscuro personaggio che si muoveva tra criminalità comune, traffico di opere d´arte ed estremismo di destra. Condannato in primo grado, alla vigilia del processo d´appello (aprile 1981) Buzzi fu trasferito al carcere speciale di Novara, dove, nel giro di ventiquattr´ore, fu assassinato dai noti terroristi neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Un´esecuzione feroce: lo strangolano coi lacci delle scarpe e gli schiacciano gli occhi.
Un secondo filone d´indagine parte nel 1984 con la terza istruttoria, alimentata da informazioni provenienti da pentiti e dall´ambiente carcerario, e si conclude nel 1993 con la sentenza-ordinanza emessa dal G. I. Gianpaolo Zorzi.
Imputato per strage nel secondo processo fu Cesare Ferri, estremista di destra collegato al gruppo ordinovista milanese della Fenice di Giancarlo Rognoni e alle S. A. M. (Squadre armate Mussolini) di Giancarlo Esposti. Ferri fu accusato principalmente sulla base del riconoscimento da parte di un sacerdote che affermò di averlo visto in una chiesa a Brescia la mattina del 28 maggio.
I cerchi si allargano fino ad attingere, nella quinta istruttoria, una rete eversiva molto più ampia: la cabina di regia della strage viene individuata nella cellula mestrina dell´organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (la stessa di piazza Fontana), in collegamento al gruppo milanese della Fenice di Rognoni. Tale istruttoria ebbe origine da una "coda" del processo a Cesare Ferri: il giudice Zorzi identificò nel giovane missino Maurizio Tramonte la fonte "Tritone" (che era l´informatore dietro una mole di documenti emersi dagli archivi del Sid a partire dalla fine degli anni Ottanta). Nel 1995, Tritone-Tramonte comincerà a collaborare con i ROS dei Carabinieri.
Alla base del terzo processo, il cui primo grado si è concluso ieri pomeriggio, c´erano proprio le "veline" del SID e le dichiarazioni di Tramonte in veste di collaboratore, insieme ai copiosi materiali provenienti dall´istruttoria del G. I. Salvini per la strage di piazza Fontana (centrali anche nel processo di Brescia le dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, alias "zio Otto", l´armiere di Ordine Nuovo, unico condannato nell´ultimo processo per la strage di piazza Fontana). A partire da "Tritone" e Digilio, l´imputazione per concorso in strage è stata infatti estesa ai vertici mestrini di Ordine Nuovo (Maggi e Zorzi), a Pino Rauti e al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che fu incaricato delle indagini alla base della prima istruttoria.
È facile comprendere che provare in sede penale "al di là di ogni ragionevole dubbio", secondo la celebre formula, coinvolgimenti così gravi e insieme delicati, documentare quale sia stato effettivamente il ruolo di un generale dei Carabinieri senza potersi giovare, ad esempio, della documentazione del centro di controspionaggio di Padova (dove operava il Maresciallo Felli, che gestiva la fonte Tritone), che è stata interamente distrutta, è molto, molto arduo. In attesa delle motivazioni, per figurarsi come mai si sia arrivati, dopo due anni di dibattimento e migliaia di pagine di verbali, a delle assoluzioni, "perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria" (art. 530 comma 2) è fondamentale andare a rileggere quella sentenza-ordinanza del 1993, dove il giudice istruttore Zorzi descrive un quarto livello di responsabilità, "non concentrico - scrive - ma intersecantesi con gli altri e quindi sempre presente, come un comune denominatore: quello dei sistematici, puntuali depistaggi", dal lavaggio della piazza dopo l´eccidio, alla misteriosa scomparsa di Ugo Bonati, figura chiave nel primo processo, all´omicidio che ha chiuso per sempre la bocca a Buzzi; depistaggi che sono arrivati persino a sabotare la rogatoria in Argentina per impedire l´interrogatorio di Gianni Guido, criminale legato all´estrema destra e latitante.
I depistaggi hanno ostacolato il raggiungimento di una verità processuale. Fuori dall´aula, però, non potranno ostacolare la ricerca degli storici, né cancellare la memoria dei cittadini bresciani che ieri hanno visto nuovamente frustrato il loro bisogno di giustizia.

Corriere della Sera 17.11.10
Il Papa: mai pensato alle dimissioni
Pedofilia, Concilio, celibato: in arrivo il nuovo libro-intervista
di Gian Guido Vecchi


Aprimavera, in piena bufera pedofilia nel clero, dal New York Times allo Spiegel ai bookmaker anglosassoni non erano pochi quelli che arrivavano a pretendere, evocare o scommettere, già che c’erano, sulle dimissioni del Papa. Il giornalista tedesco Peter Seewald glielo chiede senza giri di parole: ci ha mai pensato, alle dimissioni? E Benedetto XVI risponde di no, mai pensato, con la stessa semplicità e sicurezza con la quale non si è sottratto a nessuna delle domande, questioni passate, presenti o future. Come l’eventualità di un Concilio Vaticano III: è presto per parlarne, spiega in sostanza Ratzinger, visto che per elaborare l’eredità di un Concilio ci vuole tempo e ancora si deve assimilare il secondo.
Ma questo è solo l’inizio, le domande dell’attesissimo libro-intervista al Pontefice sono più di novanta, divise in tre parti: temi di attualità, un bilancio dei primi anni di pontificato e questioni fondanti sul futuro della Chiesa e della fede. Nell’originale si intitola Licht der Welt. Der Papst, die Kirche und die Zeichen der Zeit, ovvero «Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi», un testo di 284 pagine che sarà presentato martedì prossimo in Vaticano (in Italia lo pubblicherà la Libreria Editrice Vaticana) per poi uscire subito, al momento in dieci lingue, nelle librerie del mondo. Per sei giorni, dal 26 al 31 luglio, a Castel Gandolfo, il Papa ha risposto per un’ora al giorno alle domande del giornalista al quale lo lega un lungo rapporto di amicizia e stima: la prima volta, Seewald intervistò l’allora cardinale nel ’93 per la «Süddeutsche Zeitung», e da lì seguirono i libri Il sale della terra (’96) e Dio e il mondo (2000).
«Tutti resteranno sorpresi di incontrare un Ratzinger così disponibile e così aperto», aveva spiegato il giornalista alla Fiera di Francoforte. E in effetti il Papa ha risposto direttamente, senza volerle conoscere prima, a una quantità di domande. L’ipotesi dimissioni, il Concilio, ma anche le cause e le «coperture» dello scandalo pedofilia, il caso del negazionista Williamson, il pericolo di uno «scisma» nella Chiesa, fino alla possibilità di un dialogo «genuino» con l’Islam. Nel libro, Benedetto XVI parla del senso dell’«infallibilità» del Pontefice ma riflette pure sugli errori che possono essere commessi dalla Chiesa e anche dal Papa, ammettendo che nella lectio magistralis di Ratisbona — che scatenò polemiche nel mondo musulmano — intendeva fare un discorso accademico, scientifico, e non aveva previsto che le parole del Papa sarebbero state lette come un discorso politico. Né si sottrae a domande tipiche dei contemporanei, spiegando le posizioni della Chiesa sul celibato dei preti, il no all’ordinazione femminile, l’omosessualità, la contraccezione, l’uso dei profilattici e l’Aids, la comunione ai divorziati risposati e così via. Con una preoccupazione su tutte: il futuro della Chiesa, chiamata a rinnovarsi e occuparsi essenzialmente della verità del Vangelo, e l’annuncio di Dio al nostro tempo.

l’Unità 17.11.10
La bufala degli sbarchi via mare
di Nicola Cacace


Secondo un antico detto, la madre delle bugie è sempre incinta. E le bugie, con l’amplificazione dei media hanno effetti anche dopo le smentite. pochi giorni fa alcuni giornali (della destra) commentavano il triplice scacco del governo alla Camera sulla esigenza di «impegnare la Libia al rispetto dei diritti umani dei migranti respinti sulle loro coste» rispolverando una antica bugia secondo cui l’ingresso dei clandestini via mare sarebbe stata una invasione e non, come invece è sempre stata, una parte minima di tutti gli ingressi.
Il quotidiano Libero titolava a tutta pagina: «Fini ci regala i clandestini», confermando in tal modo che la macchina delle bugie, come la macchina del fango, conta sul “ripetita iuvant”, anche quando si tratta di vere e proprie balle. Da anni il saldo migratorio è intorno alle 400mila unità/anno, mentre gli sbarchi dal canale di Sicilia sono intorno alle 20mila unità/anno, avendo solo nel 2008 toccato il tetto dei 36mila. Cioè tra 5% e 10% del totale. Come è stato possibile che, mentre un consistente flusso migratorio calava sull’Italia da tutt’altre vie Gorizia e permessi semestrali di ingresso media e ministri della Repubblica hanno potuto vendere agli italiani la bufala dell’invasione via mare? E come è possibile che la menzogna si ripete quando da anni i dati Istat sulla popolazione ci dicono un’altra verità? È possibile che si dicano tante bugie per difendere il più incivile degli accordi, quello tra Libia e Italia che nega diritti elementari ai richiedenti asilo politico? «La crescita di popolazione residente da 57 a 60,4 milioni tra 2002 e 2010 è stata causata esclusivamente dall’immigrazione», dice l’Istat. E si tratta di migliaia di nuovi immigrati, tra regolari e irregolari, entrati in Italia per una semplice ragione: la forza del mercato, una domanda insopprimibile di braccia dal paese più vecchio del mondo che non fa figli a sufficienza per sostituire i vecchi che vanno in pensione. Persone che continuano ad arrivare malgrado una legge d’immigrazione pessima e un clima reso sempre più xenofobo anche dalle bugie sparse da politici interessati e da media incolti. Nessuna meraviglia che il mercato assorba migliaia di immigrati e che anche in tempi di crisi i posti lavoro italiani siano più a rischio di quelli degli immigrati. Perché un sistema a bassa innovazione come il sistema Italia crea più posti di lavoro umili per gli immigrati, che di qualità per i nostri laureati. E nessuna meraviglia che i Paesi a più bassa natalità d’Europa, come Italia e Spagna, siano anche quelli dove più velocemente sono cresciuti gli immigrati. Seguendo la raccomandazione di Gramsci, se la sinistra studiasse un po’ di più, alcune di queste bugie si potrebbero controbattere meglio.

l’Unità 17.11.10
Laura Boldrini:
«Libertà d’azione. È ciò che chiediamo al governo libico»
La portavoce dell’Unhcr dopo le rivelazioni dell’Unità: «Nessun contatto con i richiedenti asilo che sono sopraggiunti negli ultimi mesi»
di Umberto De Giovannangeli


Ciò che l’Unhcr chiede alle autorità libiche è di arrivare alla firma di un accordo di sede che consenta all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di avere la formalizzazione della sua presenza nel Paese. E il Governo italiano che vanta dei canali privilegiati con Tripoli, potrebbe svolgere in tal senso un ruolo importante». Ad affermarlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Unhcr. «Il pronunciamento del Parlamento è stato importante riflette la portavoce dell’Unhcr ma resta la politica dei respingimenti indiscriminati in alto mare che impedisce a coloro che ne hanno il diritto di poter accedere alle procedure di asilo in territorio italiano».
È passata una settimana dalla votazione alla Camera dei deputati dell’emendamento Mecacci che chiede all’esecutivo di «sollecitare con forza le autorità di Tripoli affinché ratifichino la Convenzione Onu sui rifugiati e riaprano l’ufficio dell’Unhcr a Tripoli (chiuso lo scorso 8 giugno, ndr). L’Unità ha riportato alla luce una situazione che resta drammatica....
«Per noi è difficile avere una prospettiva di quanto sta accadendo in Libia rispetto ai richiedenti asilo sopraggiunti negli ultimi mesi, proprio perché il nostro ufficio ha subito una limitazione delle proprie attività e quindi può occuparsi soltanto dei casi già registrati prima della chiusura di giugno, ma non può acquisirne di nuovi».
Secondo le testimonianze raccolte da l’Unità, chi vorrebbe mettersi in contatto con i funzionari dell’Unhcr ne è impedito dalla presenza di militari libici che presidiano l’ufficio dell’Unhcr a Tripoli...
«Il contatto rispetto ai nuovi casi è stato stabilito che non ci sia. Questa sicuramente è una grave limitazione. Attualmente sono in corso dei negoziati con le autorità libiche al fine di formalizzare la nostra presenza in questo Paese».
Resta il fatto che il regime libico continua ad opporsi ad ogni richiesta di apertura. Nei giorni scorsi Tripoli ha rifiutato in sede Onu di adottare una legislazione sull’asilo a tutela degli immigrati, di ratificare la Convenzione Onu sui rifugiati e continua a respingere un’intesa sulla presenza dell’Unhcr nel Paese...».
«In questo caso si trattava di raccomandazioni che erano state formulate da alcuni Paesi, tra cui gli Usa e il Canada, all’interno dell’esame periodico dei diritti umani. Noi abbiamo ancora aperto un canale di trattativa e ci auguriamo di poterlo sviluppare positivamente».
In questo tentativo in atto che peso può avere il pronunciamento del Parlamento italiano? «Abbiamo preso atto con favore che la maggioranza dei votanti abbia dimostrato attenzione alla tutela dei richiedenti asilo in Libia, così come è stato importante il riconoscimento da parte della Camera dei deputati del ruolo dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in Libia. Detto questo, va comunque ribadito che tali importanti presupposti non possono essere considerati sufficienti a legittimare la politica dei respingimenti indiscriminati in alto mare; una politica negativa perché impedisce a coloro che ne hanno il diritto di poter accedere alla procedura di asilo in territorio italiano». Alla luce di quanto fin qui detto, cosa chiede l’Unhcr al Governo italiano?
«Visto che il Governo italiano vanta rapporti privilegiati con Tripoli, in questa situazione sarebbe sicuramente utile sollecitare la Libia verso questa direzione».
Sui respingimenti. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha esaltato a più riprese i risultati della cooperazione Italia-Libia sancita dal Trattato firmato da Berlusconi e Gheddafi... «In termini quantitativi c’è stata una indiscutibile riduzione del numero degli arrivi via mare attraverso lo Stretto di Sicilia. Ma il risultato più evidente di questa diminuzione, però, si evince dal drastico calo di domande di asilo in Italia: dalle 31mila nel 2008, in linea con gli standard europei, alle 17mila registrate nel 2009. E quest’anno si prevede una ulteriore diminuzione....».
Cosa racconta questo dato?
«La politica dei respingimenti, anziché fare contrasto all’immigrazione irregolare, contrasta la possibilità di fruire del diritto di asilo in Italia. Gli immigrati irregolari continuano ad arrivare come sempre, cambiando semmai rotta, entrano con un regolare visto e rimangono quando scade. Da questo punto di vista nulla sembra essere cambiato».

Corriere della Sera 17.11.10
Mille piccole storie di ordinario razzismo
di Gian Antonio Stella


«Andate a tifare per le squadre dell’Eritrea!». Al tifoso rossonero che in mezzo a un caos allegro festeggiava in strada, dalle parti di corso Buenos Aires, la vittoria dello scudetto del Milan di dieci anni fa, non importava un fico secco di dove fosse quel giovane milanista che voleva unirsi al corteo insieme col bambino che spingeva nel passeggino «con sciarpa, cappello e ciupa ciupa con i colori del Milan». Era nero. Punto. E tanto gli bastava e avanzava per barrire: «Perché siete qui voi due? Non dovete tifare Milan! Andate in Eritrea!».
Racconta Pap Khouma, il protagonista e vittima di questa storia, che quel tifoso razzista indossava una maglietta rossonera con stampato sopra il nome del grande George Weah, centravanti, pallone d’oro, nero. Come neri erano, nel Milan vincente di quel 1998-1999, Ibrahim Ba e Mohammed Aliyu Datti e Bruno N’Gotty. Esattamente come neri sono stati, a dispetto della battuta più brutta sfuggita a Silvio Berlusconi nel giugno dell’anno scorso («È intollerabile che a Milano ci sia un numero di presenze non italiane per cui non sembra di essere in una città italiana o europea ma in una città africana») tantissimi campioni che hanno fatto vincere tutto ma proprio tutto al Cavaliere e ai tifosi: da Frank Rijkaard a Ruud Gullit, da Edgar Davids a Marcel Desailly. Fino ai neri di oggi: Ronaldinho, Oguchi Onyewu, Clarence Seedorf, Kevin-Prince Boateng, Thiago Silva, Nnamdi Oduamadi, Robinho...
«Andate a tifare per le squadre dell’Eritrea!». Al tifoso rossonero che in mezzo a un caos allegro festeggiava in strada, dalle parti di corso Buenos Aires, la vittoria dello scudetto del Milan di dieci anni fa, non importava un fico secco di dove fosse quel giovane milanista che voleva unirsi al corteo insieme col bambino che spingeva nel passeggino «con sciarpa, cappello e ciupa ciupa con i colori del Milan». Era nero. Punto. E tanto gli bastava e avanzava per barrire: «Perché siete qui voi due? Non dovete tifare Milan! Andate in Eritrea!».
Racconta Pap Khouma, il protagonista e vittima di questa storia, che quel tifoso razzista indossava una maglietta rossonera con stampato sopra il nome del grande George Weah, centravanti, pallone d’oro, nero. Come neri erano, nel Milan vincente di quel 1998-1999, Ibrahim Ba e Mohammed Aliyu Datti e Bruno N’Gotty. Esattamente come neri sono stati, a dispetto della battuta più brutta sfuggita a Silvio Berlusconi nel giugno dell’anno scorso («È intollerabile che a Milano ci sia un numero di presenze non italiane per cui non sembra di essere in una città italiana o europea ma in una città africana») tantissimi campioni che hanno fatto vincere tutto ma proprio tutto al Cavaliere e ai tifosi: da Frank Rijkaard a Ruud Gullit, da Edgar Davids a Marcel Desailly. Fino ai neri di oggi: Ronaldinho, Oguchi Onyewu, Clarence Seedorf, Kevin-Prince Boateng, Thiago Silva, Nnamdi Oduamadi, Robinho...

Corriere della Sera 17.11.10
Veltroni: per il potere l’omicidio Pasolini fu «un incidente utile»
di Antonio Carioti


Pier Paolo Pasolini non smette di far discutere: per l’originalità della sua opera, per le sue intuizioni sui guasti del consumismo, per le circostanze del suo omicidio, avvenuto 35 anni fa sul litorale di Ostia. Ieri a Roma si è tornato a parlarne in Campidoglio, dove il sindaco Gianni Alemanno, Walter Veltroni, Giacomo Marramao e Gennaro Malgieri hanno presentato il libro «Una lunga incomprensione. Pasolini tra destra e sinistra» (Vallecchi) scritto da due autori di opposta tendenza politica, Gianni Borgna (di sinistra) e Adalberto Baldoni (di destra). Al centro del dibattito l’attualità del poeta: in vicende come quella di Avetrana, ha osservato Veltroni, avrebbe visto la conferma «del suo pregiudizio verso il moderno» basato sull’idea «che sviluppo non vuol dire progresso»; mentre secondo Alemanno «la grande sfida che ci ha lasciato Pasolini è quella di riconciliare la modernità con i valori tradizionali». Quanto al delitto, Veltroni ha detto di non credere a complotti politici, ma ha aggiunto che di certo Pasolini non venne ucciso dal solo Pino Pelosi e che il potere dell’epoca considerò la sua morte «un incidente utile». A sua volta Alemanno ritiene «giusto che la magistratura riapra il caso per vederci chiaro».

Corriere della Sera 17.11.10
La rivolta dei sovrintendenti
«No ai manager, spazio alle competenze». Bondi: atto gravissimo
di Virginia Picolillo


L’operaio si appoggia a una grata di legno, su cui campeggia un cartello di inizio lavori: quelli di restauro della copertura della Casa dei Gladiatori, una parte di un lotto da 297.253 euro, affidati alla ditta Caccavo srl. La foto non è seppiata, né sbiadita, ma è del 2009. È la prova fotografica, riprodotta su Google Street View, che gli ultimi lavori al tetto della Schola Armaturarum, crollata il 6 novembre, non furono negli anni 50, come sostenuto dal ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, ma di un anno fa: durante la gestione commissariale di Pompei.
Un tipo di gestione contro la quale, ieri, si sono scagliati apertamente 17 sovrintendenti archeologici su 19, compresa quella ad interim di Pompei e Napoli: Jeannette Papadopoulos. In una lettera inviata a Bondi scrivono: «È tempo che la cultura dell’emergenza ceda il passo a quella della manutenzione, ordinaria e straordinaria, a cura delle strutture e degli staff tecnico-scientifici che quei monumenti, quei siti, quei musei conoscono e tutelano». In aperta polemica con il ministro che aveva parlato della necessità di affiancarli ai manager, i sovrintendenti aggiungono che «la valorizzazione come concetto mediatico non può sostituirsi al paziente e faticoso lavoro di monitoraggio, consolidamento e restauro». Puntano il dito contro i «pesanti tagli» accompagnati da «pesanti riduzione del personale», soprattutto di tecnici specializzati e un «appesantimento nelle procedure di spesa». E citano come caso emblematico Pompei: commissariata con figure diverse dai tecnici (un prefetto in congedo e un funzionario della Protezione civile) ha sortito questi effetti.
Una lettera «gravissima» tuona Bondi. E ne illustra tre motivi: «In primo luogo perché alimenta e cerca di accreditare la convinzione di una responsabilità politica nel cedimento di una ricostruzione in cemento armato a Pompei; in secondo luogo perché i fondi a Pompei ci sono sempre stati ed è mancata la capacità di spenderli in maniera adeguata; infine perché i commissari hanno sempre operato in totale sintonia con i sovrintendenti». Giustificazioni che non sono bastate a rasserenare il clima. Arroventato anche dalle dichiarazioni del finiano Fabio Granata. «Solo la crisi di governo salverà Bondi dalla sfiducia individuale», ha detto Granata, convinto che ciò che emerge «conferma la sua pesante e diretta responsabilità politica». «Patrimonio e attività culturali non possono essere lasciate ancora nelle mani del peggior ministro di sempre», ha sintetizzato. «Attacchi strumentali» per il ministro Mariastella Gelmini. «Offese inaccettabili» per il portavoce pdl Daniele Capezzone, che ha invitato Gianfranco Fini a dissociarsi e scusarsene.
Ma al di là del polverone politico ora però emerge qualcosa di nuovo. Quella immagine che, secondo gli esperti, potrebbe fornire elementi del tutto nuovi all’indagine sul crollo. L’architetto Antonio Irlando, dell’Osservatorio Patrimonio culturale spiega perché: «Questa foto fa sobbalzare. Perché indica che i lavori del 2009 prevedevano il restauro del solaio in cemento armato che è stato finora indicato, assieme alla pioggia, come il responsabile principale del crollo devastante della Schola Armaturarum di via dell’Abbondanza. Ma noi non sappiamo cosa stessero facendo lì quegli operai. Nessuno finora ce ne aveva parlato. Eppure il ministro ha parlato più volte di quel crollo. Perché quei lavori sono stati taciuti?».
Quella prova fotografica, che fa vedere anche la Casa del Moralista ancora intera, alimenta un sospetto che serpeggia dai primi giorni del crollo. Tra il personale addetto alla sorveglianza si rincorrevano voci su lavori fatti poco prima del crollo alla Casa dei Gladiatori. C’era chi ricordava di aver visto una betoniera, chi ricordava macchinari pesanti, mai visti tra le rovine di Pompei. Ricordi che si sovrappongono a quelli del cantiere della casa dei Casti Amanti, trasformato per volontà del commissario in un «cantiere evento» visitabile. Per allestirlo, sul terrapieno alle spalle di via dell’Abbondanza erano state portate gru e pale meccaniche. Poco dopo iniziò la serie di crolli. Per i quali, secondo il sito Stop killing Pompeii Ruins «il ministro, che aveva commissariato il sito, non può non assumersi la responsabilità».